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Anais IV

Silenzio. Nessuna parola. Nessun respiro. Anais lo guardava dispiaciuta e arrabbiata al tempo stesso.
«Mi hai seguito?».
«Sì».
«Perché?».
«Anais, anche se ti conosco da poco tempo è evidente che tu abbia un segreto. Forse non te ne accorgi, ma hai sempre un fare misterioso e volevo sapere di cosa si trattava. A dire la verità, è stato un caso, non ho programmato di spiarti». Anais aggrottò la fronte ma rimase in silenzio, pronta ad ascoltare. «Una sera mi trovavo vicino al tuo appartamento dopo aver bevuto con degli amici. Ho pensato di passare a salutarti e nel momento in cui ho svoltato l’angolo, ti ho visto uscire. Anais, non so come spiegarlo ma sembravi un’altra persona. Non so dirti che cosa me lo abbia fatto pensare, so solo che ho sentito di doverti seguire».
«Nicolas, che cosa ti ha detto Eva?».
«Mi ha raccontato tutto riguardo a questa tua ossessione».
«…la mia ossessione?».
«Sì, la tua ossessione per il sesso. E ho capito perché ancora non venivi a letto con me… ora mi è tutto chiaro, Anais”.
La ragazza non sapeva cosa dire, Eva l’aveva messa di fronte a una difficile scelta. Si alzò dal letto e gli diede le spalle. Avrebbe voluto fermare il tempo per sempre. Avrebbe preferito uscire dalla stanza e scappare lontano, ma sapeva molto bene che non aveva alternativa; forse, però, c’era una possibilità di sistemare tutto. Si girò lentamente e lo fissò, gli occhi lucidi e tremanti.
«Nicolas, ciò che sto per dirti non è facile da comprendere. Eva non ti ha detto tutta la verità. Il mio segreto è più complicato di quel che sembra».
«Parlami, Anais, sono qui per ascoltarti, puoi fidarti di me».
«È vero, vengo qui per incontrare degli uomini e faccio sesso con loro. Non ho idea di chi siano, Eva li sceglie per me. E poi li uccido». Il volto di Nicolas era inespressivo, come se Anais avesse parlato in una lingua a lui sconosciuta. «E per riuscirci ho scoperto che le essenze, nella loro purezza, mi aiutano».
«Ma che cosa stai dicendo, Anais?».
«Eva dice che si tratta di un trauma. Avrò avuto sei, forse sette anni quando accadde. Mia madre era diversa dalle altre mamme. Cercava di somigliare a loro, ma proprio non ci riusciva. Ero troppo piccola per capirlo e… fui io a trovarla morta sul pavimento della camera da letto. Avevo visto il corpo a terra. Il sangue. I capelli che le coprivano metà viso. E i suoi occhi erano aperti. Ricordo di aver pensato per un attimo che fosse ancora viva. La cosa più strana e che ricordo in modo indelebile è il profumo che aleggiava nella stanza. Diverse ampolle giacevano a terra accanto a lei e le sentivo penetrare le mie narici così forte che per un attimo ho pensato di essere morta pure io». Si alzò e fissò il mobile con tutte le piccole ampolle cui però non poteva accedervi perché chiuso a chiave. Fissò Nicolas, il volto ancora incredulo.
«Eva dice che si tratta di uno stimolo psicotico. Quando entro in contatto con delle essenze perdo il controllo del mio corpo e della mia mente e l’istinto di uccidere s’impossessa di me…». Si sedette di fianco al ragazzo, ma non lo guardò in faccia. Tremava dalla paura, non era facile dire quelle cose a una persona che amava.
«Anais». Lei si voltò appena, gli occhi stretti per trattenere le lacrime. «Perché ho l’impressione che tu non mi abbia ancora detto tutta la verità?». La ragazza portò una mano alla fronte e scosse il capo più volte, singhiozzando. Riprese a parlare dandogli le spalle, non aveva il coraggio di guardarlo in faccia. «Eva porta le vittime nel seminterrato ed estrae gli organi con più sangue».
«E perché farebbe una cosa simile?».
«A volte la vita è ingiusta, Nicolas, ma la si può ingannare. Vedi, Eva è costretta a farlo perché altrimenti il mio corpo muterebbe brutalmente e so che non resisterei in quella condizione, proprio come mia madre; la mia malattia è dovuta a un’alterazione dell’attività di uno degli enzimi che sintetizza l’ematina nel sangue e ciò di cui mi nutro mi mantiene… umana».
«Non può essere vero, non ha senso. Voi due siete matte!».
«Non ti azzardare a mancare di rispetto alla donna che mi ha salvato la vita! Mi ha portato via da coloro che volevano uccidermi! In quell’ospedale nessuno aveva il coraggio di curarmi o anche solo di prendersi cura di me. Ero figlia di una madre single e suicida e solo Eva ha capito ciò che stavo provando. Solo lei ha rischiato tutto per portarmi lontano da quelle persone pericolose che non hanno voluto aiutare mia madre, costringendola a uccidersi. La porfiria me l’ha portata via e ora io ho la sua stessa condanna. Nicolas, come fai a non capire?». Si avvicinò a lui e lo abbracciò, scoppiando a piangere. «Ti prego, non andartene via anche tu. Sei la cosa più bella che mi sia mai capitata da quando sono scappata con Eva da quell’ospedale. Ti prego, non abbandonarmi anche tu». Si scostò e liberò le sue mani dalle bende. «Ti prego, Nicolas, non lasciarmi. Non farlo…». Anais lo stringeva forte, ma presto sentì che lui non faceva lo stesso. SI scostò appena e lo guardò.  
«Quindi sei malata, giusto?».
«Sì, ma Eva ha trovato il modo di curarmi e guardami: se non ti avessi detto niente non lo avresti mai scoperto!». Nicolas non capiva cosa Anais gli stesse dicendo, per lui era tutto assurdo, ma lei non si voleva arrendere. «Possiamo convivere con questa situazione, credimi. Non cambia nulla tra noi».
«Quindi tu uccidi dei poveri innocenti per sopravvivere?».
«Eva trova delle vittime piuttosto atletiche e gli promette una notte di sesso con me. Io sfrutto le essenze che scatenano il mio trauma e li uccido, poi prendiamo organi come milza, fegato, cuore. Li facciamo essiccare e li tramutiamo in polvere. È l’unico modo per tenermi in vita». Anais strinse le mani alle sue. «Non è una verità facile da concepire, ma è reale e possiamo affrontarla insieme. Ti prego Nicolas, di qualcosa». Lui la spinse lontano, l’aria di chi fissa qualcosa con disprezzo.
«Anais, non potete fare questo alle persone! È sbagliato! Lo capisci?».
«Nicolas, ti prego, cerca di capire…». Lui le urlò contro di liberarlo, di lasciarlo stare. Le disse che era una pazza, una bugiarda. Le disse che era un mostro e a quelle parole Anais cambiò espressione e le fu chiaro che nessuna essenza era in quel momento necessaria per fare ciò che andava fatto.

Mentre trascinavano il cadavere nel seminterrato, Anais fissava il nylon scuro e in quel preciso istante emersero i ricordi degli ultimi giorni passati con Nicolas. La sua risata contagiosa, i suoi abbracci, il modo in cui le scostava dalla fronte le ciocche di capelli che sfuggivano alla coda. Era tutto finito. Posizionarono il corpo sul freddo tavolo metallico, poi Eva le porse un attrezzo affilato e le spiegò cosa fare. Anais non sentiva le sue parole: era presente solo fisicamente perché la sua mentre stava collassando. Avrebbe voluto urlare fino a perdere la voce, ma poi quasi senza accorgersene, si ritrovò a muovere la mano come le aveva detto Eva e presto le sue lacrime si mischiarono al sangue.

Era una bellissima giornata di sole e Anais passeggiava lungo il centro città, tra bancarelle che vendevano ogni genere di prodotto. Si guardava attorno, stringendo la sua borraccia, incantata dai vivaci colori di alcuni gioielli fatti a mano. Oltrepassò la piazza principale e si addentrò in una delle tante piccole vie laterali e passando davanti a un bar, la cui porta principale era completamente aperta, qualcosa attirò la sua attenzione. Si fermò sulla soglia e tese l’orecchio. Dal televisore, la voce di un giornalista parlava della scomparsa di un giovane ragazzo e delle ricerche che erano in atto per cercarlo. Anais era impassibile, come se quella notte avesse sepolto non solo i resti di un cadavere ma anche l’amore che un tempo aveva provato. Sullo schermo apparivano le immagini del ragazzo e a seguire alcune brevi interviste a parenti e amici. Tutti preoccupati e sconvolti. Di lei nemmeno un cenno; gli aveva chiesto di tenere la loro storia segreta e lui aveva mantenuto la parola. In ogni caso, Anais sapeva come comportarsi e come mentire, anche se una parte di lei avrebbe voluto dire a tutti che Nicolas non c’era più, che non aveva sofferto tanto e che le stava dando il giusto equilibrio, sorso dopo sorso…

FINE

Anais III

I tacchi picchiettavano forte sul cemento umido. L’aria era fredda e odorava ancora di pioggia. Anais camminava veloce, tenendo una mano davanti alla bocca, incurvata dal dolore. Cercò di raggiungere un’area isolata e non appena fu sicura che nessuno la seguisse, si fermò. I respiri erano veloci ma corti, sembrava asmatica. Portò una mano allo stomaco, quasi a voler placare con quel gesto la terribile sensazione che la stava travolgendo. Chiuse gli occhi, digrignò i denti. Aveva un aspetto orrendo, come fosse vittima di un letale cocktail di stupefacenti. Mosse qualche passo, ma ora le gambe sembravano fissate al cemento, era un’impresa provare a muoverle. Appoggiò una mano su una superficie e quando si girò, vide che si trovava di fianco a una vetrina di un negozio di abbigliamento. Fu a quel punto che vide il suo riflesso e abbassò di scatto lo sguardo per la vergogna. I suoi occhi erano arrossati tutto attorno, ma soprattutto avevano quella voglia cui faticava a resistere. Si sforzò di calmarsi e di respirare piano. Le ci vollero diversi minuti in cui soffrì tremendamente per il calore che quasi le bruciava la pelle da dentro; era come se le sue cellule stessero mutando alla velocità della luce. Sapeva che se fosse corsa a casa e avesse preso ciò che c’era in frigorifero non sarebbe stato sufficiente, ma forse avrebbe temporaneamente placato quello stato che l’affliggeva, ma poi, quasi per miracolo, tutto sparì, come se il vento che passò in quell’istante, avesse spazzato via ogni sofferenza.

«Cazzo, stai attenta!», disse una ragazza che aveva l’aspetto di una che vende crack all’angolo della strada, i capelli neri lunghi ma scompigliati e svariati piercing sulle orecchie. Anais evitò il suo sguardo imbarazzata, alla ricerca di un taxi.
«Ehi, va tutto bene? Sembri strafatta!». La ragazza appoggiò una mano sulla spalla di Anais che la fissò mostrando un mezzo sorriso. Anche se il dolore era sparito, il corpo era ancora debole e quell’incontro fu di sicuro uno scherzo del destino, uno di quelli brutti, perché si ritrovò ad abbracciare quella ragazza e a piangere. Forse vendeva droga, forse no. Ma di sicuro non meritava di morire, ma agli oscuri istinti di Anais, questo non interessava.

Quando varcarono la soglia della villetta, Anais fece accomodare la ragazza nel piccolo salotto.
«Prendo due birre». La ragazza si guardò attorno, ammirando l’arredamento che non rispecchiava per nulla la sua nuova amica.
«Vivi qui da sola?».
«Questa è la casa di una vecchia amica, passo le notti qui ogni tanto».
«E ora non c’è?».
«No… siamo solo noi due e…». Lasciò la frase in sospeso e fissò dritto negli occhi la ragazza. Nonostante l’aspetto rude, aveva un bellissimo viso. Gli occhi erano di un intenso azzurro e spiccavano sotto all’eccessivo eyeliner nero. Le labbra erano naturali, ma ogni tanto le bagnava con la lingua e la cosa le rendeva ancora più sensuali. La sua pelle era candida e sembrava davvero molto morbida. Non la stava guardando con il cuore, la stava studiando come una bestia.
«Posso?». Anais annuì e in pochi istanti si ritrovarono a baciarsi e fu come se le loro lingue si conoscessero da una vita da quanto si cercavano, poi la fece alzare e la portò al piano superiore. Entrarono nella stanza che Anais conosceva molto bene e nel chiudere la porta, incrociò lo sguardo di Eva che non sembrava per nulla contenta, ma non la fermò. Una preda è pur sempre una preda.

Sdraiata sul letto e avvolta nelle lenzuola, Anais ascoltava in silenzio la ragazza che parlava ininterrottamente. Era come se non lo facesse da molto tempo perché le parlò di ogni sfumatura della sua vita, anche la più insignificante. E Anais annuiva e sorrideva mentre osservava il suo corpo nudo, la sua muscolatura, il colorito delle guance, la sua totale fisicità. Sembrava davvero una brava ragazza. Si alzò e prese un’ampolla dal solito mobile, ma questa volta non versò qualche goccia sul palmo della mano. Ne inspirò la profumazione a fondo più e più volte, poi tornò su letto e iniziò ad accarezzarla. Se fosse rimasta a casa, le cose sarebbero andate diversamente. Non avrebbe passato la serata con il barista, non sarebbe tornata a casa a piedi perché si sentiva euforica e le era venuta voglia di camminare. Non si sarebbe imbattuta in quell’uomo che aveva chiuso tardi la sua erboristeria e che aveva sbadatamente rovesciato la cassa contenente pure essenze, prendendo in pieno Anais che ora combatteva una battaglia già persa in partenza per via di ciò che il suo corpo reclamava.
Su quel letto, morse dolcemente la pelle che sapeva di buono. La graffiò come fosse il preliminare che precede un delitto. La torturò di piacere per regalarle un ultimo momento felice e quando la povera vittima giaceva a pancia in giù, la testa penzoloni fuori dal letto e la voce ancora ansimante, Anais le sollevò la testa, sorrise, e poi le spezzò il collo.

Era tornata quasi ogni giorno al bar e dopo appena tre mesi si potevano definire una coppia a tutti gli effetti. Anais aveva conosciuto per la prima volta la felicità e trovato finalmente l’equilibrio che cercava da tempo. Madre natura le faceva visita regolarmente, non la risparmiava, ma la presenza di quel ragazzo la rasserenava; per la prima volta aveva la sensazione che forse, seppur lentamente, sarebbe potuta guarire. Quella sera aveva detto a Nicolas di essere stanca e gli aveva dato appuntamento per l’indomani. Era ansiosa di vederlo, ma non poteva mancare all’appuntamento con Eva, doveva rispettare le scadenze. Prese il borsone e si avviò verso la solita villetta prendendo un taxi sotto casa e per tutto il tragitto sorrise tra sé e sé, impaziente di vedere Nicolas il giorno seguente.

«Ciao Eva!». La donna non rispose, ma si limitò ad annuire. «È tutto pronto?». Eva si avvicinò alle scale. «Sì, è tutto pronto…». Aveva l’aria preoccupata, ma Anais era troppo desiderosa di chiudere la serata quanto prima. Salì un paio di scalini, ma poi fu fermata.
«Aspetta!».
«Che cosa c’è?».
«Ricorda che ciò che ho fatto per tutto questo tempo, l’ho fatto per te. Io ho il dovere di proteggerti. Ti ho fatto una promessa e la manterrò fino alla fine», e appoggiò entrambe le mani sulle sue spalle. «Eva, così mi spaventi…».
«Nella nostra condizione non possiamo concederci alcun lusso, capisci?». Le accarezzò il viso e per la prima volta da quando la conosceva, la vide versare una lacrima.
«La cosa fondamentale è la nostra sopravvivenza, lo capisci, bambina mia?». Anais aggrottò la fronte, ignara di cosa intendesse dire Eva con quelle parole, ma poi un pensiero attraversò la sua mente e in un attimo sentì il cuore farsi in mille pezzi, come se lo stessero colpendo più volte con una lama affilata.
«No, no, no, Eva no! Ti prego, non farmi questo!». Salì le scale con una struggente lentezza, come se facendolo potesse cambiare il futuro imminente, e una volta arrivata alla porta della camera che era solita usare in quelle serate, l’aprì con fare tremante, sperando con tutta sé stessa di non trovare al suo interno ciò che temeva. Le labbra si contorsero in una smorfia, gli occhi s’inondarono di lacrime e le mancò il fiato; era come se stesse annegando nel suo stesso dolore. Eva la raggiunse e la strinse a sé. «Ho dovuto farlo, bambina mia. Non mi hai dato altra scelta».

Il corpo nudo era avvolto in una vestaglia rosa pastello. I capelli erano sciolti lungo le spalle. I piedi scalzi a contatto con il tappeto persiano. Quella sera aveva rinunciato a indossare un’altra identità. L’unica cosa a mancare era un’essenza, Eva glielo aveva proibito. Raggiunse il letto e guardò il corpo atletico davanti a lei, bendato e coperto solo da uno slip nero dal bordo grigio scuro; le mani e i piedi legati ai bordi con delle strisce di seta. Rimase svariati secondi a fissarlo, ferma immobile, poi avvicinò una mano al viso e abbassò la benda. Nicolas. 

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Anais II

Entra nella stanza con indosso solo delle mutandine di pizzo e trova quattro occhi che la osservano. I due uomini, completamente nudi, la squadrano da cima a fondo, gli occhi famelici come un lupo quando osserva una succulenta preda. Uno di loro si fa avanti e le accarezza un seno, ma pochi istanti dopo anche l’altro fa lo stesso. Anais si lascia toccare, proprio come fosse il loro giocattolo erotico e si appresta a essere sottomessa; vuole che pensino di avere il comando. A turno la possiedono con brutale violenza, in altri momenti la trattano come fossero teneri amanti e si fermano solo quando i loro corpi sono piacevolmente soddisfatti.
«Beviamo qualcosa», dice Anais mentre raggiunge un tavolino dall’altra parte della stanza. Versa dello champagne in due flûte e li appoggia su un vassoio d’argento assieme alla bottiglia e a un’ampolla dall’etichetta rovinata, ma che non appena scoperchia rivela un aroma vanigliato. Si riavvicina ai due uomini e li serve come farebbe una hostess di un volo di prima classe.
«E tu, non bevi con noi?», chiede uno dei due uomini.
«Io bevo da qui», e scuote la bottiglia con fare seducente. «E a cosa serve quell’ampolla?», chiede l’altro, curioso. «Ho pensato che prima di ricominciare potevo farvi un bel massaggio», e li fa sdraiare uno accanto all’altro, coprendo i loro occhi con delle bende. Versa qualche goccia di essenza sul palmo della mano destra, la strofina con l’altra e inizia ad accarezzarli dolcemente. Le sue mani scivolano lungo le cosce muscolose e risalgono sfiorando le loro parti più intime. Ansimano piano e si lasciano coccolare da quel momento tanto rilassante quanto eccitante, ma poi l’uomo alla sinistra di Anais le afferra un braccio all’improvviso e abbassa la benda che gli copre gli occhi che sembrano tutto a un tratto gonfi e arrossati. Anais lo calma appoggiando la mano sul suo petto e con le labbra lo intima a calmarsi, proprio come farebbe una madre con il suo bambino in preda a un’influenza, poi gli accarezza il viso e con fare del tutto naturale, gli copre naso e bocca, impedendogli di respirare. Lui si agita ma con molta difficoltà, è evidente che ciò che ha ingerito ha fatto effetto, ma Anais non molla la presa e scosta la mano solo quando non lo vede più agitarsi e i suoi occhi sono chiaramente spenti. A quel punto si ferma, sapendo che è solo questione di pochi secondi prima che il destino faccia il suo corso. L’uomo alla sua destra le chiede come mai si sia fermata, abbassa la benda e la fissa. Il viso della ragazza è compiaciuto e allo stesso tempo inquietante, non sembra più lei, e quando si volta e vede il cadavere accanto a lui, urla così forte che cade dal letto e si trascina agitato fino all’altra parte della stanza, sotto gli occhi di Anais, famelici quanto quelli suoi di prima. Si solleva a fatica ma non riesce a parare il pugno che la ragazza gli scaglia contro, facendogli sbattere la testa contro il muro. Cade a terra intontito ma lei non si ferma e lo colpisce fino a quando non lo ritiene innocuo; il veleno lo ha indebolito e le ha permesso di avere la meglio. Lo osserva con attenzione, come se volesse percepire la sua sofferenza, poi abbassa lo sguardo e nota il pavimento bagnato in prossimità delle sue parti intime; se l’è fatta addosso dalla paura. Gli accarezza la spalla e sale fino ai capelli e sente il battito agitato del suo cuore, è come se fosse imploso nel suo petto, poi con un movimento secco, gli stringe un braccio attorno al collo e lo soffoca, fermandosi solo diversi secondi dopo averlo ucciso.

 

Anais solleva il flûte verso la luce, finalmente rilassata. La sostanza messa nei bicchieri ha funzionato a dovere. È felice e vuole godere appieno di quella sensazione. Eva, invece, finisce di pulire la camera ma ha l’aria seccata, come fosse ancora irritata per quell’improvvisata, ma Anais non ci fa caso. «Ti ho lasciato un sacchetto sul tavolo della cucina. Dovrebbe bastarti fino a fine mese». Senza dire niente, nemmeno un grazie, Anais si affretta a sistemarsi e quando raggiunge l’ingresso della villetta, un rumore attira la sua attenzione. Era da qualche tempo che non ci faceva più caso. Eva doveva trovarsi nel seminterrato. Non l’aveva mai fatta scendere, aveva sempre voluto occuparsi lei dei cadaveri e ad Anais andava bene così, perché quel luogo la terrorizzava. Sapeva da dove venivano i pasti che Eva le preparava, ma non aveva mai voluto sapere come lei li ricavasse. Le si forma un nodo alla gola, poi si volta ed esce di corsa, proprio come se avesse visto un fantasma.

 

Anais spalanca gli occhi, è sudata e il respiro affannato, come se avesse terminato una staffetta. Toglie la mano dalle mutandine e finalmente si rilassa. Percepisce una leggera stanchezza, forse ora si addormenterà, ma poi si alza seccata. Il corpo la chiama ancora e ancora, ed è come se non ne avesse più il controllo. Stringe la testa tra le mani, gli occhi lucidi per i bisogni che si fanno sentire attraverso ogni cellula del suo corpo. Si ritrova davanti al frigorifero e fissa il sacchetto preparato da Eva. Apre uno dei tanti contenitori e prende in mano quella che sembra essere carne cruda e la azzanna, divorandola in pochi istanti.

Mentre guarda il riflesso allo specchio, godendo del sole che entra dalla porta finestra, Anais muove la testa da un lato all’altro indecisa e in un attimo si libera del vestito per indossarne un altro. Ogni volta ne prova uno nuovo e ogni volta non riesce a convincersi. La cosa è buffa ma anche irritante e dopo qualche istante si lascia cadere sul letto, arresa al fatto che non solo non troverà l’abito giusto ma che non ha nemmeno senso farlo; magari il ragazzo del bar non sarà nemmeno di turno. E magari quel gesto inaspettato è stata solo una banale gentilezza che non si ripeterà. Offesa dalla sua voce interna, Anais torna a indossare uno dei suoi classici, un maglione con dei jeans, e si avvia lungo la strada che porta in centro, raggiungendo il solito locale. E più si avvicina, più spera di incontrarlo. Non comprende questa sua voglia di vederlo, ma è comunque attratta dall’idea di farlo. Davanti all’entrata, tentenna e punta i piedi a terra, poi si decide a entrare e basta uno sguardo per far apparire sul bancone il solito calice di vino.

CONTINUA AL CAPITOLO III