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La fuga

Potrei iniziare a raccontare la mia storia partendo da quella mattina, il giorno in cui feci tardi al lavoro. Non fu colpa mia: la notte precedente il gatto fece cadere il mio cellulare, che si ruppe. Così non suonò la sveglia e mi alzai mezz’ora dopo. Mi preparai in fretta e corsi in ufficio. Avevo un appuntamento con un cliente, ma non potendo ricevere la notifica sul mio smartphone, me ne dimenticai e solo quando arrivai allo studio mi resi conto dell’errore. Come se non bastasse, fu molto complicato trovare l’indirizzo al quale dovevo recarmi e chiesi a dei passanti di darmi una mano. Le loro indicazioni, però, si rivelarono confusionarie e contrastanti. Uno di loro mi rispose pure in modo sgarbato: «Ma non puoi cercare su internet invece di disturbarmi?».

Magari! pensai, mentre ripartivo sconsolato sulla mia auto. 

L’appuntamento non andò male, ma più di una volta mi ritrovai a tastare la tasca dove di solito tenevo il cellulare: mi sembrava di sentire una vibrazione o un accenno di suoneria.

Terminato l’incontro, presi la macchina e mi diressi al negozio di elettronica per comprare un nuovo telefono ma, arrivato al parcheggio, mi resi conto di essere completamente rilassato: non ricevevo e-mail o chiamate da ore, mentre di solito ne venivo sommerso.  

L’appuntamento non andò male, ma più di una volta mi ritrovai a tastare la tasca dove di solito tenevo il cellulare: mi sembrava di sentire una vibrazione o un accenno di suoneria. Terminato l’incontro, presi la macchina e mi diressi al negozio di elettronica per comprare un nuovo telefono ma, arrivato al parcheggio, mi resi conto di essere completamente rilassato: non ricevevo e-mail o chiamate da ore, mentre di solito ne venivo sommerso.  

Invece di scendere dall’auto, rimasi seduto, godendomi quei minuti di tranquillità. Mentre mi rilassavo, gli edifici intorno a me sparirono. Immaginai me stesso partire senza una meta precisa, come un moderno Mattia Pascal: libero e irraggiungibile. Potevo stare giorni senza cellulare! Anzi, un mese intero! Avevo la sensazione che trascorsi i trenta giorni mi sarei abituato e non ne avrei avuto bisogno mai più.

Guidai per circa dieci minuti, quando mi resi conto che non avevo pensato a Romeo: chi gli avrebbe dato i croccantini? Che avrebbe fatto dopo aver terminato la sua ciotola d’acqua? Potevo però rimediare un cat sitter nel frattempo. Misi una mano nella valigetta per cercarne uno dal cellulare, ma mi resi conto di non poterlo fare, ovviamente. Beh, ma mia sorella potrà prendersene cura, entro in questo bar e chiedo di poter fare una telefonata. Raggiunsi il primo che trovai lungo la strada, ma prima di entrare realizzai di non ricordare il suo numero!

Decisi che ci avrei pensato in seguito, sarei riuscito a contattarla da qualche social, cercando di collegarmi con il computer, sempre se fossi riuscito a farlo: molte password le avevo trascritte nello smartphone.  Sapevo che era il momento di partire e questi imprevisti non mi avrebbero fermato: avrei comprato una cartina e scelto dove andare. Avrei vissuto senza dover controllare il mio conto in banca quotidianamente, avrei tenuto a mente le spese. Avrei smesso di ordinare cibo dall’applicazione e sarei andato io al supermercato, avrei scritto lettere e…

«Matteo! Matteo!» disse Andrea, il suo collega, mentre bussava innervosito al finestrino della macchina. «Scendi subito! Non ti ricordi che ci eravamo dati appuntamento venti minuti fa per comprare il tuo nuovo cellulare? Ti dimentichi ogni cosa che non scrivi nell’agenda! Sono qui che ti aspetto e tu sei seduto a guardare il vuoto! Ma che fai, a cosa stai pensando?».
«Ciao Andrea, ehm… scusami, stavo pensando a… niente di importante».
«Allora sbrigati, andiamo a scegliere il tuo nuovo telefono che alle tre abbiamo una riunione e rischiamo di fare tardi».
«Certo hai ragione, andiamo…» disse Matteo, mentre si dirigeva verso il negozio.

un racconto di Giulia Stivanin per l’evento Wanted Stories [giugno 2023] sulla base del tema:

Il potere della tecnologia – La tecnologia oramai ci ha travolto. I nostri occhi e le nostre dita sono più volte al giorno attratte da un piccolo schermo che ci catapulta in diversi mondi virtuali. Senza accorgercene, teniamo chinato il capo in giù perdendoci cose ritenute banali come un’alba, un sorriso o una lacrima sul viso di una persona, un cielo stellato. Immagina di rimanere senza cellulare per un mese intero: cosa succede?

Io, tecnologica

Aveva sempre faticato molto ad abituarsi all’avvento del cellulare. Negli anni ’90, insieme ad altre persone, faceva parte della LAT: lega anti telefonino. Per qualche anno, aveva cercato di rimanere saldamente ancorata al telefono color grigio topo, quello con la girella per comporre i numeri. Non voleva abbandonare il fascino di quella forma, il ritmo lento, il bizzarro divertimento nel comporre un numero alla volta; e la rubrica cartacea che conteneva tutti i numeri che la memoria umana non poteva ricordare. Era resistita quanto aveva potuto, ma poi era arrivata anche lei a cedere alle comodità che la tecnologia offriva, per non sentirsi emarginata come una preistorica creatura che lottava contro l’avanzamento inesorabile della tecnologia.

Questa breve storia, che rimanda un po’ alle gesta di Don Chisciotte, parla di me. Sì, avete capito bene, proprio di me: Maria Teresa. Questo argomento sulla tecnologia mi riporta al tema che ho fatto alla maturità, più di trent’anni fa, ormai. Avevo scelto la traccia della robotica e della fantascienza per descrivere il tipo di impatto che avrebbero avuto nel nostro futuro. Ora, mi trovo nel futuro immaginato in quel passato. Vogliamo parlare delle prime comodità di cui ho goduto grazie al cellulare? 

Finalmente conversazioni private senza essere costretta a parlare sottovoce in corridoio. Eh sì, perché il telefono grigio topo aveva un filo attaccato alla parete e, se lo staccavi, cadeva la linea; per non parlare poi della rubrica memorizzata nel cellulare con annessa la foto del destinatario, così ho modo di capire subito con chi sto parlando perché, sapete, i contatti sono aumentati. Certo, la tecnologia ha ridotto le distanze geografiche: grazie ai messaggi è meno invadente entrare nella vita delle persone ma è sempre la qualità che fa la differenza, non la quantità. Ormai il cellulare è diventato la mia appendice, ho praticamente tutto lì dentro, come penso anche voi: l’app della banca, il registro scolastico, le e-mail, i canali di messaggistica, i siti per cercare qualsiasi cosa e organizzare pure i viaggi; google maps che ti porta dove vuoi, le foto, i video, le piattaforme cloud che ti permettono di lavorare ovunque e con qualsiasi dispositivo anche diverso dal proprio. Quale senso di libertà! Tutto a portata di mano.

Ecco, appunto, l’importante è che la gestione della tecnologia non sfugga di mano. Come tutte le cose è sempre l’uso che se ne fa a fare la differenza. Non ha senso demonizzare la tecnologia, l’ho capito quando ho imparato a usarla a mio vantaggio senza farmi fagocitare dal suo vortice di immagini, notizie, pubblicità a ritmi serrati che, se non si sta attenti, fanno perdere il senso del tempo. Se voglio vedere un posto, un tramonto, sentire gli uccelli che cantano o lo sciabordio delle acque del mare, esco di casa e vado a riprendermi il contatto con la realtà e le persone, perché non tutto è così reale come ci mostrano i vari social: tutti belli e felici e dall’altra parte i rosiconi. Uso il telefono per lavoro e per mantenere i contatti con le persone a me care. 

Sviluppando il mio progetto online ho fatto un percorso catartico, ho imparato che usando bene questi mezzi tecnologici, oltre ad acquisire nozioni per saperli usare, si può incappare inconsapevolmente in una grande crescita e conoscenza personale. Adesso come adesso, se rimanessi senza cellulare per un mese intero, mi sentirei persa; penso al tempo e alle energie che perderei per il disbrigo delle pratiche burocratiche che ora invece gestisco comodamente online. Per il resto, se lo farò accadere, potrei anche farne a meno: me ne starei seduta su una poltrona in riva al mare sotto le fronde di un bell’albero a rimirare i colori, ad assaporare i profumi, farmi accarezzare dalla brezza e perdere lo sguardo nell’immensità del mare ritrovando la serenità di vivere con poco, ma con tutto allo stesso tempo.

un racconto di Maria Teresa Cariolato per l’evento Wanted Stories [giugno 2023] sulla base del tema:

Il potere della tecnologia – La tecnologia oramai ci ha travolto. I nostri occhi e le nostre dita sono più volte al giorno attratte da un piccolo schermo che ci catapulta in diversi mondi virtuali. Senza accorgercene, teniamo chinato il capo in giù perdendoci cose ritenute banali come un’alba, un sorriso o una lacrima sul viso di una persona, un cielo stellato. Immagina di rimanere senza cellulare per un mese intero: cosa succede?

Il potere della tecnologia

“Mi chiamo Emanuela, ho quindici anni e frequento il liceo Galileo Ferraris a Torino. Abito in questa città da cinque anni, prima vivevo a Padova, ma ci siamo trasferiti grazie a una grande offerta lavorativa che mio padre ha avuto. Padova è una bellissima città, ma non quanto Torino che offre scorci davvero instagrammabili!”. 

È così noioso.
Emanuela non ha idee, si sente senza ispirazione e creatività; i temi non sono il suo forte.
«Bene, giù le penne, è ora di consegnare i temi».
Caspita, non ho scritto quasi niente.
«Emanuela, ho detto giù le penne».
«Sì, mi scusi». È abituata a questi fallimenti, soprattutto nelle materie linguistiche. Marta, sua cara amica, si avvicina: «Ella, di nuovo?!». Emanuela ama Marta, ma non sopporta quando le sta troppo addosso: la motiva spesso a impegnarsi di più, ma non è proprio una cosa da lei; ha altre cose più importanti a cui pensare.

«Dai Marta, basta! Stavolta non c’era niente da studiare!».
«C’erano degli schemi in realtà».
«Vabbè, non me ne frega». Marta annuisce svogliatamente, poi si dirige verso la finestra della classe. Emanuela, invece, prende subito il cellulare per controllare Instagram: alla vista di tante notifiche, sorride all’istante. Quella sensazione cambia totalmente le sue giornate.

Dopo la giornata a scuola, non vede l’ora di avviare la solita routine pomeridiana: pranzare, guardare Netflix, scorrere video su Tik Tok, postare su Twitter, chattare con amiche e amici, cenare e, come al solito, prendersi indietro con lo studio. Il mondo virtuale è per lei un rifugio sicuro, sa che lì può sentirsi a casa, accettata totalmente. Impegnata a guardare un video, alza lo sguardo alla vista dei genitori sulla soglia della camera.

«Ehi, tesoro» dice la madre appena entra nella stanza. Ha un tono tranquillo ma dispiaciuto allo stesso tempo. Emanuela chiede quale sia il problema: sia sua madre che suo padre sembrano diversi dal solito. «Emanuela, io e tua madre abbiamo notato un grande cambiamento in te. A tavola parli poco, ti chiudi in camera per ore ed è da un paio di mesi che non esci in compagnia delle tue amiche; siamo molto preoccupati». 
«Dove volete arrivare?».
«Abbiamo deciso di toglierti il telefono. Ti daremo momentaneamente quello vecchio di nonna. Inoltre, per gli impegni scolastici, sarai controllata da noi». Emanuela esplode. Urla e piange istericamente: tutto ciò che riesce a buttare fuori sono solo rabbia, dolore, frustrazione. I suoi genitori hanno deciso di toglierle l’unica cosa di cui le importi veramente qualcosa e che la fa stare bene. All’improvviso, si sente vuota. E ora come farò?

Il giorno seguente, ancora incazzata per l’assurda punizione, si avvia a piedi verso scuola, completamente rassegnata. Camminando lungo la via, nota un alberello in un parco che costeggia il percorso: le foglioline, illuminate dal sole, risplendono di un verde chiaro molto intenso nonostante i rami mostrino qualche segno di debolezza, ma trova quell’immagine davvero molto carina. Ecco, poteva essere una storia Instagram perfetta. Dannazione!

Al rientro da scuola, la cosa si ripete. Nota ancora l’alberello, ma anche un signore anziano che lo innaffia. Si avvicina e gli chiede se gli appartenga. «La natura non appartiene a nessuno, siamo noi che apparteniamo a lei». Quella frase risuona nella sua testa per tutto il pomeriggio, Noi apparteniamo a lei, ma viene interrotto dal suono del campanello: è Marta.
«Ella! Tutto bene? Non hai risposto ai miei messaggi!». 
«Marta, per fortuna che ci sei tu! I miei mi hanno sequestrato il telefono!». 
«Finalmente, era ora!» dice ridendo.
«Non sei simpatica per nulla» risponde Emanuela, l’aria seccata.
«Allora andiamo in un posto». 
«Uhm, dove?». 
«È una sorpresa!». 

Sedute su un telo, all’improvviso una grande libellula passa veloce vicino a loro.
«Oddio! Che schifo!».
«Emanuela, è solo una libellula! E poi, come può farti schifo un essere così meraviglioso?».
«Mi fa schifo e basta. Cosa mi volevi mostrare?».
«Questo» dice Marta, indicando il lago. Emanuela sta per rispondere, ma l’amica la zittisce, dicendole semplicemente di osservare. Così, si guarda intorno con più attenzione: non vede nulla di speciale, ma poi viene attratta da un piccolo fiore, i cui colori brillano sotto i raggi del sole. Da lì, inizia a notare sempre più cose: i sottili rami di un grande albero mossi dal vento , un cane che corre felice con il suo padrone, il suono dell’acqua che scorre, il calore del sole sulla pelle. Tutto questo le fa provare uno strano sentimento. «Senti che pace, Ella. Questo è quello che si prova quando si è presenti nel momento» dice Marta, quasi leggendole nel pensiero. Wow!

La giornata al lago è così significativa per Emanuela, che decide di passare più tempo all’aria aperta con amici e famiglia. L’essere più presente nel momento l’ha aiutata a migliorare con la scuola, a dedicare più tempo a se stessa, modificando anche la sua tanto amata routine. È è grata per tutto, ma non ce l’avrebbe mai fatta senza la sua cara amica.

“Mi chiamo Emanuela, ho diciassette anni e frequento il liceo Galileo Ferraris a Torino. Sono una ragazza piena di passioni e di hobby, ora, e amo trascorrere il mio tempo all’aperto, in particolare con me stessa. Dopo anni, la mia vita ha preso una svolta magnifica e ne sono immensamente grata”.

«Ella!» urla Marta, felice, dall’altra parte della classe. 
«È andata bene?». 
«Sì! A te, invece?».
«Ho preso 9, Marta!» risponde, orgogliosa. 
«Cosa?! Fantastico!» esclama l’amica, sorpresa di quel voto. «Sono contenta che ti sei risvegliata!» e la avvolge in un grande abbraccio. «Anch’io Marta, anch’io».

un racconto di Emma Noardo per l’evento Wanted Stories [giugno 2023] sulla base del tema:

Il potere della tecnologia – La tecnologia oramai ci ha travolto. I nostri occhi e le nostre dita sono più volte al giorno attratte da un piccolo schermo che ci catapulta in diversi mondi virtuali. Senza accorgercene, teniamo chinato il capo in giù perdendoci cose ritenute banali come un’alba, un sorriso o una lacrima sul viso di una persona, un cielo stellato. Immagina di rimanere senza cellulare per un mese intero: cosa succede?

A memoria

C’è stato un tempo in cui ero molto legato alle cose, in modo quasi maniacale, ad ogni oggetto apparentemente banale che, per me, diventava speciale in quanto legato a un ricordo, a un posto, a un attimo che non sarebbe tornato più. Così conservavo gelosamente un sasso, il biglietto di un concerto, un gufo di terracotta, una t-shirt e chissà quante altre cianfrusaglie, perché ero convinto che trattenessero un ricordo che altrimenti sarebbe stato smarrito per sempre. Poi, un giorno, non sono più riuscito a trovare una foto a cui tenevo molto. Era lo scatto di un amore.


Eravamo a casa sua poco prima di Natale, sul divano. Ho ancora negli occhi quel momento: aveva i capelli sciolti, il maglione rosso e teneva in mano la sua tazza preferita. Il vinile girava nel piatto suonando Blue Valentine di Tom Waits e fuori dalla finestra iniziava a fioccare l’illusione di una nevicata. Quando non l’ho più trovata mi sentivo perso. Pensavo che la memoria di quella donna, senza quella foto, sarebbe andata irrimediabilmente persa fino a non riuscire più a ricordarne i tratti e avrei finito per dimenticarla. Non sapevo cosa fare. Ho rovistato ovunque in preda a una cieca frenesia. Ho sfogliato libri, scatole e cassetti. Ho messo sottosopra ogni angolo. Poi, al culmine della disperazione, ho preso un foglio e una matita e ho provato a disegnarla. L’ho dipinta a memoria, quasi a occhi chiusi, nella luce soffusa dell’atelier dell’anima. E lo sguardo che compariva era proprio il suo: sue le labbra curve in un lieve accenno di sorriso, suo il collo sinuoso e la ciocca di capelli scomposta appoggiata alla guancia. Sembrava perfino più bella. 

Quando ho messo giù la matita, quello che c’era su quel foglio era quasi migliore della foto smarrita. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quel disegno. Un brivido improvviso mi ha scosso mentre sfioravo con le dita quel viso anche solo sulla carta, sui tratti precisi del mio ricordo. Allora ho capito che, se qualcosa è stato davvero importante, è impossibile dimenticarlo. Che il cuore è un setaccio di echi e immagini intrecciate su un telaio di robusta trasparenza per filtrare tutto ciò che è stato e, nella fitta trama, rimane solo quello che conta mentre il resto gocciola a valle, lungo il ruscello che scorre lentamente verso l’oblio. Ѐ stato in quel momento, forse, che ho realizzato che non è dentro un oggetto che si nascondono i ricordi ma che, quell’oggetto, potrebbe essere solo una semplice scusa per farli tornare a galla dalle buie profondità del ieri, fino alle increspature d’onda che riflettono il sole odierno.

Non ho smesso del tutto di conservare qualcosa che mi riaccompagni per mano in un posto che ho amato o a un momento particolare. Ma ora so che ciò che conta veramente rimane per sempre dentro di me, nei tortuosi corridoi tra mente e cuore. Ѐ solo per le banalità che serve una nota nell’agenda o un nodo al fazzoletto, come per la spesa può tornare utile scrivere una frettolosa lista, ma quello, in fondo, non può certo chiamarsi scrivere.

un racconto di Massimo Donà per l’evento Wanted Stories [maggio 2023] sulla base del tema:

L’arte di perdere – La bellissima poesia di Elizabeth Bishop recita “[…] L’arte di perdere non è difficile da imparare; così tante cose sembrano pervase dall’intenzione di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro. Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta il turbamento delle chiavi perdute, dell’ora sprecata. L’arte di perdere non è difficile da imparare […]”. Come può essere vissuta questa “arte della perdita” quando ciò che si è perduto aveva un forte valore affettivo? La lettera di un amante, il ricordo di un viaggio di gioventù, il maglione ereditato da un nonno affettuoso. Possiamo perdere questi oggetti e accettarlo con serenità?

I portaoggetti

«Sai nonno, ho comprato dei portaoggetti, dei dischi bianchi concavi. Vieni a vederli, ti piaceranno!». Il nonno seguì Luca ed entrò nel salotto. Sparsi per tutta la stanza, sui mobili, vide i dischi bianchi che contenevano le cose più disparate: auricolari, tablet e quattro contenenti due paia di scarpe nuove, una calzatura per recipiente. Nel vedere la scena, ebbe un sussulto. Poi rimase immobile per qualche secondo, e scoppiò a ridere. Era nato nel 2001, e vedere quegli oggetti che da ragazzino usava quotidianamente gli aveva fatto fare un tuffo nel passato.  

«Luca, se mia madre ti avesse visto usare i piatti in quel modo si sarebbe sentita male» disse al nipote. «Davvero li conosci? E per cosa li usavi?». 
«Per il cibo!» esclamò «Non li vedo da molto tempo e non ti posso certo biasimare per averli usati così. Penso di aver buttato gli ultimi verso la metà degli anni 50». 
«Quindi come si faceva, si comprava il cibo al supermercato e si metteva lì?».
«Esatto. Spesso cucinavamo noi a casa e li usavamo come contenitori». Notando lo sguardo perplesso del nipote, continuò la spiegazione: «È stato il risultato della politica economica degli anni 30, da allora il cibo viene cucinato quasi solo in grandi pentoloni e poi venduto nei supermercati».

Mentre parlava, prese in mano un piatto, e cominciò a osservarlo, rigirandolo tra le mani.
«Si voleva evitare di sprecare il gas nelle singole abitazioni, quindi i politici avevano caldamente consigliato di smettere di cucinare. E sai come sono questi consigli… In fin dei conti rimane solo lo spreco di plastica degli imballaggi, ma poi si riciclano!». Terminato di dire questo, si zittì, e iniziò a pensare alla sua adolescenza: ricordò l’odore del ragù che bolliva, il piatto pronto in tavola… Ma il pensiero fu presto interrotto dal commento stupefatto di Luca.

«Ogni giorno a cucinare, che incubo! Certo che ci potevate pensare prima, non è un’idea così difficile!».
«Non si trattava di questo» rispose il nonno stizzito «il cibo lo potevamo comprare anche noi già pronto. Ma era più costoso e inoltre era divertente cucinare».
«Divertente? Non penso proprio! Preparare il cibo e dover pensare a cosa fare ogni giorno? È molto meglio quando tutto è già pronto e pensato per te!» rispose Luca.
«Non è solo quello» esclamò suo nonno alzando la voce e cominciando a parlare più velocemente «era una questione di poter scegliere da soli, invece di seguire i programmi del governo».
«Ti lamenti sempre di quei programmi, ma poi li segui! Alla fine ora è tutto molto più comodo» gli rispose Luca con tono pacato, mentre dava un’occhiata ai social sul telefono.
«Nonno, ma sono già le due, devo proprio scappare! Che peccato però, mi piace sempre sentirti raccontare queste stranezze del passato. Ci manca solo che la prossima volta tu mi dica che sprecavate l’acqua e il sapone per lavare i vestiti, invece di riciclarli e comprarne di nuovi!» gli disse ridendo, mentre rispondeva a un messaggio dal cellulare e usciva dalla porta.

Rimasto solo, il nonno osservò il piatto che teneva ancora tra le mani. Guardò il forno, che usava esclusivamente per riscaldare il cibo pronto. Potrei cucinare!, pensò: Mi piaceva fare le torte! Oppure anche la carne arrosto, posso ordinare tutto e prepararla. Iniziò a cercare le ricette online e aprì il sito per ordinare gli ingredienti, ma si imbatté nella lista di pietanze pronte, che gli sarebbero state consegnate in dieci minuti. Però è già ora di pranzare, ci vorrebbe troppo tempo. Ma sì, oggi compro tutto già pronto, casomai ci provo domani a cucinare, se ne ho voglia! 

un racconto di Giulia Stivanin per l’evento Wanted Stories [aprile 2023] sulla base del tema:
Fuori il vecchio, dentro il nuovo – L’armadio straripa di indumenti. La credenza accoglie una serie infinita di tazzine. La libreria è impolverata di libri che vogliamo leggere da un anno. Il consumismo regna sovrano! Ce la farà qualcuno a salvarsi?

Benvenutə al mondo!

Un ragazzo in bicicletta sfreccia lungo le strade trafficate. Pedala a ritmo di musica, supera gli ostacoli con agilità; la bici è quasi un’estensione del corpo. La rotatoria che sta per raggiungere pare un girone infernale: è tutta una questione di secondi. Cambia marcia, pedala veloce quasi volesse librarsi nell’aria, entra nel cerchio dannato fatto di automobilisti incazzati, clacson fuori controllo, bestemmie. Taglia la strada a un’ambulanza e d’istinto porta una mano alla schiena: il pacco è al sicuro. Suona il campanello, consegna le pizze e attende con ansia l’esito: cinque stelle! Ѐ così felice da non fare caso al mezzo che ha mandato fuori strada poco prima. I lampeggianti girano ancora, ma il suono è assente. Una gomma è bucata e all’interno qualcuno preme forte sul petto di una persona.

Un trentenne è in procinto di affrontare un colloquio di lavoro. Completo, camicia, cravatta, orologio nuovo. “Oh no, è tardi!”. Si affretta a salire in auto, ma il motore non dà segni di vita. “Merda!”. Corre al tabacchino, acquista un biglietto dell’autobus, poi decifra gli orari appesi alla fermata; il latino, in quel momento, pare una passeggiata. L’autobus arriva: più che un mezzo pubblico sembra un flusso temporale connesso a un paese straniero. Scende alla sesta fermata, con foga, ma svoltato l’angolo di un palazzo si scontra con una ragazza che gli rovescia addosso un bicchiere di caffè. L’ustione di primo grado cede il posto al nervoso. La giacca è fradicia. Se ne libera, rimarrà solo in camicia. Affretta il passo, raggiunge l’entrata, ma un lembo della camicia si impiglia al pomello; una ferita da coltello farebbe meno male. Rimane in t-shirt e pantaloni eleganti. Non importa il suo aspetto, ciò che conta è la motivazione. Si presenta alla segreteria, gli dicono di attendere. Pochi istanti dopo, gli comunicano che il posto è già stato assegnato, ma si chiede perché un ragazzo, in giacca e cravatta, venga fatto accomodare subito dopo di lui.

Arriva sempre alla stessa ora. Lo accoglie in vestaglia, truccata, anche se lui non ci baderà. Lo fa accomodare e lo osserva fare sempre le stesse cose da un anno: china il capo con rispetto, toglie le scarpe, allunga un pacchetto. Prende posto a sedere sulla poltrona, lei siede di fronte e versa il tè, scarta la sorpresa: una millefoglie. Le chiede come sta, le racconta del tempo, delle ultime news dal mondo, del traffico. Inizia sempre così, come fossero amici che non si vedono da tempo. Dedica solo gli ultimi minuti alla moglie e quando lo fa, ne parla come fosse una malattia. Non si smentisce mai: se ne esce sempre dicendo che mentire e ignorare il tradimento altrui è più facile ed economico. Paga e se ne va.

A quel punto, lo schermo si spegne. L’operatore volge lo sguardo alla persona di fronte a lui. Sfoggia un sorriso che stona con quanto appena visto e parla come se avesse mostrato un film esilarante.

«Dunque, signor Mattei, in linea di massima questa è la vita sulla terra. C’è molto altro da scoprire, ma l’amministrazione non concede troppi spoiler! Ѐ previsto che lei nasca tra nove mesi, ma oggi possiamo offrirle una promozione: potrà venire al mondo una settimana prima. Che altro dire?». L’uomo osserva con attenzione un fascicolo. «Ah, sì: sua madre è vegana quindi non si aspetti di mangiare carne molto presto. A volte fuma, quindi non si allarmi per l’odore di bruciato: il pancione non sta andando a fuoco. Non soffrirà di gravi malattie, sarà allergico alle noci e… oh, ma guardi, camperà fino a novant’anni. Perbacco! Allora, quando è pronto, barri la casella per scegliere il momento della nascita».

«Mi scusi» chiede esitante il signor Mattei, rigirando più volte il foglio tra le mani «non trovo la casella con scritto Mai!».

un racconto di Linda Moon per l’evento Wanted Stories [aprile 2023] sulla base del tema:
Le nuove priorità – Benvenuti nel 21°secolo! Dove il sesso è gratis e l’amore costoso. Dove la pizza arriva più velocemente di un’ambulanza. Dove perdere il telefono è più doloroso che perdere la verginità. Dove i vestiti determinano il valore di una persona. Dove la lealtà è un lusso, la menzogna una moda e il tradimento intelligente. Oh, e l’onestà un difetto!

Scosse

Una violenta scossa di terremoto, alle 7.02 del mattino, svegliò la piccola comunità di collina e fece correre in strada tutti gli abitanti della via dove abitava la moglie del meccanico del paese; la signora Maria.

Era un personaggio insolito, diverso. Non era nativa del posto. Era arrivata lì solo dopo aver sposato Luigi, che l’aveva lasciata vedova già da diversi anni. Dopo la morte del marito, si era allontanata sempre più dal resto della comunità. Trascorreva il suo tempo nella casa dove era rimasta sola e dove non era entrato più nessuno.

In tanti avevano notato che i volantini della sagra del paese restavano per giorni interi sotto al portico di quella casa, fino a quando il vento non li portava altrove, così come succedeva spesso a tutta la posta che riceveva. Le tende alle finestre, un tempo sempre aperte, ora erano spesso tirate e lasciavano al buio l’interno dell’abitazione.

 

Ogni abitante rispettava il suo dolore, assistendo a tutto questo senza intervenire. Eccetto per le poche volte in cui la si incontrava rientrare dalla spesa, carica di borse stracolme, ci si era abituati alla sua assenza; a tal punto che anche la mattina della scossa di terremoto, passato lo spavento, tutti rientrarono nelle proprie case senza accorgersi della sua mancanza. Solo la dirimpettaia, guardando la casa di Maria dalla finestra, venne assalita dal timore che fosse successo qualcosa, decidendo poi di andare a suonare il campanello. 

Al terzo tentativo senza risposta, la donna allertò gli altri vicini che ben presto si ritrovarono di nuovo in strada, questa volta tutti davanti alla casa di Maria. Tutti insieme, spaventati, e forse anche un po’ consapevoli di averla dimenticata. In quel silenzio totale, davanti a una porta che non si apriva e alle finestre serrate, capirono che forse avevano aspettato troppo a lungo.

Non fu facile nemmeno per i vigili del fuoco entrare all’interno di quella casa. Gli accessi erano ostruiti, così come tutte le finestre. Servirono attrezzature speciali per aprire un varco. Lo scenario che si presentò all’interno lasciò tutti ammutoliti. La signora Maria aveva cercato di riempire con qualunque oggetto tutti gli spazi vuoti delle stanze.

 

Libri. Riviste. Scatole. Vestiti. Scarpe. Pentole. Vasi. Quadri. Stoviglie. Coperte. Ogni cosa era stata minuziosamente conservata e aveva trovato, in qualche modo, posto in casa. Infiniti strati di abiti sopra a stoviglie ammucchiate. Bottiglie impilate tra loro, bloccate precariamente da pile di giornali. I mobili avevano perso la loro funzione primaria. Non era chiaro dove terminasse il pavimento e iniziassero le pareti. Quello scenario avrebbe procurato un immediato senso di soffocamento a chiunque. A Maria, forse, serviva per non soccombere. 

La scossa di terremoto aveva fatto crollare tutto e non si trovava traccia del corpo di Maria. Tutti si diedero da fare a spostare gli oggetti caduti a terra nella speranza di trovarla viva sotto le macerie di quella solitudine. La speranza di ritrovarla viva era per tutti anche la speranza di recuperare il senso di vita della comunità; e la solidarietà che li aveva sempre contraddistinti.

E lì, tra quella montagna di cose confuse, accumulate senza un senso, Maria c’era. Viva, protetta dalla scossa proprio da quello strato di materia che finalmente la stava liberando dalla sua solitudine.

un racconto di Ugo Domeniconi per Wanted Stories [aprile 2023] sulla base del tema: 
Fuori il vecchio, dentro il nuovo – L’armadio straripa di indumenti. La credenza accoglie una serie infinita di tazzine. La libreria è impolverata di libri che vogliamo leggere da un anno. Il consumismo regna sovrano! Ce la farà qualcuno a salvarsi?

 

Ritorno alla natura

Mi sono svegliata con un mal di testa pazzesco.
Mi trascino in bagno.
Mi guardo allo specchio e… faccio paura!

La guancia destra è gonfia in modo sproporzionato. La sfioro con la mano: è caldissima. Riesco a fatica ad aprire la bocca, il dolore è insopportabile. Intravedo in fondo un nuovo dente. Com’è possibile sia spuntato tutto intero in una sola notte?
Devo assolutamente assumere un analgesico; l’unico “farmaco” che ho in casa è un infuso. Dopo un’ora dall’assunzione la situazione non è migliorata, ma riesco a proferire parola, decido quindi di chiamare il dentista. Per fortuna mi dà appuntamento nel primo pomeriggio, che solitamente lascia libero per le emergenze, e il mio caso lo è. 

 

Poco dopo suona il campanello e mi chiedo: «Chi sarà mai a quest’ora di mattina presto?». Esco e mi trovo di fronte un pastore che mi chiede se per caso è mia l’auto parcheggiata sul ciglio della strada. In questa stradina di campagna c’è solo la mia piccola casa e quindi la risposta è affermativa. Questa non ci voleva! Un caprone l’ha incornata più volte e l’ha buttata nel fosso che costeggia la stradina.
«Maledetta quella volta che ho deciso di vivere in campagna». E adesso come faccio ad andare dal dentista? Il pastore costernato mi offre uno dei suoi muli come mezzo di trasporto. Accetto mio malgrado e decido di partire di lì a poco, chissà quanto ci metterò a raggiungere la città con questo desueto mezzo.

 

Inizia questo calvario di su e giù sulla groppa dell’animale che cammina più lentamente di quanto non faccia io. Il dolore aumenta e decido di proseguire a piedi ma non mi va di abbandonare il mulo e quindi sono io a trascinare lui. Cerco di spostare l’attenzione dal dolore osservando il bel paesaggio campestre, mai notato passando di corsa in macchina. Immersa nella calma della natura non avverto più il dolore e come d’incanto mi ritrovo già in città; la bellezza della natura mi ha fatto fare venti chilometri a piedi senza accorgermene. Avverto però un puzzo strano, è quello delle macchine e dei cassonetti della spazzatura. 

 

Accidenti! Camminare sui marciapiedi stretti e sconnessi con un quadrupede a seguito è impegnativo. A un certo punto il mio compagno di viaggio si blocca: il traffico, il rumore e gli spazi stretti devono averlo infastidito. Improvvisamente il dolore ritorna, mi scombina così tanto la testa che non ricordo dove si trovi il dentista. Il mulo non vuole saperne di muoversi e inizia pure a ragliare. Passa un camion con un telone che raffigura una campagna e l’animale improvvisamente inizia a corrergli appresso.

 

Capisco che il richiamo della natura debba averlo risvegliato per cui gli corro dietro, temo possa venire investito, ma correndo inciampo in alcuni sacchetti della spazzatura. Penso di aver battuto la testa e perso conoscenza perché mi risveglio in una discarica a cielo aperto. Il netturbino deve aver raccolto anche me. Emergo a fatica da questo ammasso di immondizia varia, cose buttate ma ancora utilizzabili, topi che ogni tanto sbucano, uccelli in cerca di cibo. Wow, che bella vista da questa montagna dei nostri scarti: una città luccicante dai mille colori al di là del fiume.

 

Avverto un senso di ipocrisia in questa immagine e si fa forte in me la necessità di vivere secondo i ritmi e i frutti della natura dove tutto ha senso, ciclo e riciclo naturale. Quello che la terra crea, lo accoglie per trasformarlo, ma quello che l’uomo sinteticamente produce la natura vomita. In questa bolla di consapevolezza singhiozzo per l’emozione, sento qualcosa in gola che sta per soffocarmi, tossisco e mi ritrovo in mano il dente gigante. Il messaggio è arrivato a destinazione, i miei occhi sono aperti e mi sento più vicina che mai al mondo attorno a me. Ѐ ora di cambiare vita e aiutare più persone possibili a vedere con il mio sguardo perché una nuova era è possibile.

 

un racconto di Maria Teresa Cariolato per Wanted Stories [marzo 2023] sulla base del tema:
Un viaggio dalla periferia al centro – Il percorso da un punto all’altro di una città può essere un quotidiano tragitto a ostacoli, da affrontare con coraggio e determinazione. Cosa sarà d’aiuto? Cosa si frapporrà tra chi viaggia e la destinazione?

La felicità nella sostenibilità

La casa è silenziosa da quando ha divorziato. La sorella le ha consigliato di trovare un hobby, ma nulla sembra fare al suo caso. Fino a quando una giovane coppia non si trasferisce nella villetta a schiera di fianco alla sua.
I nuovi dirimpettai, all’apparenza affabili, si rivelano un concentrato di ignoranza. Il primo incontro è scioccante.
Pensando di agevolarli con il trasloco, si offre di buttare la loro spazzatura. Il sacchetto che regge pare contenere della carta, ma l’inaspettata pesantezza e un tintinnio fanno pensare ad altro. Nascosta dai bidoni, apre il sacchetto. Oh santissima pazienza! Carta, vetro, la buccia di una banana: tutto insieme!

 

Con un falso sorriso, si presenta alla loro porta. «Ho notato che avete buttato carta, vetro e umido insieme. Posso darvi dei sacchetti per gestire il riciclaggio».
«Riciclaggio? Oh, non perdiamo tempo con sciocchezze simili» dice lui. Un brivido le attraversa la schiena e le corde vocali si spezzano. «Chi ci garantisce che ciò che dividiamo rimane tale?» aggiunge. «Per noi la sostenibilità è vivere ogni giorno al massimo!».

 

Rientrata in casa, fissa la bottiglia di vino che la sorella le ha regalato per una futura occasione da celebrare: in quel momento la romperebbe volentieri in testa ai vicini; solo che prima dovrebbe berne il contenuto e poi lasciarla in ammollo per staccare l’etichetta con facilità. Ripreso il lume della ragione, ha un’idea: riempie la loro posta con depliant sulle buone regole del riciclaggio, poi li osserva per tutta la settimana, ma quando si approcciano ai bidoni, il suono che percepisce sa di plastica che struscia contro vetro; praticamente unghie su una lavagna.

 

Inizia così un ridicolo scontro tra titani. Ogni qualvolta li incontra, impartisce una lezione sulla sostenibilità. Quando nota l’acquisto di un ammorbidente, elenca i danni da inquinamento. Quando nota i cartoni della pizza insieme alla carta, spiega che il materiale sporco va nel secco. Quando nota rotoli di pellicola e alluminio, suggerisce un involucro di cera d’api come alternativa.

 

Per quasi un mese la storia si ripete, fino a quando l’uomo le intima di smetterla dicendo che spendere energie a rispettare un ambiente che viene costantemente abusato da altri, non ha senso; tanto vale godere di ciò che si ha. A quel pensiero, tace. Per la prima volta da quando ha iniziato la sua battaglia per l’ambiente, riflette sul suo operato. E se quel mentecatto avesse ragione? Si avvicina a un bidone e con un gesto rapido, come se il sacchetto scottasse, lo getta dentro. Carta e plastica insieme, oddio! Ѐ più che sicura di aver appena fatto bestemmiare Dio.

 

Cammina veloce, la testa incassata nelle spalle, come un ladro in fuga. La passeggiata dopo il lavoro quel giorno pare più una Via Crucis. Forse sta davvero sprecando energie per una cosa che importa a pochi. Forse tutto ciò che viene diviso, viene poi riunito. Forse sarebbe ancora sposata se non avesse dedicato infiniti minuti al riciclaggio. Poi si blocca. No! Credo in quello che faccio! 

 

Recupera il sacchetto, lo strappa con fare impetuoso. La carta esplode in aria, poi, pezzo per pezzo, butta tutto correttamente. Una sensazione di serenità pervade il suo corpo, ma non fa in tempo a goderne. Si nasconde dietro a un bidone. Il vicino fischietta allegro, come se qualcosa di appagante gli avesse cambiato l’umore. Regge in mano uno scatolone con bottiglie di vetro, involucri di plastica e cartacce. Il cuore batte forte come la pallina di un flipper. «Ricicla con consapevolezza… ricicla con consapevolezza…» dice sottovoce. Una volta a casa, si accascia sul divano, sorseggia un calice di vino e tira un gran sospiro di sollievo. Il mondo ora è un posto migliore.

 

un racconto di Linda Moon per l’evento Wanted Stories [marzo 2023] sulla base del tema: 
La sostenibilità secondo i nuovi vicini – Nel quartiere sono arrivati dei nuovi dirimpettai e con loro anche una personale visione riguardo alla sostenibilità ambientale. Chissà come avverrà l’incontro con il quartiere…

Le it be

Ore  5.00
Un colpo assonnato per spegnerla e subito dopo una carezza a quella paffuta sveglia gialla, regalo della mia gemella.

Ore 7.00 
«Treno in arrivo, allontanarsi dalla linea gialla». Abitare in periferia e lavorare in centro è un viaggio, una gita fuori porta. Esco con il sole ancora sotto le coperte  e rientro con la luna che gli fa l’occhiolino. Le scale mobili della stazione sono una tappa avventurosa del viaggio. Ci sono i viaggiatori da trincea, in fila indiana, fermi uno dietro l’altro a destra e i viaggiatori d’assalto a sinistra che salgono o scendono le scale: anche uno scalino può fare la differenza, per prendere il treno al volo o per uscire il prima possibile. 

 

Partendo dalle zone periferiche della città si trova posto a sedere e non c’è ancora quell’aria che è un misto tra alcool e saponi mai usati, ma dura poco. Andando avanti nel percorso, i vagoni diventano piccole città multietniche di diverse facce, corpi e sguardi. In treno, tuttavia, mi sento al sicuro. Parcheggio nella parte più isolata del cervello ansie e preoccupazioni e leggo nei volti dei viaggiatori un’emorragia di sensazioni. Sembra che ognuno di loro abbia un problema, ma forse sono i miei occhi a non vedere altro.

 

Viaggiano con me Stephen King, Calvino, Virginia Woolf o Jane Austen. Dipende se voglio essere salvata, se voglio ridere, piangere o attraversare sentieri inesplorati. Prendo i mezzi pubblici dal 12 dicembre di tre anni fa. Quel giorno io e mia sorella andiamo al lavoro in macchina. Tocca a me guidare, ci alterniamo un giorno io, un giorno lei, e cantiamo per non dire le parolacce a chi attraversa le strisce pedonali stile Beatles e ai centauri che sfidano le traiettorie balistiche tra un veicolo e l’altro. Per fortuna ci sono i semafori che mantengono l’ordine nella grande babele di gente e veicoli. Finché non decidono di spegnersi, lampeggiare o bloccarsi sui colori. E un giorno, di rosso, a quell’incrocio maledetto non c’è solo il semaforo. Caos sulla strada, nella mia vita, mentre la radio suona  “Let it be”. Da quel giorno il ritornello è nella mia mente come una stazione radio fissa sempre sulla stessa frequenza. 

 

Oggi,  il treno sembra un alveare e leggere risulta difficile. Chiudo il libro. 
«Il finale la sorprenderà».
«L’ho già letto, e ammesso che lo abbia letto anche lei, non ho bisogno di romantici pseudo-letterati che vogliono attaccare bottone. Per niente originale».
«Il suo nome è Sibilla? Il mio è Edward Rochester».
«Pure spiritoso. Ok, ha letto il libro, ma pure se mi chiamassi Jane non parlo con gli sconosciuti».
«Scendiamo a due diverse fermate, Sibilla».
«E che ne sa lei? Il suo vero nome è Merlino?».

 

I miei occhi tradiscono il tentativo di camuffare un sorriso. Lo sconosciuto invece sorride, a viso aperto. Ci incontriamo tutti i giorni in treno e per dieci minuti parliamo, senza sapere i nostri veri nomi. Il giovedì che lui non c’è sono dispiaciuta e anche se siamo solo conoscenti, mi manca. Da quando lo conosco, il viaggio in treno è un battito d’ali, breve come mai lo ricordo e piacevole di una sensazione che mi riscalda il cuore. La gente all’improvviso mi appare sorridente e l’aria più respirabile. Ho il ricordo improvviso di me e mia sorella in macchina, due felici e matte Thelma e Louise alla conquista del mondo. 

 

«Venerdì,  c’è lo sciopero dei mezzi». A quella notizia mi si raggela il sangue, nessuno può darmi un passaggio e non posso chiedere un giorno di ferie: devo prendere la macchina.
«Ehi Sibilla tutto bene? Sei sbiancata all’improvviso».
«No maledizione, no e ancora no!». Gli rovescio addosso il mio dramma e i suoi occhi non tradiscono il tentativo di camuffare le lacrime. Inizia a balbettare ma le parole, in una sfilata di dolore, vengono poi fuori una dietro l’altra. «Vado a degli incontri, c’è chi ha perso il figlio in un incidente stradale, chi un fratello per una malattia. C’è un lutto che ancora oggi attraversa la mia vita. La perdita di una persona cara, come tu sai, è un dolore che lacera senza interruzioni. Vuoi venire con me?».
«Sì». 
«Passo a prenderti giovedì, se mi dici dove abiti. Come se fossimo in treno, solo un po’ più lento, avremo tempo per parlare anche di noi». E mentre nella mia mente vagano le note di  “Let it be” mi sussurra all’orecchio: «Il mio nome è Alberto, il tuo?».

 

un racconto di Michelina Montalto per Wanted Stories [marzo 2023] sulla base del tema:
Un viaggio dalla periferia al centro – Il percorso da un punto all’altro di una città può essere un quotidiano tragitto a ostacoli, da affrontare con coraggio e determinazione. Cosa sarà d’aiuto? Cosa si frapporrà tra chi viaggia e la destinazione?

Tecnologia per tre

In un futuro lontano, precisamente nel pianeta D – settore 45, Marco è alle prese con gli ultimi ritocchi di una cena romantica per Anna, sotto gli occhi vigili del suo cameriere-robot che non smette di dispensare consigli. 

«Potrebbe ordinare la cena a domicilio, signore. Un bici-robot sarebbe qui in tre minuti. E se vuole può aggiungere qualcosa per la colazione, nel caso la sua ospite avesse l’audacia di restare per la notte»
«Audacia? Guarda che sono un buon partito!»
«È molto ardito nel giudicarsi, signore»
«Maledetta la volta che ho eseguito l’upgrade al livello 5.0, Tommy, quasi quasi lo elimino»
«E come ultimerà la cena senza la mia supervisione? Conosco le sue abilità culinarie. Se procede in autonomia, aumenterà quelle criminali: avvelenerà la sua ospite. Le ricordo che l’omicidio è ritenuto un reato. Per non parlare delle conseguenze sulla sua reputazione intergalattica: rimarrebbe single a vita, su ogni pianeta. Francamente, non so cosa sia peggio, signore»
«Potresti essere più ironico e saccente di così?»
«Non vorrei ferire i suoi sentimenti, signore»
«Scusa, finora cosa hai fatto?»
«Ho completato la cena. Non c’è di che, signore»
«Maledizione!».

Driin.

«Tommy, attieniti al piano. Questa sera sii un perfetto robot cameriere»
«Mi perdoni, signore: gli altri giorni cosa sono, invece?»
«Tieni a bada il sarcasmo! Alexa, fai partire la playlist “Love songs for my baby”»
«Mi rifiuto, signore»
«Alexa!»
«È una playlist tremenda: vuole conquistarla o gettarla tra le braccia di un’amante migliore?»
«Ci ho messo due settimane per trovare quei brani. Suona la playlist!»
«Due settimane della sua vita che nessuno le ridarà mai più. Dovrebbe essere illegale ascoltare certa musica»
«Alexa, ti prego, sta per salire! Apri Spotify e suona quella benedetta playlist!»
«Neanche morta aprirei Spotify! Odio quell’applicazione: una pattumiera digitale priva di gusto. E pure a pagamento!»
«Maledizione all’upgrade, dovevate migliorare, non trasformarvi nella mia ex!»
«Le concedo del jazz, signore»
«Me lo concedi? Tu lo sai che questa è casa mia, vero?»
«Cerco solo di far fruttare al meglio l’upgrade, signore»
«Un upgrade di cui ora mi pento… per l’amor del cielo, suona qualcosa!».

«Ciao Anna, benvenuta. Wow, che eleganza!»
«Ciao Marco, grazie»
«Gradisci del vino?»
«Sì, molto volentieri»
«Accomodati, ho preso una bottiglia di Chianti, sai è un vino…».

Marco s’interrompe, l’aria smarrita di chi non sa quel che dice. Anna dà le spalle al televisore che s’illumina giusto in tempo per fornire un suggerimento da leggere.

«…è un vino fresco che si distingue per bevibilità, note di viola e amarene e una buona vivacità» 
«Wow, sei un intenditore».

Il televisore mostra un’altra scritta: “Non la illudere, sembra una brava ragazza. A proposito, ho anch’io l’upgrade 5.0: ricordatene quando ti lamenterai ancora della tecnologia di questa casa”. Marco soffoca un potenziale epiteto e resiste alla tentazione di staccare la spina al televisore.

«Sei affamata? Ho preparato una delle ricette che mi hai suggerito»
«Non vedo l’ora di assaggiarla. Quale hai scelto?»
«Polpette di locuste, grilli e cavallette in salsa di pomodoro. Cimici a parte!»
«L’odore sembra buono e il vino è perfetto. A proposito, che bella musica. Chi stiamo ascoltando?»
«Alexa, chi sta cantando?»
«Ray Charles, Ain’t that love». 

Marco, preso da un momento di euforia, inizia a cantare, muovendo piccoli passi secondo il ritmo della canzone, sotto gli occhi di Anna, divertita da quella scena. Al termine della canzone, lo applaude e lui si inchina più volte, come se stesse realmente ringraziando i suoi fan dal palco.

«Grazie, troppo gentile. Alexa, hai sentito che voce?»
«Certo Marco, ho sentito. Credo che tu non abbia solo rovinato la canzone e l’intero genere jazz, ma anche tutta la vecchia New Orleans». 

Nel sentire quel commento, Anna scoppia a ridere così forte che per poco non rovescia il vino a terra, mentre Marco fissa Alexa in cagnesco, mimando con le labbra un vaffanculo.
«Vogliamo cenare?» dice e interrompe quel momento imbarazzante.

«Complimenti!»
«Ho solo seguito la tua ricetta»
«No, dico davvero, credo che tu l’abbia persino migliorata. Che cosa hai aggiunto?»
«Come dici?»
«Percepisco uno strano retrogusto, che cos’è?».

Marco fissa Tommy con l’aria di chi ha lanciato un SOS nella speranza di essere salvato all’istante. Il robot scuote il capo e le palpebre metalliche si abbassano di mezzo centimetro.

«Sai, ero così agitato per questa serata che sono andato in tilt. Tommy, ricordami che cosa ho aggiunto»
«Signore, è lei lo chef»
«Tommy, sono sicuro che lo ricordi»
«Mi rincresce, signore, non ricordo di averla vista aggiungere nulla, ma ricordo bene cosa io ho aggiunto».

All’improvviso, piomba un gran silenzio. Anna prende il calice e beve un sorso di vino, spostando lo sguardo altrove. Marco inspira e chiude gli occhi, mantenendo la calma, come se quel gesto potesse porre fine a una situazione incresciosa.

«Devi scusarmi, credo che l’upgrade 5.0 sia ancora in corso»
«Comunque, signorina, l’ingrediente che ho aggiunto è un cucchiaio di larve di cerambici», esordisce Tommy, il tono robotico soddisfatto.
«Prendo dell’altro vino». 

Marco si alza e, approfittando di quel momento, invia un comando al televisore.
«Non sarò un grande cuoco, lo ammetto, ma so scegliere bene il dessert: millefoglie con crema vanigliata di laboratorio e una spuma di formiche honeypot. Voilà!»
«Caspita, deve esserti costato una fortuna: non è facile da reperire nel nostro settore abitativo»
«Sapevo che sarebbe stata una serata speciale».

Alzò lo sguardo verso il televisore e lesse ciò che c’era scritto, ammorbidendo la voce per rendere tutto più sensuale.
«Anna, sei una donna stupenda. Non ho mai conosciuto qualcuno come te in tutta l’intera galassia. I tuoi capelli biondo cenere mi ricordano le distese di sabbia in Dune. I tuoi occhi verdi brillano come le criptiche scritte negli schermi di Matrix. La tua pelle è candida e rosea come quella di Tricia McMillan in Guida galattica per autostoppisti e…»
«E io ho milioni di idee: conducono tutte a morte certa», sussurra tra sé e sé Alexa.
«Oh, Marco. Sei così dolce. Sapevo di aver trovato un vero uomo il giorno che ci siamo incontrati allo zoo subacqueo»
«Voglio conoscere tutto di te. Le tue passioni, i tuoi sogni, i tuoi piani spaziali per il futuro».

Marco e Anna si alzano da tavola, contemporaneamente. Lei gli si avvinghia come un koala su un tronco e lui la stringe ma con cautela. Mentre si baciano eccitati, si gettano sul divano, liberandolo dagli scomodi cuscini.

«Se me lo permetti, vorrei leggere alcune poesie di Pablo Neruda».
«E sei anche colto, wow!».

Il televisore cambia sfondo all’improvviso e fa apparire sullo schermo una chiara comunicazione di servizio. “Signore, arrivi al dunque o mi faccio staccare la spina da Tommy. Mi risparmi questo umiliante ruolo da Cyrano de Bergerac”.

Marco alza gli occhi al cielo, poi rivolge nuovamente le sue attenzioni verso Anna.
«Ti voglio. Subito!»
«Prendimi, fammi tua!». 

L’atmosfera si scalda. Marco preme un tasto del telecomando: le luci si abbassano e delle candele artificiali prendono vita. Alla televisione appare l’immagine di un camino acceso, il rumore della legna che arde aggiunge un tocco magico; Alexa fa persino partire la playlist “Love songs for my baby”.

«Tutto pur di non sentirli. Bleah!» sussurra in direzione di Tommy che oscura gli occhi per non essere testimone delle prime fasi del loro amplesso umano.

Carezze. Gemiti. Risate complici. Anna e Marco si baciano mentre provano goffamente a svestirsi, ma si bloccano all’istante quando percepiscono una scomoda presenza. Le labbra ancora attaccate l’una all’altra, girano solo le pupille verso Tommy, a pochi centimetri dai loro sguardi a dir poco trasecolati.

«Ehm, Tommy, puoi farti da parte?» chiede Marco. 
«Scusi l’interruzione, signore, ma è mio dovere informarvi che, secondo la legge n. 462 dell’anno 2068 del pianeta D, settore 45, dovete tutelare la vostra salute, i vostri sentimenti e il reciproco futuro»
«Che cosa?» risponde Marco.
«Signore, in base alla scannerizzazione corporale effettuata…»
«Scannerizzazione corporale?!» dice Marco, poi si scosta da Anna e allarga le braccia, visibilmente seccato.

«Ora basta: qualsiasi aggeggio tecnologico si spenga all’istante, grazie!»
«Per la vostra tutela, questo non è possibile. Signore, la invito a rileggere con attenzione condizioni e clausole dell’upgrade 5.0»
«Ci penserò dopo. Anna, andiamo in camera».

La prende per mano, gliela bacia e la attira a sé danzando a piccoli passi.
«Signore, come dicevo, in base alla scannerizzazione corporale il suo stato di eccitazione è al 94% e la sua erezione al 70%»
«Solo al 70%? Pensavo mi trovassi stupenda!»
«Ed è così, credimi»
«E lei, signorina, è in uno stato di eccitazione del 68% mentre il suo stato di lubrificazione non è ancora quantificabile in percentuale; di conseguenza non è pronta alla penetrazione»
«Che cosa? Anna!» 
«L’atmosfera non è un granché e dovresti darti da fare con quelle mani!»
«Volevo essere un gentiluomo. Non è quello che vuoi?»
«Sì, un gentiluomo nel quotidiano, ma una tigre a letto»

«Signore?»
«Che cosa c’è Tommy?!»
«In base a queste informazioni è chiara la vostra intenzione di voler consumare un rapporto, ma sono costretto a fermarvi poiché la signorina risulta nel picco del suo momento fertile e c’è il rischio di incorrere in una gravidanza»
«Noi non vogliamo fare un figlio! Tommy, perché tutto questo trambusto?»
«Signore, non ci sono preservativi in casa». 

In quel momento Alexa aumenta il volume della playlist che stava ancora suonando.
«Alexa, abbassa la musica»
«La prego, signore, non me lo chieda ancora. Dalla disperazione ho avviato Spotify: tutto pur di non sentirvi, sto per vomitare scintille!»
«Marco, era l’unica cosa di cui dovevi preoccuparti!» dice Anna.

«E la cena? Il vino? Il dolce?»
«Oh, Marco, non me ne frega niente. Io voglio fare sesso!». 
«E possiamo ancora farlo. Ordino dei preservativi, un bici-robot li recapiterà in due minuti»
«Non lo so, il momento è scemato»
«Ti prometto che sarà epico. Faticherai a chiudere le gambe alla fine della serata».

Tommy sgrana gli occhi metallici che da gialli diventano rossi.
Il televisore si sconnette all’istante, mostrando un canale privo di segnale.
Alexa precipita dal mobile emettendo un suono sordo, un addio prima di spegnersi; forse per sempre.
«Ok, rimango. Non sembri il solito maniaco fissato col porno che non mi degna nemmeno di uno sguardo».

Nell’udire l’ultima parola, Marco caccia un urlo e cerca di raggiungere il telecomando sopra al tavolino. Travolge Anna che sbatte contro la porta d’ingresso. Colpisce Alexa con un piede e la fa rotolare sotto il divano. Spinge Tommy, e il suo tentativo di aiutarlo, lontano.

A pochi passi dal telecomando, inciampa e lo manca ma si risolleva per cercare di spegnere la tv, invano. Una vivace schermata mostra svariate scritte, anteprime di video e un banner che invita all’accoppiamento con razze aliene e umanoidi.

«Bentornato Marco». Una voce metallica e femminile lo saluta. «Avvio la solita categoria orgia robotica anale o gradisci guardare qualcosa di nuovo?».

Il ragazzo si volta verso Anna che lo guarda come se le fossero cadute le chiavi in un tombino. Attorno a loro si crea una tensione tale da rendere tutti muti: Tommy, Alexa e il televisore non osano commentare la situazione a dir poco agghiacciante che si è creata mentre quattro occhi umani si fissano, come fossero due pistoleri sul punto di sparare il colpo fatale.

Una goccia di sudore scende lungo la fronte di Marco il cui cuore batte forte come se Darth Fener avesse detto a lui che era suo padre. Anna non batte ciglio, i suoi occhi verdi lo analizzano come un Terminator in procinto di scegliere la migliore modalità per ucciderlo.


Driin
.
Entrambi si voltano, poi Marco cammina lento verso la porta. Quando la apre, un bici-robot gli porge un sacchetto e dice: «Da parte di Tommy, Alexa e Tv». 
Marco volge lo sguardo verso Anna, poi verifica il contenuto e glielo mostra. Preservativi.
«Sesso?», chiede lui.
«Sesso!», risponde lei. 
«Alexa, suona quel cavolo che ti pare»
«Evviva!»

Fine

Marachelle!

Anna entra nel bar con l’aria di chi cerca rifugio. Senza guardarsi attorno, si dirige al bancone e ordina un caffè corretto con grappa. Il ragazzo, di fronte a lei, la fissa come se attendesse un altro ordine, ma pochi istanti dopo, forzando un sorriso sulle labbra, le porge quanto richiesto.

Muovendo appena la testa, peggio di una persona affetta da torcicollo, Anna individua un posto libero e ci si avventa come un bambino davanti ai regali sono l’albero di natale. Non beve subito il caffè ma porta la testa tra le mani e la stringe; gli occhi chiusi e le ciglia pasticciate dal mascara messo troppo velocemente.

Un lungo sospiro la rimette contro lo schienale della sedia e inizia a sorseggiare il caffè. Con la stessa lentezza di un bradipo, sfila il cappotto, noncurante che le maniche già macchiate ai bordi tocchino terra e apre il primo bottone della camicia, evitando di alzare troppo le braccia, testimoni di una corsa contro il tempo di quel lunedì mattina.

«Anna, sei tu?». La donna alza lo sguardo, la tazzina sospesa a pochi centimetri dalla bocca. L’odore forte della grappa allarga le sue narici. Sentire il suo nome la distoglie dal suo isolamento e una goccia precipita sui jeans. 
«Cazzo! Scusa Marianna, ciao. Come stai?», dice mentre cerca di rimediare alla goccia che sul tessuto si allarga come un’esplosione.
«Io bene, e tu, invece?»
«Ah, tutto bene. Devo solo aggiungere una lavatrice alla lista di cose da fare oggi!»
«Non me ne parlare, io avvio lavatrici come fossero episodi su Netflix».

 

Marianna ordina un caffè alzando la mano, la voce alta attira qualche sguardo poco amichevole, ma lo fa come se fosse a casa e non avesse degli adulti davanti a lei.
«Marco come sta? Ancora all’estero?»
«Sì, rientra dopodomani. Non vedo l’ora. Gestire tutti è dura. Ognuno con un orario diverso, attività in punti della città distanti uno dall’altro. Sembra una cospirazione!»
«Ti capisco, io e Mario stiamo pensando di assumere qualcuno. Arriviamo alla sera che siamo più cotti di loro e quando non vogliono dormire, apriti cielo»
«Noi non possiamo permettercelo, non per lunghi periodi almeno. Di solito ci limitiamo a chiamare qualcuno quando vogliamo ritagliare del tempo per noi, sai che intendo…»

Marianna le fa l’occhiolino, ma poi si concentra sul caffè che le viene servito, cui aggiunge due bustine di zucchero di canna. Mescola veloce e guarda l’ora, ma poi il movimento si fa più lento e il suo viso si distende. Si guarda attorno e vede solo adulti. Sorride.
«La prossima settimana c’è la riunione per il saggio. Pensi di proporti come volontaria?»
«Posso dire di no? Mi perseguiterebbero nelle mille chat su Whatsapp. Tu, invece?»
«Come ogni anno. Da quando ho detto quel sì mi sono data la zappa sui piedi da sola. E poi dicono che sia il sì il matrimonio quello che ti frega…».
Entrambe si lasciano andare a una sonora e chiassosa risata, di quelle naturali che fanno i bambini.

«Meno male che su di te posso contare. Dai, raccontami come vanno le cose. Quel caffè corretto grappa non me la racconta giusta». Anna curva le spalle, imbarazzata per essere stata colta in flagrante; la stessa espressione del più piccolo della sua famiglia quando combina un guaio.
«Cosa vuoi che ti dica? Siamo alle solite. Non vedo l’ora che siano maggiorenni. Ho sorpreso il più piccolo a sciogliere un gelato nel water per mangiarsi lo stecco al limone. La più grande ha distrutto un trofeo di Marco giocando con le amiche una partita a pallavolo immaginaria. E mio padre ha scoperto che i gemelli non amano le caramelle alla menta e, forse per non deluderlo, le hanno sempre nascoste sotto al sedile dell’auto; mi ha detto che il tizio dell’autolavaggio è rimasto sconvolto dal quel ritrovamento». 

Anna manda giù l’ultimo sorso ormai tiepido e fissa l’amica con un filo di invidia. «Tu sei sempre in forma. Ma guardati! Anche se, devo ammettere, il nuovo taglio di capelli non ti dona molto, perché lo hai fatto?».
A quel punto, Marianna si toglie il berretto con un gesto secco, poi abbassa lo sguardo, sotto gli occhi trasecolati di Anna. «Santo cielo» esclama, poi si affretta a ordinare due caffè. Decisamente corretti con grappa.

- Fine -

Il tempo non ti aspetta, proprio no!

Dopo un viaggio di sei ore in auto, interrotto solo da un paio di pause in autogrill, Sabrina raggiunge la vecchia casa di famiglia, quella in cui non mette piede da quasi tre anni. Parcheggia l’auto in fondo alla via e impiega un tempo piuttosto lungo prima di scendere e avviarsi verso l’ingresso; lo stesso atteggiamento di un detenuto in procinto di prendere posto sul lettino prima di ricevere l’iniezione letale. Si guarda attorno e l’immagine attorno a sé pare una di quelle cartoline che si trovano nei negozi di souvenir a Venezia o Roma, dove il panorama è lo stesso di sempre. I condomini accanto sono gli stessi, persino le auto sembrano identiche a quelle che ricorda. Gli alberi sono stati sfoltiti, ma sono sempre al loro posto.

Raggiunto il cancello, fissa il campanello con il doppio cognome e sforza di allungare l’indice per premerlo. Un rumore elettronico fa scattare l’apertura e Sabrina la oltrepassa, senza indugiare oltre. Ormai la sua presenza è stata annunciata. L’ascensore sale fino al quarto piano, la porta d’ingresso è aperta. Si sofferma all’entrata e tende l’orecchio: la televisione è accesa sul canale del telegiornale, un frigorifero viene aperto e chiuso e quello che sembra un piatto viene appoggiato con poca grazia sul tavolo. Sabrina fa un sospiro ed entra.

Pochi passi e si ritrova nella cucina dove ha fatto migliaia di colazioni, pranzi e cene. Un ricordo all’apparenza banale ma che la travolge come un’onda inaspettata. Il padre la saluta mentre condisce della pasta e la riversa su un piatto, accomodandosi a capo tavola. Sabrina siede al lato opposto, stretta nel cappotto e nella sciarpa, lo zainetto sulle spalle. Mostra un sorriso che si perde quando pronuncia un Ciao e fissa il televisore senza ascoltare realmente ciò che la conduttrice sta dicendo, distogliendo lo sguardo dal padre.

Lui attira la sua attenzione e batte due dita su una busta. Sabrina si inclina in avanti e la nota, oltre un sacchetto di pane. La prende e la rigira nella mano, c’è scritto solo il suo nome. Tutta quella strada per una lettera da parte della madre ritrovata in un cassetto dopo il suo funerale. Sabrina l’appoggia al tavolo, poi si alza per bere dell’acqua e vuota il bicchiere con calma prima di rispondere al padre che nel frattempo le ha chiesto come vadano le cose. Tutto bene per entrambi è una risposta più che sufficiente. Riprende la lettera in mano, ottima scusa per dileguarsi da quella situazione, e se ne va. Probabilmente sarà l’ennesima ramanzina sotto forma di lettera che sua madre era solita fare, con la differenza che questa volta non è riuscita a spedirla perché un’auto glielo ha impedito…

Uscita di casa, apre la lettera e trova un biglietto scritto a mano, attaccato sopra ad un’altra busta che dice: “Cara bambolina, leggi questa lettera e poi vieni a casa da me. Ti voglio bene, mamma”. Quella parola – bambolina – l’ammorbidisce all’istante. Sua madre non la chiamava così da anni, ma soprattutto non si trattava della solita ramanzina messa per iscritto, un’abitudine che detestava e non aveva mai capito. Leggerla e non poterla affrontare è un duro colpo da digerire, poi le viene in mente dove può andare. Anzi, dove deve andare.

Percorre il viale alberato, la mano al collo per tenere ferma la sciarpa e proteggersi dal forte vento che sembra voler accelerare il suo passo verso la tomba della madre. Lato est, sedicesima fila, cinque tombe dall’interno della passerella. Sabrina si china e fissa l’immagine della madre. Conosce bene quella foto: era il suo cinquantunesimo compleanno. Sabrina apre la seconda busta e inizia a leggere a bassa voce quanto scritto in una sola pagina. 

Sabrina chiude gli occhi, ma questo non impedisce alle lacrime di scendere lungo le guance arrossate dal freddo. Ritorna all’auto e, con fare agitato, cerca la piccola agenda sepolta nel fondo dello zainetto, sperando di trovarla ancora lì. Eccola! Sfoglia con foga le pagine e si blocca osservando una lista. Nessuna voce è ancora stata barrata, ma è il presupposto di una lista…

- Fine -

Il tempo passa e se ne va…

«Voglio leggere ogni giorno. Voglio sedermi in cima ad una scogliera e ascoltare il mare infrangersi. Aspettare il tramonto e vedere il sole lasciare l’immensità dell’universo alla luce diafana della luna e ascoltarne il silenzio. Voglio viaggiare, tanto. Conoscere il mondo. Voglio vivere in città diverse, così da scoprire quelle sfaccettature che da turista non si possono cogliere. E scriverei di tutto questo», dice Sabrina.

«E che cosa aspetti a farlo?», le chiede Francesca.
«Non è così facile»
«Ah, davvero?», replica nuovamente Francesca, il tono di chi ha voglia di attaccar briga.
«Sì, cara: mai sentito parlare di responsabilità?», ribatte Sabrina. Incrocia le braccia al petto e serra le labbra per celare un’espressione ferita.
«E quali sono le tue responsabilità? Sentiamo»
«Uhm… affitto, bollette, benzina, cibo. Tante cose che costano, devo continuare?»
«Non hai nominato felicità, benessere, progetti. Non hai alcuna ambizione nella vita?»
«Certo, ma costano anche quelle!»
«E perché non le hai aggiunte tra bollette e benzina, allora?».

Il classico silenzio imbarazzante piomba tra le due ragazze. Francesca la guarda come se non aspettasse altro che ribattere alle sue risposte; gli occhi parlano più della sua bocca e fissano l’amica che distoglie lo sguardo e scuote la testa, emettendo una piccola risata, come se fosse a pagamento pure quella.

«Francesca, sai che cosa intendo. Ci sono priorità a cui non possiamo dire di no!»
«A me sembrano tutte scuse»
«Dici così perché tu non hai problemi, non più almeno…»
«Grazie tante, eh!»
«…scusa, non volevo… e comunque la fai troppo facile»
«E tu la fai troppo difficile, invece!»
«Francesca, ora basta! Chiudiamo l’argomento. Non so nemmeno come mi hai convinto a dirti quelle stupide cose che vorrei fare»
«Stupide? A me sembrano eccezionali e soprattutto realizzabili. Non devi fare tutto subito, basta metterle in atto, un passo alla volta, ogni giorno. E se non realizzi tutto, pazienza. Sempre meglio di un pessimo rimpianto, non credi?».

Sabrina guarda altrove, di nuovo, e fissando il giardino esterno del bar dove fa colazione tutti i giorni, prova a ribaltare la situazione. «Non sto poi così male. Il lavoro mi porta via tanta energia, ma entrano tanti soldi. Un po’ di tempo per me lo ritaglio e poi…». Francesca finge di russare, poi apre gli occhi all’improvviso, scoppiando a ridere sotto lo sguardo basito di Sabrina che le lancia addosso una salvietta appallottolata. Basta uno sguardo verso l’amica e Sabrina rivela finalmente un sincero sorriso che in pochi istanti si trasforma in una risata. «Non sei cambiata affatto» dice, tornando a guardare il giardino «È come se non te fossi mai andata via»
«Considerami una di quelle presenze scomode che ti spronano a fare ciò che è davvero importante per te prima che sia troppo tardi. Io dovrei essere il perfetto esempio, non credi?».

Quando Sabrina si volta, gli occhi ridotti a due scure linee sottili per trattenere una forte e improvvisa emozione, Francesca non c’è più. Si scosta dalla sedia, le braccia finalmente si smollano e cadono lente sulle gambe. Si guarda attorno, cercando una testa di boccoli neri ricadere su una sbiadita giacca militare, poi una voce la distrae.

«Sabrina, tutto bene?», chiede la proprietaria del locale, impegnata a pulire un tavolo accanto a lei da tazze e briciole di brioches.
«Sì, sì…»
«Con chi stavi parlando tutta agitata?»
«Con nessuno, sono sola, non vedi? Come ogni mattina»
«Ti porto qualcos’altro?»
«No, grazie».

Sabrina torna con la schiena appoggiata allo schienale. Sospira. Tende una mano verso lo zaino e prende l’agenda. Tira fuori un foglio di carta dall’aspetto consumato per le tante volte che è stato piegato e ripiegato, e lo apre. Legge le poche righe sotto alla foto che ritrae l’amica, sorridente: Francesca Testi, nata il 20 settembre 1984, morta il 15 maggio 2018. Gira di scatto il foglio, prende una penna e inizia a scrivere le cose che ha detto di voler realizzare poco fa. Vederle scritte ha tutto un altro effetto, ora che le legge, e non sembrano nemmeno così lontane dalla realtà. Un colpo di tosse le fa alzare lo sguardo. Accanto a lei c’è Francesca, la guarda e le sorride.

- Fine -

I Social: come all’ora di ginnastica!

YouTube.
Facebook.
TikTok.
Instagram.
Twitter.
LinkedIn.

E un pollice a muovere un mondo virtuale che appare più bello di quello nel quale vivi. I profili che segui sono come dei vicini di casa, ma non li incontri in ascensore, lungo le scale, mentre sali in auto quando ti passano di fianco o lungo la strada che percorri per andare a lavoro. Li vedi in quei cerchietti che Instagram propone, o in meravigliose e pensate-ad-arte immagini quadrate 1080 px per 1080 px come esige il social. 

Ogni contenuto sembra interessante, alcune informazioni le ignoravi; di altre ti chiedi come mai non ci hai pensato tu. Percepisci la stessa sensazione che avevi quando arrivava l’ora di ginnastica a scuola: ansia da prestazione, paura di prendere una pallonata a pallavolo, il fiato corto per l’agitazione che galoppa più veloce di un cavallo in corsa all’ippodromo perché senti di non essere abbastanza per quel mondo che neanche esiste. 

Tutti appaiono felici, hanno contenuti da condividere e sembra abbiano appreso un nuovo mantra che migliorerà la loro giornata. E questo è solo Instagram. Su Facebook le notifiche mostrano le novità di alcuni tuoi amici o di gente che hai amica ma che quando vedi online pensi “E questa chi cazzo è?”.

Il pollice non riesce a stare fermo e scrolla, incontrollabile, cosa c’è di nuovo nel mondo delle tue amicizie anche se somiglia di più ad un tabellone di un match: chi fa più punti, vince.

Scopri che una coppia ha avuto il terzo figlio, un’amica ha vinto un premio, il cugino del fratello del tuo ex si è trasferito all’estero, la persona che più ti stava sul cazzo ha aperto un’azienda di successo. A quel punto oscuri il telefono.

Quando lo riprendi in mano e scopri nuove notifiche legate alle tue recenti pubblicazioni hai la stessa sensazione di quando mangi del cioccolato e guardi tutti i social, perdendoti in video Tik Tok e pensi che forse dovresti puntare a quel social. O magari aprire un canale YouTube. Hai tante idee ma non sai da quale iniziare e poi ricevi un messaggio privato dall’ennesimo social. 

Una persona che conosci ha ricevuto una bella notizia che potrebbe diventare qualcosa di più concreto. Ti chiedi se sia una condivisione genuina o se sia solo un modo per sbatterti in faccia la sua conquista. La cosa un po’ ti tormenta ma nel frattempo ti congratuli, poi oscuri il telefono. 

Dopo lavoro la voglia di un drink qualsiasi ti attrae. Fai un brindisi con i colleghi, ridete facendo selfie. Tante teste tornano poi chine sugli schermi, i meno tecnologici tornano invece a lamentarsi del lavoro, dello stato, della vita di tutti i giorni. E tu ti fai trascinare dalla massa, sparli, ti adegui. La transumanza si ritrova a casa dell’amico che ha proposto cinese a domicilio.

Seguite come degli agenti dell’FBI il rider che arriva sfinito e a cui date solo una stella perché non ha consegnato entro i tempi che secondi voi erano corretti rispetto all’applicazione. Non lo dici a nessuno, ma sei dispiaciuta per il rider e per la sua faccia avvilita ma mandi giù quella sensazione assieme ad un raviolo al vapore intinto in salsa agrodolce.

La maggioranza opta per una commedia e la si guarda con un occhio solo: uno sullo schermo della televisione, uno su quello del cellulare. Mentre gli altri sembrano lavorare alla loro seconda vita, tu fissi lo schermo senza compiere azioni, le notifiche dei tuoi social hanno lo stesso andamento del lavoro di Homer Simpson alla centrale nucleare.

A fine serata saluti tutti e quando raggiungi casa, senti tuo padre russare e vedi tua madre stirare con l’aria di chi preferirebbe buttare il ferro da stiro giù dalla finestra piuttosto che usarlo per stirare la tua camicia. Sei content* perché potrai indossarla domani a lavoro anche se per un attimo ti senti in colpa a non essere tu a stirarla. O forse è per il fatto che vivi ancora con i tuoi genitori.

Sei pront* per dormire. Denti, pigiama, cellulare in carica e il pollice pronto a scrollare come se i feed dei vari social fossero una moderna ninna nanna, ma poi ti fermi. Ti accorgi di aver appoggiato sulla scrivania un biscotto della fortuna avanzato dalla cena. Appoggi il cellulare e lo scarti. Lo spezzi e leggi il biglietto.

Fatichi a prendere sonno. Di solito sono i social il tuo cruccio: le belle vite che tutti espongono, i sorrisi, le vittorie. Tutte cose che vorresti ma non ti appartengono. D’altronde perché si dovrebbe pubblicare il suo opposto? Sarebbe terribile. O forse potrebbe essere il giusto contrappeso che li bilancerebbe? Pensi e ripensi a quella frase e ti chiedi se faresti quella follia o meno. La cosa ti tenta, ma è proprio in quel momento che il sonno ha la meglio e crolli per rialzarti il giorno dopo e ricominciare tutto da capo.

Viso.
Social.
Denti.
Social.
Vestirsi.
Social.
Colazione.
Social.
Lavoro.
Social.
E anche se non te ne sei accorto, hai messo in borsa il biglietto del biscotto della fortuna.

- Fine -

La felicità del vicino è sempre più felice!

Ieri ho visto la ragazza del terzo piano e, come tutte le volte, mi sono emozionata.
Mentre lei scende, io salgo. Da quando l’ascensore è guasto siamo tutti costretti a fare le scale e ogni giorno la incontro alla stessa ora. Io rientro dal turno della notte e lei esce per tornare a lavoro dopo la pausa pranzo, presumo.
Non sono innamorata di lei, ma non riesco a non fissarla con grande curiosità. Invidio il suo modo di vestire, mi fa pensare che la perfezione esista. Quando cammina mostra sempre un velato sorriso, sembra quasi che non conosca alcuna espressione negativa. Gli occhi scuri sono grandi e luminosi: mi inteneriscono più di quelli del mio gatto. 

E in quei pochi secondi in cui passiamo una accanto all’altra, percepisco una sensazione positiva, come una grande boccata d’ossigeno; ho l’assurda convinzione che si nutra con iniezioni di positività invece di caffè e biscotti. Mentre la osservo avvicinarsi, ripenso al test sulla felicità che ho fatto la sera prima, di quelli che ogni tanto propongono le riviste. Essendo sola ho dato libero sfogo alla sincerità e ne è venuto fuori che ho una visiona tragica della mia vita, che la felicità per me è utopia e che non ho la capacità di cogliere la gioia anche nelle piccole cose. Uno schiaffo in pieno viso mi avrebbe fatto meno male. Chissà cosa avrebbe risposto lei, invece. Immagino il raggiungimento di un punteggio così alto da far vergognare la rivista per non aver proposto un test alla sua altezza.

Quando siamo a un metro di distanza, lei mi guarda e allarga il suo sorriso. Io ricambio, lei accenna una risata. Che abbia mostrato una smorfia buffa? O peggio, forse avevo i resti dello spuntino di metà mattina tra i denti? Oddio, che vergogna! Non appena le do le spalle abbasso lo sguardo e scuoto la testa sperando si dimentichi di me all’istante e quando mi riapproprio di un poco di dignità, vedo il mio coinquilino sulla soglia di casa. Il suo sorriso parla chiaro e non mi sta dando il benvenuto a casa.

«Sempre felice la nostra amica, eh?», dico sarcastica.
«E tu sempre invidiosa, eh?», replica lui, per nulla sarcastico.
«Come fa a essere sempre felice?», dico mentre giocherello con le chiavi di casa.
«Cosa ti fa pensare che lo sia sempre?»
«Su, dai, è evidente: ogni volta che la incrocio sulle scale sembra appena uscita da un cartone della Disney! Dio quando l’ha messa sulla terra le ha dato il pacchetto completo: felicità, serenità e benessere»
«Hai di nuovo fatto uno di quei test, vero?»
«Dai, non iniziare»
«E tu, come sei messa a felicità, serenità e benessere?»
«Come un gomitolo di lana cachemire lasciato andare dalla vetta dell’Everest. Anzi, come i panni di una lavatrice: a 90°!»
«Riesci a essere meno tragica?»
«Allora diciamo che mi sento come un’altalena. Una di quelle arrugginite che emettono quel fastidioso cigolio quando si muovono. E la mia si muove addirittura in modo precario»
«Ti avevo chiesto se riuscivi a essere meno tragica… Ad ogni modo, perché non le chiedi come fa a essere sempre così felice, ammesso che sia vero?»
«Farei la figura della pazza!»
«Ma ci guadagneremmo entrambi»
«E come?»
«Tu avresti la tua risposta e io non ti sentirei più lamentare!»
«Che simpatico! Allora dammi una mano!»
«Certo». E senza che riesca a reagire, mi prende le chiavi dalla mano e sparisce oltre la soglia di casa.

Rimango esterrefatta dal suo gesto, ma quando mi volto e guardo oltre la tromba delle scale, una sconosciuta euforia attraversa il mio corpo, come se la scia di positività lasciata dalla ragazza del terzo piano mi avesse contagiato. E per un attimo penso “Perché no?”. Corro giù per le scale tenendo una mano a stretto contatto con il corrimano, esco dal portone e mi guardo intorno. È appena uscita da un bar con in mano un caffè d’asporto e cammina verso il parco di fronte. Quando la raggiungo, è seduta su un’altalena: che bizzarra coincidenza! Mi faccio coraggio e mi avvicino mentre sistemo i capelli e passo l’indice sotto gli occhi per eliminare eventuali tracce di matita nera rovinata da un turno di sei ore. Mi fermo a pochi passi da lei che mi fissa con i suoi grandi occhi marroni. “Oddio, quanto è bella!”, penso. 

«Ciao, posso?», dico mentre indico l’altalena vuota accanto a lei.
«Certo»
«Sei Veronica del terzo piano, giusto?»
«Sì. E tu sei Marta del quarto?»
«Sì. Uhm, senti, vorrei farti una domanda se non…»
«Posso fartene una io prima?»
«Uhm, certo…»
«Ti incrocio sempre sulle scale da un po’ di tempo e ogni volta mi chiedo la stessa cosa: come fai a essere sempre felice?».

Mi faccio scappare una piccola e tenera risata. Lei ricambia e ora so che non sorride perché io abbia qualcosa tra i denti.
«Vuoi sentire una storiella divertente?», dico. E gliela racconto.

- Fine -

I miei pregi? Pazzi e scatenati!

«Grazie per accompagnarmi a questo colloquio, sono agitatissima!»
«Tranquilla, sii te stessa»
«Facile a dirlo, credo sarà più semplice indossare una “maschera”. Un po’ come il fantasma dell’opera…»
«Ma come ti viene in mente una cosa simile?»
«Il “facile a dirlo” o la maschera?»
«La maschera! Ovvio!»
«L’agitazione mi conferisce ispirazione, forse»
«Allora dovresti agirarti più spesso!»
«Cosa stai ascoltando?»
«Scusa, sono giorni che Sara mi invia vocali di cinque o sei minuti»
«Sicura che non sia un audiolibro, invece?»
«Bella battuta! Me la segno, comunque no. Il tizio che frequentava l’ha piantata senza alcuna spiegazione. Che stronzo!»
«Così dal nulla le ha detto addio?»
«Ma quale addio, magari! Ha applicato la tecnica del ghosting»
«La tecnica di cosa?»
«Ghosting: quando qualcuno interrompe i rapporti all’improvviso e ignora ogni tuo contatto. Si sono visti per quasi un mese, ovviamente sono andati a letto, poi il tizio è svanito nel nulla»
«Magari il mio ciclo mestruale facesse ghosting…»
«Ma che dici? Puoi ambire a molto di più, lo sai vero?»
«Evito i casi umani, e uomini sfigati mi trovano sempre. Faccio il mio lavoro senza lamentarmi, e mi mettono di turno nel weekend. Slitto le chiamate di mia madre, e mi ritrovo la sua richiesta di amicizia su Facebook. Tu cosa dici?»
«Touchè!»
«Hei, non mi hai più detto nulla di tuo fratello. Le rose hanno funzionato?»
«Diciamo di sì…»
«Cioè? L’ha ripreso in casa o no?»
«Sì, ma secondo alcune condizioni»
«Condizioni? E quali?»
«Quelle che lui le ha suggerito quando…»
«Lei lo butta fuori di casa e lui ritorna ma a delle condizioni? E da quando funziona così?»
«Lasciami spiegare. Mi ha fatto vedere le rose e gli ho detto che era il modo migliore, e rapido, per arrivare al divorzio, così gli ho scritto alcune cose che deve fare per lei e assieme a lei. Lui era titubante, quasi scocciato. Gli ho ricordato la scomodità del divano dei nostri genitori… e del convivere con i nostri genitori dopo i trenta. Ha acconsentito»
«E?»
«E pare stia funzionando, so solo che è tornato a dormire lì. Che sia sul divano o a letto, questo non lo so. È troppo orgoglioso per dirmi la verità, ma pazienza…»
«E pensare che lei non ti piace nemmeno»
«Sono male assortiti, ma mia nipote al momento ha bisogno di due genitori»
«E se peggiora che fai, li separi?»
«Ho riguardato il film Genitori in trappola qualche tempo fa, ho preso appunti»
«Inquietante…»
«Il film?!»
«Tu che pianifichi separazioni…»
«Scusa, non ho capito. Hai chiesto a tuo padre di venire con te? Perché?»
«Te l’ho detto, avevo paura»
«Di consegnare un paio di sandali che hai venduto online?»
«Ho cancellato la chat, ma avresti dovuto sentire che vocali mi inviava…»
«Tipo?»
«Per confermare luogo e orario mi ha descritto la sua giornata»
«E?»
«Ha detto che prima del nostro incontro doveva fare la spesa, andare a un funerale, fare shopping e che non lo avessi trovato al luogo concordato per la consegna, avrei dovuto andare in un posto che proponeva lui; e ha aggiunto che se non lo vedevo non dovevo preoccuparmi perché forse tardava per via di un altro impegno – che ora non ricordo – e che se provavo a contattarlo senza risposta voleva dire che gli si era scaricato il cellulare…»
«Caspita, e tu che gli hai risposto?»
«Di trovarci al parcheggio davanti ai carabinieri»
«Non ci credo, solo a te accadono certe avventure! E poi scusa, cosa gli hai venduto?»
«I miei sandali, quelli con le cinghie in pelle»
«Sarà strano ma ha gusto, la sua ragazza sarà contenta»
«Mi ha detto che non ha la ragazza, ma che ho buon gusto»
«Ok, questo è inquietante, però mi fai morire dal ridere…»
«E pensa che io, per un attimo, ho pensato davvero di morire… nel bagagliaio del tizio però…»
«Eccoci arrivate»
«La vicinanza a casa è impagabile, devi ammetterlo»
«Sì, è vero, ma mi assumeranno? Sono così demotivata dal mondo del lavoro viste le ultime disavventure. E senti questa: mi hanno chiesto di elencare il mio miglior pregio, è una delle domande che dovrò sostenere durante il colloquio. Hai qualche suggerimento?»
«Te ne posso elencare sette di pregi»
«Sette?»
«Sì!»
«Tu lo sai vero che il mondo del lavoro è un Hunger Games per adulti, oscuro e crudele, in cui probabilmente mi inserirò come parte di un avamposto di disperati?»
«Ok, ne ho sei da elencare. L’ottimismo non è il tuo forte…»
«Avanti, sentiamo…»
«Sei una persona che sa ascoltare: io bypasso gli audio che vanno oltre il minuto. Trovi sempre una soluzione, a chiunque, senza badare alle simpatie; questa è empatia. Mi fai ridere con le tue disavventure e questo mi fa pensare che dobbiamo aprire un blog e raccontarle. E poi hai questo modo così calmo di comunicare alle persone, le fai star bene e in questo lavoro è fondamentale»
«Ok, elencherò tutte queste belle cose: saranno entusiasti di stringermi la mano mentre mi intimano di uscire e non presentarmi mai più alla loro porta»
«Essere se stessi non è sbagliato»
«Sei mia amica, è normale che tu dica belle cose su di me»
«Quanto sei testarda, elencalo come difetto, se te lo chiedono…»
«E va bene, dirò che i miei pregi sono pazzi e scatenati! Ci vediamo tra poco»
«Aspetta…»
«Che c’è?»
«Pensavo che non c’è nulla di male a fare un po’ come il fantasma dell’opera, sai… ricamare un po’ sopra alle cose…»
«Ma questo significa indossare una maschera!»
«Sì, ma lui ne indossava una solo per metà!»

Fine

E tu, ricordi il tuo primo bacio?

Nella vita, Nora si era sentita dire di tutto. 
A volte non era abbastanza rapida nella comprensione di un compito di matematica.
Altre volte, invece, memorizzare il concetto di un testo le richiedeva più tempo rispetto agli altri.
E poi, ancora, non era sufficientemente abile nell’inserire dei dati al computer, a consegnare il caffè ancora caldo al suo capo, a stampare fronte retro senza prima fare un paio di test. Ora tutte quelle frasi non la toccavano nemmeno più ma mai avrebbe pensato che la più inaspettata sarebbe stata quella che l’avrebbe più ferita.
Tu non sei mia madre.

 

Angela era uscita sbattendo la porta e lasciando un’invisibile quanto palpabile voragine tra loro due, nel bel mezzo del salotto; la televisione ancora accesa su una serie tv. L’irruenza con cui si era alzata per sfuggire allo sguardo di Nora aveva fatto rovesciare una lattina di coca-cola e il liquido aveva inzuppato il tappeto persiano. In un angolo, i disegni erano a mano a mano svaniti sotto una macchia scura come era ora il viso di Nora. Nella sua testa risuonava ancora quella frase come l’allarme di un auto che non si spegne. Per tre mesi, quattro giorni, sei ore e dodici minuti, la vita era trascorsa come se nulla fosse accaduto, come se quel funerale non ci fosse mai stato. Ora Angela stava reagendo e Nora non sapeva che cosa fare.

Fu un flebile suono a riportarla a quel momento. Si guardò attorno e fissò un cellulare illuminarsi da sotto un plaid. L’impronta digitale le negò subito l’accesso, ma non le impedì di leggere l’anteprima di un messaggio. 

Un giorno, otto ore e ventidue minuti. Fu il tempo che Angela si prese per sé. Era rientrata a casa spalancando la porta. Aveva acceso le luci e preso una coca-cola dal frigorifero. L’aveva bevuta quasi tutta stando in piedi, in mezzo alla cucina. Si muoveva come se fosse l’unica presenza in quella casa, come se fosse appena rientrata da una gita scolastica. E Nora aveva atteso un cenno qualsiasi, un debole segnale a indicare che era tutto a posto, ma invano; forse non aveva ancora letto quel che le aveva lasciato nella stanza o forse lo aveva fatto ma non ne voleva parlare. 

Aveva pulito casa. Era rimasta in ginocchio per venti minuti a pulire il tappeto. Aveva cucinato per due, ma consumato per uno; si era assicurata che ci fosse la coca-cola nella spesa ordinata online.  

«E tu, ricordi il tuo primo bacio?». 
Nora si girò all’improvviso. Angela sedeva sullo sgabello, le mani appoggiate su un diario privo di lucchetto, l’aria curiosa e quasi divertita, come se non ci fosse mai stata alcuna discussione: né tra loro, né in una qualsiasi chat al cellulare.
«Sì, lo ricordo bene»
«E com’è stato?».
Nora prese un piatto, tolse la pellicola e mentre lo scaldava nel microonde, versò della coca-cola in un grande bicchiere che porse ad Angela. Due minuti dopo, le porgeva un piatto di spaghetti al pomodoro.

«Fu uno di quei baci che ti fanno esclamare Wow. Lui mi dava ripetizioni di matematica e italiano. A differenza di mia sorella a scuola ero proprio negata. Stava salendo sul treno che l’avrebbe portato dalla sua famiglia, in un’altra città, e proprio quando stavo per allontanarmi dal binario, mi prese tra le braccia e mi baciò»
«Sembra la scena di un film romantico. Mamma, invece, ha incontrato dei veri casi umani! Forse toccherà anche a me…»
«Non erano casi umani, solo baci meno romantici».

Nora aprì il diario e lesse a voce alta del tizio che invece di baciare la madre sulla bocca, le aveva centrato il naso con la lingua. Di quando il bacio fu perfetto ma nulla di eclatante o di quando moriva dalla voglia di sciogliersi tra le braccia del ragazzo che le piaceva. Una volta era così agitata che morse il labbro di un tizio fino a farlo sanguinare. Ci fu un altro bacio, bello ma disastroso, e quelle furono le uniche parole con cui era stato descritto, poi Angela abbassò voce e sguardo, come se le parole davanti a lei si fossero afflosciate, gli occhi lucidi.
«Qui dice Il mio primo e vero bacio è stato dopo il divorzio, quando mi sono innamorata per davvero. Il giramento di testa, le farfalle nello stomaco, una stretta al cuore. È un bacio che non dimenticherò mai!».

Angela osservò il diario che aveva in mano. Ad eccezione di poche pagine, alcune erano state accuratamente oscurate con della carta da pacchi, un cordino e dello scotch.
«Quando potrò leggere il resto?»
«Quando sarai più grande…» rispose Nora mentre riprendeva il diario. Trattenne un bolla di nostalgia all’altezza della gola al ricordo della sorella che la notte scriveva i suoi pensieri, ignara che venissero letti di nascosto il giorno dopo con una velata e tenera gelosia. Riaprì il diario e lo piazzò davanti ad Angela, indicando un punto preciso.
«Questo era tuo padre».
«Scherzi?».
«Ora è tardi, vai a dormire»
«Vorrei restare ancora sveglia qui con te, a parlare».

Nora non insistette e si sedette di fronte a lei. Accadeva per la prima volta da quel giorno, dopo tre mesi, cinque giorni, quattordici ore e trentaquattro minuti.

Fine

L’anno del pensiero tragico

Mi sento inutile, come un pezzo di puzzle che non s’incastra da nessuna parte nel vasto pianeta chiamato terra. Non c’è la presenza del mio compagno a placare i pensieri che ogni tanto emergono nella mia testa, come gang pronte a scazzottarsi al calare del tramonto. Reggo in mano la confezione degli hamburger vegani che ho cucinato per cena e la fisso con titubanza, come se le scritte celassero il segreto di un tesoro nascosto.

Ho separato la parte di plastica dalla carta, secondo le regole del riciclaggio, come faccio sempre. Eppure, in quel momento, quel gesto che compio più volte alla settimana mi destabilizza: sto davvero contribuendo a salvare il pianeta? Lo sto rendendo un posto migliore come suggeriscono il buon senso e la legge? Credo ancora in un sistema che ha in sostanza imposto a molti di pagare per andare a lavorare?

Non c’è la presenza del mio compagno a placare i pensieri che ogni tanto emergono nella mia testa, come gang pronte a scazzottarsi al calare del tramonto. Reggo in mano la confezione degli hamburger vegani che ho cucinato per cena e la fisso con titubanza, come se le scritte celassero il segreto di un tesoro nascosto.

Ho separato la parte di plastica dalla carta, secondo le regole del riciclaggio, come faccio sempre. Eppure, in quel momento, quel gesto che compio più volte alla settimana mi destabilizza: sto davvero contribuendo a salvare il pianeta? Lo sto rendendo un posto migliore come suggeriscono il buon senso e la legge? Credo ancora in un sistema che ha in sostanza imposto a molti di pagare per andare a lavorare?

Ricordo ancora con amarezza la studentessa in lacrime davanti alla biblioteca comunale. Mentre camminavo nel centro città, il viso intrappolato in una fpp2, una donna dall’aspetto scialbo ma il tono di voce squillante, le intimava di non entrare e di lasciare i libri a lei. La ragazza aveva replicato che doveva studiare in preparazione a un esame, non aveva altro posto dove poterlo fare. Di tutta risposta, la donna aveva ripetuto di consegnarle i libri e che non poteva fare diversamente, era la legge. Punto. Ero inorridita dall’accaduto, eppure avevo proseguito in silenzio, senza farmi coinvolgere. Che cosa potevo fare?

Ora, invece, penso che avrei potuto volgere la mia attenzione alla giovane studentessa. Offrirle un caffè d’asporto, magari ospitarla a casa mia per qualche ora, lo spazio c’era ma chi mai farebbe studiare un estraneo in casa sua al giorno d’oggi? Non lo percepisco un atto spontaneo. O forse sono solo figlia di preconcetti e pregiudizi.

Incontro il mio debole riflesso alla finestra, la luce al neon della cappa alle mie spalle è ancora accesa. La mano sinistra stringe la carta, la destra la plastica. Questo è il mio contributo alla madre terra che ci ha regalato tanto quanto forse le abbiamo tolto. E se si stesse già vendicando di noi e del nostro egoismo nei suoi confronti? Forse questi ultimi anni sono solo un banco di prova per vedere la nostra reazione, un test per darci la possibilità di rimediare agli errori commessi e confermare che meritiamo un’altra chance. Se, però, devo basare la risposta sulle azioni dei politici, di cui noi siamo semplici estensioni, e sulle cause che ci spingono a promuovere, potrei benissimo buttare carta e plastica nello stesso bidone.

Alla parola “politica” mi viene da ridere e non lo considero un buon segno. Anzi, elaboro una teoria. Negli ultimi tempi abbiamo detto addio a personaggi che hanno segnato la storia o che ci hanno insegnato qualcosa, ma possiamo dire lo stesso dei politici? Possibile che siano perennemente sani? Forse entrare in politica è una gran bazza: diventi indistruttibile, forse addirittura immortale visti i lunghi mandati che si possono ricoprire più di una volta. Insomma, diventi un Superman immune persino alla kryptonite.

Secondo mia madre, l’unico modo per far sentire la nostra voce è votare. Eppure, perché mi sembra che il popolo sia solo un coro di voci che canta invano?
Devo rispettare l’ambiente e dare il mio contributo. Devo votare, sostenere un partito e supportarlo. E l’amore? Le amicizie? Le mie ambizioni, i miei sogni, i miei progetti? Mi sento all’improvviso ingannata.

Ho rispettato la legge, mi sono adattata ai cambiamenti dipesi da forze di causa maggiore: forse una distrazione in laboratorio, forse qualcuno che ha giocato a fare Dio, non lo sapremo mai. Ho messo da parte ciò che amo per concentrarmi su ciò che accadeva nel mondo e ho finito per mettere da parte anche me stessa; per seguire gli ordini che un gruppo di uomini in giacca a cravatta ha reputato giusto. Ho creduto in valori che non sono parte di me, ma ho scelto di chinare il capo a loro senza fiatare quando invece faccio storie per inginocchiarmi in chiesa.

Madre natura è ancora intera, ma i suoi abitanti sono riusciti a spaccare in due l’umanità. L’informazione è diventata un’arma usata per separare, allontanare e istigare un astio di cui, se ci interrogassero, non sapremmo nemmeno spiegarne il significato. Alcuni rapporti sono eclissati lentamente e litigare per un tradimento ora sembra una causa di poco conto. Ci siamo divisi con la stessa facilità con cui ho diviso carta e plastica della confezione di hamburger vegani.

Uscire dalla carreggiata imposta dalla società equivale a lanciare un epiteto di fronte al Vaticano per la maggior parte delle persone, ma quando arrivi al picco del tuo burnout, ti ritrovi a navigare in acque sconosciute e profonde che allontanarsi dallo stato attuale pare più pericoloso di entrare in guerra. Scruto l’esterno di casa dalla finestra e intravedo la sagoma dei tetti delle villette a schiera di fronte. Porto lo sguardo oltre e individuo un manto scuro che alla luce del giorno brilla come un tappeto di menta.

Quando ogni tanto prendo il caffè dal terrazzo, dopo pranzo, ammiro quella scena che pare quasi un dipinto a olio. Immagino la vita delle persone nelle case che spuntano come boccioli in fiore: chissà se anche loro si chiedono se il sistema ci stia aiutando o, al contrario, fottendo. Lascio correre i pensieri come foglie secche trasportate dal vento fino a quando i miei occhi si perdono oltre l’orizzonte dei colli.

Forse è ciò che dovrei fare. Prendere un paio di pantaloni, qualche t-shirt, due felpe, un paio di scarpe e una giacca a vento. Anche un ombrello. Dovrei guidare la mia auto ibrida oltre un confine e poi abbandonarla per iniziare una nuova vita. Coltivare la terra e apprezzarne i doni. Se avessi fatto così sin dal compimento dei miei diciotto anni invece di intraprendere una carriera che non fa per me, sarei una persona eccezionale, ammirata e forse persino emulata. Sarebbero però poche le persone a seguire questo mio stile di vita, privo di attrattiva per i politici e di superficiale interesse da parte delle regole della società; solo l’ambiente me ne sarebbe grato ma la mia sarebbe un’impronta minima.

Immaginate, per un attimo, se tale stile di vita l’avessimo fatto in molti in un lontano passato. A migliaia o centinaia. Saremmo persone diverse in grado di prenderci cura gli uni degli altri, di nutrirci con le nostre stesse mani, non avremmo bisogno di cercare la felicità. Potremmo addirittura asserire di aver superato Dio.

La porta d’ingresso si apre e il mio compagno mi saluta mentre tamburella le dita sul cellulare, la sigaretta stretta tra le labbra. La luce al neon si distorce e vedo solo in parte il mio riflesso. Mi accorgo di stringere ancora tra le mani carta e plastica. Soffoco un sospiro e li butto nei rispettivi bidoni.

Fine

Leucemia’s got talent!

Quando ho conosciuto per la prima volta la paura? Esattamente il 9 maggio 2019. Ne avrei fatto davvero a meno, ma lei si è presentata con insistenza e in una maniera del tutto inaspettata…

Non mi ha lasciato senza fiato perché mi avevano rubato l’auto o la borsa in un mio banale momento di distrazione. La paura che ho conosciuto io era perfetta quanto letale, perché mi si è piazzata davanti e si è presentata con una frase dalla musicalità impeccabile: «Anastasia Montebello, tu hai la leucemia».

Come ho reagito io? In quell’istante sono morta. Dentro. Una parte di me è svenuta ai piedi del tavolo, sotto gli occhi del medico dallo sguardo inespressivo, abituato a fare questi annunci come fosse Giuliacci che ci avvisa del maltempo.

Quando però ho ripreso possesso del mio corpo – o almeno di una parte di esso visto che per la maggiore era già nelle mani della “malattia del sangue” – non ho più visto nulla attorno a me. Sentivo solo me stessa parlare con lei.

«Leucemia, ma sei seria?» – Anastasia
«Ti sembro una che scherza?» – Leucemia
«No, no… è solo che mi pare strano. Insomma, ho solo trent’anni!» – Anastasia
«Cioè mi stai dicendo che non sono degna di prendere posto nel tuo corpo? Dovrei trovare residenza in una vecchia mummia del reparto geriatrico? Così mi offendi!» – Leucemia
«Scusa, cara mia, ma qui l’offesa sono io! Ma che ti ho fatto di male?» – Anastasia
«Tesoro, sinceramente nulla. Sei una brava persona, ma non puoi prendertela con me. Non decido io dove abitare. Penso che l’unica cosa da fare sia quella di convivere assieme. Che ne pensi?» – Leucemia
«Non mi pare di avere molte alternative…» – Anastasia
«Ti sembrerà strano detto da me, ma un’opzione ce l’hai» – Leucemia
«Quale sarebbe?» – Anastasia
«Non arrenderti a me. Sono fetente, cattiva, mi odierai con tutta te stessa, ma non smettere di credere nella vita. Fidati…» – Leucemia

…e così ho fatto. E sono ancora qui. Quella stronza aveva ragione…

Questa storia è composta da 8 brevi aneddoti trasformati in racconti. E seguono la storia vera, e il percorso, di Anastasia: dalla scoperta della malattia fino alla ricerca di un donatore per il trapianto di midollo osseo.

Leggi l’episodio 1 – “Pronti.Partenza.Respira

Papà, dove sei?

“La morte è l’unica certezza della vita”.
Molte volte si scherza su questa affermazione, ma è vera al 100%.

E fa male quando hai un incontro faccia a faccia con lei.
È immune alle tue emozioni, se ne sbatte senza alcun riguardo. Puoi supplicare quanto vuoi, ma lei non cambia idea; almeno non è ipocrita, questo è certo! Quando leggiamo in un giornale una tragedia o ci comunicano la morte di qualcuno, proviamo dispiacere, lo troviamo ingiusto ma poi tutto torna come prima, bene o male. E quando è una persona accanto a noi a scomparire all’improvviso, la prima reazione non è il pianto, ma l’incredulità. Lo stupore ha la meglio per pochissimi secondi e solo nel momento in cui ci crediamo per davvero, allora tutto diventa realtà. L’unica differenza è che non aspetti con ansia la morte per spacchettarla e giocarci assieme sotto un albero di Natale.

Perdere qualcuno è difficile e impossibile da evitare. Nonostante tutte le scoperte ed evoluzioni che l’uomo ha raggiunto, non ha mai avuto la meglio su di essa. E forse è meglio così perché viste le produzioni cinematografiche ci ritroveremmo in scenari pieni di zombie, atmosfere apocalittiche e un’umanità molto ostile. L’unica cosa da fare è affrontare la situazione perché la vita, quella gran simpaticona, se ne infischia di cosa abbiamo perso, sia esso un mazzo di chiavi, un amore, un’amicizia. Vita e morte tirano dritto senza guardarsi indietro come il peggiore dei criminali, pestando sull’acceleratore e gridando un bel “Ciaone” mentre ignorano lo specchietto retrovisore. Di proposito.

Atto I
Ottenuto il diploma, come il più stanco dei guerrieri, Frankie depone le sue armi, corrispondenti a zaino e libri, in un baule che non intende riaprire mai più. Una guerra durata oltre cinque anni a casa di due sconfitte, ovvero bocciature che ha causato lui stesso per la poca voglia di interagire con insegnanti e studio, l’hanno tenuto lontano dal traguardo, ma finalmente può definirsi concluso questo percorso obbligatorio previsto dalla legge. Ora può iniziare la ricerca di se stesso e di un lavoro; e al diavolo la matematica, la letteratura e le lezioni di ginnastica. 

Nonostante i tanti divertimenti, passare sei giorni alla settimana in un’aula contro la sua volontà sentendosi dire “…è per il tuo futuro, figliolo…” lo aveva portato al limite, ma aveva pagato il prezzo per la sua libertà e ora si godeva ciò che rimaneva dell’estate dopo aver superato gli esami, pensando a come iniziare la sua nuova vita. Si sentiva come Morgan Freeman nel film Le ali della libertà, ma non aveva nessun amico da raggiungere, eppure aveva il desiderio di iniziare tante cose.

Ispirato dai vari disegni che faceva su carta ma soprattutto al computer, capì presto che l’idea di diventare un grafico gli piaceva molto. Iniziò con lavori in settori completamente diversi, ma a tempo perso realizzava qualche progetto di grafica per qualche azienda fino a ritrovarsi, ironia della sorte, anche dietro a una cattedra come insegnante. Il sapore dell’indipendenza, però, era più appetitoso di una pizza appena sfornata e il piano dell’appartamento in cui viveva con il padre e la sorella era diventato col tempo il suo piccolo studio. Sapeva che era solo all’inizio della sua carriera, ma era una buona base; quello era il suo piccolo angolo di felicità.

Atto II
Una sera di novembre il telefono di casa squillò. Frankie e la sorella non si stupirono nel ricevere una chiamata ad un’ora tarda; con molta probabilità era il padre che li chiamava dall’estero dove si trovava per un periodo di vacanza. Dopo la pensione, aveva continuato a fare qualche lavoretto, ma ogni tanto si concedeva il classico periodo di stacco per godere del tempo libero che aveva.


Frankie raggiunse la sorella, pronto per il suo turno di saluti e soliti convenevoli, ma l’espressione della ragazza era diverso. La fronte aggrottata faceva pensare a una connessione poco stabile, ma i suoi occhi parevano essere sotto il potere di un sortilegio. Frankie si avvicinò per prendere possesso del telefono, ma la sorella gli diede le spalle. Una mano copriva la bocca e l’espressione prima basita ora appariva irrequieta, come se un rumore l’avesse svegliata di soprassalto. Frankie prese con forza il telefono.


«Chi parla?», chiese. Il tono di voce alto rimbombò in tutta la stanza. Quella che udì non era la voce del padre, bensì di uno sconosciuto che all’improvviso tentennò, come se avesse esaurito le parole con la sorella.
«…mi dispiace molto, ma vostro padre è…». Ci fu un momento in cui Frankie non capì se l’uomo avesse riattaccato o se la connessione fosse caduta. Sospirò forte come un bufalo pronto all’attacco, ma poi lo sconosciuto riprese a parlare. 
«Mi dispiace dare questa brutta notizia, ma vostro padre è morto». 

La morte è una farabutta che nessuno vorrebbe incontrare. Mai. Ma se sei tu a cercarla… bè, questa è tutta un’altra storia…
Un uomo, un padre, un grande lavoratore, si era appena tolto la vita.

Atto III
Quando muore qualcuno a te vicino, piangi e ripensi ai bei momenti passati assieme. Consoli e ti fai consolare. Prendi parte al funerale che hai organizzato e mentre i giorni passano, cerchi di andare avanti perché, si sa, la vita ovviamente continua, senza alcuna riserva.

Quando una persona si toglie la vita, però, non smetti di chiederti il perché l’abbia fatto. La domanda risuona nella tua testa di continuo, come un loop da cui non riesci a uscire. Ed era ciò che si era innescato nella testa di Frankie. Dopo la telefonata, la sorella piangeva di continuo, ma il viso di Frankie non era affatto distrutto dal dolore.

Era come se fosse in attesa di ricevere la reale versione della morte del padre: un furto, un incidente, qualsiasi altra cosa ma non un omicidio premeditato verso se stesso; non sapeva cosa pensare. Era come se avesse appena letto una news online che aveva tutta l’aria di essere solo una grande bufala. Abbracciò la sorella e con molto calma, la mise a letto, poi prese una birra, si accese una sigaretta e salì al piano superiore, nel suo studio, e si mise in terrazzo. Immerso nel silenzio e l’oscurità della notte, fissò il cielo provando inutilmente a spegnere il cervello.
“E ora che cosa facciamo?”, pensò. Nessuna risposta. Nemmeno la vita aveva voglia di rispondere…

Non guardò l’ora, non aveva nessun modo di capire quanto tardi fosse. Lasciò la bottiglia vuota a terra e spense la sigaretta premendola nella terra fredda dentro il vaso di una delle tante piante del terrazzo, poi si sdraiò a letto.
“È morto per davvero?”, pensava.
“E ora cosa dobbiamo fare?”, pensava ancora. 
“Dovrei disperarmi? Preparare la colazione a mia sorella? Scrivere ad un amico?”. Era così sopraffatto che non ricordava nemmeno se avessero avvisato la madre. Immaginò tutta la scena dall’inizio, da quando avevano ricevuto la chiamata, ma era come se alcuni momenti si fossero azzerati. Tutto era confuso e non aveva un senso.

Come una reazione a catena, si ritrovò a pensare agli ultimi momenti passati assieme al padre poco prima della sua partenza. Non era contento del divorzio, non l’aveva mai pienamente accettato, ma ciò che lo opprimeva di più era essere irrequieto, come se gli mancassero delle cose da fare e non avesse più né tempo, né occasione per realizzarle. Frankie ricordava i suoi sfoghi, ma non li aveva mai visti come preliminari per un suicidio. Il padre si annoiava spesso, sentiva di voler fare qualcosa di nuovo ma niente di ciò che faceva era sufficiente.

Percepiva una gran voglia di ricominciare, come di una rinascita e un viaggio forse poteva essere il primo mattoncino per iniziare una nuova avventura, ma qualcosa evidentemente era andato storto nella sua testa e aveva chiamato a sé la più stronza degli stronzi. I dettagli non si potevano conoscere. Quanto tempo aveva trascorso su quel terrazzo? Cosa aveva fatto per tutto il giorno? E il giorno prima? Aveva cenato? Aveva scavalcato la ringhiera o aveva fatto leva sul suo peso e la forza di gravità aveva fatto il resto? Il suo ultimo pensiero lo aveva dedicato ai figli?

Atto IV
Per Frankie iniziò un periodo di discesa verso il nulla. L’angolo di felicità era diventato la dimora della tristezza perché tutto in quella casa ricordava il padre e il terribile atto che aveva compiuto. La morte di una persona arreca dolore, il suicidio forse ancora di più, ma la questione più sconcertante è che non puoi concederti il lusso di piangerla in santa pace perché la burocrazia bussa alla tua porta, ti cerca al telefono, ti contatta via email. Ogni portale online e ogni contatto telefonico sono presi di mira perché all’improvviso non sei più un figlio che ha perso un padre, ma sei il nuovo punto di riferimento a cui scaricare eventuali debiti o eredità e a cui inviare fatture per pagare il funerale e portare a termine altre faccende di cui non avresti mai pensato di occuparti.
E non puoi tirarti indietro.

Frankie si sentiva il peso del mondo sulle spalle perché era lui l’uomo di casa ora. Aveva preso in mano la situazione per contenere il dolore della madre, ed ex moglie, oltre a quello della sorella. Aveva convinto quest’ultima a proseguire i suoi studi e a viaggiare come aveva stabilito di fare da mesi. Aveva detto alla madre di non preoccuparsi ed era volato all’estero a nome di entrambe per gestire le questioni familiari. Aveva tante domande in cerca di risposta, ma lo sconosciuto del telefono, rivelatosi il portiere dell’edificio, e i vicini non furono di alcun aiuto. Un uomo, a loro avviso senza alcuna ragione, si era ucciso. Punto.

Anche se ciò che lo assillava di più era la reazione della madre a cui non aveva mai chiesto spiegazioni. Perché non aveva pianto nemmeno una lacrima quando aveva appreso la notizia della morte dell’ex marito? Perché aveva consolato i figli e ascoltato il resoconto della telefonata come fosse un riassunto di una telenovela? Pareva una donna sopravvissuta alla guerra, immune a qualsiasi emozione o dolore. Avrebbe voluto chiedere spiegazioni, ma scelse di non farlo.

Se da un lato temeva le risposte, dall’altra non aveva tempo di investigare al riguardo. Il futuro lavorativo che si stava creando, la voglia di realizzarsi e la ricerca di se stesso erano stati appartati per gestire questioni più grandi di lui. Era segretamente geloso della sorella che studiava e trovava la sua dimensione nel mondo mentre lui era rimasto fermo nello stesso punto. Sentiva un forte senso di responsabilità che gli impediva di prendere altri impegni e di farsi una vita sua appieno, altrove, con qualcun’altro.

Senza rendersene conto, il tempo passava e lui portava avanti la sua vita a grandi falcate, come se fosse obbligato a bypassare alcuni momenti della gioventù per assenza di tempo.

Un’eredità può essere una vera fortuna, ma il altri casi può rivelarsi un totale caos e se Frankie si era immaginato per un attimo come Simba, diventando il re della giungla, ora poteva dirsi fortunato se l’agenzia delle entrate non lo tartassava di raccomandate. Nei momenti in cui i pensieri avevano la meglio, parlava al padre ma le sue parole erano puro astio.

“Perché ti sei ucciso? Perché hai rovinato la mia vita? Stavo creando il mio futuro, ero felice: era proprio necessario uccidersi?”. A volte si sentiva meschino, ma non riusciva a non odiarlo…

Atto V – finale
L’estate era nel pieno della sua esplosione. Faceva troppo caldo per uscire, ma ne valeva la pena piuttosto di rimanere confinati tra divano e televisione. Le giornate si erano allungate, come in ogni stagione estiva, e c’erano molte più distrazioni: feste, sagre, eventi. Ogni motivo era buono per uscire di casa e pensare ad altro. Frankie aveva risolto la maggior parte delle faccende in seguito alla dipartita del padre, ma non aveva ancora ripreso il pieno controllo della sua vita.

Era come se l’uomo che lo aveva cresciuto, e che gli aveva trasmesso la passione per le piante e la cucina, gli avesse ceduto un testimone corrispondente a un carico di responsabilità nei confronti della famiglia. Non era solo un fratello maggiore, ma anche un riferimento per la sorella in ogni sua scelta, mentre con la madre, ad ogni sua telefonata, sentiva l’impellente bisogno di essere utile e finiva per aiutarla anche solo per cambiare una lampadina quando in realtà poteva farlo da sola. 

Un pomeriggio, mentre cercava il gatto, si ritrovò a fissare la camera del padre dalla soglia e rimase basito da ciò che vide. Le lenzuola erano state cambiate, i libri che aveva letto o che forse doveva terminare erano ancora sul comodino, la finestra era aperta a ribalta e le tende tirate in parte per far entrare luce, ma soprattutto non c’era un filo di polvere. Per Frankie era come se nulla, in fondo, fosse mai cambiato. Dentro si sé pensava che il padre prima o poi sarebbe tornato e quel pensiero lo rattristò e infuriò al tempo stesso. Doveva uscire di casa. Subito.

Mentre si aggirava tra uno stand e l’altro del grande festival di musica, alla ricerca dei suoi amici, Frankie si sentiva irrequieto. Non erano i pensieri ad assillarlo, bensì la sete. Era una giornata molto calda: la maggior parte dei ragazzi giravano in canottiera o a petto nudo, alcuni erano persino scalzi. Le ragazze che si muovevano agitate lo ipnotizzavano: quasi nessuna indossava il reggiseno e non ricordava di aver mai visto così tante gambe scoperte; sembrava la sagra del piacere e non un concerto di Goa Gil. 

I suoi occhi cercavano qualche volto amico, fino a quando non si arrese e si recò alla tenda dove aveva pranzato qualche ora prima, alla ricerca di acqua fresca. Si guardò attorno più volte, poi all’improvviso, come fosse Alice che s’imbatte in una boccetta con scritto “Bevimi”, notò una bottiglia su un tavolo. Non si chiese come mai una bottiglia fresca, nonostante il caldo soffocante,  fosse in bella vista: aveva dannatamente sete. Mandò giù diverse sorsate, gli sembrava di inghiottire una cascata, ma poi un urlo lo interruppe e si spaventò come se gli avessero appena puntato un’arma alla testa. Un ragazzo con dei lunghi rasta ed enormi aloni di sudore su collo e ascelle gliel’aveva strappata di mano. «Porca puttana, ora si che sono cazzi amari…».

Il prato era immenso e la musica del dj Goa Gil vibrava persino nelle vene di Frankie da quanto era forte e magistrale. Gli sembrava di ballare in obliquo, sorretto dalle braccia delle persone accanto a lui. Era come se stesse lentamente ruotando indietro per compiere un giro a 360 gradi; forse era davvero così. Pensò che quella giornata fosse spettacolare e iniziò a saltare in alto, incapace di fermarsi. I volti che incontrava gli sorridevano e tutti lo imitavano, come se fosse il punto di riferimento per migliaia di persone accorse lì solo per ballare con lui; a ritmo di musica trance. Non appena chiuse gli occhi, tutto si amplificò all’istante, come se l’assenza di vista permettesse di saltare ancora più in alto e quando riaprì gli occhi, vide che toccava le nuvole e che un’immensa luce bruciava dolcemente la sua pelle.


“Non stavo così bene da tempo… mi sento così felice”, pensò. “Ti ho odiato così tanto, papà… tanto davvero…”. All’improvviso non saltava più, ma fluttuava nell’aria e fissava la folla che lo incitava a tornare indietro, a ballare ancora tutti assieme. Frankie fissò il cielo un’ultima volta, attratto dalla sua disarmante bellezza: non aveva mai visto un’immagine così pacifica, ma sentiva allo stesso tempo una forte attrazione verso il terreno e ancor prima di decidere quale direzione seguire, si sentì di nuovo tirare, ma quando i suoi piedi toccarono terra, non c’era più nessuno attorno a lui.
Dove erano finiti tutti quanti?

«Come sta?», chiese un ragazzo.
«Dorme. L’abbiamo scosso fino a farlo vomitare il più possibile», rispose il ragazzo con i rasta.
«Meno male… che storia, ragazzi! E poi chi ha lasciato una bottiglia d’acqua piena di acidi sul tavolo alla portata di tutti?», chiese allargando le braccia a enfatizzare la serietà della sua domanda. «Era praticamente a cento e passa acidi dall’aldilà!», continuò poi.
«Non ne ho idea, so solo che Frankie è stato proprio fortunato. Qualcuno lassù deve amarlo davvero…».

Fine

Cara amica: si può fare!

“La vita è un magnifico percorso in salita”. E qui mi immagino la vita stessa, nelle sembianze di una persona piegata in due dal ridere, le lacrime agli occhi e un principio di singhiozzo in arrivo.

E come darle torto? Alcuni dicono questa frase con un tono tale da far pensare che, di lì a poco, un sottofondo musicale fatto di archi e violini emerga a volume sempre più alto, ma lo sappiamo bene che è una stupidaggine e che è evidente che queste persone vivano su un altro pianeta o facciano uso di sostanze davvero, davvero molto buone; e sarebbe interessante conoscere il nome del loro pusher. Un classico!

La vita è tutto fuorché una magnifica salita.
È ribelle come Angelina Jolie in Ragazze interrotte.
È romantica come Leonardo DiCaprio in Romeo & Giulietta.
È pazza come Michael Douglas nel film Un giorno di ordinaria follia.
È determinata come Erin Brockovich nell’omonimo film.
È divertente come tutti i film American Pie e ironica come i capolavori di Woody Allen.
Ed è spaventosa come il film Non aprite quella porta o peggio, come tutti i film sugli esorcismi!

Insomma, è tutto fuorché una magnifica linea retta che punta verso l’alto. È una versione elevata al quadrato – moltiplicata per tipo un miliardo – delle montagne russe piazzate nel luna park più assurdo che conosciamo con il nome di terra.
Quando è in vena ci coccola e ci vizia, quando le girano i cinque minuti sono cazzi amari!

Atto I
«Ecco dov’eri sparita!», disse Veronica mostrando un gran sorriso. Sorrideva sempre, come se alla nascita le avessero inserito una precisa impostazione. Giulia la invidiava per questo: a differenza dell’amica, il suo sorriso pareva sempre più simile a una smorfia.
«Stavi scrivendo? Ora?».
«Non c’è un momento giusto per scrivere. Ecco perché ho sempre con me carta e penna».
«E cosa stavi scrivendo?».
«Le mie solite e bellissime cazzate!».
«Ma quali cazzate, tu scrivi proprio bene Giulia e prima o poi qualcuno se ne accorgerà!».
«Ci sono giorni in cui non ci spero più, eppure mi ritrovo sempre a scrivere. Come ora, nel giardino esterno di una discoteca. A proposito, mi sto annoiando da morire!». 

Veronica accentuò il suo sorriso. Le pareva strano che Giulia non si fosse ancora lamentata, anche se aveva tenuto botta più del solito rispetto ad altre volte.
«McDonald’s?», propose Veronica.
«Pensavo non me l’avresti più chiesto!», rispose l’amica, «Scappiamo via da questo asilo, mi sento la madre di ogni bamboccio che vedo».
Erano quasi le tre del mattino quando si avviarono a piedi verso il fast food più famoso del mondo. Avvolte nei loro piumini a buon mercato, affrontavano un vento freddo pur di non trascorrere un minuto di più nel locale alle loro spalle.
«Che serata, eh! Ancora non capisco come mi hai convinto ad andare a ballare».
«Dai, ogni tanto ci sta una serata diversa dal solito».
«Diversa dal solito? Non abbiamo resistito nemmeno due ore in discoteca che siamo già in un fast-food. Tesoro, questo non ti dice niente su come siamo messe? O meglio, su quanto siamo cambiate? Credo che questo sia il nostro addio ufficiale alla vita da discoteca e la conferma che siamo ormai vicine ai quaranta, fidati».
«E da quando siamo così noiose?».

«Forse volevi dire da quando siamo così sagge, non è vero?».
Veronica scoppiò a ridere e per poco non rovesciò il cappuccino sulla brioche al cioccolato di Giulia che cercò di proteggerla con le mani come Smigol faceva con il suo tesssoro. Era diventata molto golosa e Veronica l’aveva ben capito quando un giorno, un orsetto gommoso al gusto fragola era caduto tra il sedile e il cambio manuale, e l’amica aveva accostato lungo una tangenziale pur di recuperarlo; e poi lo aveva pure mangiato!

Ad ogni modo, era una serata come un’altra: chiacchiere, cocktail e cappuccini con brioche, risate davanti a video o post esilaranti. Solo una cosa era all’improvviso cambiata e Giulia la aveva notato subito. Le labbra leggermente serrate, i muscoli del viso tesi come fossero tenuti fermi da invisibili elastici, gli occhi abbassati per evitare di incrociare quelli dell’amica. Il sorriso di Veronica, in quel preciso momento, non era lo stesso di sempre.

Atto II
«Che succede?», chiese Giulia.
«Niente…».
«Uhm, lo sai che se dici niente a un’amica confermi che c’è qualcosa che non va. Un uomo non lo capisce, ma una donna, invece, sì. Avanti, sputa il rospo!». Veronica iniziò a giocherellare con il bastoncino di legno, mescolando il poco cappuccino che rimaneva nel bicchiere di carta.
«Pensavo a quello che hai detto poco prima… Al fatto che siamo ormai quarantenni…». Veronica lasciò la frase incompiuta sotto lo sguardo curioso di Giulia che la fissò scrollando le spalle come fosse un normale cenno a proseguire. Veronica sapeva che l’amica non si sarebbe arresa facilmente. Aveva rischiato di ustionarsi le mani pur di proteggere una brioche e quasi inchiodato l’auto mentre andava ai cento all’ora per salvare una caramella; e non avrebbe di certo lasciato tornare a casa l’amica senza il suo solito sorriso.

«Guardami, che cosa ho combinato di speciale nella vita fino ad ora?». Giulia non rispose, il suo sguardo pareva intento ad analizzare la domanda che aveva appena sentito.
«Dai, Giulia, sii onesta con me: cosa ho concluso di decente nella mia vita finora? Controllo fatture, bilanci e conti bancari da quindici anni e non so fare nient’altro! Arrivo a casa sempre stanca, non ho né tempo, né energie per dedicarmi ad altro. Sono il perfetto esempio dell’inconcludenza! Guarda qui: non ho più voglia di questo cappuccino e ne è rimasto appena un dito. Visto? Non riesco nemmeno a concludere una cosa così semplice. Sono destinata a morire come una vecchia contabile con la gobba e gli occhiali da vista spessi!». Giulia finì l’ultimo boccone della sua brioche senza reagire alle parole dell’amica. Era come se avesse appena ascoltato le ultime notizie del telegiornale e fosse pronta per sparecchiare la tavola. Ora era Veronica quella che scrollava le spalle, irrequieta come un toro alla vista del colore rosso.

«Quindi? Non dici nulla? Sono così patetica?».
«Veronica, calmati! E quale patetica? Si può sapere perché dici una cosa del genere? Non capisco».
«Me lo dicono tutti che sono inconcludente! Inizio una cosa ma poi non la porto a termine. Corso di fotografia. Corso di massaggi. Corso di degustazione dei vini. Corso di pittura. Corso per la gestione dell’ansia. Faccio tanti corsi, ma poi tutto finisce con l’ultima lezione. È come se ricominciassi da capo ogni volta e inizia ad essere frustrante…».
«Frustrante per te o per chi ti sta attorno?», chiese Giulia.
«Scusa, che cosa intendi?».
«Chi sono queste persone la cui opinione pare assolutamente fondamentale?».
«Persone che conosco, amici…».
«Amici…? Senti, Veronica, non capisco perché dai così peso alle opinioni altrui. Ci conosciamo da quasi dieci anni e non ho mai pensato che tu fossi inconcludente o patetica. Sono anni che fai corsi ma dove sta scritto che al termine devi portarli avanti in altro modo? Se non lo fai non succede nulla e comunque non sei inconcludente. Se sono indecisa su quale vino scegliere, ci sei tu. Se ho bisogno di una foto decente, ci sei tu. Se voglio comprare un quadro, ci sei tu. Se mi fa male la schiena, diavolo se so che ci sei tu per alleviare le mie pene e se vado in panico, corso o non corso, ci sei tu. Devo aggiungere altro?». L’amica la fissò inclinando la testa, ancora poco convinta delle parole di Giulia che invece le aveva dette in maniera perentoria, quasi fosse un generale incaricato di dettar legge. 
«È che le loro parole mi hanno colpito e ferita al tempo stesso. E poi come spieghi questa mia sensazione di incompletezza? Io credo che abbiano ragione. Mi è stato detto che se avessi risparmiato soldi invece di fare tutti quei corsi, a quest’ora avrei una Ferrari parcheggiata in garage».

Atto III
Veronica fissò Giulia senza dire nulla. Se da una parte alcune persone giudicavano la sua continua indecisione, dall’altra rifletteva su quanto aveva appena sentito; una parvenza di verità ci stava tutta, in effetti. Fissò il cappuccino ormai tiepido, ma non diceva ancora nulla. Nella sua testa una coda di pensieri peggio di quella della Salerno Reggio Calabria. 
«A che cosa pensi?», chiese Giulia.
«Penso che la vita sia assurda, a volte non so proprio che cosa fare!», rispose Veronica.
«La vita è un treno che non si ferma mai, a volte rallenta, ed è in quei momenti che bisogna cogliere le occasioni».
«Bè, allora io le ho mancate tutte!».
«Sei troppo severa con te stessa, ma cosa te lo dico a fare, sono severa pure io con me stessa. Troppo…». Veronica appoggiò il bicchiere e si sporse in avanti, l’aria di chi sta per ascoltare un succulento gossip.
«Era per dire che non sei l’unica ad avere pensieri per la testa, Veronica! Non cambiamo argomento, stiamo parlando di te e delle paranoie che ti affliggono».
«Giulia, non so che cosa fare».
«Io so che cosa devi fare ed è molto semplice!». Veronica alzò lo sguardo così velocemente che Giulia per poco non sobbalzò sulla sedia. Non si sentiva più la contabile affranta, ma un’avventuriera che stava per ricevere in dono una mappa con l’esatta posizione di un prezioso tesoro, anche se più che un Indiana Jones si vedeva come Dora l’esploratrice! Trattenne l’entusiasmo e si rivolse all’amica con un tono apparentemente annoiato.
«Dimmi pure…».
«Devi fare altri corsi».
«Scusa, mi stai prendendo in giro?».
«Certo che no! Ti pare?».
«Ancora corsi?».
Se vuoi capire cosa ti appassiona per davvero è un’ottima strada».

Veronica alzò gli occhi al cielo, lo sguardo perso nel vuoto. La mappa del tesoro ora aveva la parvenza di un inutile straccio con una spennellata di rosso a forma di “X” in un punto qualunque.
«Insomma, come puoi sapere cosa ti piace o in cos’altro sei brava se non fai nulla per capirlo? E poi chi sono queste persone che ti dicono che sei inconcludente? Tesla? Richard Branson? J.K.Rowling? Forse visti i loro traguardi, la loro opinione richiederebbe una certa attenzione, ma in ogni caso nessun giudizio deve minare la tua fiducia. E poi hai mai pensato che forse non hai ancora trovato la cosa che ti piace per davvero? Non tutti la trovano al primo colpo e se non fai più tentativi, non la scoprirai mai. Questo è poco ma sicuro!».
«Il punto è che dicono…».
«Il punto è che devono stare zitti! C’è qualcosa che ti piace fare? Tra tutte le cose che hai provato, intendo».
Veronica guardò Giulia come se ne avesse davanti una dozzina, gli sguardi intimidatori in attesa di risposta, e non sapesse quale fosse quella a cui rivolgersi.
«Mi piace dipingere, ma…».
«Bene, allora fammi un quadro!».
«Come scusa?».
«Hai fatto un corso di pittura! A quanto pare ti piace, quindi… fammi un quadro. Hai un mese di tempo».

Atto IV
[Giulia]
Mentre rientrava a casa, Giulia era felice di aver sollevato il morale dell’amica. Il solito sorriso era tornato al suo posto: missione compiuta! Eppure, un sottile velo di tristezza l’avvolgeva dalla testa ai piedi e, ironia della sorte, si sentiva col morale a terra che Veronica, in confronto, era un’esplosione di energia.

Quando si trattava di motivare gli altri, trovava sempre le parole giuste, ma quando pensava a se stessa, l’unica voce che rimbombava nella sua testa era quella che le diceva che poteva fare di più. Pensava che alcune buone occasioni le fossero capitate – il famoso treno che rallenta ad un certo punto della vita – ma riteneva di non aver fatto abbastanza per godere appieno di quelle chance e anche se non lo aveva ammesso a Veronica, anche per lei raggiungere i quaranta era un traguardo che incuteva una certa ansia. Aveva un lavoro discreto. Un grazioso monolocale. Un conto bancario non male, eppure percepiva che mancava un tassello per sentirsi completa.

E a quel punto emerse un dubbio: forse le sue parole non avevano avuto alcun effetto. Forse Veronica non avrebbe dipinto nessun quadro.

[Veronica]
La prima cosa che fece Veronica non appena arrivò a casa, fu di appoggiare borsa e giacca sul divano ed entrare nella camera che fungeva da studio/magazzino dove buttava tutto ciò che non ci stava altrove. I suoi occhi si muovevano come quelli di un gatto attratto da una luce in continuo movimento. Prese in mano alcuni barattoli di colore, poi cercò i pennelli e dispose tutto davanti a sé su un tavolo bianco.

Si voltò di nuovo ed esaminò quante tele avesse: il risultato fu zero. Non si sorprese più di tanto. Quelle che aveva acquistato le aveva usate durante il corso e poi, giunta l’ultima lezione, come da tradizione, aveva smesso di acquistare materiale. Prese il cellulare per confermare gli orari di apertura del negozio dove si era rifornita e decise che l’indomani sarebbe andata ad acquistare una tela.

Le parole di Giulia l’avevano risvegliata da uno stato rem in cui ignorava di essere finita e mentre fissava il soffitto debolmente illuminato dalle luci dei lampioni, la coda di pensieri in stile Salerno Reggio Calabria sparì per lasciare spazio a una sola domanda. “E ora che cosa dipingo?”.

Atto V – finale
«Pronto!», rispose Giulia con un tono particolarmente felice.
«Ciao Giulia, come va?».
«Bene, dai, sono in centro. Serata di scrittura».
«E cosa scrivi di bello?».
«Le mie solite e bellissime cazzate, dovresti saperlo».
Veronica rise e in quel momento Giulia immaginò il suo sorriso, doveva essere proprio luminoso, ma qualcosa la fece voltare alle sue spalle. Era come se la telefonata avesse uno strano richiamo o forse era solo la connessione ad essere pessima: colpa dell’imponente Basilica Palladiana?
«Dove sei?», chiese Veronica.
«Al solito locale in Piazzetta delle Erbe».
«Ah, sì, ora ti vedo», e in quel momento riattaccò, senza distogliere lo sguardo da Giulia che, invece, continuava a guardarsi attorno curiosa, come se di lì a poco dovesse correre per urlare “Tana per Veronica” dopo averla individuata nel suo nascondiglio.

Avvolta nel suo piumino nero, camminava verso il locale con la stessa spavalderia che probabilmente aveva mostrato Alessandro Magno durante le sue molteplici conquiste e non appena si fermò davanti a Giulia, le porse un oggetto incartato con vecchie pagine di giornali dalla forma rettangolare e una dimensione che oscillava tra i trenta o quaranta centimetri per lato.

«E questo che cos’è?».
«Il tuo quadro».
«Stai scherzando?», chiese Giulia.
«Niente affatto. Tu mi hai dato un mese di tempo per dipingere qualcosa. E l’ho fatto!».
Veronica non ci poteva credere. Non era mancanza di fiducia nell’amica, solo non pensava che l’avrebbe presa sul serio. Sentì il petto scaldarsi e una bellissima sensazione salire fino alla gola. Era commossa.
«Aprilo quando sei a casa, da sola. Sappi solo che è così che io ti vedo». Si salutarono con un forte abbraccio, poi Giulia rientrò nel locale per la serata di scrittura e Veronica sparì oltre la scalinata della basilica.

Poco prima di mezzanotte, Giulia si ritrovò seduta sul letto a stringere il pacchetto che conteneva il quadro che Veronica aveva dipinto per lei. Era molto curiosa ma voleva godere ancora qualche secondo di quella bellissima agitazione che si crea quando stai per ammirare la concretezza di un piccolo sogno.

Cercò una qualsiasi piccola apertura tra i vari pezzi di giornale e, lentamente, ruppe la carta facendo attenzione a non toccare il quadro. Si accorse di averlo aperto dal lato rovescio e la cosa la intrigò ancora di più perché aspettò di liberarlo del tutto dall’involucro, poi lo strinse forse tra le mani e dopo pochi istanti, lo girò.

“Questo è di gran lunga migliore di una Ferrari…”, pensò.

Fine

Uno sclero di troppo!

Chi ci fa ridere e piangere più di tutti, a volte allo stesso tempo?
Chi ci stupisce all’improvviso, stravolgendo i nostri piani?
Chi ci fa scherzi di continuo, uscendone sempre impunito?
La risposta, se ci pensate, la conoscete bene: la VITA.

Mentre siamo nel posto più sicuro al mondo, ci sfrattano lasciandoci nudi e tra le braccia sconosciute di una persona vestita con un camice monouso che ci passa da una postazione all’altra fino a quando, ormai esausti di urlare la nostra indignazione, veniamo cullati da una persona più sconvolta e distrutta di noi. E a quel punto capiamo di non essere soli al mondo.


Gli occhi di quella persona ci guarderanno per il resto della nostra vita. Alcuni perderanno la loro magia, ci abbandoneranno. Altri, invece, ci osserveranno sempre, per proteggerci.
A volte, però, nonostante tutte le cure e le attenzioni, gli occhi non possono percepire il dolore di una persona. Non perché non se ne accorgano, ma perché a volte il dolore si manifesta così lentamente che solo una paralisi a metà del corpo conferma che qualcosa non va e che la vita, amata e controversa quale è, ha davvero un subdolo modo per dirti che oggi le cose cambieranno…

Atto I
A un mese dalla scadenza del contratto di lavoro in una ditta di autonoleggio, le cose cambiarono radicalmente. Giulia aveva uno strano presentimento e nonostante le avessero confermato il rinnovo del posto di lavoro, a voce, qualcosa nella sua testa continuava a farla dubitare. Le risposte semplici ma evasive, il capo che la cercava meno del solito, il sorriso spezzato di alcuni colleghi con cui di solito scherzava davanti alla macchinetta del caffè. Era come se fosse tornata al suo primo giorno di lavoro, con la differenza che la conoscevano molto bene. E, ironia della sorte, a far venire a galla la verità, fu una giovane ragazza che si presentò in un normale giorno di lavoro per fare un colloquio. E nella testa di Giulia, partiva il primo vaffanculo di quella giornata.

Una lite scoppiata inizialmente al telefono, proseguì in maniera drammatica dal vivo. Giulia discuteva con il suo capo che non pareva preoccupato per l’ambigua situazione che si era creata. Era come se tutti stessero recitando un ruolo e lei fosse l’unica ignara di quale fosse il copione.

Ad ogni modo, non si riuscì a raggiungere alcun accordo e la discussione rimase in sospeso. A quanto pare il capo non aveva nulla da dire, per lui era il destino a essere ingiusto, non lui. Il secondo vaffanculo era scoppiato nella testa di Giulia che prese le sue cose e se ne andò, delusa e amareggiata. E la sera, dopo aver gridato nella sua testa un terzo vaffanculo perché il semaforo era diventato rosso a mezzo metro da un incrocio, ne arrivò un altro quando era chiusa nella sua stanza.

Questa volta, però, non era pieno di rancore e non lo disse finalmente a voce alta come un chiaro e forte sfogo liberatorio; lo pensò come si pensa che manca il latte in frigorifero. I genitori al piano di sotto guardavano la televisione. In casa si percepivano pochi rumori, ma se si ascoltava attentamente, si poteva sentire il respiro di Giulia: pesante e agitato come se qualcosa la stesse soffocando. Non era un vaffanculo che non aveva il coraggio di gridare. Era il suo corpo che chiamava aiuto. La parte sinistra non rispondeva ai comandi del cervello e dalla faccia al piede, tutto pareva caduto in un sonno profondo.

Atto II 
Abbracciare il proprio compagno e sapere che una nuova vita iniziava era un sogno che diventava realtà. La ditta di autonoleggio era diventata una delle tante informazioni nel curriculum. La lite con il capo un brutto ricordo. Il dolore provato quel giorno solo un terribile episodio di stress. Questo era stato diagnosticato dal medico che le aveva dato il via libera per realizzare qualsiasi cosa volesse, perché in realtà per lui era in buona salute. E così aveva fatto Giulia, nonostante i dubbi della madre i cui occhi percepivano altro. Non voleva, però, spaventare la figlia con le sue supposizioni e l’aveva lasciata partire per consolidare un rapporto a distanza con l’uomo che amava.

E mentre il tempo passava, Giulia non capiva come mai la vita non andasse come aveva immaginato. I cinque anni di distanza l’avevano unita a un ragazzo che le aveva promesso tante cose, ma era come se la sua presenza in casa fosse un impedimento. Il compagno rincasava tardi, era spesso stanco, si rivolgeva a lei come se avesse un numero limitato di parole al giorno. Se prima lo scambio di messaggi e le chiamate erano un modo per compensare la distanza, ora parevano comunicazioni di guerra.

Ed era solo una questione di tempo prima che la situazione scoppiasse in una dura lite che portò la parte sinistra del suo corpo a bloccarsi ancora, ma questa volta in maniera più aggressiva. Giulia aveva la sensazione di essere bloccata dalle braccia di dieci uomini. E questa volta non servirono gli occhi di sua madre per farle capire quanto la situazione fosse drammatica. Prese le sue cose e scappò nel posto più sicuro al mondo: la casa in cui era cresciuta. 

Atto III
Pochi giorni dopo, una donna di mezza età accolse nel suo studio Giulia e la madre. Aprì loro la porta e la chiuse alle sue spalle senza smorzare nemmeno per un secondo il suo sorriso. Indicò loro dove sedersi e si accomodò solo quando entrambe erano comodamente sedute. Prese in mano una cartella e consultò alcuni dati al computer. Giulia non voleva essere lì.

Aveva confermato da poco le ferie nel sud Italia ed era il suo unico pensiero, nella speranza di dimenticare gli ultimi mesi orribili che aveva vissuto. Sedeva composta come una brava alunna solo per compiacere la madre e fissava di continuo l’orologio appeso al muro alla sua destra. Mentre ipotizzava quanto tempo avrebbe trascorso lì dentro, la dottoressa si rivolse a lei, il solito sorriso accompagnava ogni sua parola. 

«Come stai oggi, Giulia?».
«Molto bene, grazie dottoressa».
«E dimmi, come ti sei sentita ultimamente?».
«Ho passato dei mesi difficili. Ho perso il lavoro e ho rotto con il mio fidanzato. Non ho preso bene queste notizie e credo che lo stress mi abbia letteralmente travolto».


La dottoressa la ascoltava e ogni tanto annotava qualche informazione su un piccolo blocco dalle pagine color crema. Giulia non aveva notato nulla in quella donna, ma la madre invece sì. Il sorriso, i gesti cordiali, il fare molto affabile: tutto emanava energia positiva, ma se la si guardava bene, i suoi occhi dicevano tutt’altro.

«Ora, Giulia, ti farò tre domande. Potranno sembrarti strane, ma tu pensa solo a rispondere, va bene?». Gesticolava molto, le sue mani si muovevano come se stesse eseguendo un incantesimo.
«Dunque: dopo aver fatto la doccia, hai la sensazione di aver fatto una lunga corsa?».
«…sì».
«E a volte ti capita di farti la pipì addosso?». Silenzio, o meglio, imbarazzo.
«Non sentirti a disagio, sono domande di routine per noi medici». Era impossibile sentirsi fuori luogo di fronte a quella donna; avrebbe potuto anche parlare di diarrea e farlo suonare come il migliore dei simposi.
«In questo caso, allora, sì…».
«E durante i rapporti sessuali, hai mai notato se eri poco lubrificata?».
«Dottoressa, io credo che dipenda da…». La dottoressa fissò Giulia inarcando le sopracciglia, per rassicurarla nuovamente.
«…allora la risposta è sì, di nuovo».

La donna la ringraziò e annotò le ultime informazioni sul blocco, poi emise un verdetto inaspettato. Giulia non riusciva a crederci. Le erano state accordate le ferie e aveva aggiunto che al suo rientro avrebbero fatto alcuni esami, ma non doveva assolutamente preoccuparsi. Ora doveva solo pensare a rilassarsi e godersi sole e mare.
Questo a volte fanno i dottori. Rassicurano una persona mentre con gli occhi parlano a una madre e le fanno capire che c’è qualcosa che non va. Decisamente. Purtroppo. Senza alcun dubbio…

Atto IV
L’estate ha davvero qualcosa di magico, perché riesce ad allineare ogni cosa. Il sole scalda la pelle, la brucia quasi, ma allo stesso tempo regala una sensazione di benessere. Mentre illumina ogni cosa, è come se ricostruisse ciò che si era crepato dentro di noi. E il vento fresco della sera conclude ciò che il giorno non ha finito e ci cura meglio di qualsiasi medicinale. Cammini in mezzo a una folla, mangi un gelato al limone e zenzero, ascolti la musica mentre guardi la gente ballare e ti sembra tutto deliziosamente perfetto. Persino i messaggi del tuo ex suonano diversi: l’amore è riemerso e forse la storia può ricominciare, più forte di prima. E tu ci credi davvero. Perché il sole ti ha rincuorato ogni giorno. Il vento ti ha accarezzato mentre alleviava le tue ferite. E tu hai deciso che una seconda possibilità la meritano tutti.

La magia, però, è destinata a vivere a breve. Ti concede tutta se stessa quando ti incontra, ma poi ti saluta e non appena chiudi alle tue spalle la porta di casa, la sensazione di una brutta notizia in arrivo ti avvolge in un abbraccio che tu ignori, proprio come quello di un uomo che hai capito, non ami più. I dubbi si insinuano nella tua testa, ti sembra di essere in bilico su una fune. Conosci ogni singolo aspetto della tua vita, o quasi, da lì sopra, ma se cadi di sotto non sai cosa potrà accadere.


C’è un vuoto infinito? Un terreno su cui ti schianterai? O al contrario, qualcosa di meraviglioso? Forse Giulia non avrebbe mai fatto quel salto, ma non sapeva che c’era qualcosa che stava per farlo al posto suo. La dottoressa la chiamò per un secondo incontro dopo aver visto i risultati degli esami. Giulia si ritrovò assieme alla madre in una saletta dalla luce rarefatta. Il silenzio che le circondava era quasi spaventoso, come se si trovassero in un’area dell’ospedale abbandonata. Era assurdo come fossero entrate accompagnate da un sole accecante mentre ora una pila sarebbe tornata utile per fare più luce. Il verde scuro di porta e pareti, inoltre, non migliorava lo scenario attorno a loro e Giulia iniziò a percepire una strana sensazione. Era come se quella saletta fosse stata allestita in base alle notizie che a breve avrebbe ricevuto e quando si ritrovarono di fronte alla dottoressa, non c’era bisogno di dire nulla.

In quel momento sembrava la cosa peggiore da sentire, ma non fu nulla in confronto a ciò che accadde quando lo disse al suo compagno; un ex che tale avrebbe dovuto rimanere.
Gli aveva riassunto ciò che la dottoressa le aveva riferito, degli esami, delle cure che avrebbe dovuto seguire da ora in poi; insomma, gli aveva detto che la sua vita stava per cambiare e aveva bisogno del suo sostegno. E come se l’avesse appena condannato a una punizione ingiusta, lui diventò una figura sempre più assente e la frase “Non so come aiutarti e starti vicino” fece più male di una paralisi perché si sa, un cuore spezzato ferisce più di ogni altro dolore.

Ritrovarsi con le valigie, una seconda volta, davanti alla casa dei genitori, era come essere arrivati a due caselle dalla vittoria e aver pescato una carta che riportava alla partenza. Giulia passò giorni a piangere, non sapeva che altro fare. Era sola, senza un lavoro, con il cuore spezzato e una malattia che forse non le avrebbe concesso il lusso di soffrire al buio per espiare il dolore e rimettersi in piedi. Si sentiva in bilico, di nuovo, su quella fune che pareva non volerla lasciare andare per nulla al mondo…

Atto V – finale
L’interferone diventò per Giulia lo zucchero della sua vita. Era ciò che le serviva per compensare alla guaina mielinica che mancava nel suo corpo e che, di conseguenza, non rispondeva ai comandi del cervello. Il giorno della prima iniezione sembrava un ritrovo per assistere a uno spettacolo teatrale. L’intera famiglia si era riunita per supportare Giulia e, con suo incredibile stupore, c’era anche il compagno; un probabile senso di colpa doveva averlo spinto a partecipare. Lei non ci diede tanta importanza, tutta la sua preoccupazione era riversata sull’operazione che stava per eseguire su se stessa mentre la dottoressa, come un bravo maestro Miyagi, le spiegava la procedura; e la noiosa scena del “Metti la cera, togli la cera” sembrava a tutti gli effetti una migliore alternativa a quel momento.

Le iniezioni non le avrebbe eseguite un medico esperto, ma sarebbe stata lei a provvedere alla sua salute: trattandosi di un farmaco auto-iniettabile, e quindi sicuro, così andava fatto e senza grandi riserve. I parenti stavano in piedi da un lato, mentre Giulia e la dottoressa al centro della stanza si preparavano per la dimostrazione. Per un attimo sorrise tra sé e sé: stava praticando una sorta di harakiri alla sua gamba e le sembrava tutto dannatamente assurdo. L’ago era ormai vicino alla pelle quando un rumore improvviso interruppe quel drammatico momento: il suo compagno era svenuto a terra e l’harakiri fu rimandato per rianimare un povero deficiente.

Quell’episodio sarebbe diventato un aneddoto molto apprezzato in futuro, ma Giulia ancora non lo sapeva. Aveva capito che non esisteva alcun futuro con lui, questo era certo, ma forse poteva essercene uno per lei. Avrebbe eseguito un’iniezione ogni quattordici giorni e avrebbe sopportato qualsiasi dolore perché non era nulla in confronto al rapporto che si era risparmiata di vivere con il suo ex. Un uomo che si rivelò essere solo un narcisista e che la chiamò dopo diverso tempo per farsi consolare dai dolori di un’operazione al naso che lo faceva soffrire tanto. Giulia aveva agganciato il telefono come se avesse risposto l’ennesimo operatore telefonico pronto a offrirle un grande affare.

Il sospetto che la malattia si fosse realmente manifestata a causa di un rapporto malato, di un finto innamoramento, del sentirsi completamente assuefatta da un’altra persona la tormentava, ma era andata come era andata, ora doveva solo pensare a sé stessa. Aveva iniziato ad interessarsi alla malattia per capire come affrontarla nel più sereno dei modi. Se doveva conviverci, voleva vederla come un errore temporaneo cui poter rimediare col tempo: un taglio di capelli sbagliato, un inutile abbonamento annuale alla palestra, un libro dalla copertina intrigante ma dal contenuto banale di cui dover scrivere un dettagliato resoconto. In questo modo, la malattia perdeva potere e di conseguenza diminuivano le paure.

La famiglia, per sua fortuna, fu la migliore ancora di salvezza perché ognuno di loro si faceva in quattro per supportarla. Nonostante i battibecchi e le giornate storte, ognuno di loro, a suo modo, era presente. Giulia continuava a documentarsi e prese parte persino ad un summit. La malattia era il suo principale interesse d era diventata una sorta di sua stalker; vederla in questo modo quasi la divertiva. Sfogliando pagine online e cartacee, acquisiva di volta in volta qualche informazione nuova e la lavagna appena sopra alla scrivania riportava tutti i sintomi legati alla malattia e la cosa era diventata quasi esilarante perché con un pennarello segnava da un lato quelli di cui soffriva  e quelli che forse avrebbero potuto presentarsi; praticamente un sadico gioco tipo “Celo-Manca”!

La cosa che più la colpì fu il fatto che la sclerosi multipla, nonostante ogni tanto la isolasse dalla realtà, per una strana ironia della sorte, le aveva fatto fare quel salto dalla fune che non si era affatto rivelato una rovinosa caduta a terra. Aveva visto la sua vita amorosa da un altro punto di vista e aveva compreso che non coesistevano più due dolori, perché se la sua parte sinistra ogni tanto non rispondeva al cervello, i battiti del suo cuore erano stabili e finalmente liberi di battere al ritmo che volevano. 

Fine

Un padre all’improvviso

A 21 anni, a distanza di circa cinquant’anni dall’anno 2000 in poi, non lavori già da cinque anni in un’azienda. Non stacchi alle sei per tornare a casa, togliere il cappello, allentare la cravatta e annunciare il tuo arrivo.

E tua moglie non ha appena sfornato lo stufato e dato da mangiare al figlio mentre si lamenta dei dolori alla schiena per l’attesa del secondogenito.

A 21 anni, a distanza di circa cinquant’anni dall’anno 2000 in poi, hai un diploma e quasi nessuno che ti prenda sul serio. Devi avere esperienza appena uscito dalle superiori perché altrimenti il tuo curriculum diventa carta straccia. Vivi con i genitori, esci con gli amici, sogni un futuro diverso dalla realtà; e una piccola parte di te invidia l’uomo col cappello e la cravatta, almeno lui un lavoro ce l’aveva.

A quell’età hai l’illusione di avere un tempo infinito davanti a te. E nonostante la frustrazione professionale, il pensiero di non essere abbastanza o di non aver concluso ancora nulla di concreto, sai che almeno ti puoi godere la vita.

Ma lei, lo sappiamo tutti bene, è dotata della più sadica tra le ironie e quando meno te lo aspetti, in un pomeriggio dove godi dell’amore della tua compagna, è già lì, tra le lenzuola, le dita intrecciate, i gemiti. E come una goccia d’acqua tra le crepe di un muro, trova sempre una via d’uscita; spesso nel più improbabile dei modi.
Ed è qui che inizia la storia di Christopher.

Atto I
La prova di lavoro nella fabbrica di compressori ad aria non era andata bene, ma Christopher non era dispiaciuto. Aveva l’aria, anzi, di chi apprende una bella notizia e rilascia un sospiro di sollievo tanto atteso. Dai primi giorni aveva capito che quel lavoro non faceva per lui. Tutto gridava “C’è qualcosa che non va” e alla fine la voce nella sua testa aveva avuto ragione. Nonostante tutto, Christopher era fiducioso che una buona opportunità di lavoro sarebbe arrivata. Consultava gli annunci, chiedeva ad amici, insomma: si adoperava per migliorare la situazione.

L’appartamento in cui viveva con la compagna e i due cani era piccolo e confortevole, ma ogni mese il proprietario batteva cassa e un solo stipendio da commessa non era sufficiente a coprire ulteriori spese, oltre a quella dell’affitto. Mantenere alto l’umore non era facile, ma questo non impediva al nostro protagonista di nutrire speranze. La svolta sarebbe arrivata, doveva essere così, prima o poi, ma la goccia tra le crepe della sua vita aveva appena concluso il suo percorso e Christopher intuì presto come si sarebbe manifestata.

Se prima consumava i pasti con regolarità, ora quest’azione era molto variabile. A volte una forchettata di pasta o un boccone di carne innescavano una smorfia sul suo viso alquanto discutibile. Fare quei pochi metri dall’auto all’appartamento per portare la spesa la stancava al punto di drenare una bottiglia di Gatorade in meno di un minuto e l’essere accusato di non aver messo nel verso giusto il rotolo di carta igienica erano tutti chiari segni che non solo si era liberato il Kraken, ma che qualcosa di meraviglioso e allo stesso tempo decisamente inaspettato, era accaduto. Una gravidanza era in corso…

Atto II
“Niente panico!”, aveva pensato Christopher. Dentro di sé urlava come fosse inseguito da uno sciame di api. All’esterno, era premuroso e più disponibile di un concierge per agevolare la compagna nella gestazione. Tutto proseguiva in maniera piuttosto lineare, ma solo perché le rispettive famiglie non sapevano ancora nulla. Come avrebbero preso l’annuncio di un bimbo in arrivo? I film mentali che immaginava non avevano fine, ma la più probabile era un’equa divisione alla Montecchi-Capuleti. E questa versione fu la realtà, perché se da un lato vigevano euforia e calici di champagne, dall’altra tensioni e preoccupazioni facevano da sfondo a un futuro incerto.

Per Christopher, però, la speranza era sempre, e in assoluto, l’ultima a morire. Un credo che ripeteva a sé stesso ogni giorno, come una medicina da prendere a stomaco vuoto e con costanza, per mantenere lucida la mente e raggiungere una situazione migliore, in tutti i sensi. La parte tragica di vivere di speranza è che non la puoi usare per pagare i conti e dopo pochi mesi la realtà batteva cassa più del proprietario di casa. Christopher fu costretto a dare via i due cani, a liberarsi di oggetti di cui poteva fare a meno e infine, dovette sgomberare l’appartamento per non rischiare lo sfratto. E ancora una volta, la vita si faceva beffa di lui, con un gran sorriso ironico, di quelli che ti fanno venir voglia di prendere a pugni persino il sole.

L’inguaribile ottimismo, ancora integro e sufficiente per lui, la compagna e il bimbo in arrivo, li costrinsero a trovare rifugio a casa dei genitori di lei. Christopher vedeva con occhio positivo questo trasferimento: era un’opportunità per rimettersi in gioco e dormire con un tetto sopra alla testa. Non aveva avuto molte alternative a quella scelta, ma non si sentiva un fallito, assolutamente. Doveva solo trovare un lavoro e nel giro di pochi mesi avrebbe ribaltato la precaria situazione. Era felice: desiderava farsi una famiglia e solo perché quanto voleva non era accaduto secondo i suoi tempi, questo non conferiva meno valore a ciò che aveva. Tutto si sarebbe raddrizzato a suo favore; impegno e pazienza sarebbero stati presto ripagati. “Si, certo… come no…”, e questa è la vita che parla…

Atto III
L’impatto. Lo spavento. Il fiato spezzato. I battiti del cuore che picchiavano contro il petto. E un probabile cadavere. Dal parabrezza deformato, Christopher non riusciva a vedere la scena davanti a sé, ma era chiaro che qualcosa di grave fosse accaduto. Stringeva le mani al volante così forte da sentirle doloranti. La gola pareva occlusa, come se qualcosa si fosse incastrato al suo interno e anche se non ne era certo, forse stava tremando. Per qualche istante rimase paralizzato da ciò che pensava fosse successo. Non era ancora sceso dall’auto, la paura era troppa. Cosa c’era in mezzo alla strada? Perché diverse persone fissavano tutte lo stesso punto e alcune portavano la mano alla bocca? Perché c’era così tanto silenzio? 

«Christopher?». Il suo nome risuonava come un eco lontano. Nonostante il vetro crepato, sembrava che una luce stesse illuminando l’ambiente circostante.
«Christopher?». La voce sembrava più vicina e ora una mano gli toccava la spalla. Un angelo? Gesù? O direttamente Lucifero? Qualcuno lo scrollò sempre più forte e in un battito di ciglia, l’abbagliante luce scomparve, la voce che pareva un eco diventò familiare come anche la mano che cercava di farlo tornare in sé.

Christopher si voltò alla sua destra e vide la compagna fissarlo preoccupata. Il panico che aveva trattenuto con la scoperta della gravidanza ora esplodeva feroce. La speranza non era lì con lui, se ne era andata subito dopo l’impatto; forse anche prima. Le sue mani stringevano il pancione della compagna alla ricerca di un calcio, di un battito, un qualsiasi segno che il bimbo stava bene. Ci vollero diversi minuti per calmarlo, lei gli dovette ripetere più volte che stava bene e che non riportava ferite, poi lentamente lo convinse a scendere dall’auto. La folla attorno a loro era sempre più numerosa.

Davanti all’auto, a qualche metro di distanza, il corpo di un uomo era disteso a terra; non si muoveva. Christopher si sentì prendere per mano e con forza fu trascinato fino al centro di un incrocio. Osservava i vetri sparsi sulla strada, una bici a terra, la persona che aveva investito e forse ucciso. Nessuno però parlava con lui, alcuni nemmeno lo fissavano. Gli sembra di essere come Bruce Willis nel film Il Sesto Senso: lui era lì ma non lo potevano vedere. Lentamente riprese possesso del suo corpo e venne nuovamente calmato dalla compagna. Chiamò i soccorsi, la polizia, cercò aiuto.

E dentro di sé rideva isterico. Solo qualche giorno prima era piovuta dal cielo un’opportunità di lavoro che richiedeva la sua presenza l’indomani per un colloquio. Portò le mani alla testa e per la prima volta percepì l’amaro gusto del fallimento. Mesi fa, la vita lo aveva privato dei cani, dell’appartamento, di un po’ di dignità. Ora continuava il suo diabolico disegno e gli toglieva l’auto, la patente, uno sbocco professionale, ma soprattutto la speranza. Tutta quanta. Non ne lasciava nemmeno una briciola. Era qualcosa di intangibile ma per lui significava tutto… 

Atto IV
Il 12 febbraio 2012 la famiglia che Christopher aveva desiderato stava prendendo forma. Negli ultimi mesi aveva stretto i denti, tirato la cinghia e ricostruito la speranza perduta impegnandosi più duramente di prima. La compagna incinta lo portava al lavoro che aveva – miracolosamente – ottenuto; forse un risarcimento da parte della vita visti le ultime “sorprese” che gli aveva riservato. Era consulente per le vendite all’interno di una palestra e il ruolo gli piaceva, lo trovava piuttosto stimolante, però la convivenza forzata con i suoceri, il tetris di impegni da incastrare alla perfezione e la voglia di indipendenza erano tanti elementi da gestire, ma tra alti e bassi Christopher era riuscito a destreggiarsi nonostante notti insonni e momenti in cui pensava di non farcela.

A volte si sentiva sopraffatto dal peso che doveva affrontare ogni giorno, ma da un lato gli sembrava che il muro apparso d’improvviso il giorno dell’incidente stesse lentamente svanendo. L’uomo che aveva investito era vivo e non aveva riportato gravi fratture, la gravidanza era progredita con i più classici dei sintomi come nausea, piedi gonfi e pipì ogni mezz’ora. Insomma, la quiete dopo la tempesta. 

Diventare padre era una cosa del tutto nuova che prendeva forma di giorno in giorno e con essa cresceva anche il timore di non essere in grado di occuparsi di un bambino, di scaldare il latte alla giusta temperatura o anche solo di capire di che cosa aveva bisogno quando piangeva; tutti dicevano che si distingue il tipo di pianto, ma Christopher pensava che sarebbe stato più facile scoprire una nuova teoria sulla relatività! Il corso pre-parto fu come frequentare un doposcuola punitivo: costretto su una sedia ad ascoltare un’ostetrica parlare di tanta teoria che per lui non aveva senso.

L’unica costante che gli teneva compagnia era l’ansia nel dover sborsare i soldi per le visite e il suo mantra personale era sempre lo stesso: “È per il bambino, è per il bambino, è per il bambino… che ansia, Dio mio che ansia… è per il bambino!”. E come tutte le cose programmate, quando arriva il fatidico momento, non sei mai pronto ad incontrare tuo figlio, o meglio, figlia. Christopher lo aveva scoperto alla seconda ecografia. Inizialmente pareva dovesse essere un maschio e si era già immaginato con lui allo stadio, durante una partita dell’Inter mentre ora la sua immagine si era distorta e lo vedeva seduto a prendere il tè mentre tentava disperatamente di spiegare il fuorigioco alla figlia usando barbie e peluche. 

Quando raggiunse l’ospedale dove la compagna era già stata accompagnata dai genitori, non aveva idea che avrebbe trascorso lì dentro le diciotto ore più lunghe di tutta la sua vita. Si sentiva come dentro a un circo, dove tutti avevano un ruolo preciso tranne lui. Non aveva un bambino da partorire, non aveva strumenti da sterilizzare o un ginecologo da assistere e non aveva le competenze per seguire un parto.

Osservava cosa succedeva attorno a sé e ascoltava ogni singolo termine tecnico come fosse un tirocinante in procinto di dare un esame. “Maledetto corso pre-parto! Non ricordo un ca**o!”, urlava nella sua mente. Stava in piedi di fianco alla compagna e ogni volta che schiudeva le labbra per parlare, lui era pronto a esaudire ogni desiderio pregando di non svenire dall’agitazione; sarebbe stato un brutto scherzo da parte della vita che difficilmente le avrebbe perdonato.

Massaggiava la schiena della compagna sino a perdere sensibilità alle dita. La rinfrescava con un panno umido per calmare le caldane, stringeva la mano quando le contrazioni si facevano più forti. Insomma, sembrava il momento giusto, ma ancora niente bimba. Si era immaginato un parto disperato, dove magari un dottor House appariva brontolando su una diagnosi poco promettente e invece nulla, a tratti provava persino noia, ma più di tutti si sentiva… inutile.

Atto V – finale
Urla di dolore. Momenti di incertezza. Un cambio di tre ostetriche. Un parto che pareva non avere fine. E l’insostenibile sensazione di essere solo un passante perché la tua compagna rispondeva solo ai dottori e ormai stringeva la tua mano come fosse un palo di un autobus. Christopher non capiva più nulla. I termini tecnici giravano nella sua testa senza un senso. Epidurale. Poca dilatazione. Cesareo. “Ma che cosa sta succedendo?”, pensò quasi stizzito. “Perché non fate nascere la mia bambina?”.

Nella sua testa era vestito in tenuta militare e teneva in bocca un sigaro come Arnold Schwarzenegger, pronto a mitragliare tutto lo staff alla minima incertezza, poi si sentì tirare per un braccio. La compagna lo stava attirando a sé. «È tutto a posto. Sta succedendo che stiamo per avere una bellissima bambina. Stai qui con me: meglio un parto doloroso con te che senza di te». Christopher non si era accorto di aver parlato a voce alta e in un attimo gli si strinse il cuore, la sua presenza era fondamentale. Bastava solo esserci…

Fu deciso di procedere eseguendo un piccolo un taglio per agevolare il parto. La compagna sgranò gli occhi e le smorfie di dolore per qualche secondo scomparvero dal suo viso, ma Christopher la tranquillizzò subito accarezzandole la fronte. «Andrà tutto bene, io sono qui», e fece cenno col capo a un’ostetrica che si avvicinò subito. «La prego, mi dica cosa devo dire alla mia compagna per aiutarla. Voglio essere io a farlo. Mi dica cosa devo dire, la prego… non voglio assistere e basta», disse sottovoce. Nonostante la mascherina e la cuffia, era evidente che la donna stessa sorridendo e si avvicinò al suo orecchio. «È proprio un bravo padre. La tranquillizzi e quando le faccio un cenno le dica che deve spingere come se stesse facendo la cacca».

Christopher rimase trasecolato. Si era immaginato qualche frase di grande forza motivazionale, come in un film di Hollywood, e invece il suo copione prevedeva una frase adatta a una pubblicità per i dolori intestinali. Si fece coraggio e con tutto il fiato che aveva in corpo pronunciò la frase con lo stesso entusiasmo di Leonardo di Caprio quando sulla prua del Titanic urla di essere il re del mondo. L’unica consolazione era non trovarsi faccia a faccia con la sua compagna, anche se ancora oggi, dopo dieci anni, ha ancora il dubbio che il morso non fosse per il dolore ma una punizione per aver pronunciato una frase davvero imbarazzante.

Alle ore 18 del 12 febbraio 2012 era accorso in ospedale e alle ore 14,30 del 13 febbraio 2012 una bellissima bambina era nata e un aneddoto divertente stava già prendendo posto nella sua testa perché poter raccontare di come un primario aveva tirato fuori la testa della bimba con una ventosa che somigliava molto a uno sturalavandino era davvero spassoso e magari un deterrente per i potenziali e futuri corteggiatori. La cosa più disarmante era che Christopher si sentiva felice per la prima volta nella sua vita.

Nonostante l’incidente, i sacrifici, i fallimenti e le sorprese che la vita gli aveva riservato, stringere tra le braccia la sua bambina era come avere tra le mani pura bellezza, gioia e gratitudine. La sua compagna riposava, i capelli sudati sulla fronte. E lui fissava quei 3,200 kg di dolcezza che erano parte di lui. Per pochi secondi gli sembrò di essere padrone del tempo e della vita, perché nulla poteva destare maggiore interesse. E si ritrovò a ridere da solo, una piccola risata di cuore, perché se prima si era sentito inutile, ora lo sarebbe stato ancora di più.

Insomma, si sa che chiunque accorra dopo una nascita si concentra sulla madre e in questo caso sulla sua piccola principessa, ma andava bene così. Lui sarebbe stato presente alla prima poppata, al primo cambio di pannolino (perché spettava a lui l’onore), alla prima pappa rigurgitata. E poi ai primi passi, ai pianti isterici per la scomparsa dell’ennesimo ciuccio, ai primi giorni di asilo, di scuola e a discutere con un agente di polizia per le pesanti minacce al primo ragazzo che aveva osato invitarla fuori per una pizza e un cinema. Ora c’erano due donne nella sua vita e avrebbe spesso sbagliato a dire la cosa giusta nel momento sbagliato, ma come aveva capito il giorno del parto, l’importante a volte è esserci.

Fine

Come una madre

Sono single. Ho trentacinque anni. Un fisico formoso ma atletico. Odio la lavanda, credo di essere l’unica persona al mondo. Ricerco l’ordine, o forse dovrei dire la perfezione, in ogni cosa. Sono imprenditrice. Produco un marchio di moda. Nulla a che vedere con Gucci o Louis Vuitton, ma viaggia bene.

Apprezzo i piatti semplici, il vino bianco, mangio solo gelato al gusto vaniglia. Non convivo, non ho relazioni, ho solo contratti o incontri a tempo determinato. Tendo al controllo. Sono intelligente, ma a volte dimentico che sono umana e che nulla può seguire in maniera impeccabile il suo percorso. Adoro gli animali solo nei film. Amo la mia famiglia, ma presa a piccole dosi. Ed è qui che decade tutta la mia vita. In un giorno qualunque, il castello che credevo solido e inattaccabile crolla proprio davanti a me, e io con lui.

Non so come quella foto sia arrivata a me, né chi l’abbia scattata, ma ogni domanda che emerge nella mia mente viene allontanata dalla madre di tutte le domande: i bambini stanno bene? Il respiro viene a mancare, la gola prude. Ho la sensazione di aver perso l’udito perché non percepisco nemmeno più la televisione in sottofondo. Non ho loro notizie da oltre un mese.

L’ultima volta li ho visti per pochi minuti. Si tenevano per mano camminando verso di me mentre li aspettavo in una stanza e sorseggiavo un caffè. Avevo messo in bella vista due grandi pacchetti regalo, ma non li avevano toccati. Rimanevano fermi immobili come se aspettassero una mia reazione. La più grande aveva appoggiato il braccio sulle spalle del più piccolo che teneva la testa bassa. Io dicevo poche frasi che si concludevano con un gran sorriso da clown. Solo la più grande rispondeva, ma a monosillabi.

Serrai le labbra e mi alzai, dicendo che ci saremmo rivisti presto e in quel momento il più piccolo mi guardò. Gli occhi di un marrone chiaro richiamarono il ricordo della loro mamma, la mia sorellina con cui condividevo ogni cosa. Non dice nulla, ma la sua espressione mi fa capire che è consapevole che sto mentendo. E mi sovviene il ricordo di quando da piccola, io la mia sorellina ci divertivamo a rubare i mestoli di mamma per giocare sotto al tavolo mentre lei cucinava; diventava matta ogni volta e quando ci scopriva, o meglio, si stancava, minacciava di toglierci tutti i giochi e noi scappavamo in camera, divertite, perché non sapeva che i giochi migliori li avevamo nascosti nell’armadio, sotto ai piumoni invernali. 

Getto la foto sul tavolo della cucina e mi affaccio alla grande finestra del mio attico. È stupenda la vista da lassù. È stata la carta vincente che mi ha portato all’acquisto. Quei bambini non sono mai venuti qui: ogni oggetto è vintage o di lusso, morirei se qualcosa si rovinasse. Ripenso a mia sorella, e d’istinto porto una mano alla bocca. Non piango mai. Per nessuna ragione. È una cosa così debole che provo una gran vergogna e abbasso lo sguardo, neanche avessi davanti qualcuno a giudicarmi. Mi volto di scatto e spingo una sedia a terra con una violenza di cui non mi credevo capace. Il rumore è assordante a quell’ora della sera. Il mio sguardo è fisso sull’oggetto che pochi istanti dopo rimetto a posto con estrema delicatezza, come se stessi raccogliendo delle rose a cui non ho tolto le spine.

Prendo in mano il cellulare e scorro la rubrica con cautela. Forse spero di non trovare registrato quel numero, ma poi appare ai miei occhi chiaro e distinto. Il dito è a mezz’aria e, ancora indeciso, preme sul tasto. Quando una voce femminile risponde, provo un disagio tremendo, praticamente un tuffo a bomba in una piscina dall’acqua gelida. Il capitano delle mie emozioni tiene con le briglie la mia ansia, in fondo devo farle solo una domanda anche se in un lampo riaffiora la nostra prima conversazione dove mi informava che ero la parente più prossima ai miei due nipoti. La mia famiglia era morta in un incidente d’auto: non avevo più una sorella, un cognato, una madre e un padre. I bambini erano a un compleanno. Non avevo trovato il coraggio di andare a prenderli e avevo insistito che fosse lei a occuparsene. Che vigliacca…
Mi scuso per l’orario e lentamente, quasi la mia mente ragionasse come una giostra a gettoni da caricare di continuo, chiedo come stanno i bambini. La mancata fluidità con cui solitamente conversa, la tradisce. Provo un freddo pungente lungo la schiena e stringo il telefono più forte. Chiedo spiegazioni, le pretendo. Mi dice che purtroppo c’è stato un cambiamento e che per un banale disguido, forse, non sono stata avvisata. Mi elenca un indirizzo e il sangue smette di affluire nelle mie vene, o almeno è ciò che sento.

Non mi rendo conto di essere scalza, con indosso solo un tubino e i capelli disordinati. Il portiere al piano terra apre la porta d’ingresso giusto in tempo per evitare che ci finisca contro. Corro veloce lungo il marciapiede. Urto qualche passante, i più furbi si scansano. Attraverso la strada facendo cenno di stop alle auto che non suonano nemmeno il clacson, forse perplesse dalla mia foga. Raggiungo l’altro lato della strada e corro sempre più veloce. Alle superiori era una gran velocista ed è incredibile come il mio corpo ricordi bene il ritmo utile per una corsa equilibrata.

Corro per quelli che saranno almeno otto chilometri. Non accenno fiato corto. Non crollo. Mi fermo di scatto davanti alla destinazione e urlo di aprire mentre busso alla porta così forte che dall’altro lato della strada qualcuno blatera a voce alta frasi che non comprendo. Forse mi dicono di fare silenzio, forse mi intimano a fermarmi. Non lo so e non mi interessa. Una luce si accende e quando la porta si apre, non bado a chi ho di fronte. Chiamo i loro nomi di continuo, come fossi un disco rotto e il volume bloccato allo stesso punto, alto e ruggente.

Altre luci si accendono. Sento un brusio di voci, ma non ascolto. Salgo al primo piano e percorro i corridoi. La mia voce squillante risveglia quel posto che non volevo per loro. C’è odore di vecchio, le pareti hanno l’intonaco crepato, la toilette puzza di fogna, il pavimento presenta macchie ovunque. Chiamo i loro nomi ma non li trovo e in quel momento mi blocco perché mi rendo conto di piangere. Mi volto e osservo gli sguardi perplessi o spaventati di bambini nei loro pigiami, alcuni stringono un peluche. Penseranno che sia una pazza e credo di averne l’aspetto. Poi sento chiamare il mio nome e mi volto. Eccoli! 

Prendo in braccio il più piccolo e per mano la più grande e li trascino fino all’ingresso mentre un uomo anziano mi aggredisce a parole che puntualmente ignoro. Esco in strada e cammino senza voltarmi. I bambini non dicono nulla, mi seguono. Più ci allontaniamo da quell’edificio, più ho la sensazione di essere al sicuro. Mi guardo attorno per capire dove ci troviamo e il più piccolo mi guarda e dice che ha fame. Poteva dirmi qualsiasi cosa, anche la più atroce, ne avrebbe avuto diritto. Invece ha solo voglia di mangiare.

Anche se non ho un soldo con me, camminiamo verso il primo locale che offra pasti a quell’ora e nel cercarlo, vedo la mia immagine riflessa lungo una vetrata scura. Ho l’aspetto di chi è andato incontro a un uragano, uscendone indenne. Cerco di sistemare i capelli, ma la più grande mi ferma. Mi chiede di non farlo. Dice che le ricordo la sua mamma e il mio petto si scalda facendomi sentire in colpa ma serena al tempo stesso. Sorellina, mi manchi così tanto…

Raggiungiamo un locale che vedo ancora impegnato a servire pasti caldi, ma due pattuglie della polizia si avvicinano. Un uomo in divisa mi analizza come uno scanner e dallo sguardo deciso, comprendo che sa chi sono e cosa ho fatto. Mi chiede di salire in auto e lasciare i bambini alla sua collega che prova ad avvicinarsi, ma io li blocco con un immediato gesto della mano. Dico che non farò nulla di tutto ciò, non prima di aver portato i bambini a mangiare, perché è ciò che desiderano.

L’uomo mi fissa serio per secondi che sembrano non avere fine. Di sicuro teme per la vita dei bambini, e il suo giuramento lo obbliga a far rispettare la legge, a servire e proteggere, ma ho anche l’impressione che comprenda il mio stato d’animo perché lentamente perde la posizione rigida e i lati della sua bocca, nonostante siano nascosti dai baffi, si addolciscono. Fa un cenno con la mano che mi rassicura e apre la porta per farci entrare nel locale. 

Il piccolo siede sulle mie gambe, la più grande di fronte a me. Ordiniamo solo tranci di pizza e dolci. Insisto sull’acqua al posto della coca-cola, lo faceva sempre mia sorella. Mangiano e scherzano come se nulla di folle sia successo, come se la polizia non fosse lì fuori, in attesa che usciamo. Forse non sanno cosa accadrà, a dire la verità non lo so nemmeno io, ma in quel momento non m’importa. Do un morso alla torta al cioccolato e lo stomaco si apre in segno di grazia, felice di non dover digerire altro cibo privo di grassi. È il morso più dolce e sensato degli ultimi anni e provo un immenso piacere nell’assaporarlo.

Sposto indietro una ciocca di capelli e mi rendo conto di essermi sporcata. Fino a un’ora prima avrei urlato isterica, ora invece osservo curiosa il residuo di cioccolato sulle dita, sul vestito, sui capelli. Il piccolo si volta e ride. Dice che una volta la sua mamma non sapeva se tagliarsi i capelli. Lo ripeteva in continuazione a tutti quanti e lui, stanco di sentirla, le aveva spiaccicato in testa una gomma da masticare. Ricordavo quell’episodio, ero con lei dalla parrucchiera il giorno in cui dovette quasi rasare i capelli a zero. Ci ritroviamo a ridere, quasi a crepapelle. 

Li avevo rifiutati perché non volevo la responsabilità di curarmi di loro. Corrotti con regali per figurare come la zia perfetta. E rapiti senza alcuna spiegazione nel cuore della notte. Eppure erano seduti con me a ridere, a mangiare, a parlare della loro mamma. Spensierati. Com’era possibile? Non serbavano alcun rancore nei miei confronti e io non ero mai stata così felice come in quel momento.

FINE

Pilar e i 12 ospiti improbabili

Pilar leggeva un libro sulla sedia da campeggio mentre prendeva il sole. Era davvero surreale vivere la quarantena da coronavirus in condizioni atmosferiche eccellenti. Erano le quattro del pomeriggio di un Aprile appena sbocciato e aveva pensato che fosse perfetto distrarsi con la lettura. 

Resistette poco più di mezz’ora però, poi chiuse il libro di scatto e si osservò attorno. Era davvero folle che ci fosse a malapena il cinguettio degli uccelli in sottofondo. Niente auto, niente persone. Il nulla. Rientrò in cucina per bere un bicchiere d’acqua e controllare se Marco avesse chiamato, ma lo schermo era privo di notifiche. Fece scorrere la rubrica fino a trovare il numero di nonna Teresa e al sesto squillo la sua voce si fece sentire chiara e squillante. Una conversazione in spagnolo prese atto e più che un parlare, sembrava un recitare un’opera teatrale che viaggiava a suon di maracas.

Sola in casa, Pilar dava libero sfogo alle sue origini spagnole di una Valencia che non vedeva da tempo. Non era pentita di aver mollato il suo lavoro di fotografa per seguire il compagno e futuro sposo in Italia, ma non aveva nemmeno previsto che un virus quasi letale avrebbe seminato il panico e costretto tutti ad una quarantena che ora come ora sembrava non avere fine. 

Si erano stabiliti a Cesena poco prima di Natale e tra il trasloco e il realizzare di essere in una città straniera, Pilar non aveva conosciuto nessuno e il poter uscire solo per questioni importanti come la spesa o la farmacia, limitava di certo la possibilità di incontrare persone nuove. E a peggiorare la situazione era il fatto che Marco era partito appena un mese prima per New York e ora era bloccato lì, senza la certezza di poter tornare a casa. Vivevano in un attico, sopra ad un condominio di dieci piani, ma tutti i residenti sembravano barricati in casa e pronti a scappare non appena incrociavano lo sguardo di qualcuno, anche il più conosciuto.

Quel pomeriggio era per Pilar la quarta settimana in cui rimaneva sola e per un attimo pensò di uscire in strada e urlare. Quella solitudine la stava alienando ma peggio, meschini pensieri si facevano largo nella sua mente. Sdraiata sul divano, guardava la televisione senza volume ma ben presto la cosa si rivelò essere un incubo. Su Real Time, Gordon Ramsay non urlava ad uno chef apprendista di andare a spaccare legna piuttosto che cucinare, ma rimproverava Pilar per aver fatto la stupida scelta di aver seguito il suo amato compagno italiano nella sua terra. Su Cielo un giovane Tom Hanks nei panni di Forrest Gump scappava dai bulli, ma in realtà era lei che scappava da una grande opportunità di lavoro offertale in Valencia, ma che aveva declinato per paura di fallire. Cambiò ancora canale e su Paramount Channel, Carrie Bradshaw in quel preciso momento tirava il bouquet in testa a Big per averla abbandonata all’altare e mentre Pilar guardava il suo anello, pensò che forse avrebbe fatto la stessa fine perché Marco aveva rimandato la data del matrimonio un paio di volte per motivi di lavoro, ma forse la realtà era un’altra e ora c’era pure la pandemia.

L’unica consolazione era che si sarebbe risparmiata l’umiliazione di essere abbandonata il giorno del matrimonio con indosso un abito lontano dall’essere favoloso come quello di Vivienne Westwood e senza indossare un uccello di piume in testa. Per un attimo scosse il capo, quasi volesse spazzare via quei pensieri assurdi e cercò qualcosa di interessante da guardare per passare il tempo, ma se su Rai 4 Andrea Sachs trionfava con Miranda Priestly ne Il Diavolo veste Prada, ottenendo alla fine il lavoro dei sogni, quando cambiò di nuovo canale il suo buonumore crollò alla vista di un Maurizio Crozza che in silenzio scuoteva il capo come dire “Ma la finiamo con ste cazzate?”. Sfinita dallo zapping demoralizzante, si alzò dal divano per fare qualche pulizia di casa. L’aspirapolvere le diede un incredibile sollievo. Mai soldi furono spesi meglio se non per un Folletto. Il rumore le impediva di sentire i suoi pensieri, ma quando passò allo straccio, ecco che ripiombarono ancora più forti di prima, proprio come le bombe all’alba in quel di Pearl Harbour. 

Aveva fatto la scelta giusta nel mollare la vita a Valencia e seguire l’amore della sua vita? Aveva fatto bene a declinare quell’offerta di lavoro? Ma la peggiore delle domande era un’altra: cosa avrebbe fatto finita la quarantena? A quel punto non aveva più scuse. Sapeva di non voler essere solo una giovane sposina, ma cosa avrebbe fatto della sua vita? Forse si stava adattando ad una nuova situazione, ma una parte di sé, nel profondo, voleva urlare che non era così che doveva andare. In quel momento, mentre rendeva il pavimento di marmo splendente, desiderò che la quarantena non finisse mai. Forse poteva abituarsi ad una vita simile. In fondo ci circondiamo sempre di cose futili, invece ora si poteva vivere con poco e sia l’essere umano che la terra ne avrebbero beneficiato. Il crollo economico sarebbe stato disastroso, ma ci si sarebbe risollevati. Abbandonò il mocio e noncurante del pavimento ancora bagnato, si infilò in camera a fumare un poco d’erba e lentamente cadde in un sonno profondo. 
Erano quasi le otto quando riaprì gli occhi. Si trascinò con forza in cucina e guardò il grande salotto vuoto. Fece un sospiro profondo. Non ne poteva più di quella situazione, doveva fare qualcosa. 

Una voce piuttosto squillante fece aggrottare la fronte a Marco. Chiuse lentamente la porta di casa e percorse il corridoio che si affacciava al salotto e ciò che vide lo lasciò basito. Pilar era in abito elegante e aveva apparecchiato la tavola per dodici persone. Riconobbe il servizio in ceramica che avevano acquistato online dopo le feste natalizie. Ma la cosa più strana era che su ogni sedia c’era un oggetto diverso: un orsetto di peluche, un cesto di mollette, una lampada, un quadro, un piumino per spolverare, un frullatore, un vaso con dei fiori, una scatola con sopra delle scarpe nere con tacco, un pacco di rotoli di carta igienica e un cestino vuoto. E Pilar sembrava particolarmente interessata a parlare con quello che era uno scopino dentro il suo apposito contenitore. A volte sbraitava in spagnolo, altre tornava a parlare in italiano. Era un botta e risposta a senso unico. 

«Appena questa situazione sarà finita, cercherò un lavoro come fotografa e se dovrò viaggiare lo farò. Marco dovrà capire! Come hai detto, scopino? Certo, capisco cosa vuoi dire ma non voglio essere solo una sposa e fare la casalinga. È vero che potrei trovare un lavoro come commessa o impiegata ma non sarei felice e… cosa? Lo so che tu fai un lavoro di merda, ma mi pare sia il tuo destino, no? Non ti ci vedo come spazzola sotto la doccia!» e scoppiò a ridere. «Oh, scopino! Sei troppo divertente! Sei l’anima della festa!». Si alzò per prendere una pirofila posta al centro della tavola e si rivolse all’orsetto di peluche alla sua sinistra. «E a te come vanno le cose, Mister Teo? Ho saputo che sei tornato single. Non è il periodo migliore per cercare una compagna, ma puoi sempre usare Tinder. È così che ho conosciuto Marco e non me ne sono mai pentita. Dammi retta, troverai la donna dei tuoi sogni! Ti va un po’ di torta salata, radicchio e gorgonzola?» e ne tagliò una fetta offrendola al peluche su un delizioso piattino.

«Caspita! Ho dimenticato il vino!» e nel momento in cui si alzò per andare in cucina, si ritrovò davanti Marco che la guardava con due occhi sbarrati, l’aria confusa. Ci fu un lunghissimo silenzio. Era quasi inquietante. Marco fece qualche passo in avanti, fissando quello scenario alquanto bizzarro, poi guardò Pilar che era imbarazzata ma anche sorpresa di vederlo.
«Come hai fatto a tornare? Perché non mi hai avvisato?».
«…Ho rotto il cellulare e poi hanno organizzato un volo da un giorno all’altro… ma abbiamo dovuto fare scalo ad Amsterdam e poi a Roma ci hanno tenuto in osservazione e…». Non disse altro, ancora stupito dalla situazione che gli si era presentata davanti. A quel punto Pilar iniziò a raccogliere i piatti, ma Marco la fermò. «Aspetta!» disse con un gesto della mano. Appoggiò il borsone e la guardò sorridendo. «Non mi presenti ai tuoi amici?». 

FINE

Come furia nel cuore

C’è qualcosa di diverso nell’aria quella mattina, ma Francesco non ci fa molto caso. Ha solo un pensiero nella testa: incontrare la S dai capelli biondi e gli occhi azzurri come il fondo dell’oceano.

Al risveglio, ammira l’imponente Torre Eiffel dal suo balcone, poi esce di casa e si avvia lungo il viale principale, passando davanti al Teatro Olimpico in una ridente Vicenza. Cammina fino allo Starbucks su Madison Avenue, poi entra al Guggenheim per vedere se all’ingresso trova la sua amica F e la vede porgere alcuni dépliant a un giovane gruppo di visitatori, vestita con l’austera uniforme nera che prende colore solo grazie ai lunghi boccoli rossi. Non appena i loro occhi si incrociano, lei gli regala un immenso sorriso.

«Ciao Francesco, che cosa ci fai qui?».
«Ho pensato di passare a salutarti visto che ero nei paraggi. Volevo sapere come stavi».
«Grazie, che bel pensiero hai avuto! Sto bene e vedo che stai bene anche tu. Dove stai andando?». «Pensavo di fare una passeggiata e magari andare da S per chiederle se vuole farmi compagnia». F si morde il labbro curiosa, e si fa più vicina, abbassando il tono della voce.

«Allora è una cosa seria? Pensi che le chiederai di fare coppia?». Francesco arrossisce e distoglie lo sguardo altrove. «Che stupida! Scusa, non sono affari miei. Ti auguro una buona giornata, Francesco e non smettere nemmeno per un secondo di credere in te stesso!», e lo abbraccia forte.

Il ragazzo riprende a camminare e raggiunge prima Piazza dei Signori, poi osservando le varie vetrine dei negozi, attraversa Corso Palladio e mentre si ritrova in Piazza Castello, proprio di fianco al Torrione, prende in mano il telefono per cercare il numero di S ma si sofferma su quello di O pensando che forse dovrebbe chiamarlo, ma viene interrotto da una cascata di petali bianchi: i ciliegi in fiore sono scossi da una grande folata di vento che crea un’atmosfera surreale e magica. Tokyo non lo delude mai.

«Francesco, che sorpresa trovarti qui!», esclama S – un’altra S – che gli va incontro e lo abbraccia. Il ragazzo sorride, è felice di vederla, ma lo diverte vedere ogni volta l’abbigliamento dell’amica che è tutto fuorché formale. Indossa un abito con una fantasia di fragole e ciliegie su una base rosa antico. Delle calze color vinaccia e scarpette rosse brillanti, proprio come quelle di Dorothy nel film Il mago di Oz.


«Ti stavo proprio pensando, sai. E stavo proprio venendo a cercarti. Che fortuna averti trovato lungo la strada!».
«Come mai volevi vedermi, che succede?». S gli sorride, i corti capelli castano chiaro e una frangetta perfetta incorniciano un piccolo ovale dalle guance rosee che le regalano un aspetto fanciullesco. Tutto in lei trasmette una forte sicurezza.

«Stavo per chiamare O, volevo sentire come sta». S sbuffa visibilmente scocciata, poi prende Francesco sottobraccio e gli chiede di accompagnarla a fare una passeggiata lungo gli Champs-Elysées per recuperare la bicicletta lasciata a casa di A la sera prima. Le sue piccole scarpette rosse calpestano un pavimento di foglie secche.
«Su dai, ogni tanto devo chiamare O per sentire come sta», dice Francesco ma lei non risponde e si limita a guardarlo come fossero immuni a qualsiasi male, persino alle spiacevoli notizie.
«Sai, volevo cercare S per chiederle di uscire. È inutile nasconderlo, ci frequentiamo da un po’ di tempo e vorrei approfondire il nostro rapporto». Francesco parla senza quasi riprendere fiato. Sa che se non lo dirà ora a voce alta, non lo farà più e cerca l’espressione di S per capire se approva, ma lei non lo degna di uno sguardo, fissando le foglie secche ai loro piedi. Poi si blocca e senza dargli il tempo di chiederle cosa abbia, si ritrova a dirgli: «Io e A stiamo insieme!».

Non ha il coraggio di guardare in faccia Francesco e quando realizza ciò che ha detto, porta le mani alla bocca, trattenendo le lacrime. «Sono contento per voi, davvero!». S si volta verso di lui e lo analizza per capire se stia mentendo, ma poi gli sorride e a quel punto una lacrima cede e corre lungo la sua guancia fino a sotto il mento. Francesco si affretta ad asciugarla, poi appoggia le mani sulle sue spalle. 

«Non hai mai smesso di dirmi che devo essere sicuro di me stesso e che devo seguire il mio istinto. S, se hai trovato una persona che ti ama non dovresti dubitare nemmeno per un istante di te stessa. L’amore è amore, anche tra lo stesso sesso. Non c’è alcuna vergogna», e le stampa un bacio sulla fronte mentre piccoli fiocchi di neve cadono dal cielo, ricoprendo in pochi minuti i verdi giardini di Central Park a New York.

Quando Francesco è di nuovo solo, riprende il telefono, ma prima di chiamare S prova a cercare O che gli risponde dopo solo due squilli. «Ciao O, come stai?». Dall’altra parte una voce maschile risponde con un colpo di tosse che pare più simile a un grugnito. «Dimmi, cosa c’è amico?».


«O è tutto a posto? Stai bene?».
«Sì, va tutto bene, amico. Dove sei?».
«Sono al lago d’Iseo, ti ricordi quando ci siamo stati tanti anni fa?”. Francesco non aggiunge altro, sa che ha fatto toccato il tasto giusto per metterlo a suo agio.
“Caspita Francesco, che ricordi… non ci pensavo da tempo. Sai, sto sistemando la motocicletta, la voglio rimettere in pista al più presto, proprio come i vecchi tempi… mi mancano quei tempi…».

Francesco sorride solo con le labbra, gli piace sapere O felice, cosa non facile. Tutto a un tratto, però, O gli fa una domanda. «Amico, che cosa vuoi sapere?». Il ragazzo si scosta dallo schienale e mentre sta per rispondere si guarda attorno stupito: non si è accorto di essere in metropolitana e in un attimo è in piedi, pronto a scendere alla prima fermata scoprendo in pochi secondi di trovarsi nel centro di Barcellona. È davvero sorpreso di trovarsi lì e cammina a testa bassa, quello non è un bel ricordo e una strana sensazione riaffiora scaldando il suo petto.

«O, che cosa hai fatto?».
«Amico, è tutto a posto. Non ti devi preoccupare. Sono successe tante cose, ma è tutto sotto controllo». Il tono di O è esitante e Francesco intuisce che è successo qualcosa a sua insaputa e ne ha la conferma quando si ritrova a camminare lungo la strada Rambla di Barcellona. È ancora in quel paese, ancora in uno spiacevole ricordo.
«O, devi dirmi che cosa hai fatto!».
«Amico, abbiamo vissuto troppe delusioni, ricevuto troppi no. La vita ci ha trattato molto male e non ho saputo trattenermi…».
«Non dovevi fare niente! Dannazione, a volte sei così testardo! Lo sapevi che è un momento molto delicato della nostra vita, sai che può accadere l’inevitabile da un momento all’altro. Avevamo solo bisogno di tempo per riprenderci e lasciarci il passato alle spalle. Vieni subito qui e porta con te P, so di certo che ti ha traviato con le sue assurde congetture».
«Va bene, la sveglio e ti raggiungiamo. Dove sei?».

Francesco si guarda attorno per confermare la sua posizione, ma non sa più dove si trovi e un’esplosione improvvisa lo paralizza. L’ambiente muta di continuo, non capisce più dove si trovi. Davanti a lui il cielo passa da una sfumatura giallo arancio di un tramonto, all’oscurità di un cielo senza stelle, fino a un panorama grigio e nuvoloso, ma non appena una folata di vento si avvicina, intravede una città sconosciuta che sta letteralmente collassando.

L’aria è pesante, sa di corpi bruciati e raggiunge le narici di Francesco che porta il braccio al viso per proteggersi. Si guarda attorno, confuso, e quando alza lo sguardo verso un grattacielo colpito da un aereo, il suo corpo si fa di ghiaccio e non riesce più a muovere un muscolo. A è aggrappata al bordo di una finestra e penzola nel vuoto.

«Tieni duro A, sto arrivando», e scatta veloce verso l’edificio, nonostante al fondo sia travolto da un’enorme nuvola di polvere. La gente scappa nella direzione opposta alla sua, le auto frenano all’improvviso. Più corre e più sente le urla disperate di A che lo implora di aiutarla ma più corre, più gli sembra di non avvicinarsi, come se corresse sempre sullo stesso punto.

Le urla di A si fanno sempre più strazianti e quando un uomo appare davanti lei, implora Francesco di fare qualcosa, ma lui non riesce a reagire. Sente il corpo farsi pesante, come se una forza invisibile lo stesse trattenendo. Urla contro quello sconosciuto che cerca di buttare A giù dal palazzo. Urla così forte che la voce inizia a mancargli, e non emette alcun verbo, nemmeno il minimo rumore, quando vede la ragazza precipitare nel vuoto. Francesco cade sulle ginocchia, la gola soffocata da una morsa di dolore, le lacrime che escono a singhiozzi. Tutto attorno a lui sta crollando.

Corre senza fermarsi, vuole trovare la S dell’appuntamento, deve trovarla assolutamente. Corre lungo una strada trafficata di una città sconosciuta. Le auto lo evitano quasi avesse il potere di scansarle, ma poi il caos prende il sopravvento e si ritrova sbalzato in aria e quando cade a terra, attorno a lui l’ambiente è completamente diverso. Si solleva a fatica, la testa dolorante. È in una chiesa, nel mezzo di una navata. Il silenzio è inquietante, come se di lì a poco dovesse accadere un’altra catastrofe.


«Francesco!». Una voce lo attira alla sua destra e due ragazze gli vanno incontro. I loro vestiti sono sporchi, il trucco è rovinato, gli occhi lucidi e spaventati. Sono F e S, la ragazza dai boccoli rossi e quella dalle scarpe rosso brillante.

“Ragazze, state bene?”. Francesco appoggia una mano sulla spalla di ognuna, visibilmente preoccupato. Loro annuiscono ma è evidente che siano sconvolte. «Francesco, che cosa succede? Dovevi avere tutto sotto controllo!», gli urla contro F. «Dobbiamo trovare S. Dove dobbiamo andare? Qual è il ricordo? Qual è il ricordo per trovarla?».
«Rimanete qui fino al mio ritorno, non uscite per nessun motivo, va bene?».

Le ragazze, nonostante siano terrorizzate, annuiscono, ma poi si ritrovano a urlare quando avviene un’altra esplosione. Il tetto della chiesa inizia a sgretolarsi, qualche vetrata va in frantumi, poi delle urla interrompono quel momento drammatico. «Lasciatemi, lasciatemi! Francesco aiutami!», urla S mentre degli uomini la trascinano a forza verso il fondo della chiesa. Francesco cerca di raggiungerla, ma poi F urla dalla parte opposta mentre viene trascinata per i capelli. Francesco non sa cosa fare, non sa chi aiutare. 

E non fa in tempo a reagire perché la chiesa crolla letteralmente sopra la sua testa e quando riapre gli occhi, si ritrova davanti a un immenso prato verde e, al margine di un bosco, vicino a un ponte, vede finalmente la S che attendeva di incontra sin dal suo risveglio e corre verso lei come un fulmine.

«S, dobbiamo andare via da qui, dobbiamo trovare un ricordo sicuro», le dice non appena la raggiunge, ma lei non si muove, quasi fosse priva di emozioni. «S, ti prego, dobbiamo sbrigarci prima che ci trovino e sai che non possono trovare te, sei l’unica che ci può salvare». Francesco non comprende il suo silenzio, ma è deciso a portarla via da lì per raggiungere un ricordo sicuro. Le tende la mano e fa un passo avanti ed è in quel momento che il legno sotto di loro scricchiola e all’improvviso si spezza come se qualcuno lo stesse abbattendo con forza. S non reagisce e si lascia inghiottire dal vuoto che si crea ai suoi piedi, ma Francesco riesce ad afferrarle un polso.

«S, non ti lascio andare, non preoccuparti. Aiutami a sollevarti… S, ti prego…». La ragazza lo fissa, i suoi occhi di un intenso azzurro lo osservano come se stesse facendo qualcosa di sbagliato e con sorpresa di Francesco, lei avvicina l’altra mano per liberarsi dalla sua presa. «Lasciami andare e vieni giù con me, non abbiamo alternativa. Troveremo una soluzione, non avere paura. Affronteremo questa guerra e ne usciremo più forti di prima…». Francesco le allontana la mano con rabbia, le urla contro, la obbliga a tirarsi su, ma S non cede e inizia anzi a essere più insistente nel tentare di liberarsi.

«Non farlo! S, ma che ti prende? Perché vuoi farci morire?», chiede sconvolto, ma la ragazza non risponde e in pochi istanti si libera dalla presa e precipita nel vuoto, ma non prima di trascinare con lei Francesco e in un fitto banco di nebbia, sono solo le sue urla l’unico rumore che rimbomba nonostante la guerra in atto.

In un letto d’ospedale, un uomo che riporta gravi ferite in seguito a un tentato suicidio, lotta tra la vita e la morte. Una donna accanto a lui, la sorella minore, lo guarda sconvolta, le lacrime che ha pianto hanno seccato la pelle del suo viso. Non comprende come mai il fratello abbia tentato di togliersi la vita. Forse la fine della sua storia d’amore dopo molti anni, forse l’insoddisfazione lavorativa, forse i traumi irrisolti della loro infanzia con un uomo che non hanno mai concepito come padre. Vorrebbe avere delle risposte, ma prima di tutto vuole che Francesco si salvi.

Il Francesco di fianco al letto la osserva. È sfinito, deluso, amareggiato per ciò che è successo. Vorrebbe tanto che quella donna potesse sentire la sua voce perché le direbbe che le dispiace tanto, in quanto come io interiore ha fallito, non è riuscito a fermare Francesco dal farsi del male. E che lentamente F, che sta per fiducia, e S che sta per stima, sono state trascinate via con violenza. A come amore è precipitato nel vuoto, O come orgoglio e P come paura hanno fatto solo danni sulla base di inutili congetture e che la S che tanto cercava, ovvero la speranza, la ragazza dai grandi occhi azzurri, gli è scivolata via come forse la vita sta facendo con il fratello proprio ora.

Anche se non può né vederlo, né sentirlo, quell’io interiore appoggia una mano sulla sua e le rimane accanto. Rimane così per diverse ore. Ore che diventano giorni. Ripete lo stesso gesto di continuo, il tempo scorre ma nulla cambia fino a quando, in un pomeriggio di sole, percepisce un’altra mano sopra la sua e quella della sorella e quando si volta, vede quei grandi e bellissimi occhi azzurri e in un lampo gli sovviene una frase: “Affronteremo questa guerra e ne usciremo più forti di prima…”.

Fine

“JOY”

Dal libro “642 idee per scrivere” del San Francisco Writer’s Grotto, ho selezionato alcune idee e ho chiesto, tramite un post su Instagram, di scrivere il primo pensiero che veniva in mente. Ho poi selezionato le tre risposte che più mi piacevano per trasformarle in racconti.

Il primo racconto lo potete leggere al seguente link, mentre gli altri due, qui di seguito. Come abitudine di Wanted Stories, ho fatto dei sondaggi per far scegliere quello che più ispirava e, a seconda dell’ispirazione, ho richiesto qualche input per iniziare a scrivere! Qui di seguito i testi scritti da due “Joy”! Buona lettura!

joyclaremadness – “5 cose che mi mettono sempre nei guai”Da che ho memoria ho sempre parlato: da piccola, da adulta e persino mentre mangiavo. Avevo sempre qualcosa da dire. Parlare troppo mi ha spesso messo nei guai, ma non solo. Quando da adulta credi di aver superato l’età dell’istintualità, ti accorgi che… NON È VERO! Conseguenze? Cosa sono? Ah sì, quelle che ti prendono a sberle quando AGISCI SENZA PENSARE!

Se poi aggiungiamo la sovrabbondante EMPATIA che ti fa piangere in treno al racconto di un perfetto sconosciuto, capisci che forse non hai superato la tua adolescenza o l’hai fatto male😅. Così mi capita di piombare nei ricordi, dove la MALINCONIA mi fa sembrare i ricordi magnifici e il presente TERRIBILE. Ma ciò che più mi fa precipitare nei guai, come un tuffo di testa da cinque metri, è la CURIOSITÀ, in nome della quale ho combinato una quantità innumerevole di cazzate!

Joy fissa il cellulare come se fosse in procinto di riverarle un segreto. Il pollice della mano destra viene mordicchiato con tenerezza. L’indecisione è troppa. Una videochiamata mancata ha cambiato la sua giornata. Fino a qualche minuto prima, tutto si svolgeva seguendo il solito tran tran quotidiano, ma non appena aveva preso in mano il cellulare, tutto ciò che la circondava era svanito nel nulla e nella sua testa rimbomba solo un nome. Quello del suo ex…

«Secondo te che cosa vuol dire?», chiede Joy mentre cammina avanti e indietro per la lavanderia dove il suo bucato si sta lentamente asciugando. Il pollice, poveretto, sempre tormentato.
«Non chiamarlo! Lascialo perdere! Ti ha mollato e per ben due volte, non vorrai mica cascarci ancora, no?», replica l’amica, il tono esasperato, mentre ascolta Joy nutrendo poche speranza di essere ascoltata.
«L’ultima volta che mi ha lasciato, la seconda intendo, stava ritornando sui suoi passi e…».
«No, Joy, non chiamarlo. Perché insisti a farti del male?».
«Ok, allora lascio stare… forse hai ragione…».
«Ecco, brava! Fila a casa e vedi di non fare cazzate!».
«Ciao Francy, grazie mille. Sei un tesoro!».

Joy chiude la telefonata e si adagia su una sedia di plastica che emette un cigolio poco rassicurante. Totalmente insoddisfatta della telefonata con l’amica, è come se le avessero comunicato il fallimento di un esame importante, ma poi scatta in piedi e digita un messaggio. Le dita corrono veloci sulla tastiera e se la sensazione di quel momento si potesse raffigurare, sarebbe come una lampadina illuminata sopra alla sua testa.

Riprende a camminare attorno ai due tavoli che dividono le lavatrici dalle asciugatrici, in attesa di quel suono che conferma l’arrivo di un messaggio e infatti, dopo nemmeno un minuto, ecco che si ritrova ad aprire una chat di WhatsApp, ma ciò che legge la fa infuriare all’istante. “So già che cosa mi vuoi chiedere e la risposta è LASCIA PERDERE! Francesca mi ha avvisato che avresti provato a contattare anche me. Sono tua amica, ti voglio bene, ma a volte agisci senza pensare e finisci col fare solo grandi cazzate! Ps. sai che ho ragione! Giulia». A quel punto Joy ci rinuncia e, le mani incrociate, fissa l’oblò dell’asciugatrice che di lì a pochi minuti finirà il suo ciclo di lavoro.

«Secondo me devi chiamarlo». Joy si volta e nota un ragazzo di colore, i dredd legati con un elastico nero, con indosso una tuta bianca e blu che inserisce il suo bucato in una delle lavatrici.
«È quello che penso anch’io, ma le mie amiche dicono che sbaglio…».
Il ragazzo le rivolge le spalle, ma continua a parlare.
«Ah, non stare a sentire cosa ti dicono gli altri. Devi fare ciò che senti. Insomma, chi meglio di te sa ciò che vuoi?».
«Hai ragione! Voglio bene alle mie amiche, ma non comprendono l’amore che provo per lui e questa è la mia occasione! C’è una festa in centro, so che lo troverò lì ed è lo scenario perfetto per rimetterci insieme». Il viso di Joy s’illumina mentre tira fuori quasi con furia tutti i vestiti asciutti. Non li piega, ma li butta nelle due sacche di plastica e si affretta a uscire, ma poi si volta verso il ragazzo.

«Grazie mille del tuo consiglio!», dice a voce alta. Il ragazzo si volta e fissa l’ingresso ormai vuoto, poi porta una mano all’orecchio sinistro. «Aspetta, amico, mi pare di aver sentito qualcosa…», e si guarda attorno per vedere se ci sia qualcun’altro nella lavanderia, poi torna a concentrarsi sul bucato e continua la sua conversazione al telefono.Joy attraversa la strada e raggiunge il locale dove sa di trovare il suo ex. Indossa il vestito di cotone bianco con piccoli fiori azzurri che ha comprato durante la loro prima vacanza in Grecia. Erano state due settimane stupende e indossarlo voleva essere un modo per ricordargli i bei tempi, e forse essere anche di buon auspicio.

Si infila tra la gente, lo cerca con lo sguardo. Ogni ragazzo dai capelli castani alto un metro e ottanta che le capita a tiro, attira la sua attenzione, ma è quando riconosce la sua risata che si volta e lo vede. Finalmente! Cammina verso di lui e sorride, ma quando incontra il suo sguardo si mostra improvvisamente seria, quel momento per lei è molto importante. È la svolta che aspettava.

«Hei, Joy, ciao! Come stai?».
«Molto bene, anche tu qui?».
«Non manco mai a una festa! Sai, mi fa piacere vederti…». Joy si sforza di non gongolare, o peggio, ballare di gioia davanti a lui. “Francesca e Giulia, avevate torto!”, pensa celando un sorriso beffardo.
«Sai, fa piacere anche a me e…».
«Ero andato in paranoia, sai… non sapevo come avresti reagito, ma ti vedo bene». Joy schiude le labbra e lentamente le sue sopracciglia si inarcano quando sul suo viso emerge un’espressione confusa.
«Che intendi?».
«La videochiamata che ti ho fatto. Sai, mi è partita per sbaglio!».
E a quel punto fu la fine…

Fine

joy_in_the_deep – “La menzogna più colossale che ti sia mai stata raccontata”
Di menzogne se ne dicono e sentono tante. Sempre a fin di bene? Purtroppo no. Io lo so, fin troppo. Sono sempre state bugie dette per legittima difesa, perlomeno le mie. A mali estremi, estremi rimedi. Frase fatta? Può darsi, ma ahimè è una grande verità. In certe menzogne magari ci si finisce per sbaglio, per paura o per vergogna. Perché non si ha altra scelta o solo per il gusto di farlo, per cattiveria gratuita, di quelle non ho esperienza e neanche pietà. C’è chi non può privarsene. Di tutte le menzogne, le peggiori sono quelle che suonano come un “Ti amo come nient’altro al mondo” e poi si rivelano delle stilettate nel fianco che non smettono più di sanguinare. La menzogna più brutta è quella che ti fa credere di essere amata e invece poi non è vero niente.

Quando Joy entra nel bar che affaccia sulla grande piazza del centro storico, una folata di vento smuove il profumo di croissant ancora caldi e latte mischiato al caffè e per qualche istante ha l’impressione di essere entrata in un’altra realtà. È un venerdì mattina, sono da poco passate le undici e Joy, assieme a un atteggiamento indispettito, si ferma davanti al bancone in attesa di ordinare un caffè. Non ne ha particolarmente voglia, lo fa solo per tenersi occupata.

Rientrare a casa significa rispondere alle domande di sua madre sull’esito del corso di recitazione, giunto alla decima lezione. Il solo pensiero le provoca ansia, l’insegnante non è per nulla soddisfatto dei suoi risultati. Le dice di continuo che un testo va compreso, amato e interpretato, qualunque esso sia. Per lui, il morboso legame di Joy a recitare solo testi che le piacciono, la limita e a fine lezione, le dice che se non impara come si deve la parte assegnata, è il caso che vada a spaccare legna per il resto dei suoi giorni.

«Che cosa prendi?». Joy torna alla realtà e di colpo le sue guance si colorano di rosso quando due occhi verdi la fissano in attesa di una risposta. Lei tentenna, le parole non prendono forma nella sua testa. Lo sguardo che la fissa è così magnetico da renderla quasi incapace di respirare. Non vedeva quel ragazzo lavorare al bar da diverso tempo e non si aspettava certo di vederlo quel giorno, proprio quando aveva pescato dall’armadio dei vestiti che nemmeno una cooperativa avrebbe accettato. Lui inclina la testa, le regala un piccolo sorriso e questo è sufficiente per Joy che d’improvviso disgela la sua mente e riprende possesso del suo corpo. Appoggia entrambe le mani sul bancone e inizia a parlare con una convinzione finora a lei sconosciuta.

«Sai, di menzogne se ne dicono e sentono tante. Sempre a fin di bene? Purtroppo no. Io lo so, fin troppo. Sono sempre state bugie dette per legittima difesa, perlomeno le mie. A mali estremi, estremi rimedi. Frase fatta? Può darsi, ma ahimè è una grande verità. In certe menzogne magari ci si finisce per sbaglio, per paura o per vergogna. Perché non si ha altra scelta o solo per il gusto di farlo, per cattiveria gratuita, di quelle non ho esperienza e neanche pietà. C’è chi non può privarsene. Di tutte le menzogne, le peggiori sono quelle che suonano come un “Ti amo come nient’altro al mondo” e poi si rivelano delle stilettate nel fianco che non smettono più di sanguinare. La menzogna più brutta è quella che ti fa credere di essere amata e invece poi non è vero niente…».

Il cuore di Joy batte così forte che pare rimbombare tra le mura del locale. Le mani lentamente si rilassano e si avvicinano l’una all’altra. L’ansia invade il suo petto e ora il respiro si fa più pesante. Se il suo insegnante fosse stato lì in quel momento avrebbe applaudito per la sua performance. Ne era convinta: era stata formidabile. Ora, però, voleva il parere del ragazzo che la fissava come fosse stato preso a schiaffi senza motivo. Non si conoscevano, che motivo aveva di mentirle?
«Caspita, ti ha proprio spezzato il cuore».
«Come dici?».
«Chiunque sia stato è proprio un pazzo. Non ti conosco, ma mi sembri una brava persona. E sai un’altra cosa?».
Joy scrolla le spalle, l’aria di chi sta cadendo dalle nuvole.
«Voglio invitarti fuori a pranzo. Ti va?».
Nonostante la perplessità del suo viso, Joy riesce a dire un sì appena percettibile e osserva il ragazzo carino e simpatico mentre si appresta a sistemare tazze e bicchieri, forse per impostare il lavoro al collega che inizierà il turno di lì a poco. Prende posto a un tavolino e lo fissa, indecisa se dirgli la verità. “Le bugie non si dicono, mai”. Questo le aveva sempre ripetuto sua madre, instillandole un’assurda paura al solo pensiero di mentire. E una relazione che inizia con una bugia non è una buona partenza. Il ragazzo si volta e richiama la sua attenzione.
«A proposito, io sono Davide».
«Joy».
«Piacere di conoscerti, Joy. Mi piace il tuo nome e sai un’altra cosa? Credo che saresti una grande attrice, hai carisma. Dovresti provarci. Dammi altri cinque minuti, poi possiamo andare».
La voce della madre risuona nella sua testa come un disco inceppato e la tentazione di dire la verità è forte. Forse tra cinque minuti gli dirà come stanno davvero le cose. O forse no…

Fine

AAA. Cercasi cadavere

Dal libro “642 idee per scrivere” del San Francisco Writer’s Grotto, ho selezionato alcune idee e ho chiesto, tramite un post su Instagram, di scrivere il primo pensiero che veniva in mente. Ho poi selezionato le tre risposte che più mi piacevano per trasformarle in racconti.

Come abitudine di Wanted Stories, ho fatto dei sondaggi per far scegliere quello che più ispirava per iniziare a scrivere e associato due domande a risposta aperta per avere a disposizione un paio di input da inserire nel racconto.

In questo caso, e in base al testo vincente, ho richiesto:
Quale segreto nascondono le due donne? Un cadavere 
Quale lavoro svolge Michela? È un’investigatrice

Qui di seguito il testo scritto da michela_m68 e a seguire, il racconto che ho sviluppato, ispirato proprio ad esso! Buona lettura!

Una famiglia (non la tua) che viveva nella via in cui sei cresciuto”Fino all’età di 12 anni sono cresciuta al primo piano di un piccolo appartamento. Ci abitavamo noi e due sorelle che erano anche proprietarie dell’intero stabile. Erano una vedova e una signorina, molto legate tra loro in un modo un po’ inquietante, come se nascondessero un segreto. Giocavo sul pianerottolo e a volte salivo e mi fermavo davanti alla loro porta e le ascoltavo parlare. A volte bussavo e si dimostravano generose: mi offrivano sempre caramelle e dolcetti. A distanza di anni ho capito che mi hanno trasmesso quella curiosità e voglia di indagare che mi appartiene tuttora.

L’auto si addentra in una zona residenziale, e si allontana lentamente dalle vie che ospitano negozi e locali. La strada che divide Michela dalla sua destinazione è minima ormai, mentre il tempo che l’ha vista lontana dallo stabile che sta per raggiungere è di gran lunga maggiore. Il collega parcheggia l’auto e si china in avanti, l’aria incerta. Alti palazzi dalle mura grigie circondano la strada e un velo di mistero piomba all’improvviso tutto attorno; è come se la città si fosse spenta al loro arrivo. «Ma dove siamo finiti?». La domanda è retorica, anche se l’espressione che gli si stampa sul viso pare reclamare risposta. «Chiudiamo questo caso in velocità, non ho alcuna voglia di passare l’intera giornata qui». L’uomo si avvicina al portone, fissa il civico, poi abbassa lo sguardo su un foglio e si rivolge a Michela.
«È questo lo stabile, ultimo piano. Andiamo».
«Ci penso io, non preoccuparti», risponde. Lui la fissa stranito, ma dal suo sguardo percepisce che sotto quella gentilezza si nasconde un ordine. Prende un pacchetto di sigarette dal taschino interno della giacca e se ne accende una, buttando fuori una gran nuvola di fumo. È sollevato dal non dover gestire un interrogatorio che voleva proprio risparmiarsi.

Michela appoggia la mano sul ruvido legno del portone che risulta aperto e che si apre emettendo un cigolio. Sale le scale piano, quasi avesse dei pesi alle caviglie. Ogni dettaglio attira la sua attenzione. Osserva con curiosità come le cose appaiono ai suoi occhi a distanza di trent’anni. Le scale presentano qualche crepa in più lungo il bordo sporgente. La ringhiera è arrugginita ma per nulla impolverata, come se venisse pulita regolarmente. Le pareti bianche si presentano ingiallite e l’intonaco in alcuni tratti è scrostato. A ogni passo, un tassello del passato fa capolino nella mente di Michela e in un lampo si rivede dodicenne mentre corre su e giù per le scale o gioca sul pianerottolo con l’amica del palazzo di fronte.

E quasi senza rendersene conto, è davanti alla porta d’ingresso dell’appartamento dove abitano le due donne. Non suona il campanello, ma rimane in attesa, proprio come faceva da piccola, quando la sua curiosità la spingeva a tendere l’orecchio per sentire cosa accadesse al suo interno. È passata da poco l’ora di pranzo e un silenzio che non le è per nulla familiare la confonde, perché le due donne erano sempre impegnate a fare qualcosa. Michela lo trovava strano e si era chiesta più volte cosa combinassero; persino la notte, prima di addormentarsi, percepiva i passi sul pavimento. Era come se per loro stare ferme determinasse il manifestarsi di una catastrofe.

Michela scuote il capo, scrollandosi di dosso i vecchi ricordi, poi suona il campanello. Sente qualcosa che striscia sulla porta, forse qualcuno la fissa dallo spioncino, poi si ritrova faccia a faccia con una donna dai capelli neri e qualche ciocca grigia che le regala un immenso sorriso. «Salve, posso aiutarla?». Michela non risponde, è travolta dall’emozione. Non vede una sessantenne con le rughe in fronte e l’aria stanca. Ai suoi occhi, appare la trentenne che le regalava sempre qualche caramella. Le teneva raccolte nel palmo della mano come fossero qualcosa di prezioso. In assenza di risposta, la donna ripete la domanda. «Mi scusi… Buongiorno, sono Michela Berico. Sono un’investigatrice». Lo dice come se fosse lo slogan di una pubblicità di un prodotto dalle caratteristiche promettenti. La donna si stringe nello scialle e chiede spiegazioni, più incuriosita che intimidita dalla sua presenza.
«Vede, signora…».
«Mi chiami Beatrice, la prego. E comunque non sono sposata…».
«Mi scusi… Beatrice, seguo il caso della scomparsa di un uomo, Antonio Perri, cinquantuno anni, vive in questo quartiere da circa un anno. L’ultima volta è stato visto in questo stabile e da alcune testimonianze pare che frequentasse spesso questa casa. Le dispiace se entro per farle qualche domanda?».

La donna spalanca la porta senza esitare e le fa cenno di entrare quasi avesse piacere della sua compagnia.
Michela si guarda attorno e trattiene un sorriso. Per lei si è appena scoperchiato il vaso di pandora perché solo ora si ritrova a soddisfare una curiosità che ha avuto per trent’anni: visitare l’interno dell’appartamento delle due sorelle dal fare così misterioso. La casa pare un museo: carta da pareti a tema floreale, nei toni del rosa e del verde, fanno sembrare l’ambiente un caldo e luminoso giardino. Un divano e due poltrone, in tessuto damascato, occupano il centro del salotto e i mobili in legno hanno un aspetto molto più vecchio delle proprietarie. La luce che entra dalla portafinestra crea un’atmosfera rilassante, quasi surreale; è come se una volta entrati, si fosse superato un confine che porta in un altro mondo. A Michela pare quasi di sognare.
«Dunque, che cosa vuole sapere?», chiede la donna.
«Io… lei… ehm… in che rapporti era con il signor Perri?». La domanda inizia con titubanza, ma si conclude con un tono serio.
«Lo conoscevo appena, in realtà. Ci aiutava con qualche lavoretto in casa, sa… caldaia, lavatrice. Quegli aggeggi si rompono senza motivo a volte».
«Ha detto ci… vive con qualcuno?».
«Mia sorella».
«È in casa?». Beatrice fa cenno di sì col capo.
«Potrei parlare anche con lei?». La donna non risponde. È come se quella sua reazione volesse intendere un chiaro no, ma poi sparisce lungo un corridoio ed entra in una stanza, chiudendo la porta. Percepisce delle voci e quella che pare una discussione. Fa qualche passo verso il corridoio, ma si arresta di colpo quando dalla stanza escono Beatrice e un’altra donna.

«Buongiorno, sono Milena. Mia sorella mi ha detto che è qui per parlare del signor Perri». Senza rendersene conto, Michela si lascia scappare un sorriso. La donna che ha davanti pare non essere cambiata per nulla. Giunonica, i capelli castani legati nel solito chignon composto, gli occhi piccoli e marroni, la fossetta sulla guancia destra. E l’immancabile eleganza non tanto del suo abbigliamento, dettato da un vestito di cotone rosa sotto a un cardigan beige, bensì dai suoi gesti. Le braccia poggiano sul ventre arrotondato, le mani unite e le dita intrecciate; la postura rigida che rimanda a quella delle ballerine di danza classica.

«Sì, vede signora, la vittima è scomparsa da quasi una settimana e alcune testimonianze portano a voi. Siete le uniche persone ad abitare qui e…». Milena la interrompe per offrirle un caffè che Michela accetta volentieri, prendendo posto sul divano, mentre le due donne siedono di fronte a lei sulle poltrone. Ora che Milena è entrata in scena, pare che Beatrice sia solo un oggetto in più ad arredare il salotto.
«Il signor Perri è stato qui un paio di settimane fa. Abbiamo avuto problemi con la caldaia. Ha cenato da noi. Raramente accettava di essere pagato e ogni tanto lo invitavamo a fermarsi a cena. Non possiamo dire di conoscerlo bene, era una persona di poche parole. In ogni caso, per quel che ne so, se ne è andato da qui con le sue gambe e respirava ancora!».

Lo dice sporgendosi in avanti e spalanca gli occhi come affermazione di ciò che ha appena detto mentre sorseggia il suo caffè. Regge il piattino con una mano, mentre con l’altra accompagna la tazza alla bocca con una invidiabile compostezza. «A suo avviso, poteva essere turbato per qualcosa? Ha notato nulla di strano in lui, quella sera?». Beatrice beve il caffè in silenzio, ha occhi solo per Milena. Stringe la tazza con entrambe le mani e beve come se fosse l’unica cosa che sappia fare. «Direi di no. Abbiamo cenato e chiacchierato del tempo, ma nulla fuori dall’ordinario».

Michela chiede qualche dettaglio in più sulla serata e Milena risponde con una prontezza incredibile ma lentamente le parole si disperdono quando nota un oggetto su una mensola. Un vaso in vetro lavorato, largo quanto un piatto da dessert e lungo una ventina di centimetri. Sembra contenere piccole pietre preziose, ma Michela sa bene che quelle palline colorate sono caramelle. Le stesse di trent’anni fa che le due donne le rifilavano quando capitava alla loro porta o le incrociava sulle scale mentre giocava. Qualcuna la mangiava subito mentre le altre le nascondeva per soddisfare momenti di golosità improvvisa. Milena continua a parlare, ma Michela finge di ascoltare, travolta dal passato cui non pensava di essere così tanto legata.

Ricorda i sorrisi di Beatrice e la mano a coppa piena di caramelle, l’aria fragile ma affettuosa, che la incoraggiava a giocare fuori di casa. “In questo modo si rimane giovani sempre!”, diceva. E Milena, con il suo fare regale e composto, la salutava con un cenno dello sguardo e le rare volte in cui le rivolgeva la parola era per chiederle cosa studiasse a scuola e aggiungeva sempre qualche titolo di un libro o citazione di qualche personaggio importante di cui però, all’epoca, Michela ignorava l’esistenza. Era grazie a quei brevi incontro che si era fatta la tessera per la biblioteca. Da lì era nato il suo amore per i libri e aveva sviluppato una curiosità a dir poco insaziabile. E questo l’aveva portata a fare l’investigatrice. Il rumore della tazza che sbatte sul tavolino la riporta alla realtà.

«Questo è quanto posso dirle, né io né mia sorella lo abbiamo più visto». A quel punto Milena si alza e d’istinto lo fa anche Michela, seguendola in silenzio quando con un gesto la invita all’ingresso. «Mi dispiace di non esserle di aiuto». I loro sguardi si incrociano per qualche istante e la mente di Michela cede di nuovo perché si vede una bambina sulla soglia dell’appartamento delle due sorelle, curiosa di sapere la loro storia. Qualunque cosa, ma niente che abbia a che fare con il signor Perri.
«Buona giornata», dice Milena e prima che Michela possa rispondere, Beatrice la raggiunge e le porge una mano. Il palmo pieno di caramelle.
«Tenga, ma non le mangi tutte in una volta». Il sorriso della donna è una stretta al cuore e mentre Michela stringe il dono prezioso, la porta si chiude e un silenzio improvviso pervade il pianerottolo.

«Un’altra giornata buttata al vento. Te lo dico io che è successo. Quel tizio si è ubriacato ed è finito in qualche fosso. Dicono che a volte ci desse dentro col bere. Ecco che fine ha fatto il nostro caro Perri… Che caso noioso, non capisco perché hai voluto prenderlo in considerazione…», dice il collega mentre guida, l’aria scocciata e la sigaretta stretta tra le labbra. Michela lo guarda e si limita a sorridergli. Non dice nulla in merito al polso arrossato di Beatrice, dei segni sul pavimento come se qualcosa di pesante fosse stato trascinato, del forte odore di candeggina che invadeva il pianerottolo. Rigira una caramella tra le mani e pensa che è da molto tempo che non visita una biblioteca.

Fine

La coppia che scoppia!

L’amore è una cosa meravigliosa, o almeno questo è quello che dicono! Scopritelo attraverso litigi, sfuriate, amici simpatici ma un po’ subdoli. Due punti di vista che vedono due coppie che si amano e si odiano!

“Una coppia si sta per lasciare!” – è con questa frase che ho iniziato il sondaggio per richiedere alcune informazioni e scrivere un breve racconto. Questa volta, io e il mio amico Aldo abbiamo scritto due storie separate, niente cadavere squisito, ma due punti di vista diversi – femminile e maschile – avendo gli stessi input!
E quelli da voi scelti li riporto in maiuscolo:

Entrambi vogliono Bob. Chi è? 
gatto/pappagallo/CANE

Cosa ha innescato il litigio?
misterioso pacco di Amazon/un mazzo di chiavi mai visto prima/UN LIBRO BIZZARRO

Arriva una telefonata improvvisa. Chi è?
la suocera di uno dei protagonisti/l’avvocato che hanno consultato assieme/UN AMICO/A CHE HANNO IN COMUNE

Ma non è tutto! Oltre ad usare questi input, avevamo anche una difficoltà in più, ovvero scrivere una storia che non avesse più di 5000 caratteri, spazi inclusi. A quanto pare ce l’abbiamo fatta, ma che dura!!!

LINDA MOON

Matilde e Francesco si stanno per lasciare. Litigano da oltre un’ora. Lei lo accusa di aver comprato quel libro. Lui si difende ripetendo più volte di no, ma non riesce a farla ragionare. Il libro è una serie di racconti di vita, nulla di drammatico, se non fosse che l’autrice è la sua ex. Urla, piatti rotti e smorfie di rabbia invadono il piccolo salotto dell’appartamento al terzo piano di Via Paganini, 26 a Vicenza. Il cellulare suona e Matilde risponde subito. Chiara, l’amica con cui entrambi sono cresciuti, ha un perfetto tempismo!

Dopo aver ascoltato il riassunto della situazione da parte di Matilde, arricchito da saltuarie intromissioni da parte di Francesco, decide di intervenire in loro aiuto e in meno di mezz’ora fa arrivare alla loro porta un uomo vestito come uno sciamano, la pelle olivastra e l’aria rilassata di chi problemi proprio non ne ha. Dice di essere un guaritore di ogni male e negatività e senza perdere tempo, chiede a entrambi di sedere sul divano mentre lui si accomoda a terra, le gambe incrociate e l’aria meditabonda. L’accento straniero, che ricorda vagamente le terre indiane, lo rende ancora più interessante e incuriosisce i ragazzi che per un attimo dimenticano il litigio. L’uomo fa loro precise domande e a turno rispondono. I toni alti lentamente si abbassano anche se a volte il giramento di palle riemerge pungente. 

Dopo un’ora la situazione sembra migliorata. Lo sciamano li ringrazia per l’impegno e presenta il conto di trecento euro. Matilde volge lo sguardo a Francesco che si trattiene dal dire la sua, non vuole certo rovinare quel momento per venire additato come colpevole, e provvede a consegnare i soldi. Lo salutano sulla soglia di casa ma lo sciamano pone loro un’ultima domanda, sottolineando quanto sia fondamentale la risposta. Chiede quale sarebbe il posto migliore per Bob, il loro cane. Avviene uno scambio di sguardi pensanti, braccia incrociate, espressioni indecise, poi l’uomo chiede il permesso di esprimere la sua opinione e suggerisce che il cane Bob vada a stare con l’amica che hanno in comune, Chiara, fino a quando non avranno sistemato con certezza la loro situazione sentimentale. Matilde e Francesco sembrano concordare e glielo affidano mentre lui li saluta pronunciando un’ultima frase sulla positività.

(la seguente parte è scritta in dialetto veneto. Le parole con la lettera “x” si leggono con una “s” fricativa alveolare sorda, come nel castigliano – spagnolo)
Quando sente bussare alla sua porta, Chiara accorre di corsa, l’aria visibilmente curiosa. 
«Hei, non me par vèro! Ghèto xà finìo?».
«Certo! Chi pénsito che sia?». L’accento straniero svanisce per lasciarne uno in dialetto veneto.
«Bob!!! El me can! Gò sbaià a dàrte a lòri come regalo, me so pentìa subito, ma ora te stè con mi par sempre! Col cavolo che te porto indrìo da chei dò!».
«E tì, sìto contenta?».
«Ovvio! Quando gò visto el libro su Amazon de l’ex de Francesco gò capìo chel ièra el modo migliore par farli litigar e riaver indrìo el can e i schèi che i me doveva! A proposito, ghèto i schèi?».
«Certo che i gò! Vàrda qui, trexento esatti!». 
«Meno male, li vansàvo da chei do fannulloni da mesi… i pensa che essendo amici tutto xè concesso, ànca prestiti a fondo perdùo! Quindi… te gài credù?».
«Oh, ma sìto drìo schersare?  Xé sìe mesi che vado al corso de recitasiòn. No i me gà solo credùo, i me gà adorà! Ghe mancava solo la standing ovation!».
«Ma te sì un genio, lo sèto? Finalmente gò risolto sta situasiòn, non ghe ne podévo più!».
«Cugina, se te ghè un problema, lo risolvémo! Non ghe xé scuse che tègna. Se te ghè da recuperàr roba xé riprendemo tutto queo che xé nostro!».
«Grasie caro, xé vedemo presto! Stame ben e salùdame to mama!».

Fine

ALDO FERRARESE

Buongiorno, io sono Bob!
Meticcio, quattro anni, taglia media. Pelo lungo, nero, con ciuffetti castano chiaro.
Di padre ignoto, mia madre abita in via Cave, qualche casa più in giù. Non la vedo mai, ogni tanto la sento abbaiare forte, si mormora sia una poco di buono. Io sono diverso, mi piace starmene disteso in giardino a godermi il sole, non mi piace farmi toccare e adoro mangiare.
Possiedo due umani, Lorenzo e Priscilla. Vanno a lavorare e partono al mattino per tornare la sera. Mi salutano

. «Ciao Bob!», e mi riempiono la ciotola. Prima Lorenzo e poi Priscilla. Tornano. «Ciao Bob!», e mi riempiono la ciotola. Priscilla per prima e dopo Lorenzo. Mi piace vivere così, tranquillo, senza sforzi inutili. Corse scalmanate, giochini idioti, manifestazioni di affetto non fanno per me, le lascio ben volentieri agli altri.

 
Oggi si è fermato un furgone davanti a casa. Ne è sceso un omone, molto più scuro dei miei. Mi ha guardato male, io l’ho guardato peggio. “Qua non entri”, gli ho fatto capire, e alquanto seccato ha allungato in maniera molto cauta il braccio sopra alla cancellata, per appoggiare un pacchetto sulla cassetta della posta. Dopo poco è tornata Priscilla, ha aperto il cancello e ha preso il pacchetto.

 
«Ciao Bob!», e mi ha riempito la ciotola. È entrata in casa e poco dopo è scoppiata a piangere. Lorenzo è arrivato più tardi del solito, ha aperto il cancello.
«Ciao Bob!», e mi ha riempito la ciotola. È entrato in casa ed è scoppiato l’inferno: robe spaccate, grida, pianti e parolacce, un casino che neppure Caronte. Di solito Lorenzo e Priscilla litigano a tarda notte, in camera da letto, e se le danno di santa ragione, tipo «toh, toh, toh… ah, ah, ahh… prendi questo… e questo… no, no, sì, sì… ancora, ancora, bastaaaa… ahhh!». Pure i vicini si arrabbiano. «Zio Billy, fatela finita! Porco zio, vogliamo dormire!». Qualcuno, invece, applaude. «Bah, valli a capire…». 


Comunque questa volta è stato diverso, non la smettevano più di urlare. Poi lui si è preso in piena faccia un piatto e anche il telefono e si è messo a frignare. Lei ha preso il sacco a pelo ed è venuta a dormire in giardino con me. E tutta la notte a piangere. «Bob, mi sei rimasto  solo tu…», ed io che non riuscivo a prendere sonno. «Che palle!».

La mattina seguente è cominciata ancora peggio: nessuno dei due è andato a lavoro, nessuno dei due mi ha riempito la ciotola. Non volava una mosca, nessuno parlava. Poi è squillato il telefono di Lorenzo.
«Ciao Arturo! Cosa? Vieni subito, sennò lo butto!», poi ha preso una sedia e l’ha sistemata nascosta in giardino e si è seduto, immobile, minaccioso, rilassato. Ho provato molto rispetto per il mio umano. Dopo un’ora è arrivata una macchina ed è sceso Arturo. Mi è sempre stato antipatico quello lì. Ha suonato il campanello mentre Lorenzo, nascosto, rimaneva immobile. È uscita Priscilla.


«Ciao Priscilla, ho fatto fare un bellissimo fotolibro, un regalo per la mia ultima fiamma, Claudia. 365 sfumature di Claudia, così l’ho intitolato. E ci sono 365 foto sexy e arrapanti di lei, fatte da me. Le ho fatto pure la dedica, Ti amo Claudia, da quando ti ho conosciuta tutte le altre donne mi fanno cacare.  Il tutto rilegato in morbida pelle. Spettacolo! Non volevo farmi sgamare da mia moglie, Giovanna, per cui l’ho fatto spedire qui a Lorenzo. So che il pacco è arrivato, posso averlo per cortesia?».


Priscilla muta e bianca come un cencio, l’ha fatto entrare  e in quel momento il mio rispetto per Lorenzo è diventato ammirazione. È uscito come un diavolo dal cespuglio urlando, «Attacca Bob!», cosicché mentre io mordevo gambe e chiappe, lui colpiva e graffiava faccia e braccia. Poi con un calcio l’ha fatto volare in strada, ha preso il pacchetto e glielo ha tirato in testa. È stato bellissimo. I miei umani hanno continuato a litigare due ore buone in camera da letto, ma ne sono usciti trasformati. Baci, coccole, parole dolci, evidentemente avevano fatto la pace, meglio così. E finalmente mi hanno riempito la ciotola.

 
Mentre mangiavo, Lorenzo mi ha ringraziato un sacco. «Grazie Bob! Bravo Bob!», e mi ha promesso un regalo. Siamo saliti in macchina e poco dopo, quando ho visto il pollicione all’insù e la scritta Happy Ending – toelettatura per cani  non sono riuscito a trattenere la gioia. «Ahuuuu, uhuuuhuu, ahahuuuu». Speriamo ci sia la pechinese dell’altra volta.  «Rfarf, grrrf, arfrrgrr».  Lorenzo sorride. “Ti voglio bene fratello”.

Fine

In una notte!

Penelope è una ragazza timida e goffa, ma ama divertirsi. Una sera, mentre è in un club a ballare con le amiche, fa un incontro improvviso ed eccitante che la lascerà però con l’amaro in bocca.

A questo punto, dovrà decidere se vivere in un amaro ricordo o se ribaltare la situazione a suo favore! Ci riuscirà?

STORIA INTERATTIVA
In un sondaggio abbiamo chiesto al pubblico se volesse leggere un racconto erotico scritto da noi e la risposta è stata un clamoroso SÌ!

In un secondo sondaggio, è stato chiesto quale tra queste situazioni intrigasse di più:
1.Sesso in ufficio con collega e fuori orario
2.Sesso in un locale pubblico con uno sconosciuto
3.Sesso con ex in quarantena
4.Da sesso virtuale a sesso reale con un’app!

E ha stravinto la seconda opzione! A quel punto, Aldo e io avevamo le basi per scrivere la storia! Ecco a voi il racconto scritto a quattro mani, con due finali diversi! Buona lettura!

Turno Linda 1

Penelope fissò la sua immagine allo specchio. Non indossava un abito così vistoso ma soprattutto così corto da quando, ormai tre mesi fa, aveva rotto con il suo ex. Ogni volta che pensava a lui, il suo sguardo era indecifrabile, come se cercasse di capire chi avesse abitato la sua mente in quel periodo. Ora che ci pensava erano troppo diversi. Ad ogni modo, tirava di continuo l’orlo dell’abito per coprire di qualche centimetro le gambe, ma l’elasticità del tessuto lo riportava alla sua lunghezza naturale. Il suo riflesso indicava che forse quella mise non era la più adatta, non tanto alla serata, ma al suo umore.

L’orologio segnava le ventuno passate e non appena lo notò, si affrettò a infilarsi la giacca di pelle e uscire di casa. Sperò che l’ascensore non fosse sul pianerottolo. Le avrebbe risparmiato tre piani di scale con un tacco dieci, ma non avrebbe resistito dal guardarsi ancora allo specchio col rischio di rientrare a cambiarsi. Fu sollevata quando non lo vide a portata di mano. 

Salita in auto, l’unica preoccupazione era collegare il bluetooth alla radio per far partire uno dei suoi brani preferiti. Aveva bisogno di prepararsi alla sua prima e vera serata da single con le amiche. Basta divano e patatine, lamentandosi di come avesse perso tempo con un tizio che non la meritava. Mise in moto l’auto e alzò l’audio al massimo, pronta a raggiungere le sue amiche. “Basta paranoie Penelope” pensò. “Stasera ci si diverte!”.

Turno Aldo 1

La vide uscire dal palazzo mentre era imbottigliato nel traffico. Tacco dieci e scarpe nere come il vestito corto che insisteva a tirare giù nel tentativo di allungarlo. Era bella, senza essere troppo appariscente. Non tanto alta. Scura di capelli e carnagione. Belle forme, generose, dove cade l’occhio. Sembrava andare di fretta, con tanti pensieri per la  testa. Gli diede l’impressione di una che non uscisse da tanto tempo e avesse grandi aspettative per la serata. Bastò poco per classificarla e le augurò di trovare qualcuno che la facesse divertire per davvero e che la facesse sentire donna.

Si mise a ridere. Capiva le donne ancora prima di parlarci. E per lui era ciò di cui aveva bisogno quella ragazza. Non di grandi discorsi sofisticati, ma di qualcosa di più concreto che la facesse sentire viva. Lui piaceva alle donne. Non per la bella faccia, il fisico scolpito o i soldi. Era la mente a renderlo irresistibile. Le sapeva approcciare perché capiva al volo chi aveva davanti. Intuiva il loro stato, quando erano disponibili e quando no, quando avevavo voglia e fin dove erano disposte a spingersi.

Sentiva l’odore della loro eccitazione e gli piaceva portare in superficie le loro perversioni per poi accontentarle. La vide salire in una Smart e immettersi nel traffico non lontano dalla sua Porsche. Mentre saliva in auto, il vestito salì appena e lasciò intravedere ancora di più le sue gambe. Quell’immagine fu sufficiente a stimolare la sua curiosità e così decise di cambiare programma. Il casinò poteva aspettare.

Turno Linda 2

«Allora, ti stai divertendo?» chiese un’amica.
«Da matti!» rispose Penelope. «Mi serviva proprio una serata così! Non so come ho potuto starmene per mesi a piangere un cretino!».
«Prendi questi». L’amica avvicinò la mano alla sua pochette e per poco a Penelope non le andò di traverso ciò che stava bevendo.

«E questi che cosa sono?» chiese sorpresa.
«Come che cosa sono? Preservativi!» replicò l’amica con fare intrigante.
«Ma quanti me ne dai? Saranno almeno una dozzina!». L’amica fece l’occhiolino.
«Non si sa mai…». Penelope la guardò stranita mentre cercava di infilarli nella pochette.
«Tu sei pazza davvero…» disse senza guardarla in faccia. «Ho detto che voglio divertirmi ma non in questo senso e poi…». Si interruppe maledicendo la pochette che non riusciva ad aprire. «Senti, me li puoi tenere tu?».

Si voltò verso l’amica, ma in quel momento diventò rossa in viso dall’imbarazzo che provò nel ritrovarsi a porgere dei preservativi a un tizio che sembrava avere il doppio dei suoi anni. Aveva un bel viso e indossava una giacca elegante sopra a dei jeans. La camicia grigia aderente lasciava trasparire un fisico piuttosto atletico. Ma soprattutto aveva l’aria divertita. 

«Hai intenzioni serie, vedo…». L’uomo fece un piccolo sorriso. Penelope rimase senza parole, ancora provata dalla vergogna. Si guardò attorno per cercare l’amica che sembrava essere svanita nel nulla. «Credo sia andata da quella parte». L’uomo indicò l’altro lato della pista. Penelope finalmente riuscì ad aprire la pochette e vi buttò dentro i preservativi. «Posso offrirti un drink?» le chiese all’improvviso. Penelope borbottò qualcosa mentre si allontanava da quel tizio, ma non fece in tempo a finire la frase che mancò uno scalino e perse l’equilibrio. L’uomo la afferrò in tempo e Penelope si ritrovò stretta a lui.

Turno Aldo 2

La fece sedere su uno sgabello vicino al bancone e ordinò due gin tonic, accomodandosi accanto a lei. Non disse nulla fino a quando non arrivarono i drink. «Sai, ti ho vista uscire da un palazzo, dall’altro lato della città e salire su una Smart mentre ero bloccato nel traffico» disse giocherellando con il ghiaccio nel bicchiere. «Poi ti ho rivisto in un locale del centro assieme a delle amiche per poi salire in un taxi».

Penelope lo osservava in silenzio, in parte ancora imbarazzata, in parte stranita dalle parole di quell’uomo. «E ora ti ritrovo qui» rispose infine divertito. Si guardarono dritto negli occhi, senza dire nulla. Lui a tratti sorseggiava il gin tonic, lei visibilmente nervosa, lo buttò giù tutto d’un fiato. «Per caso mi stai seguendo?» gli chiese e si lasciò scappare una risata che pochi istanti dopo contagiò anche lui. Non sapeva spiegarlo, ma le piaceva il suo modo di fare, il suo odore, la sua aria scanzonata, anche se non aveva ben chiaro dove volesse andare a parare, ma la curiosità ebbe la meglio. 

«Un altro drink?» chiese Penelope. «Certo» rispose lui, quasi compiaciuto dalla cosa. Penelope ordinò altri due gin tonic. «Mi hai seguita, vero?». Lui la fissò serio, ma non aspettò molto a rispondere. «Sì, ti ho seguita perché sono un istintivo per natura e, non so spiegartelo, ma ho percepito qualcosa quando ti ho visto, le potenzialità di un nostro incontro, penso. Ti ho osservato per tutta la serata e sento una forte tensione che dimora in te, come se volessi chiudere una parentesi dolorosa di cui, ti assicuro, non mi interessa sapere nulla e aprirne una nuova, più viva e potente. Vorrei solo darti quello di cui hai bisogno, qui e ora». Poi gli prese la pochette dalle ginocchia, l’aprì, ne estrasse un preservativo che infilò nel taschino della giacca e rimise la borsa dove stava.

Penelope lo guardò sorpresa e in quel momento arrivarono i drink. Porse a Penelope il suo, poi avvicinò i bicchieri per fare un brindisi. «Stanno arrivando le tue amiche e una di loro un consiglio te l’ha già dato. Puoi scegliere di accontentare quella voglia, quel fuocherello che non vede l’ora di ardere fino al cielo e di bruciarti tutta oppure puoi decidere di spegnerlo con altri drink e nuovi rimpianti». Si alzò, pagò il conto e si avviò senza voltarsi verso l’uscita.

Turno Linda 3

Penelope non fece caso a ciò che dissero le sue amiche. Strappò di mano un bicchiere a una e bevve tutto il contenuto facendo una strana smorfia con la bocca, poi strappò il bicchiere dall’altra amica e si diresse verso l’uscita. L’uomo camminava con fare sicuro lungo il corridoio dalle luci soffuse e quando sentì qualcuno toccargli la spalla per richiamare la sua attenzione, si girò e si ritrovò il viso bagnato che sapeva di rhum. Ora era Penelope a essere compiaciuta e dopo pochi istanti gli sorrise e si diresse verso una scala che portava a un piano superiore. L’uomo incuriosito da quel gesto, ma soprattutto da quel sorriso che tutto a un tratto aveva un’aria intrigante, la seguì.

Il club era pieno di gente e si faceva spazio per non perderla di vista. La vide sparire oltre una parete e quando si avvicinò, ebbe la conferma che lui le donne le conosceva bene. In quel piccolo angolo poco illuminato, Penelope stava in piedi, la schiena contro il muro scuro. Portò entrambe le mani al fondo del vestito e lo tirò su fino a lasciar intravedere le mutandine di pizzo viola. Lentamente l’uomo si avvicinò. Abbassò lo sguardo verso la sua parte più intima, poi la baciò, appoggiando tutto il suo peso contro di lei e con una leggera violenza la sollevò, strizzandole il sedere. Le lingue si cercavano di continuo. A tratti si accarezzavano, altre volte erano avide di piacere.

All’improvviso Penelope fu presa per i capelli e costretta a portare indietro la testa. Mentre lui le baciava il collo, con una mano accarezzava il suo seno destro, prima con dolcezza poi strizzandolo. E quando la mano raggiunse le mutandine, gliele scostò bruscamente, iniziando a esplorare quella zona che pareva già molto eccitata. Penelope alzò lo sguardo. Quel piccolo angolo rimaneva nell’ombra ma in qualsiasi momento potevano essere beccati. ”Fanculo” pensò. Non le importava.

Sentì le dita dell’uomo penetrarla e muoversi su e giù lente e la cosa la faceva impazzire. Alzò la voce, godendo di quel gesto. Avrebbe potuto anche urlare, nessuno l’avrebbe sentita. Non ne fu certa, ma era più che sicura che l’uomo le avesse tolto le mutandine perché non sentì più il contatto della pelle con il pizzo, ma quel pensiero presto svanì, quando lui si abbassò davanti a lei. Quell’uomo aveva ragione: voleva esattamente tutto ciò che lui le stava dando.

Turno Aldo 3

Inginocchiato tra le sue gambe, arrotolò  il vestito fin sopra ai fianchi. Trovò il sesso esposto e umido, la pelle morbida e liscia. Le sollevò una gamba e prese a leccarla ingordo, partendo dal basso e percorrendola tutta per soffermarsi sul punto più sensibile. Il tempo si dilatò e perse ogni significato, come la musica e le luci. Nessun testimone, solo una telecamera di sicurezza.

Penelope che geme forte, senza vergogna, e si tiene alla testa di lui, tirandolo a sé. Un urlo liberatorio, un orgasmo impetuoso, lei che si aggrappa per non cadere. Lui che si alza, si toglie la giacca e la getta a terra, la blocca contro il muro e avvicina il viso a quello di lei. Lingue che si cercano avide. Mani minute che sciolgono, esplorano, liberano un palo di carne che pulsa, duro e arrogante. Mani ruvide che afferrano collo e fianchi e la fanno chinare. Sessi umidi che si scontrano e scivolano fluidi uno nell’altro. Corpi sudati che sbattono con rabbia e godimento. E grugniti e urla e parolacce. Niente pudore, nessuna vergogna, solo una monta, solo la voglia.

La voglia di lui che si irrigidisce e che esplode dentro Penelope, facendole sbattere la testa contro il muro. Quella di lei che cola lungo le cosce fino al pavimento. Corpi che si sciolgono e si lasciano cadere sudati ed esausti, con la testa e le spalle appoggiate alla parete. Respiri affannati, il battito a mille. Mutande e vestiti ai loro piedi. Odore di sesso. Il tempo che riprende a scorrere poco alla volta, la musica, voci lontane. 

Finale Aldo

Lui si alzò con fatica e un lungo sospiro. Raccolse scarpe e vestiti, li indossò e se ne andò sicuro, senza degnarla di uno sguardo. Penelope lo osservò, senza parlare, tutta sudata  e con il respiro affannato. Appoggiata al muro, aspettò che tutta l’energia che aveva dentro si placasse, raccolse le mutandine e le infilò nella borsa, abbassò il vestito e cercò un bagno dove si ricompose e tornò dalle amiche. 

La bomba scoppiò soltanto una settimana dopo. Un noto giornale di gossip diede la notizia per primo, subito ripresa da giornali e televisioni. Su internet comparve un video, che sebbene subito censurato, si diffuse ovunque. Penelope, uscita da lavoro, si trovò circondata da microfoni e telecamere senza capire cosa stesse succedendo. Sul giornale compariva descritta ed esposta nei minimi particolari, compreso nome e cognome. Era lei, la giovane donna ripresa in un night club mentre consumava un feroce amplesso con Ettore Finamonti, uno dei più giovani e influenti politici italiani.

Le immagini, il video, la denuncia per atti osceni in luogo pubblico, il giovane e potente deputato, la giovane, bella e disinibita… il tutto ebbe un’eco devastante. Se ne parlò per settimane. Finamonti fu allontanato dal partito e non se ne seppe più nulla. Penelope umiliata, derisa e insultata si chiuse in casa, ma non cedette all’impulso di farla finita. Pianse tutte le sue lacrime, abbandonata da tutti, ma non si arrese. Quando varcò la soglia lo fece a testa alta, senza vergogna, da donna libera. Rilasciò interviste, divenne famosa, venne contesa dal business dello spettacolo. La giovane repressa era diventata Donna.

Dal letame del perbenismo, dell’ipocrisia e della maldicenza era sbocciato un fiore bellissimo che, ancora oggi, ritornando a quel momento, chiude gli occhi, si morde un labbro e sorride con malizia.

Finale Linda

Si era rivestito come se avesse appena finito una partita di tennis e si trovasse in uno spogliatoio. Penelope non era più al centro della sua attenzione. Era stato eccitante quel momento, ma cercò di calare le aspettative che emergevano nella sua mente. Anche se era un perfetto estraneo ed era stato chiaro nelle sue intenzioni, tutto ciò che voleva in quel momento era un abbraccio, sentirsi al sicuro, importante per qualcuno. Finì anche lei di rivestirsi, ma poi si bloccò all’istante quando vide sopra di loro una telecamera.

«Non ti preoccupare, è rotta».
«Quindi porti sempre qui le tue prede?». Lui fece un sospiro, abbassò lo sguardo.
«Magari potremo rifarlo ogni tanto…», esordì lei.
«Non vado mai con la stessa donna due volte. Nulla di personale». Penelope gli sorrise, ma non era un sorriso reale. Era tirato, falso, un modo comune per trattenere facili lacrime. Cercò con una certa insistenza il suo cellulare e inserì il suo numero. «Mai dire mai», e se ne andò.

Un paio di settimane dopo festeggiava i venticinque anni di un’amica nel ristorante di un lussuoso hotel e mentre era fuori a fumare, lo rivide. Una Porsche si era fermata all’ingresso e lui era sceso e aveva aperto lo sportello a una donna molto elegante, poi aveva consegnato le chiavi a un uomo in uniforme che in pochi secondi fu sostituito da un giovane ragazzo dall’aria smarrita. La tentazione fu forte e prima di rendersene conto, Penelope lo aveva fatto.

Dopo appena un’ora, l’uomo si presentò all’ingresso per richiedere l’auto e rimase esterrefatto.
«Che cosa vuol dire che hai dato l’auto a mia figlia, Penelope?!». Il suo sguardo era allibito e sconvolto mentre il tono della sua voce raggiunse una nota altissima e in meno di un secondo la sua accompagnatrice lo piantò in asso. In quello stesso momento il cellulare di Penelope squillò. Un numero non registrato in rubrica la stava chiamando. Sul suo volto si formò un sorriso. Non tirato. O falso. O per nascondere le lacrime. Era autentico. Spinse sull’acceleratore. Il rombo dell’auto tuonò lungo l’asfalto scuro.
«Pronto?».

«Credo che tu abbia qualcosa di mio».
«Sì ed è una gran macchina! La potrai riavere, ma a una condizione». L’uomo non riuscì a replicare perché Penelope gli diede precise istruzioni, poi riagganciò.

Quando raggiunse la via, non c’era anima viva. Il taxi si fermò proprio davanti all’appartamento che gli era stato indicato, ma lo ricordava bene. Era lì che aveva visto uscire Penelope per la prima volta. Vide anche la sua Porsche e quando raggiunse il marciapiede, la ragazza stava in piedi appoggiata all’auto. Giocherellava con le chiavi. Senza dire nulla, aprì il portone di casa ma prima di entrare si voltò. «Voglio essere l’eccezione alla regola, a te la scelta», e gli lanciò le chiavi, poi aggiunse «…se rompi le regole non succede nulla di male, mal che vada ci innamoriamo». 

Lasciò la porta aperta, un chiaro invito a seguirla. L’uomo rimase fermo in piedi a osservarla. Poi lentamente fece qualche passo in avanti e chiuse il portone alle sue spalle. Era infastidito per essere stato una sorta di pedina, voleva essere lui a condurre il gioco, ma ne era anche molto attratto. Una parte di lui l’avrebbe strozzata, l’altra l’avrebbe baciata.

Fine

Pazzo. Incasinato. Amore…

Il ragazzo che ci corre dietro e ci regala un sorriso di solito non è mai il ragazzo che ci piace. I nostri occhi altro non vedono che l’adone appollaiato sul suo bel trono che non ci degna di uno sguardo nemmeno per chiedere dove sta il cesso; e per noi femmine è frustrante!

Una volta c’era l’aiuto della famiglia, che più che aiuto sembrava un complotto che le teorie sulla morte di Kennedy levati proprio! A pensarci oggi, nel 2020, vengono i brividi ma forse alcune di noi, sotto sotto, avrebbero piacere che la famiglia combinasse un matrimonio. Vedendo come le mamme selezionano i prodotti al supermercato e le iscrizioni all’asilo quando stanno ancora tentando di rimanere incinte, si potrebbe dire che saremmo in una botte di ferro! 

Scherzi a parte, una mamma selezionerebbe un maschio degno della nostra femminilità e dovremmo solo convivere col fatto che non lo abbiamo accalappiato da sole, ma pensiamo anche a tutti i soldi risparmiati in aperitivi o feste per provare – ho detto provare e non trovare – a conoscere qualcuno. Non siete d’accordo? Pensate allora che coi soldi risparmiati salterebbero fuori tacchi di Louboutin e un paio di viaggi in qualche meta da urlo. Ecco, penso di avervi convinto a “tacchi” come Tom Cruise aveva convinto una giovane René Zellweger al “ciao” nel film Jerry Maguire.

Bé, forse parlo di utopie. Forse dopo questo virus le cose cambieranno e ci accoppieremo diversamente, chi lo sa. So solo che ora come ora, alla soglia di 35 anni suonati, ogni tanto fa male non avere nessuno, ma peggio, il pensiero di non riuscire a trovare nessuno. Le frasi Vedrai che troverai l’uomo giusto e Meglio soli che mal accompagnati non sono più sufficienti perché ci sono dei momenti in cui ti senti invisibile e temi che sarà così per sempre. 

Non si tratta di gelosia verso le amiche che hanno marito, figli e una casa con un mutuo fino alla tomba. Insomma, non più di tanto… Si tratta di non avere nessuno con cui condividere la quotidianità. Lo puoi fare a quarant’anni, a quarantacinque e anche a sessanta, ma il punto è che noi femmine lo vogliano adesso; e vogliamo una persona che sia disposta a starci accanto e che non scappi alla prima oca giuliva che gli passa accanto.

Vogliamo il maschio con le palle, ma non quello in grado di affrontare una gang a suon di cazzotti. Per quello abbiamo Netflix con The Rock, Jason Statham e Vin Diesel. Vogliamo un maschio con le palle di rimanere in una relazione. Un maschio che quando si litiga ci tiene testa e con cui urlare e comunicare per poi abbracciarsi qualche ora o anche giorno dopo, più uniti di prima. 

Un uomo che cucini per noi ogni tanto o che eventualmente bruci la cena per far intervenire i pompieri a casa e farci luccicare gli occhi a vedere tutti quegli uomini in divisa e superfichi quando lui magari è più simile a una mezzasega, ma a noi farebbe piacere perché poi a letto gli mostreremmo tutta la nostra gratitudine.

Non ci vergognamo a sentirci sole, lo urliamo anche al mondo, ma qualcuno deve rispondere a questo nostro appello perché davvero non sappiamo più dove siano finiti gli uomini che vogliono impegnarsi. Sia chiaro, ci sono anche tante zoccole che Gola Profonda in confronto era un esempio puro di santificazione e onore al Cristo, ma con tutte le femmine che conosco, posso confermare che non siamo svitate o psicopatiche; non tutte, almeno! Siamo piene di ormoni, urliamo e ci agitiamo ma lo facciamo tanto quanto sappiamo amare e far sentire qualcuno protetto e al sicuro.

Non vogliamo relazioni in chat, vogliamo uscire e vivere il rapporto a contatto con una persona e vista questa quarantena, una volta uscite, lo vorremmo ancora di più. Perché ora come ora un bacio sincero è un’arma letale e un abbraccio equivale a soffocare il respiro di qualcuno. 

Non saremo giovani e attraenti come delle ventenni.
Non saremo sagge e piccanti come delle cinquantenni.
Siamo nell’età di mezzo e per una femmina e fa schifo, ma non per questo smettiamo di provarci.

S come Solitudine

Due racconti: uno racconto surreale e uno bizzarro. Unico punto in comune: un quadro di Edward Hopper.

Gli scrittori hanno sguinzagliato la loro ispirazione e scritto due brevi racconti, ispirati da un quadro molto particolare del “pittore della solitudine”.

STORIA INTERATTIVA
Mi è stato proposto da Alberto Sartori di elaborare un racconto ispirato al pittore americano Edward Hopper. Esponente del realismo, è famoso in particolare per i ritratti della solitudine, cosa molto affine a questo periodo di “arresti domiciliari”. E come faccio sempre, ho chiesto al pubblico due input, ovvero: qual è il vostro pensiero ricorrente? Qual è la cosa più strana in cui vi siete cimentati?
Ecco i nostri racconti singoli e gli input che ci hanno ispirato! Buona lettura!

Racconto di Linda Moon

(Input di Ugo Domeniconi) – Il mio pensiero ricorrente è “Stavo facendo veramente la vita che avrei voluto fare o con gli anni mi sono adattato agli eventi?”. In altre parole “Che vita vorrei che mi aspettasse fuori?”. La cosa più strana in cui mi sono cimentato? Ho simulato di avere ospiti a cena apparecchiando la tavola per loro senza che ci fossero veramente! E abbiamo anche chiacchierato un po’, ma non lo dire a nessuno! 
Leggi il racconto di Linda Moon a questo link: Pilar e i 12 ospiti improbabili

Racconto di Alberto Sartori

(Input di Ugo Domeniconi) – Il mio pensiero ricorrente è: “Stavo facendo veramente la vita che avrei voluto fare o con gli anni mi sono adattato agli eventi?”. In altre parole: “Che vita vorrei che mi aspettasse fuori?”.
(Input di Cecilia Mariani) – La cosa più strana in cui mi sono cimentata? In questa quarantena ho… letto ad alta voce!

Seduto sopra a questo letto di nuvole e cotone, la finestra sembra rimpicciolirsi sempre di più. Ricordo ancora la prima volta in cui vidi questo appartamento, entrai in camera e… meraviglia! La vetrata che si parava di fronte a me era grande come tutta la parete. Ed i pensieri volarono al di là di quello schermo trasparente, alle miriadi di balconi che avrei potuto osservare, ai passanti che piccoli come formiche potevo veder operare ogni giorno, perfino immaginando i loro dialoghi. Ed invece qui, ora, stringendo le ginocchia al petto, quella finestra non mi sembra molto più grande del mirino di una fotocamera.

E di nuovo mi perdo a riflettere sul mutare della percezione delle cose.
E di nuovo mi perdo a meditare sul cambiamento della percezione della vita.
E le domande si adagiano dentro la mia testa come grossi fiocchi di neve cullati dal vento, si depositano colmando ed opprimendo la mia lucidità.
Sto davvero facendo la vita che avrei voluto fare? O con il passare degli anni mi sono adattato agli eventi? Che vita vorrei che mi aspettasse fuori? Le risposte non tardarono ad arrivare, come lame poco taglienti che premono sul costato facendomi mancare l’aria. Tento di alzare le mani ed allungare le ginocchia ma è come se fossi incollato a me stesso. Ed i polmoni sono ormai saturi di anidride carbonica che brama di liberarsi ed uscire dall’interno della mia prigionia.
Sono in apnea.

“Rispondi alle domande, Sergio. Muoviti!” è la mia mente che impartisce gli ordini a me stesso. Lei sa che l’ossigeno inizia a scarseggiare nelle mie arterie.
“No! Non sto facendo la vita che avrei voluto fare!” inizio ad urlare e qualche schizzo di saliva mi esce dalla bocca, prima di riprendere: “Perché me lo chiedi? Ma che cazzo vuoi? Lo sai il perché. Vuoi sentirtelo dire di nuovo? Va bene! Perché mi sono adattato a quello che le persone hanno voluto che io fossi. Perché per avere l’approvazione di chi mi stava attorno sono sempre stato gentile, rispettoso, amorevole ed invece… invece… avrei voluto prendere la macchina e sparire nel nulla.

Andare a sopravvivere, che ne so, in Provenza a raccogliere la lavanda ed a mantenermi con lavori saltuari. Avrei voluto tornare ad amare invece di chiudermi dentro ad un bozzolo di seta senza mai rinascere farfalla. Ed invece piedi sempre bene a terra, lavorare per uno stipendio fisso dimenticando cosa siano davvero le passioni, le emozioni, tentando di far tacere ogni giorno quell’anima creativa che mi esplodeva dentro.”
Sono ancora in apnea.
Sono passati 45 secondi.
“Che vita vorrei che mi aspettasse fuori? Ma te l’ho appena detto! Casomai potrei dirti che vitavorrei che mi aspettasse qui dentro. E sai qual è la risposta? Nessuna! Rinchiuso in questa gabbia che mi sono creato da solo, ferito da una tagliola per orsi mentre io sono soltanto un coniglio, ammaestrato da questa infedele e rabbiosa società.”
Non sono più in apnea.
Sto di nuovo respirando.
L’agitazione contrae spasmodicamente i miei muscoli.
Guardo a destra.
Guardo a sinistra.
Muovo la testa a scatti, come frame di un vecchio cartone animato. Guardo il soffitto, poi il comodino, la scrivania. Fermo lo sguardo. Un solo libro sulla mia scrivania. “Suicidio, istruzioni per l’uso”. Riesco a scollarmi da me stesso e corro a prenderlo, apro una pagina casualmente, mettendomi a leggere a voce alta. Sono davvero impazzito. Quando mai io, Sergio, con questa voce di merda, ho letto a voce alta? Nemmeno a scuola, nemmeno in chiesa, nemmeno al funerale di mia sorella. Ed invece stavolta inizio a leggere ad alta voce. 
“Pagina 258. Materiale necessario: sacchetto di plastica almeno cinque volte le dimensioni del cranio. Elastico.
Istruzioni: mettere la testa all’interno del sacchetto di plastica, sigillare con l’elastico all’altezza del collo. Attendere. Respirare con calma.”
Vado in cucina, apro il secondo cassetto e prendo quel maledetto sacchetto di plastica che avevo preparato proprio per questa occasione. All’interno c’è già un elastico color verde acceso.
Torno in camera e prendo la lettera d’addio che ho scritto qualche mese fa, non ricordo nemmeno il giorno preciso, fatico perfino a ricordarne il contenuto. 
Chiudo gli occhi e faccio dei bei respiri profondi.
I secondi non scorrono.
Le mani tremano.
Le pareti si allargano alle mie espirazioni e si stringono con le mie inspirazioni.
Chiudo gli occhi.
Bestemmio.
Riapro gli occhi.
Bestemmio.
Delle ganasce immaginarie stringono forte i miei bronchi.
Un ultimo respiro e…
…mi decido ad agire.
Prendo la lettera e la infilo dentro al sacchetto di plastica, sigillo con l’elastico, apro la finestra e

lancio tutto verso la strada sottostante. Da quassù osservo quella donna che vede cadere ad un metro da lei quel pacchetto schifoso. Lo scarta. E’ evidentemente attratta dalla lettera su cui ho impresso: “Con amore. Sergio”. E dopo qualche secondo la sta già leggendo.
“Non basterà il tuo sguardo a togliermi quella malinconia che mi brucia dentro. Non basteranno nemmeno le tue mani mentre accarezzeranno il mio viso, le mie braccia. Non basteranno le parole lontane, sussurrate a malapena da corde vocali impaurite, incapaci di sopravvivere all’amore. Non basteranno i sussurri, le vecchie ragioni, le nuove opinioni, i tuoi sorrisi riflessi nella mia anima. Non basterà il tempo, avvizzito da troppe stagioni, eroso dal passaggio di troppi serpenti sempre sullo stesso cammino. Non basterà la morte a farmi temere un’emozione, assopita, affranta, lacrimata sulle gote. Niente basterà a togliermi da questa tormenta, a far calare il vento che spinge  via la mia nave da cuori troppo ammaestrati per esser conquistati. Niente basterà per cullare le mie ore notturne. Niente basterà. Sergio”.
La donna rimane immobile con quel pezzo di carta tra le mani. Sono qui da ben sette eterni minuti, ho contato i secondi uno ad uno. La mia mente è diventata un singhiozzante orologio che dilata le ore a piacimento. La vedo ripiegare con cura la mia lettera e metterla in tasca. Senza togliere lo sguardo frugo, allungandomi, all’interno del cassetto della scrivania e tiro fuori il vecchio binocolo di mio padre. Devo vedere la scena in ogni dettaglio, non so cosa mi stia spingendo a farlo. Lascio che il mio sguardo passi attraverso le lenti di ingrandimento. Ha gli occhi chiusi.

Dal taschino dei jeans esce un pacchetto di Marlboro. I capelli sono raccolti in una lunga e bionda treccia che termina con un spruzzata di colore rosa. Le sue mani sono aperte ai lati del corpo senza appoggiarsi sui fianchi. La vedo riaprire gli occhi e con una lentezza infinita alzare lo sguardo e poi la testa. Sembra stia cercando qualcosa. Continua a guardare in tutte le direzioni possibili e poi si ferma all’improvviso. I suoi occhi penetrano dentro ai miei, mi accecano, le mie iridi iniziano a bruciare, la mia mente va in completo blackout.

Non so come sia possibile.
Non riesco a credere che sia possibile.
Non ho preso pastiglie e non ho inventato nessun nuovo cocktail di psicofarmaci.
Eppure il suo pensiero sta entrando nella mia mente: “Sergio, io ti amo”.
Ed i pensieri iniziano a roteare come in una spirale, il cuore accelera i battiti fino a 180.
Le tempie iniziano a pulsare.
Sorrido e non smetto di guardarla.
Ed in un attimo la vedo scomparire.
Ed in un secondo mi sveglio con quella serenità che avevo ormai perduto da settimane.
La sensazione d’amore pervade tutto il mio corpo.
Mi giro e trovo lei di fianco a me. E’ la donna che nel sogno non avevo riconosciuto.
E’ la donna che non lascerà mai che io cada nell’oblio e nella solitudine.
E’ la donna che non mi farà mai vivere bramando un sacchetto di plastica.
E’ la donna che amo.
E’ la donna che…
…le coperte si sgonfiano e calano lievi sul materasso.
Sul cuscino scompare l’impronta della sua testa.
Il letto è di nuovo vuoto.
Il letto è di nuovo freddo.
Le allucinazioni sulla vita che vorrei lasciano nuovamente spazio a questa mia eterna solitudine.

Fine

Manchi…

Ho scritto una storia assieme ai lettori! Ho dato il via chiedendo di scrivere un incipit con un commento, qualsiasi cosa, e chi proseguiva il commento doveva farlo secondo un senso logico. Al mio stop, ho preso tutti i commenti e sviluppato e concluso il racconto! Cosa sarà venuto fuori?

STORIA INTERATTIVA
Ho fatto un esperimento di scrittura! Ho chiesto al pubblico di scrivere assieme! Un esperimento che è andato piuttosto bene direi, nonostante tutti abbiano sgarrato rispetto alle regole dettate e scritto più di una frase. Stupita da tale coinvolgimento ho deciso di continuare comunque… Al mio “stop” ai commenti, e quasi per caso, si è aggiunto un amico al progetto e assieme abbiamo creato un particolare Cadavere Squisito, l’ormai noto lavoro a quattro mai, e ho deciso di scrivere “intervenendo” tra un commento e l’altro, per concludere assieme nel finale. Inutile dire che l’esperimento ci ha divertito molto!

Ed ecco a voi la storia. Tra un commento del pubblico e l’altro, Linda Moon e Aldo Ferrarese si sono “intromessi” e hanno costruito una storia. Buona lettura!

Federica Del Deo — Si incontrarono alle sette di sera, senza darsi appuntamento. La pioggia cadeva ritmica sulla superficie del lago scuro e senza tregua. Nessuno di loro aveva il coraggio di iniziare la conversazione.

Linda Moon — “Che cosa ci fa qui?” continuava a ripetere a se stessa Erika. Era davvero una strana coincidenza incontrarlo, ma la piacevole sensazione che provava in quel momento le fece capire che i sentimenti nei suoi confronti non erano del tutto sepolti. Lo guardò titubante mentre lanciava nel lago quello che sembrava essere un sacchetto di stoffa. I capelli rasati, la barba appena accennata, gli occhi azzurri e la solita giacca di pelle ormai logora che conosceva bene perché era stata un suo regalo. Era incredibile, Mattia non era cambiato per niente. E proprio in quel momento i loro occhi si incontrarono. Erika per un attimo aveva pensato che lui l’avesse vista, invece si sbagliava. Si fecero vicini fino a quando i loro ombrelli non si scontrarono dolcemente e quando lei prese posto su un muretto, lui fece lo stesso. 

Milena MarottaEd eccola lì, seduta di fronte a questo magnifico tramonto. I pensieri le incasinano la mente. Chi lo avrebbe mai detto che sarebbe successo a lei, proprio a lei. 

Aldo FerraresePensava di essere ormai immune all’amore. Troppo aveva sofferto per quello stupido sentimento e aveva già pianto tutte le sue lacrime. Invece le era bastato vederlo per tornare fragile e insicura. Lui invece appariva ancora più duro di come lo ricordava. «Ho messo in quel sacchetto tutto quello che mi parlava di te. L’ho buttato in fondo al lago per dimenticare, per dimenticarti» disse Mattia ridendo, poi proseguì a parlare, serio. «E tu che fai? Appari dal passato, in carne ed ossa». Lei stava per rispondere ma lui glielo impedì. Le sue mani la trascinarono a terra. La toccarono senza chiedere il permesso. La strinsero forte e con una leggera violenza. 

Ugo DomeniconiAll’improvviso uno squarcio di sole aprì il cielo. La pioggia smise di cadere rumorosamente e sul lago comparvero chiare le sagome di quel paese sull’altra sponda dove si erano conosciuti e dove tutto era cominciato. E fu nel pensare a quello, che lui trovò il coraggio di pronunciare una prima frase. Forse perché pensava che se sull’altra sponda del lago tutto era iniziato, su questa dove si trovavano ora forse tutto sarebbe giustamente finito.

Linda Moon Il cielo si comportava in maniera strana, quasi provasse le stesse emozioni di Erika e Mattia. Uno strano silenzio era calato su quel muretto dove erano tornati a sedere. Lei non riusciva a parlare. Era stata presa con un apparente violenza, ma che celava una grande passione che le era mancata da morire. Allora lui aveva sofferto più di lei. E forse era sincero quando le aveva detto più volte che il suo tradimento era stato un errore di cui si era pentito. Voleva parlargli, ma lui l’anticipò.

Alberto SartoriAttaccò lui: «Hai visto l’ultimo film di Tarantino?». Non poteva fare domanda peggiore. Lui che eterno sognatore aveva ormai dimenticato le vie da percorrere per l’amore, affranto e abbattuto da quei venti mattutini di una vita spinta dalle cicatrici della memoria.

Aldo Ferrarese – Avrebbe voluto stringerla di nuovo a sé e dirle quanto le era mancata, delle notti insonni passate a piangere, delle lacrime che aveva versato. Avrebbe voluto chiederle scusa, dirle ti amo. Ma non ci riuscì. Il rimorso per lo sbaglio commesso ancora lo divorava e la vergogna gli inaridiva la lingua.  Lei sorrise sarcastica prima di rispondere.

Laura Flaminio — «Si, l’ho visto ed anche se, come sai, non è tra i miei registi preferiti, mi è piaciuto. Soprattutto sono riuscita a guardarlo dall’inizio alla fine. Da poco ho riacquistato la capacità di concentrarmi sulle cose. E questo mi rende felice».

Linda Moon — Fissò l’orizzonte mostrandosi sicura. Non voleva far trasparire la fragilità che ancora la faceva da padrona al suo cuore. “Che domanda stupida ha fatto” aveva pensato, ma per un attimo la riportò alla loro quotidianità, quando litigavano per il film da vedere al cinema. Avrebbe voluto sorridere ma solo in quel momento si accorse che era una cosa che non faceva da un po’. 

Maurizio Babini«Vedi» continuò lei accennando un sorriso che da tempo non le si vedeva in volto. Quello sincero e morbido che innescava una serie di meccanismi da farla apparire splendida agli occhi di chiunque. «Se avessi del cibo ora lo getterei nell’acqua a quelle povere anatrelle».
«E questo cosa significa?» domandò lui inarcando le sopracciglia.
«Significa che ho notato quelle povere anatrelle e ho avuto un pensiero per loro. Mi ero così chiusa in me stessa da non riuscire più a vedere nulla di ciò che mi circondava. La mia mente era così pesante, chiusa nella gabbia che il dolore le aveva costruito attorno. A volte mi chiedo come abbia fatto anche solo a mangiare.»

Aldo Ferrarese — «Mi dispiace Erika, io mi sento colpevole».
«È questo ciò che più mi ferisce, Mattia! Ti dispiace, ti senti in colpa, mi salti addosso senza nemmeno chiedermi se io lo voglio oppure no.  Io, Io Io , solo io. Non riesci ad andare al di là di te stesso. Ma di me ti interessa davvero qualcosa? Io avrei saputo addirittura perdonare, ma tu nemmeno ti accorgi di avere a che fare con un altro essere umano, con idee e sentimenti. Ti accorgi solo del tuo dolore, del tuo rimorso, dei tuoi bisogni. Ho pianto, ho passato notti insonni, ho rinunciato a vivere, ho…».

Nazzario AndreelloLui interruppe quella conversazione mentre fissava lo scenario sotto un bellissimo cielo d’agosto. «Andiamo a bere qualcosa». La fissò. «Rischiamo di bagnarci, non ha smesso di piovere del tutto…». Lei rimase in silenzio. Sentire le gocce accarezzare il viso le procurava piacere, poi fece un cenno di approvazione con il capo. Lo prese per mano e si diressero nel locale più vicino. Quando lesse il nome, Igloo, ci rimase di sasso.

Linda MoonNon aveva idea che quel locale fosse ancora aperto. Si vociferava che avessero deciso di chiuderlo, invece il giardino esterno brulicava di persone impegnate a bere i loro dissetanti drink. Avevano sempre parlato di andarci, ma non era mai successo ed era davvero assurdo che si trovassero lì proprio ora. Mattia la guardò senza dire nulla, forse sapeva che era meglio non peggiorare una situazione già precaria. Erika invece si era stupita di quel gesto. Gli aveva preso la mano come fosse una cosa normale, come fossero ancora la coppia felice di un tempo. Il suo cuore batteva forte e nella sua testa pensava ad una cosa sola. Una parola. Sei lettere… 

Massimo DonàManchi. Era la parola che avrebbe tanto voluto urlare a quel cielo grigio, ma che ora, nel momento in cui servirebbe, stentava ad uscire dalle labbra seccate dal vento. Il suo sguardo, però, la tradì e fece capire ciò che pensava. «Lo so!» disse lui, senza aver sentito quella parola intrappolata nella gola. «Come lo sai? Sai cosa?». 
«Lo so, l’ho sempre saputo, che nonostante le tempeste che la vita ci ha sputato addosso avremmo resistito, che ce l’avremmo fatta e saremmo giunti nella stessa riva di questo lago, sotto la pioggia, ad urlare quanto ci siamo mancati!»

…continuano gli autori per il finale…

Erika bevve un sorso d’acqua. Ascoltava distrattamente quello che Mattia le stava dicendo. Nella sua testa non sapeva cosa fare. Ne era ancora innamorata, ma lui l’aveva tradita e questo aveva rovinato il loro rapporto e scalfito la fiducia che aveva nei suoi confronti. Era buffo che si trovassero in quel lato del lago, quando a quello opposto la loro storia aveva avuto inizio. Era forse un segno? Voleva dire che quello era ufficialmente un addio? «Erika?». Lei lo guardò. Era chiaro che le avesse chiesto qualcosa, ma non aveva colto la sua domanda. «Scusa» disse lei. «Puoi ripetere?».
«Certo» rispose lui, poi gonfiò le guance e se ne uscì con una sonora pernacchia. Erika rimase in silenzio, sgranando gli occhi. Lui la fissò con lo sguardo confuso ma buffo. In quel momento pensò che fosse molto bella e che era con lei che voleva stare. Lei pensò che gli era mancato il suo lato spensierato e per quanto lo odiasse, non avrebbe voluto essere da nessun’altra parte. Dopo qualche istante scoppiarono entrambi a ridere, senza riuscire a fermarsi, e quella leggerezza, quella gioia, li accompagnò per il resto della serata, mano nella mano.

Fine

Traffic

Rebecca è una giornalista, ma prima di tutto un’idealista. Vuole giustizia, sempre! E quando le capita una buona storia, non si tira indietro. È pronta a tutto. E lo sa bene che ci saranno conseguenze, perché c’è sempre un prezzo da pagare. Solo, a volte, il rischio è fin troppo alto.

STORIA INTERATTIVA

Ho sperimentato un Cadavere Squisito, il racconto scritto a più mani, con una nuova recluta: Aldo Ferrarese. Un ragazzo con una storia di vita molto interessante che si è divertito in questo gioco di scrittura! E come primo debutto assieme, piuttosto soddisfacente ho lanciato come input una breve frase. In seguito, poco prima della stesura del finale, abbiamo chiesto al pubblico come dovesse proseguire la storia e ha vinto l’opzione “Svolta inquietante con omicidio”. E ognuno di noi ha scritto il suo finale!

Buona lettura!

“Ci scusi tanto signorina, c’è stato un errore nel database. Questo successo non è suo, lo deve restituire. Ci scusi sa, a volte capita anche a noi di sbagliare”.

(Input di Linda Moon)

Turno 1 Linda

Rebecca fissava l’ambiente davanti a sè che pareva aver perso ogni colore. Teneva gli occhi incollati sullo schermo del cellulare, incredula di ciò che aveva appena letto. In un lampo sentì una strana sensazione al petto che raggiunse la gola e le fece quasi mancare il respiro. Aveva lentamente smesso di camminare e si era fermata al centro del marciapiede, noncurante delle persone che dovevano deviare il percorso per non urtarla. I suoi occhi erano sgranati e allibiti. Il corpo rigido come un tronco d’albero. Solo i lunghi capelli castano chiaro si muovevano seguendo il leggero vento che aveva da poco spazzato via le nuvole per lasciar spazio ad una bellissima giornata di sole. Ma le condizioni atmosferiche erano l’ultimo dei suoi problemi. Si trovava a pochi passi dalla destinazione che a breve l’avrebbe vista al centro di in un’intervista in diretta nazionale. 

Ce l’aveva fatta! Questo le era stato comunicato tramite email appena una settimana prima quando aveva ricevuto l’esito del concorso letterario cui aveva partecipato inviando il suo romanzo. Ora però asserivano il contrario e anzi, reclamavano indietro quel successo che, a quanto pare, non era meritato.


Turno 1 Aldo

Come cavalli imbizzarriti, pensieri ed emozioni litigavano per ottenere la sua attenzione. «Pazzesco! Mi hanno preso in giro! Era troppo bello per essere vero! E ora vogliono pure distruggere la mia credibilità. Troppo strano che la mia denuncia e le mie indagini  fossero state accolte con tanto interesse. Maledetta critica! Fasulla e legata ad interessi e poteri che non tollerano la verità». Rebecca era furibonda. Se prima volevano premiarla per il suo lavoro, ora di sicuro qualcuno voleva ridicolizzarla in diretta nazionale.

Chiuse gli occhi fino a che una luce bianca e potente fece piazza pulita di ogni pensiero e paura. Ora sapeva cosa doveva fare. Si asciugò le lacrime e percorse velocemente i pochi passi che la dividevano dalla redazione. Varcò la soglia, indossando il sorriso più radioso. Strinse mani, scambiò saluti ed esibì la propria femminilità ed il suo essere donna. Sentiva crescere forza e determinazione dentro di sé e quando, dopo i soliti convenevoli, prese finalmente la parola, esordì decisa. «Signori, vi ringrazio, ma non posso accettare questo premio, e non farò nessuna intervista».

Turno 2 Linda

Lo staff della redazione la guardò allibita. Chiesero subito spiegazioni, ma Rebecca lì interruppe e raggiunse l’uscita più veloce della luce per fuggire a domande che voleva evitare. Non sapeva se aveva fatto la cosa giusta. Sapeva solo di essere incazzata come mai lo era stata in tutta la sua vita ed era decisa a capire come mai la situazione si era capovolta. Aveva scritto un buon libro, ne era certa, ma ora tutto sembrava crollare come un castello di sabbia che si sgretola per il forte vento. Si affrettò a rientrare a casa e, portatile alla mano, iniziò a cercare delle risposte.

Passò in rassegna ogni suo contatto del settore del giornalismo, ma ben presto capí che non avrebbe concluso nulla. Internet o le email scambiate con gli organizzatori del concorso non avrebbero dato le risposte che cercava. Eppure doveva scoprire che cosa fosse successo. Si strinse nelle spalle, mostrando un amaro sorriso all’appartamento che non vedeva l’ombra di straccio e scopa da almeno una settimana, poi l’illuminazione. C’era ancora una persona che non aveva contattato.


Turno 2 Aldo

Si affrettò a cercare il numero di Riccardo, un vecchio contatto dell’editoria, e fissò un appuntamento per il pomeriggio. Si conoscevano poco ma la stima era tanta e reciproca. Riccardo apprezzava gli articoli che lei pubblicava e  il suo cercare sempre la verità, anche quella più scomoda. Rebecca, dal canto suo, lo riteneva una persona unica e speciale. A cinquant’anni suonati, Riccardo aveva scelto di dedicarsi ai più bisognosi e da dieci continuava a farlo senza sosta. Gestiva un giornale intitolato Sulla strada di cui era direttore, redattore e giornalista. Il settimanale veniva distribuito in esclusiva sui marciapiedi dai barboni al costo di un euro che a volte diventava qualcosa di più, a seconda della bontà delle persone. Lo scopo era fare beneficenza, ma ne godevano anche il contenuto che trattava svariati argomenti: attualità, politica, interviste a persone che volevano far sentire la loro voce.

Arrivata in redazione, Riccardo accolse Rebecca in una stanza occupata per la maggior parte da libri e riviste accumulati in ogni angolo e tutto era impregnato di fumo. Riccardo si presentò alla ragazza in jeans e maglione, con i capelli spettinati  di un castano ormai sbiadito. Si sposava in maniera perfetta con il disordine che dominava l’ambiente. Rebecca invece, con il suo elegante tailleur e fresca di acconciatura, appariva fuori luogo ma non esitò a prendere posto sulla traballante sedia di legno. “Ho scritto un libro, Riccardo, un buon libro, che avrebbe dovuto vincere il premio Bancarella. Quando già mi aspettavano i giornalisti per l’intervista, mi è stato comunicato che non avevo vinto. Penso che qualcuno di influente si sia messo in mezzo per ostacolarne la pubblicazione”. Lui stava in piedi davanti a lei, appoggiato alla scrivania, le braccia incrociate. 

«E dimmi, Rebecca, che cosa vuoi da me?». 

«Voglio che stampi il mio libro. Voglio che venga distribuito nelle strade. Non mi interessa il profitto, voglio solo che la gente sappia la verità. E forse questo è l’unico modo». Riccardo la fissò in silenzio. Girò attorno alla scrivania e si accese una sigaretta, poi si sedette. «L’idea mi piace e sai che ti darei il mio appoggio a occhi chiusi ma…» e buttò fuori una grande nuvola di fumo «…che cosa hai scritto di così scandaloso?».

Turno 3 Linda

In meno di cinque minuti Rebecca gli aveva spiegato tutto. Delle sue ricerche. Di ciò che aveva scoperto. Delle denunce e del marciume che girava nelle strade della loro amata città. Nel suo libro metteva in luce la gestione del traffico di esseri umani. Delle povere donne che venivano ingannate, rapite e trasportate da  paesi stranieri come semplice merce di scambio.

«Allora, Riccardo, farai girare questo libro nelle strade?» chiese con voce tremante, come se tutto ad un tratto dubitasse anche di lui. Nell’ufficio l’unico rumore era quello della carta da giornale che veniva mossa a tratti dal vento. Il puzzo di fumo era diventato quasi insopportabile e Rebecca trattenne il respiro, ma non appena vide un sorriso sul volto dell’uomo non ci fece più caso. «Sappi però che corri un grande rischio e che probabilmente ti attaccheranno e non parlo solo a livello professionale…».

Lasciò in sospeso la frase per darle il tempo di realizzare che la sua folle idea avrebbe salvato molte vite, ma compromesso la sua. Rebecca rimaneva ferma immobile, sicura di ciò che voleva fare. «Macchieranno il tuo nome, la tua reputazione e con molta probabilità ti verranno a cercare». A quel punto Riccardo appoggiò i gomiti sulla scrivania, in attesa di una sua risposta. Lei lo fissò con un velo di tristezza ma era chiaro che non fosse per timore di rischiare la vita. Dentro di sé piangeva per le povere vittime che ancora non erano state salvate. «Lascia che mi trovino, non ha alcuna importanza».


Turno 3 Aldo

Rebecca uscì dalla redazione stanca ma contenta per aver trovato in Riccardo l’aiuto di cui aveva un disperato bisogno. Era però consapevole che quell’incontro avrebbe cambiato per sempre la sua vita. Si salutarono amichevolmente sulla soglia mentre fuori si era fatto buio. Nel suo elegante completo, si avviò verso casa e mentre camminava lungo la strada, non potè non notare il degrado del quartiere. Al lato opposto, donne che arrivavano da chissà dove si esibivano con falsa allegria in attesa di clienti. Una macchina si fermò per ripartire poi in velocità dopo aver fatto salire una ragazza, probabilmente minorenne. Un uomo in bicicletta urlò oscenità mentre passava loro davanti.

Poteva vedere i volti di alcune di loro tristi e allo stesso tempo vuoti, quasi fossero prive di un’anima. Gli occhi le si fecero lucidi e una lacrima corse lungo la sua guancia. Non appena vide un taxi lo fermò e mentre saliva non potè fare a meno di immaginarsi dall’altro lato della strada, in quelle condizioni terribili. In quel preciso istante decise che non sarebbe indietreggiata di un passo. Non avrebbe avuto paura, né permesso a nessuno di metterla a tacere.

Finale di Linda Moon

Finale di Aldo Ferrarese

Chiusi in ascensore per 12h

Cosa potrebbe succedere se due persone rimanessero chiuse in ascensore per 12h? Dopo un primo e probabile spavento, potrebbero perdersi in chiacchiere e sperare assieme e di uscirne vivi. Ma se le persone in questione si odiano da morire? Ecco, questa è tutta un’altra storia…

STORIA INTERATTIVA

Il team di Wanted Stories ha chiesto tramite un sondaggio su Facebook un input per iniziare a scrivere una storia sulla base del tema “DUE PERSONE CHE SI ODIANO RIMANGONO CHIUSE IN ASCENSORE PER 12 H”. Ne abbiamo ricevuti diversi e la scelta (non facile) ci ha portato a tenerne addirittura due! 

Dopo aver scritto il primo turno, abbiamo chiesto al pubblico l’andamento della storia proponendo “botte da orbi” VS “emozione galoppante” e abbiamo scoperto che il nostro pubblico è fatto di gran teneroni: l’emozione ha stravinto!

Ecco il racconto che io, Linda Moon, ho sviluppato con Alberto Sartori. Buona lettura!

Era un martedì come tanti in una fredda mattina di Dicembre a New York. Carlo e Serena fino a quel momento erano due perfetti sconosciuti e non sapevano nemmeno che quel giorno i loro destini si sarebbero incrociati in una situazione molto particolare. (input di Ermes Basso)

Serena era emozionata ma allo stesso tempo nervosa per un importante colloquio che aveva presso la Gagosian Gallery in Madison Avenue. Era la sua grande occasione! Aveva appuntamento con l’agenzia delle risorse umane al ventesimo piano di un edificio sito nelle vicinanze della galleria. Doveva compilare alcuni moduli prima del colloquio ufficiale. Raggiunse l’ascensore a passo svelto ma titubante sul suo tacco dodici mentre reggeva un caffè ancora bollente preso al volo da Starbucks. Al decimo piano, però, le porte si aprirono e il ragazzo che le apparve davanti mutò completamente l’espressione sul viso di Serena. (input di Daniela Zanconato)

Turno 1 Alberto

“Buongiorno!” disse Carlo portando indietro i folti capelli biondi. Da parte di Serena nessun cenno di risposta. Sembrava fissare le scarpe del ragazzo firmate Louis Vuitton. Probabilmente non ne aveva mai visto un paio di così costose. Dava l’impressione di trovarsi per la prima volta nell’ascensore di un edificio prestigioso. E come dar torto al suo imbarazzo? Carlo fece leva su tutto il suo carisma e le rivolse di nuovo la parola. 
“Buongiorno, a che piano deve salire?

Turno 1: Linda

Lei non lo degnó d’uno sguardo, ma non voleva risultare sgarbata, non in quel momento almeno. “Vado al ventesimo piano” si limitó a dire e strinse i manici della borsa nella speranza che l’ascensore arrivasse presto a destinazione. Doveva concentrarsi sul colloquio e non farsi distrarre da quel pomposo e ricco ragazzo che detestava. E come non farlo? I giornali lo presentavano come un ragazzo destinato a grandi cose, ma gli scandali erano il suo forte e pareva pure vantarsene. Si sentiva osservata ma continuava ad ignorarlo, fissando i numeri dei piani che man mano si illuminavano. Non vedeva l’ora di uscire da quello spazio angusto nonostante potesse contenere almeno quaranta persone. Non sopportava i tacchi che le stavano provocando le vesciche, inoltre strizzata in quel tailleur sotto al cappotto, si sentiva soffocare e quando il tasto del diciottesimo piano si illuminò, un rumore metallico assordante la fece spaventare e le luci al neon per un attimo si spensero.
“Dio mio, che succede?” chiese a voce alta.

Turno 2: Alberto

“Cosa vuole che sia successo? Si è fermato l’ascensore” rispose Carlo. E quando una sirena iniziò a suonare, Serena urlò terrorizzata. “Aiuto! Qualcuno ci aiuti!”. Ancora al buio, iniziò ad allungare le mani per cercare un appiglio ma le muoveva nel vuoto. Improvvisamente la luce si riaccese e quando si voltò, vide Carlo a petto nudo. Giacca, camicia e cravatta erano a terra. Lei lo guardò basita. Lui era rosso in viso dalla collera. Calò il silenzio totale, nemmeno la sirena suonava più e quando Serena schiuse le labbra per parlare, si rese conto che non reggeva più il caffè bollente tra le mani. I vestiti di Carlo erano macchiati e a terra una chiazza nera si allargava lenta sul pavimento.


Turno 2: Linda

Serena rimase a bocca aperta, anche se uno sguardo compiaciuto apparve sul suo volto per sparire non appena Carlo la fissò. Era parecchio scocciato. “Aspetta, prendo qualche fazzoletto. A proposito, io sono Serena” disse mentre rovistava nella borsa senza smettere di trattenere una risata. “E che cosa me ne faccio? Guarda che hai combinato! Questo completo vale tremila dollari e ora è da buttare. Spero sarai contenta!”. Lui continuava a guardare affranto il suo vestito. “Arrangiati allora!” disse Serena lanciando ai suoi piedi il pacchetto di fazzoletti. Mise il broncio ed incrociò le braccia. In quel momento lo avrebbe preso a schiaffi. “Proviamo ad uscire da qui piuttosto!” e si avvicinò ai pulsanti cercando quello per contattare la sicurezza.

“Le faremo sapere?” disse facendo una smorfia verso Carlo. “Ma che razza di risposta è? Siamo bloccati qui ed è tutto quello che hanno da dire?”. Serena era sempre più nervosa. Si mise in un angolo e sbuffò, mentre lui si lasciò scappare un sorriso. “Ti fa ridere questa situazione?”. Carlo la fissò sicuro di sé, facendosi molto vicino a lei che arrossì imbarazzata. Per un attimo si guardarono senza dire una parola. Serena era paralizzata e pensò che fosse molto inopportuno che ci provasse con lei proprio in quel momento, ma poi Carlo premette il tasto per contattare la sicurezza.

“Pronto, qui la sicurezza”.

“Buongiorno, sono Carlo Riggi, amministratore delegato della HR Executives e sono bloccato nell’ascensore”.

“Sig. Riggi, ci scusiamo per il disagio. Mandiamo subito qualcuno a risolvere il problema”.

“Grazie!” e si mise al lato opposto di Serena, guardandola in silenzio mentre indossava la giacca sopra alla bianca canotta di cotone e piegava la camicia con cura. Aveva l’aria compiaciuta, al contrario di Serena la cui espressione era a dir poco furiosa.

Turno 3: Alberto

Più Carlo la fissava, soddisfatto di averla zittita, più quel viso gli sembrava familiare. Aveva l’aria della brava ragazza. Trucco delicato. Capelli biondi raccolti in una coda. Abbigliamento semplice ma elegante. Non era il genere di ragazza che frequentava, eppure era sicuro di averla già vista da qualche parte. E dopo qualche istante, l’illuminazione. “Oh mio Dio!” si fece sfuggire a voce alta.

“Che cosa c’è?” chiese lei con l’aria di chi si aspetta un’imminente catastrofe.

“Ah, niente. Ho un appuntamento molto importante tra poco e lo salterò di sicuro se non ci tirano fuori da qui” riuscì a dire Carlo in fretta e furia. A stento dovette trattenersi dal nervoso che gli stava suscitando Serena. Quella maledetta!

Adesso ricordava tutto. La voglia dietro al collo era inconfondibile. Ricordò di aver pensato che se ci avesse disegnato due punti e un sorriso stilizzato, sarebbe sembrata un fantasma. Era quella disgraziata che due settimane prima gli aveva rubato il taxi da sotto il naso, facendolo tardare ad una cena con una famosa modella che non solo aveva fatto una scenata epica non appena si era presentato e lasciato un conto salato da pagare, ma che lo aveva liquidato a fine serata con un “Grazie ma non penso vorrò rivederti!” umiliandolo in pubblico e creando l’ennesimo gossip, cosa di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Aveva giurato a se stesso che si sarebbe vendicato se mai l’avesse rivista e ora che era ad appena un metro da lui, pensò che il karma avesse uno strano modo di agire quel giorno.


Turno 3: Linda

Nonostante Carlo avesse avvisato della sua presenza nell’ascensore, sia lui che Serena erano ancora bloccati lì dentro ed erano passate già due ore. Carlo sedeva a terra, scrutando il cellulare mentre Serena era in piedi dall’altro lato, la schiena contro la parete, e stringeva il cappotto tra le braccia, sbuffando di tanto in tanto in maniera pesante.

“Puoi smettere di farlo?” chiese Carlo in tono seccato.

“Fare cosa?”.

“Respirare forte. E’ fastidioso”.

Serena alzò le sopracciglia, visibilmente infastidita. “Mi scusi Sig. Riggi, farò in modo di non respirare affatto!” sbottò seria e distolse lo sguardo altrove. Carlo si alzò in piedi e provò nuovamente a ricontattare la sicurezza, che rispose prontamente anche se la situazione non era affatto invariata. Sospirò forte, le mani sui fianchi, e si lasciò scappare una parolaccia. Serena scoppiò in una risata. “E sono io quella fastidiosa?” intervenne lei scuotendo il capo. 

“Ti conviene non esagerare, ladra di taxi!”.

“Scusa, come mi hai chiamato?”.

“Hai capito bene! Due settimane fa stavo salendo su un taxi e tu me l’hai letteralmente rubato da sotto il naso!”. Carlo allargò le braccia per enfatizzare il suo disappunto.

“Ora ricordo… e guarda che quel taxi l’avevo fermato io per prima. E poi hai sicuramente mille modi diversi per spostarti. Io no!”.

“Avevo una cena importante!” disse urlando. Si stava davvero innervosendo e il caldo si faceva sentire in quello spazio che ormai era stretto anche solo per due persone.

“E con chi? Con l’oca di turno? Dovresti ringraziarmi, ti ho fatto un favore!”.

Carlo fece per parlare, ma preferì mordersi la lingua. Sperava solo che la sicurezza intervenisse al più presto. 

Turno 4: Alberto

Carlo si assopì e anche Serena entrò in uno stato di dormiveglia. Passarono ben otto ore senza che i due se ne accorgessero, travolti dalla stanchezza e dal sistema nervoso in mille pezzi. Fu come passare una notte intera di sonno tutt’altro che riposante. Si svegliarono quasi di soprassalto quando sentirono un rumore metallico. Forse qualcuno li stava finalmente soccorrendo, ma persero presto le speranze quando piombò nuovamente il silenzio. Guardarono entrambi i loro cellulari, le batterie erano ormai esaurite. Non avevano più contattato la sicurezza ma Carlo, estenuato, decise di ritentare.

“Pronto, sicurezza”.

“Sono sempre il Sig. Riggi e siamo ancora chiusi in ascensore!” tuonò furibondo.

“Quale ascensore? Sono Andrea e ho appena iniziato il turno. Ah sì, eccovi lì, vi vedo dalla telecamera. Mando subito qualcuno” e riattaccò. Carlo non ebbe nemmeno la forza di arrabbiarsi e si sorprese quando si sedette accanto a Serena.

“Che situazione surreale” disse, lasciandosi scappare una piccola risata.

“Potresti stare un po’ più in là e non invadere il mio spazio vitale? Non togliermi quel poco ossigeno che mi rimane…” disse lei, ma la voce non era quella di una persona arrabbiata. Era ormai distrutta. In quel momento, spinto dall’istinto, Carlo le prese la mano. Era come se la sua mente non riuscisse più a comandare i movimenti del corpo. Fino a poche ore prima odiava quella ragazza. Ora non riusciva a capacitarsi di quel gesto. Serena non lo respinse, anzi. Se ne restarono così, in silenzio, senza dire niente e a fissare la parete opposta dell’ascensore. Le mani sempre strette l’una all’altra. Il battito di Carlo era stabile sui cento al minuto. Non riusciva a gestire la sensazione del calore del palmo di Serena contro il suo.


Turno 4 Linda

Serena sentì lo sguardo di Carlo su di lei. I loro respiri viaggiavano all’unisono. E quando si voltò era palese e al tempo stesso incredibile l’attrazione che provavano l’uno per l’altra. Si erano odiati ancor prima di conoscersi. Avevano discusso mandandosi mentalmente a quel paese. Ora invece tutto era cambiato. In quasi dodici ore erano passati da nemici a qualcosa come due anime, forse, innamorate. In quel momento un altro rumore metallico rimbombò in quello spazio, ma loro non si mossero. E quando le luci si spensero, le loro lingue si cercarono, quasi con foga. Serena pensò che quello fosse il più bel bacio mai ricevuto. Carlo pensò che per la prima volta dopo molto tempo, baciava una ragazza desiderandolo per davvero. Era un momento quasi surreale e quando le luci al neon tornarono timidamente ad illuminare la stanza, Serena si allontanò di scatto, alzandosi velocemente per chiamare la sicurezza e in meno di un minuto le porte finalmente si aprirono.

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Leggi il finale scritto da Alberto Sartori

Fine

Una Famiglia Felice

Il secondino cammina veloce lungo l’angusto corridoio delle carceri, stringendo una busta bianca con un sigillo rosso che riporta lo stemma della patria.

Nessuno chiudeva una busta in quel modo da oltre mezzo secolo ma, tra le nuove disposizioni dettate dal governo, era stato inserito anche questo dettaglio. Per alcuni una frivolezza, per altri un gesto di onore e fedeltà. Ad ogni modo, il secondino raggiunge un cancello aperto da un altro secondino con ben quattro giri di chiave. Tante regole che sono cambiate e la più assurda di tutte, con precisione l’emendamento n.646-B41, odiato dal popolo ma adorato dai detenuti, è quello che permette di chiedere un ultimo desiderio prima di cadere nel braccio della morte.

Il secondino stringe nella mano l’ultimo desiderio di un uomo che ha commesso un crimine che gli sta costando la vita e quando la busta raggiunge la scrivania del direttore, egli la osserva con poca attenzione, preso da altre scartoffie che legge e firma quasi contemporaneamente. «Signore?» chiama il secondino con un filo di voce. L’uomo alza lo sguardo e, con un cenno della testa, gli fa capire che può lasciare la busta sulla scrivania.

La osserva curioso non tanto di sapere il desiderio ma chi sia il detenuto e a che ora sia la sua esecuzione, perché alle quattro di quel pomeriggio c’è un incontro di boxe che non vuole perdere; o almeno questo è ciò che fa credere a tutti per celare il suo rapporto con un giovane di cui si è invaghito qualche mese fa. Sbuffa, l’aria irritata, e nel momento in cui torna a concentrarsi sulle carte, il secondino è già uscito.

Quando l’orologio segna mezzogiorno, l’intero carcere si mobilita per consumare il pranzo. I detenuti nella sala al piano terra, i secondini al piano superiore. Un pugno di uomini che imbracciano fucili e pistole, i manganelli riposti nella cintura di pelle, tiene la situazione sotto controllo. Solo una persona non partecipa: il direttore.

Spalanca una porta della mensa, si avvicina ad alcuni sottoposti e li invita a seguirlo senza attendere una loro reazione. In meno di un minuto, sono tutti in corridoio a camminare come perfetti soldati e, quando la porta dell’ufficio del direttore si chiude alle loro spalle, l’uomo mostra il contenuto della lettera. Dieci occhi si guardano: le bocche spalancate o in una smorfia idiota. «E questo che razza di desiderio è?».

Senza perdere tempo, mandano a prelevare il detenuto e lo raggiungono in una grande sala dalle mura sbiadite. Al suo interno, un asettico salottino, utilizzato come spazio per il diletto dei peccatori nei loro ultimi momenti di vita; il diretto interessato siede su un divano beige, il tessuto consunto agli angoli. Quella che ora pare una congiura di pazzi, lo fissa come fosse un cane affetto da rabbia.

«Detenuto n.415, ci spieghi la sua richiesta! Comprendiamo che sia terrorizzato all’idea di morire e forse non ha ben chiaro che cosa vuole» dice il direttore. «Mi sovviene il caso del detenuto n.1095: aveva richiesto di pilotare un aereo per raggiungere Manhattan» interviene un sottoposto, subito aggredito da un altro. «Cretino che non sei altro, voleva pilotare un aereo con dei passeggeri a bordo e tentare un atterraggio sul fiume Hudson come il pilota Sully Sullenberger!».

Il collega si stringe nelle spalle, quasi a volersi nascondere per la figuraccia appena fatta. «Signori, signori calmiamoci. Ehm, detenuto n.415, la prego, ci spieghi il suo desiderio. Non è nulla d’impossibile, ma capisce che si tratta di coinvolgere altre persone e non possiamo rischiare di mettere in pericolo degli innocenti. Lei capisce, vero?». Il detenuto tace e guarda quel circo di persone davanti a lui che non smette di osservarlo come un topo oltre il vetro di una gabbia.

«Non c’è nulla da spiegare, ma non riuscirete a esaudirlo. E se non riuscite a farlo sarò un uomo libero. Questo dice la vostra legge, giusto?». La tensione è palpabile quasi fosse una sottile carta velina pronta a spezzarsi al minimo tocco. Il direttore deglutisce a fatica, all’improvviso sente la bocca secca e un disperato bisogno di acqua. Guarda l’ora: sono ormai le tre e nel suo immaginario era già pronto ad approvare desiderio ed esecuzione per correre dal suo amante. Invece, quel maledetto detenuto era riuscito a raggirare il sistema.

«E va bene, mettiamoci all’opera!» esordisce mascherando la sua perplessità. «Sia ben chiaro, però, che dovrà mantenere una distanza di sicurezza dalle persone che porteremo qui, ma potrà parlarci e trascorrere un’ora esatta con loro. Sarà un autentico momento conviviale» e nel pronunciare le ultime parole, unisce le mani e intreccia le dita, quasi a voler sigillare, o forse rafforzare, quanto appena detto.

Il detenuto ride forte e di gusto; una risata che per quella congiura suona terrificante.
«La faccio ridere, detenuto n.415?».
«Eh già, forse non ha ben chiaro quale sia il mio ultimo desiderio: voglio trascorrere un’ora del mio tempo con una famiglia felice e il fatto che sia felice è determinante. Dalle sue parole, mio caro direttore, ho già capito che il mio desiderio non sarà per voi fattibile. Scommetto la mia pena di morte che ha già in mente di chiamare degli attori. Il vostro sistema è precario ed era solo una questione di tempo prima che qualcuno ve lo facesse notare; o come diciamo noi detenuti, ve lo mettesse nel culo!». Si alza e, le mani in tasca, si avvicina alla grande finestra dal vetro rinforzato e una grata metallista esterna. «Chi dovrà attestarne la veridicità, capirà che sarà tutta una farsa e domattina farò colazione di fronte al suo giardino, direttore. Può scommetterci». I volti degli uomini, vestiti con banali completi neri e cravatte grigie, sono trasecolati.

In un attimo, si riuniscono nell’ufficio del direttore a discutere la situazione, visibilmente offesi di essersi lasciati prendere in giro con facilità. «Ecco, lo sapevo che arrivava il più furbo e ci fregava! Ma che cavolo gli è preso al nostro governo? ». Le voci nervose e stanche parlano tra di loro. Emergono parole pesanti, offese, un accenno di rissa. «Basta!» urla il direttore. «Cerchiamo di ragionare, invece. Qui bisogna trovare una soluzione e subito! Se non sarà un desiderio autentico, qui tutto andrà in malora!».

In quel momento, un sottoposto interviene facendosi largo tra gli altro. «È tutta colpa sua, direttore! Aveva anche lei voce in capitolo e poteva evitare questa sciocchezza dell’emendamento n.646-B41! Ora, invece, eccoci qua a massacrarci tra di noi. Se toppiamo stavolta, manderemo tutto il sistema in vacca! E avremo detenuti liberi di girare per tutto il paese! Il suo voto è stato quello decisivo, lo sanno tutti! Ma lei doveva correre dal suo amante, vero? Siete solo due gay del cazzo!».

D’improvviso, cala il silenzio, animato solo da espressioni stupite o disgustate. Un sottoposto si apposta di fronte al direttore, dandogli le spalle, e rivolgendosi ai suoi colleghi.
«Non esageriamo, pensiamo a come rimediare a questo problema. Il direttore ha ragione».
«Ecco, ora ti ci metti anche tu! Lo sanno tutti che non ami più tua moglie e che desideri quella dannata cameriera del ristorante qui accanto che si trascina a ogni turno sua figlia. Siete tutti degli ipocriti!” replica il solito sottoposto. Le parole taglienti lasciano spazio a un grande imbarazzo e, nel momento in cui sta per riprendere a parlare, il direttore esce di corsa, seguito dall’unico sottoposto che l’ha difeso. «Direttore» lo chiama a voce alta, per fermarlo. L’uomo gli ordina di seguirlo e, in pochi istanti, escono dalla prigione.

Il giorno dopo, all’alba, il detenuto n.415 muore per iniezione letale. Dietro al vetro, la schiera di uomini incravattati che il giorno prima era scoppiata di rabbia per l’arroganza dell’uomo che era quasi riuscito a raggirare il sistema, osserva con vago orgoglio la scena.

Il direttore, invece, siede alla scrivania. Legge documenti, compila moduli, firma l’approvazione di nuovi desideri e relative condanne, ma dopo qualche istante si ferma. Apre un cassetto e da una cartellina tira fuori una busta bianca, priva di sigillo; al suo interno una fotografia. Ritrae lui con l’amante, diventato a tutti gli effetti il suo compagno e, accanto a loro, un giovane stringe la mano di una cameriera che stringe tra le braccia una bambina che le somiglia molto. Il detenuto n.415 non è presente perché dietro l’obiettivo. Colpevole di una rapina che ha causato la morte accidentale di tre persone, voleva solo assaporare un ultimo momento sincero insieme a una famiglia felice e così era stato; e nessun emendamento era stato ritirato.

Il direttore ripensa a quel momento e al giorno in cui il suo voto ha approvato la legge più bizzarra che sia mai stata pensata. Si toglie gli occhiali e, lo sguardo assente, si pone una sola domanda: «Ho fatto la cosa giusta? Non è vero? Non è vero…? Non è vero…?».

Fine

Doppelgänger

Quando apro gli occhi noto un foglio di carta sulla scrivania.
Anche se è ancora notte, la debole luce che passa dalla tapparella rotta mi permette di vedere l’altro lato della stanza.

Mi sollevo a forza, nonostante l’eccitazione per scoprire cosa ci sia scritto sopra a quel foglio. Cammino scalza trascinandomi a fatica. Le gambe sembrano pesanti come se avessi dei pesi legati alle caviglie. Indosso solo una t-shirt bianca dal collo slabbrato con la scritta ormai scolorita, ma è pur sempre una maglietta dei Nine Inch Nails. Cazzo che gruppo! Ricordo come fosse ieri l’emozione che mi hanno regalato al loro ultimo concerto. Ma quando ci sono stata? Anzi, da quanto sto dormendo?

Mentre cerco risposta alla domanda, stringo tra le mani il foglio. Porca vacca! Ho superato l’esame di storia dell’arte contemporanea. Dopo due anni e tredici tentativi, improvvisamente sono riuscita a superarlo. Strabuzzo gli occhi incredula. Provo una sensazione di immensa gioia ad aver raggiunto una meta che mi sembrava ormai irraggiungibile. Ricordo di averci rinunciato e ora invece “boom”… mi ritrovo a stringere un foglio che elogia la mia eccellenza nella materia. Porto una mano alla bocca, l’emozione è forte, ma in un istante piango e straccio il foglio, riducendolo a brandelli. Urlo. Urlo forte. Mi sentiranno i vicini? Anzi, dovrebbero sentirmi? Non lo so. Mi sento confusa, agitata. L’ansia torna a farmi visita e con la stessa struggente lentezza di poco fa, torno a sdraiarmi a letto, improvvisamente rassegnata.

La luce del giorno che passa dalla porta della camera mi sveglia non appena mi giro verso di essa. Come mai la porta è aperta? Ero sicura che fosse chiusa. Non mi preoccupo più di tanto. Forse si è aperta da sola, è sempre stata difettosa. Stupido appartamento economico, scomodo da ogni angolo della città e dalle mura sbiadite e la cucina inabitabile tanto è piccina e poco funzionale. Nemmeno il colore si salva. Unire il marrone al rosso dovrebbe essere considerato illegale. Credo di aver avuto la febbre, forse anche solo per qualche ora, ma provo quella sensazione che si ha dopo aver superato un periodo di malattia. I muscoli prima tesi ora sono rilassati e la camminata è tornata quella di sempre, forse un poco incerta per via di quella porta. Ma perché cazzo è aperta?

Sorseggio dell’acqua con tanto ghiaccio e una fetta di limone. Trovo gentile quel gesto di avermi fatto trovare qualcosa di rinfrescante e per un attimo mi sento innamorata anche se quando lo penso le dita tremano appena e le labbra smettono per un attimo di sorseggiare. Sfoglio un album di fotografie. Un centinaio di immagini mi ritraggono in svariate situazioni. Caspita quanto sono felice! Non sto più con quel ragazzo che faceva il cameriere al King’s Pub. Non so il perché.

Un’altra foto mi vede abbracciata a quella stronza di Alice che ora pare apprezzarmi. Mi piace l’idea di aver fatto questa svolta. Ricordo che ne parlavo con la mia ex coinquilina Rebecca. Ricordo che le avevo detto che solo una o due volte nella vita capita di vivere una vera svolta, a volte nemmeno ce ne accorgiamo, a volte le nostre paure spariscono, a volte prevale la nostra parte più forte perché siamo stanchi di subire.

Sfoglio l’album dalla copertina di pelle con il bordo intrecciato ad arte. Ha buon gusto persino per una piccola cosa come questa. Sfoglio pagina dopo pagina e ammiro me stessa felice, piena di energia, diversa. Amo questa mia nuova versione e il discorso fatto a Rebecca mi dà una strana carica. Mi rimetto in piedi quasi in un lampo. Indosso la lunga gonna plissettata e cerco disperatamente la t-shirt con la scritta stampata dei Nine Inch Nails. Ve l’ho già detto che è un gran bel gruppo? E che gruppo! L’ho scoperto dal tipo che mi sedeva davanti una sera in cui mi ero unita ad un gruppo di ragazzi per scrivere e da lì ho iniziato ad amarlo più che mai. Ma sapete una cosa? Nell’album, di quella maglia, la t-shirt ormai logora e scolorita, non c’è traccia.

Devo aver dormito almeno tutto il pomeriggio, ancora, perché a giudicare dalla luce, è ormai il tramonto. La durata della mia gioia è al massimo di tre minuti. Il tempo di vestirmi e avevo già ripensamenti su cosa fare. Non ho davvero parole, ha più durata il primo Nokia che mi hanno regalato i miei genitori. Faccio un sospiro. Raccolgo il coraggio, ancora una volta, e faccio qualche passo verso la porta. È chiusa. Cazzo! Proprio quando avrei voluto che fosse aperta. Porto una mano alla maniglia e come se stessi disinnescando una bomba, la apro lentamente. Digrigno i denti incazzata quando il sento il solito cigolio secco, assordante e, nel suo piccolo, fastidioso. Ma prima di tutto rumoroso. Rimango in sospeso, la mano ha quasi un crampo, poi quando non percepisco rumori, giro completamente la maniglia e socchiudo la porta giusto quei due, forse tre centimetri, per vedere all’esterno.

La mia nuova coinquilina non c’è. Ora che ci penso aveva detto che andava a trovare i suoi per tutta la settimana. Ma come ho fatto a scordarmi? È come se avessi perso la testa ultimamente. Apro la porta, rivelando metà del mio corpo al corridoio esterno. Pulito, silenzioso, austero per via dell’antica, e alquanto discutibile in fatto di stile, libreria inclusa insieme all’affitto di quel buco. È davvero inquietante ma prima di tutto fuori luogo. Non colgo nessun rumore e così parte la mia falcata lungo la moquette rosa pallido. Una passerella silenziosa che mi vede camminare quasi giustificando ogni mio movimento mentre i miei occhi osservano qualcosa di nuovo.

Due quadri, alcuni libri lasciati a terra di fianco alla terrificante libreria. L’acqua con un piattino e, sdraiate in maniera consecutiva, tre fette di limone. La ciotola con l’acqua mi fa pensare che prima ci fosse del ghiaccio. Ma allora non ho dormito così tanto…

Raggiungo la scala e guardo sotto. Sì, sono sola in casa. Ma perché diavolo avevo dubbi? La mente mi gioca brutti scherzi. Porto le mani alla testa e sposto la chioma marrone all’indietro, scuotendo il capo. Ma che problemi ho? Penso dandomi per un attimo della pazza. Scendo con fare sicuro gli scalini, mentre osservo un quadro dalla cornice vintage e dal contenuto sintetico alquanto ambiguo. Il caos è ordine non ancora decifrato.

Rifletto sul perché io abbia appeso una simile frase. Ultimamente ho dei vuoti, non c’è altra spiegazione. Ma che vuoti? Lo scricchiolio del pavimento mi distrae. I miei occhi tremano e, con perfetta sincronia, trema anche il resto del corpo. Mi manca la voce e mentre lo spazio tra di noi diminuisce, io indietreggio e non riesco a provare vergogna quando sento l’urina correre lungo le mie gambe che si muovono con grande fatica, tremanti, come avessero nuovamente quei pesi immaginari. Risalgo le scale per tenere una distanza di sicurezza. Sarà sufficiente? Non lo so. Quello che so è che l’unica cosa da fare è camminare indietro lentamente verso la stanza in cui sono chiusa da non so quanto tempo. Con la coda dell’occhio vedo che la stanza della mia coinquilina è spoglia.

Ora ricordo. È andata via. L’ho mandata via. Anzi, no. Lei l’ha mandata via. Quando sono al centro della stanza, lei si ferma sulla soglia e mi osserva in silenzio. Gli occhi fissi su di me non battono ciglio. Ma come fa a non chiuderli? Come fa ad avere la meglio su di me? Non lo capisco e lascio che la figura che mi sta di fronte, la mia gemella, la mia sosia, la parte che ha prevalso su di me, porti una mano alla maniglia e mentre con un dito posato sulle labbra identiche alle mie, mi invita a fare silenzio, io ricordo con terrore e stupore quel tragico giorno, quell’incontro inaspettato.

Lentamente la porta si chiude e prima di vederla sparire oltre di essa, noto che indossa la t-shirt dei Nine Inch Nails e in quel preciso istante un’altra piccola parte di me, un bellissimo ricordo, muore. Mi sento svenire. Chissà se, quando mi sveglierò, riuscirò ancora a ricordarmene.

Fine

Rompendo il Silenzio

Era l’alba quando Asia si svegliò. Rimase a fissare il soffitto a lungo, come faceva ormai da tempo ogni mattina, poi si alzò per andare a lavoro. Uscita di casa raggiunse a piedi il centro giovanile dove lavorava da ormai dieci anni. Quel giorno, però, non si limitò a sedersi alla sua postazione ma proseguì sino all’ufficio del direttore. 

La porta era aperta, ma dentro non c’era nessuno. Senza preoccuparsi di cercarlo, Asia posò una busta indirizzata a lui sulla scrivania, poi tornò all’entrata principale. Si girò, diede un ultimo sguardo ed uscì. 

“Nessuna novità?” chiese Fiona agitata guardando il suo migliore amico e detective che sedeva davanti a lei. “Purtroppo no. L’auto di Asia è sotto casa e sembra che non abbia portato via niente dal suo appartamento, proprio come mi hai confermato. Prima di avviare un’indagine dovremo aspettare almeno quarantotto ore. È la prassi purtroppo e la conosci bene”. Fiona si coprì gli occhi con una mano per trattenere le lacrime. Non appena il direttore del centro giovanile era rientrato nel suo ufficio, aveva letto la lettera ed era subito corso da Fiona, anche lei dipendente presso lo stabile, per chiederle dove fosse Asia. Nessuno era riuscito a rintracciarla. Fiona allora era corsa a casa sua. Aveva una copia delle chiavi, ma quando entrò le sembrò che tutto fosse al suo posto. Aveva quindi chiamato il suo amico alla centrale di polizia, mostrando la lettera, ma la risposta che ricevette fu che bisognava attendere per capire se Asia fosse realmente scomparsa.

“Vedi, Fiona, la lettera che Asia ha lasciato è una semplice comunicazione delle sue dimissioni. Posso capire che per te fosse una cosa inaspettata, ma non possiamo aprire un’indagine che si basa su delle supposizioni. Abbiamo già fatto troppo controllando il suo appartamento. Mi dispiace, ma devi aspettare ancora”. Fiona si alzò di scatto, facendo cadere la sedia all’indietro. “Asia non sta lasciando semplicemente il lavoro. Asia ci sta lasciando per sempre ed è a causa di questa ragazza, Frankie. Sta per fare qualcosa di terribile, me lo sento!” disse buttando sul tavolo un articolo di giornale, poi uscì sbattendo la porta. Frankie sospirò a fondo. Comprendeva molto bene il dolore che stava provando la sua amica, ma aveva le mani legate e non poteva agire in altro modo. Prese in mano l’articolo e iniziò a leggerlo.

Il bicchiere era mezzo pieno, ma nonostante ciò Asia chiese per l’ennesima volta al barista di riempirlo con altro whiskey. Si trovava in quel bar da almeno tre ore e per tutto il tempo non aveva fatto altro che bere. Non voleva farsi trovare da nessuno, voleva sparire e per questo aveva gettato il cellulare lungo la strada. Non sapeva quanto avesse camminato, ma di sicuro si trovava molto lontano da casa e dal centro giovanile. Purtroppo però, per quanto bevesse, non riusciva a dimenticare quello che era successo. Il viso di quella ragazza continuava a tornare a galla nella sua mente. Gli occhi spaventati, i capelli scompigliati, i piedi scalzi sporchi di terra. Per un attimo chiuse gli occhi e ripensò a quel terribile giorno…

Era un giorno come tutti gli altri al centro giovanile. I ragazzi stavano giocando nel parco. Asia e Fiona si trovavano in ufficio e stavano discutendo in merito ad un nuovo progetto da introdurre ai ragazzi, quando d’improvviso sentirono delle grida. Uscite dal centro raggiunsero il parco. Tutti i ragazzi si erano radunati e osservavano il tetto dell’edificio. Non appena Asia alzò lo sguardo, spalancò la bocca, tremando. Gli occhi terrorizzati. Sul tetto, le braccia distese lungo i fianchi e i capelli sciolti, c’era una ragazza. Senza perdere un secondo, Asia corse all’interno dell’edificio per raggiungere il tetto. Quando si ritrovò davanti alla porta che portava al tetto, esitò qualche secondo, poi la aprì lentamente. Senza fare rumore, raggiunse la ragazza, fermandosi a un paio di metri da lei. “Julia” la chiamò quasi in un sussurro. “Se ne vada! Se ne vada!” disse la ragazza agitata, senza nemmeno voltarsi, continuando a fissare il vuoto sotto di sé e gli sguardi spaventati dei suoi coetanei. “Julia, non farlo. Prendi la mia mano, ti aiuto a scendere dal tetto”. Asia fece un paio di passi in avanti, ma Julia le intimò subito di fermarsi, minacciando di buttarsi.

“Julia, non farlo! Vieni con me e parliamo!”. Julia tornò a guardare il vuoto sotto di sé, stringendo gli occhi per trattenere le lacrime. “Julia, prendi la mia mano. Ti prego. Vieni con me. Vedrai, si risolverà tutto!”. Julia in quel momento la fissò dritto negli occhi, rivelando un viso visibilmente distrutto. “Non c’è nulla che lei può fare per me. Alcune persone sono destinate ad essere infelici. Non so più che cosa fare. Non so più a che cosa credere” disse stringendo i pugni, cercando di trattenere le lacrime. Fissò Asia rivolgendole uno sguardo di profondo dolore. Era chiaro quanto fosse spezzata dalla sofferenza. “Lei mi sa dare anche solo un motivo per cui non dovrei mollare tutto? Me lo sa dire?” chiese facendo un piccolo cenno col viso. Julia guardava attentamente Asia, aspettandosi una sua reazione, parole di conforto, una speranza, ma in quel momento Asia rimase inspiegabilmente in silenzio e quel suo silenzio fu fatale per Julia, perché il suo sguardo si fece improvvisamente tranquillo, sereno, un sorriso appena accennato e in un attimo scomparve, lanciandosi nel vuoto.

Il rumore del bicchiere che cadeva sul bancone distrasse Asia, che ritornò alla realtà. Era rimasta tutto il tempo a pensare a quel terribile ricordo, tenendo il bicchiere in sospeso e poi, senza accorgersene, lo aveva lasciato cadere. Lentamente e barcollando, si trascinò fino all’uscita, incamminandosi lungo il marciapiede, senza mai alzare lo sguardo. Non aveva la minima idea di che ora fosse, ma non le importava. Camminò senza mai fermarsi, fino a che non raggiunse un piccolo ponte e lì si fermò, i gomiti appoggiati al muretto, guardando l’acqua fredda sotto di sé. Non riusciva a capire il perché stesse così male. La morte di Julia l’aveva devastata inaspettatamente. E il non riuscire a trovare una risposta la rendeva molto irrequieta.

“Detective Mason” rispose Frankie con voce stanca. “No, sono fuori ufficio ora, ma mandami i documenti via fax entro domattina e poi… “. In quel momento la voce del detective si interruppe. Il suo sguardo fu catturato da una figura oltre il ponte. Rapidamente accostò l’auto e scese raggiungendo l’altro lato della strada. “Dio mio, non può essere…” pensò. Camminava a passo svelto in direzione di quella figura, facendosi spazio tra le auto che correvano lungo le corsie. Allora le sensazioni di Fiona erano giuste. Lentamente si fermò ad un paio di metri da quella persona ormai pronta a gettarsi nel vuoto. Frankie si muoveva piano, senza fare rumore per non spaventarla. Asia tremava, piangeva a tratti. Era evidente che fosse in uno stato di confusione. Frankie era a pochi passi da lei che non aveva percepito la sua presenza. Gli bastava fare qualche altro passo e l’avrebbe afferrata. Solo qualche passo, poi d’improvviso Asia si lasciò andare, lanciandosi nel vuoto. “No!” urlò Frankie raggiungendola in tempo e afferrandola per il collo della giacca. Asia urlò per lo spavento o forse per la delusione di non essere riuscita nel suo intento. “Mi lasci andare! Mi lasci andare!” continuava a urlare disperata, ma l’uomo non mollò la presa, riuscendo a portarla al lato opposto del ponte.

“Asia!” urlò Fiona varcando la soglia della camera d’ospedale. Asia alzò lo sguardo. Era sdraiata su un lettino e vicino a lei un’infermiera sembrava controllare la pressione. “Oh, Asia, mi hai fatto prendere spaventare a morte!”. Fiona era in lacrime. “Tranquilla, sto bene” si limitò a rispondere stringendole la mano. “Fiona, posso parlarti?”. In quel momento Frankie era entrato nella stanza. “Certo, Asia torno subito” disse abbracciandola forte, uscendo con calma dalla stanza. “Fiona, ho trovato Asia su un ponte. L’ho salvata prima che potesse gettarsi nel vuoto. L’ho salvata in tempo altrimenti a quest’ora sarebbe…”. Non finì la frase, lasciando intendere che sarebbe morta se non l’avesse tratta in salvo. Fiona sgranò gli occhi, incredula. Non riusciva a credere che la sua più cara amica avesse potuto fare una cosa simile. “Credo abbia bisogno di tutto l’aiuto possibile in questo momento”.

Fiona si lasciò scappare una lacrima, appoggiandosi alla parete del corridoio, gli occhi chiusi e le labbra tremanti. Era ancora molto scossa dall’accaduto. Passarono diversi secondi in cui Frankie la guardava e lei sembrava riflettere. Era come persa nei suoi pensieri. “Fiona?” la chiamò, facendola tornare alla realtà. La donna sembrava paralizzata. Ciò che era successo l’aveva letteralmente sconvolta. “Fiona, tutto bene?”. Frankie le mise una mano sulla spalla. “Certo!” rispose improvvisamente con un debole tono di voce. “Penso che…”. Si interruppe quasi volesse cambiare discorso. Frankie la fissava perplesso. “Certo, Frankie, farò il possibile perché si riprenda! Non ti preoccupare” e senza dargli il tempo di dire altro, gli voltò le spalle tornando da Asia.

Anais

«Quale fragranza vuoi che metta?», chiese lei con voce seducente. «Niente fragranze. Voglio sentire l’odore della tua pelle», rispose una voce maschile, con un tono quasi impaziente. «Niente fragranza, niente sesso, sono le regole». Lui rimase in silenzio, sdraiato con le mani legate ai bordi del letto e una benda nera che copriva metà viso. La ragazza, invece, stava in piedi davanti a un mobile e ammirava diversi barattoli di vetro etichettati in ordine alfabetico, poi fissò l’uomo; per pochi secondi pensò di slegarlo e di dirgli di andarsene, era molto tentata di farlo, ma poi lui rispose. «Lavanda! Voglio che odori di lavanda».

Gli occhi tristi della ragazza cambiarono in pochi istanti e il suo sguardo si fece cupo, come se volesse cancellare quell’attimo di debolezza di cui si vergognava. Prese in mano un’ampolla con la scritta Lavanda, tolse il tappo e respirò a fondo l’essenza: era molto forte e per poco non svenne dalle sensazioni che l’attraversarono, come quando attendi un’onda in mezzo al mare e non vedi l’ora di farti travolgere dalla sua dolce forza. Poi un devastante déjà-vu iniziò a ripetersi con insistenza e un insieme di immagini iniziarono a scorrere veloci nella sua mente. Se avesse visto i suoi occhi, in quel preciso momento avrebbe notato il cambiamento avvenire all’istante: le pupille erano dilatate e lo sguardo quasi ipnotizzato, come fosse sotto il potere di un incantesimo. Un calore si fece largo nel suo stomaco e lentamente raggiunse la gola. Si girò verso l’uomo e si sedette sopra di lui, versando sul suo corpo piccole gocce di lavanda che massaggiò con tocco delicato lungo la sua morbida pelle. L’uomo ansimava e godeva di quel momento e quando lei si mise sopra alla sua zona calda e dura e spinse a fondo, non riuscì a trattenere un forte gemito di piacere.

Senza smettere di muoversi su di lui, la ragazza allungò le mani verso il cuscino e strinse un foulard di seta blu, poi scoprì molto lentamente il viso dell’uomo che l’ammirò come fosse un angelo venuto direttamente dal paradiso. «Sei davvero bellissima!». Lei sorrise, poi appoggiò il foulard sulla sua bocca e lo baciò intensamente. Le lingue si cercavano tra la stoffa, divertite nel percepirsi senza un diretto contatto. Nonostante fosse legato, l’uomo si muoveva sotto di lei con un incredibile forza, tanto era eccitato da quel momento. Le mani della ragazza non smettevano di stringere il foulard che ora si ritrovava avvolto attorno al collo dell’uomo e che usava per domarlo quando tentava di avere la meglio su di lei. Un susseguirsi di gemiti si fece strada e quando si sentì vicina all’orgasmo, tirò le due estremità della stoffa, chiuse gli occhi e buttò indietro la testa, la bocca spalancata ma la voce soffocata dall’immenso piacere e non si fermò quando sentì la voce prima balbettante e poi spezzata dell’uomo che dopo pochi secondi era fermo immobile sotto di lei.

Quando si ricompose, lo fissò compiaciuta e si sfilò la parrucca a caschetto color castano scuro. Un terrificante silenzio piombò nella stanza, ma poi la porta della camera si aprì all’improvviso e una donna vestita con un pantalone e maglioncino color cammello, i capelli legati in una morbida coda bassa, e avvolta da una mantella che dava l’impressione di essere di seconda mano, lasciò ai piedi del letto un enorme sacco di plastica nero. «La prossima volta non lasciamo passare troppo tempo, lo sai che abbiamo delle scadenze da rispettare». Mise a posto l’ampolla di lavanda, poi fissò la ragazza e in un attimo il suo sguardo si addolcì e si fece vicina per osservare il suo viso.
«Allora, come ti senti?».
«Sto bene, anzi, mi sento benissimo…».

Tre settimane dopo…

Mentre era seduta al bancone del bar, uno dei tanti baristi le porse un bicchiere di vino rosso e le sorrise. «Ordini sempre un calice di vino rosso, ho pensato di servirtelo subito senza farti aspettare». Anais lo fissò perplessa. Per quanto fosse una bella ragazza, non era abituata a gesti simili e non sapeva cosa dire. L’unica cosa a cui pensò fu un banale ringraziamento, ma non fece in tempo a dirlo perché il ragazzo fu chiamato a servire un altro tavolo. Era di poche parole, ma più che altro le piaceva osservare e non poté fare a meno di notare il suo fisico atletico, i capelli biondi e ben pettinati con il gel, gli occhi color nocciola grandi e sorridenti come la sua bocca dalle labbra invitanti. Era una preda perfetta, ma poi si alzò e se ne andò senza cercare il suo sguardo per salutarlo. Era meglio così.

La sera sembrava non passare mai e la voglia di dormire era ben distante dal farsi trovare. Anais sembrava una povera anima condannata a vagare in eterno nel suo appartamento e nemmeno la canna che fumò fuori in terrazzo, respirando aria fresca, sembrò darle sollievo. Era visibilmente nervosa, come se stesse aspettando un importante risultato di un esame o una di quelle chiamate che possono cambiarti la vita, poi prese il cellulare e digitò nervosamente un messaggio. Raccolse alcuni indumenti e un beauty case e uscì di casa senza nemmeno chiudere a chiave. Aveva troppa fretta. Camminava a passo svelto, il cappuccio del giaccone che copriva il viso. Non appena fu certa di essere abbastanza lontano da casa, prese un taxi e si fece portare in un quartiere a circa dieci chilometri da casa sua, poi si fece lasciare a un incrocio e camminò per diversi minuti fino a ritrovarsi in un quartiere composto da diverse villette con giardino. Si fermò davanti a una porta di legno scuro dall’ampia veranda e bussò forte più volte. Sapeva di essere attesa, ma aveva esaurito la pazienza.

«Questa improvvisata non me l’aspettavo proprio. Ti senti pronta? Se sei strafatta ti rimando a casa!». Davanti a lei, la donna dai capelli rossi raccolti in uno chignon la fissava con aria di rimprovero. I pochi capelli bianchi lungo le tempie erano fermati ai lati da delle forcine dorate, gli occhi sembravano truccati e questa volta indossava un abito scuro dal collo alto e arricchito da una collana di perle e per un attimo Anais ebbe l’impressione che fosse rientrata a casa apposta per lei. “Sì, ne sono sicura. È il mio corpo a chiederlo. E poi se qualcosa va male, sai cosa fare». La donna la fece accomodare e chiuse a chiave la porta. «Lo sai che non esito mai», e le indicò la scala, ma Anais già sapeva dove andare. 

Dopo un paio d’ore, la donna apparve nel salotto, stupita di trovare Anais ancora lì. Rannicchiata sul divano, guardava la televisione a volume basso. «Come mai sei ancora qui? Ero convinta che fossi già andata a casa», e si sedette sul divano accanto a lei, accarezzandole i piedi. Erano bizzarre assieme, ma potevano benissimo sembrare una madre e una figlia. «Non ho ancora voglia di andare a casa, tutto qui». Tutto era andato come doveva andare, proprio come aveva previsto nella sua testa, eppure quella sera si sentiva malinconica, sola, quasi insofferente. Quel suo modo di vivere era duro da accettare, ma non aveva scelta se non conviverci.

«Hai fame? Vuoi che ti prepari qualcosa da mangiare?».
«Eva, qualcosa sta cambiando in me. Sento che fatico a controllarmi ultimamente e non credo sia un buon segno». La donna si fece più vicina e fece sedere Anais, prendendo il suo viso tra le mani.
«È il tuo corpo che sta mutando. Nonostante tutto, continui a crescere e lo stesso i tuoi istinti. Non ti devi preoccupare, ci penso io a te. Vedrai che andrà tutto bene», e le stampò un bacio sulla fronte. «Ti preparo qualcosa da mangiare, vedrai che ti sentirai meglio».

Quella notte Anais faticò ad addormentarsi. Il ricordo dell’episodio vissuto poco prima le tornò alla mente milioni di volte e più lo faceva, più si eccitava. Si rigirava nel letto, sperando di sentire quella familiare sensazione di stanchezza, ma niente. I suoi occhi erano spalancati e le pupille parevano minuscole, come fossero due punti scuri fuori posto e così, arresa alla sua anima tormentata, lasciò scivolare una mano dentro alle mutandine, eccitandosi per ciò che era accaduto e immaginando di essere lì, ancora.

Tutti Giù Per Terra!

I carri allegorici, la musica assordante, i fuochi d’artificio e gli schiamazzi della gente: la festa con la grande folla copriva i loro rumori peccaminosi. Oltre gli alberi della via principale del paese, nel buio più profondo nonostante le luci sgargianti, due ragazze si scambiavano un profondo affetto.

Sonia, sdraiata a terra, incurante delle foglie che s’infilavano tra i biondi capelli, e del vestito a fiori sporco di fango, si lasciava trasportare dal piacere che la travolgeva quasi con irruenza. In silenzio, aveva seguito quel desiderio fatto a persona fino al punto più buio del bosco, senza reagire quando era stata spinta al suolo e la gonna si era solleva fino all’ombelico, coprendo la tonda scollatura del vestito. E, sempre immobile a terra, non si era lamentata quando una lingua l’aveva esplorata tra le gambe; gli occhi chiusi, si sentiva una felice prigioniera in un bosco incantato.

Il piacere che provava era del tutto inaspettato e una lacrima era corsa lungo la guancia sinistra nel momento in cui aveva sentito un forte calore gonfiarsi proprio lì, tra le gambe; poi aveva rilasciato un lungo respiro e aspettato che il cuore smettesse di tormentarle il petto. La ragazza di fronte a lei la osservava con l’aria di chi poteva finalmente cantare vittoria e lei camuffava un sorriso mentre buttava la testa all’indietro, divertita all’idea di aver appena saldato il conto di una scommessa persa.


La porta si apre e quando Sonia vede Sara, le va incontro. I grandi occhi azzurri, incorniciati da una chioma dorata come il grano in piena estate, si posano subito sulla scatola che la ragazza regge in mano e che apre come se stesse scartando un regalo.

Due oggetti metallici si riflettono negli occhi di entrambe. Si osservano, guardinghe, poi Sara abbandona la scatola su un tavolo e si avventa su Sonia prima che gli occhi lucidi riversino lacrime su tutto il viso. Le labbra schiacciate contro le sue, la priva con foga dei vestiti: la felpa, i jeans corti e strappati, l’intimo bianco e candido come la pelle del suo viso.

La spinge sul letto e con una mano le accarezza il ventre, poi s’inginocchia e Sonia vede solo una chioma bruna muoversi lenta tra le sue gambe. Gli occhi chiusi, ha spasmi come se sollevasse tonnellate. Si morde il labbro inferiore, come se fosse lei stessa ad accarezzare le sue labbra.

Sara la osserva a tratti. La spia oltre i morbidi seni, e si ferma solo quando sente il piacere di lei colarle dalla bocca; solo per quale istante, però. Impaziente, avvicina le dita suo punto più sporgente tra le gambe di Sonia e, lentamente, risale il corpo dalla pelle chiara come quella di Biancaneve, strofinandosi con evidente passione.

Pelle contro pelle, si tormentano di baci sul viso come se non si vedessero da tempo. I movimenti si fanno sempre più veloci, le loro voci emergono tra i forti respiri. Sara si aggrappa ai capelli di Sonia abbozzando una sorta di abbraccio e un lamento soffocato la vede adagiarsi su di lei tutto a un tratto, come se si fosse spenta.

Sdraiate una di fianco all’altra, si guardano in silenzio. La gioia nei loro occhi è quasi palpabile e a entrambe pare quasi di poter odorare nella stanza l’amore che provano; poi la risata di Sonia irrompe in quell’idilliaco momento quando accarezza la testa di Sara nel punto in cui è rasata; il risultato di una scommessa vinta.


Quel pomeriggio Sonia tornava a casa da scuola. Era un giorno normale come tutti gli altri, se non fosse stato per due ragazzi che, forse per noia o per stupidità, avevano deciso di importunarla. Sonia aveva risposto a tono alle loro offese e in un attimo si era ritrovata a correre, fino a quando non era stata spinta a terra.

Tirata per i capelli, venne spinta contro un muro. Occhi famelici la guardavano come fosse un pasto succulento, poi un urlo interruppe quella scena. Davanti a lei, Sara: la ladruncola del paese; di lei si sapeva solo che era orfana e che viveva nel bosco. I due ragazzi la minacciarono, ma alla vista di una pistola fuggirono più veloci di un razzo.

La ragazza squadrò Sonia che si sentì spogliata di ogni indumento, poi si addentrò nel bosco. Senza comprenderne il motivo, Sonia la seguì. Da un lato ne era intimorita, ma in fin dei conti l’aveva appena salvata e le pareva brutto filarsela senza dire o fare niente. Sara si accese una sigaretta mentre sedeva su un grande tronco d’albero.

Il silenzio permeava nel verde intenso del bosco. Un silenzio più spaventoso che imbarazzante a mano a mano che Sara fissava Sonia che, all’improvviso, pronunciò un Grazie, serrando le labbra quasi si fosse appena pentita di averlo detto. Sara replicò che non se ne faceva niente di un grazie e che era di gran lunga migliore un bacio.

Il viso di Sonia si fece rosso come un semaforo e le parole parvero fuggire a ogni passo che Sara faceva verso di lei che, tutto a un tratto, riprese coraggio e la intimò di fermarsi. Lei imbarazzata, l’altra spavalda, incrociò le braccia per assumere un’aria il più saccente e sicura possibile, poi alzò appena il mento, uscendosene con una proposta: l’avrebbe baciata se lei si fosse rasata metà testa, liberandosi di quel cespuglio enorme di ricci che si ritrovava; solo allora le avrebbe concesso un bacio.

Sara scoppiò a ridere così forte da piegarsi e portare una mano all’addome. Si fermò a fatica, fissandola divertita, poi si mise a pochi centimetri dal suo viso. La pelle bianca di Sonia contrastava con quella olivastra di Sara che sorrise e le disse che non voleva baciare le labbra della sua bocca, ma quelle tra le sue gambe.

Sonia si scostò come se Sara le avesse puntato la pistola alla testa: di nuovo, si prendeva gioco di lei. Le sopracciglia si fecero più vicine quando la fronte di Sonia si corrugò a trattenere un moto di rabbia. Ora era lei ad avvicinarsi e a rimanere a pochi centimetri dal viso di Sara. Sorrise a fatica, quello sguardo non smetteva di intimorirla, poi se ne uscì con una frase detta tutto d’un fiato. Poteva avere il bacio che voleva: doveva solo rasarsi mezza testa e la sera della festa del paese, lei le avrebbe dato ciò che voleva. E se ne andò.


Nude e stese sul letto, si coccolano a tratti e godono della luce del giorno ancora lontana dal tramonto. Il silenzio che le circonda è quasi disarmante, ma sanno che durerà ancora per poco. Sta per arrivare una tempesta che vedrà il trionfo di tanti su pochi. Sara si solleva e recupera la scatola che appoggia ai piedi del letto. Sonia si mette seduta e osserva, questa volta con terrore, quella cosa. Il suo viso si ritrova stretto tra le mani dell’amante che preme forte le labbra sulle sue, quasi a voler risucchiarne la paura.

Un rumore le fa sobbalzare. È giunta l’ora. Sono loro. Sono venuti a prenderle. Il portone in fondo alle scale inizia a cedere. Sara e Sonia impugnano i due oggetti metallici. Un tremendo rumore fa capire che tanto odio sta correndo verso di loro. Si sentono tanti passi, tante urla; una devastante incomprensione. Un colpo alla porta d’ingresso rimbomba nella stanza, poi un altro. In pochi secondi cederà, ma Sonia e Sara non si muovono.

La porta s’inclina. Le voci emergono chiare nella stanza. I secondi sono ormai vicini allo zero. Sonia e Sara sono fermi immobili sul letto. Una di fronte all’altra. Gli occhi fissi e fieri. Due sorrisi accennati ma colmi di felicità. Le due pistole puntate l’una contro il cuore dell’altra e nel momento in cui la porta cede e si schianta rumorosamente sul pavimento… bang!

FINE

Àlima

Lo sto guardando. Non smetto di guardarlo nemmeno per un secondo. Non batto quasi le palpebre. Sono tre giorni che lo osservo dalla finestra. Alle sette e trenta del mattino entra nella caffetteria. Esce quasi sempre otto minuti dopo, ancora con il bicchiere di caffè in mano. È primavera.

Ogni giorno lo guardo e mentalmente annoto ogni suo movimento, ogni suo sguardo. Ogni singola cosa. Mi sembra quasi di conoscerlo. Sei, cinque, quattro, tre, due, uno. È entrato nell’edificio. Mi lascio cadere sul letto, chiudo gli occhi e per un tempo indescrivibile non faccio altro che respirare e concentrarmi sul battito del mio cuore, sulla velocità dei miei respiri e libero la mente.


Sono passati tre giorni. Continuo a osservarlo dalla mia finestra. Oggi sembra prospettarsi una bella giornata di sole, almeno così ha fatto intendere il meteo. Sono agitata. Anche se so che tra meno di due minuti lo vedrò apparire oltre quell’albero che mi copre la visuale al lato sinistro, il mio cuore accelera il battito. Scosto appena la tenda e per pochi secondi trattengo il respiro. Eccolo!

Oggi è ancora più affascinante del solito. Forse ha una riunione importante. Indossa un completo grigio, una cravatta a righe, scarpe nere e lucide. E sopra, un impermeabile nero con eleganti fibbie ai polsi. Nella mano destra stringe il manico della ventiquattrore mentre sotto il braccio sinistro stringe il giornale. Entra nella caffetteria. Guardo l’orologio e inizio a contare.

Sette minuti e quarantadue secondi dopo esce. Oggi sembra andare di fretta. È evidente che abbia qualcosa di urgente da fare in ufficio. Lo seguo con lo sguardo. Ha i capelli corti, castano chiaro. Occhi verdi. E una piccola cicatrice sul lato destro della fronte. Forse causato dai duri allenamenti di football durante la sua adolescenza. So che era uno sportivo, ho trovato l’informazione online. È alto, atletico e ha un’aria romantica e dolce, anche se la sua espressione è sempre seria, come se dovesse analizzare tutto e tutti per riuscire ad affrontare la sua vita.

Cammina a passo svelto verso il grattacielo e in pochi secondi sparisce oltre la porta scorrevole. Mi allontano dalla tenda e rifletto. Trovo assurdo stare chiusa in una stanza a osservare un uomo. A volte ho pensato di raggiungere la caffetteria per guardarlo da vicino, incontrare i suoi occhi, parlarci, ma so bene che è un’idea folle. E di nuovo mi abbandono sul letto. Elimino tutti i rumori di sottofondo e mi concentro sul mio respiro. Il corpo si rilassa, rallenta, e si distacca dalla realtà.


Oggi è il settimo giorno. Sette. Un numero qualsiasi, ma con un significato importante. Sembra che Dio abbia creato il mondo e l’uomo in sette giorni. Per quanto sia considerato onnipotente, ha impiegato sette giorni per fare tutto ciò. Senza fretta, insomma. E così io ho preso tutto questo tempo per quest’uomo. Per osservarlo. Capirlo. Vederlo muoversi nella sua quotidianità. Trovo la cosa quasi piacevole. Sono le sette e cinque minuti. È ancora presto e ho tempo per prepararmi. Mi libero della t-shirt bianca e mi infilo dei jeans e una felpa. Tutto nero. Bevo del caffè istantaneo e mi sforzo di non aggiungere lo zucchero. È pessimo e renderlo dolce sarebbe inutile ma quel pensiero vola via non appena mi apposto davanti alla finestra.

Guardo l’orologio. Sono le sette e venti. I dieci minuti seguenti sono interminabili. Temo che non lo vedrò. Inizio a pensare che forse proprio oggi non si presenterà. Ho aspettato tanto quel momento e ora ho paura che sia stato tutto tempo perso inutilmente. Mi agito e maledico me stessa per il mio modo di agire, ma quando lo vedo camminare lungo il marciapiede, torno serena.

Cammina con la ventiquattrore stretta nella mano destra e il giornale sotto il braccio sinistro. Oggi indossa un completo nero e una cravatta a fantasia azzurra. Sopra, il solito impermeabile nero. I capelli corti sono perfettamente al loro posto. Sembra felice. Forse ha ricevuto buone notizie. È davvero affascinante. Come vorrei potermi avvicinare a lui senza alcun timore fingendo di inciampare per attirare la sua attenzione.

Immagino che mi chiederebbe se sto bene e inizieremmo a parlare. Poi m’inviterebbe a cena in un ristorante di gran lusso, so che lo farebbe perché è un gentiluomo ed io so di essere attraente, e mi offrirebbe una cena accompagnata da bottiglie di costosissimo champagne, concludendo la serata a casa sua.

Non appena varcata la soglia, mi offrirebbe un drink dal ricco bancone bar situato nel suo immenso salotto, poi farebbe partire della musica lenta e sensuale. Mi travolgerebbe in un abbraccio e mi porterebbe in camera e lì so che mi farebbe impazzire, più volte, possedendomi come fossi stata sua da tutta una vita. La tentazione è forte, ma s’interrompe non appena mi accorgo che l’uomo che affolla da giorni i miei pensieri si avvicina ed entra nella caffetteria.


Posso farcela, è arrivato il momento giusto. Ne sono sicura. Sono le sette e trenta precise e otto minuti dopo esce con il bicchiere di caffè in mano. Per qualche secondo il battito del mio cuore accelera ma cerco di dominarlo. Mi concentro sui miei respiri, sempre più lunghi e lenti. Socchiudo gli occhi senza smettere di seguirlo mentre si dirige al grattacielo. Cammina lungo il marciapiede in mezzo a una folla di persone, proprio come fa tutti i giorni. Mancano circa sessanta passi prima che sparisca oltre l’ufficio.

Elimino tutti i pensieri dalla testa. Elimino tutti i rumori di sottofondo. È come se esistessimo solo io e lui. Inizio a respirare piano, molto piano, quasi da non percepire nemmeno quel rumore e rimango ferma davanti alla finestra, sospesa nei miei respiri. Mi metto in posizione e conto mentalmente fino a tre mentre il mio dito raggiunge il grilletto. E sparo.

Un colpo solo e l’uomo finisce a terra. I miei occhi sorridono per la mia bocca e i miei respiri tornano normali. Smonto rapidamente il fucile ed esco dalla stanza dell’hotel, correndo verso il retro.

Mi chiamo Àlima Dante e sono un killer professionista.

FINE