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Come una madre

Sono single. Ho trentacinque anni. Un fisico formoso ma atletico. Odio la lavanda, credo di essere l’unica persona al mondo. Ricerco l’ordine, o forse dovrei dire la perfezione, in ogni cosa. Sono imprenditrice. Produco un marchio di moda. Nulla a che vedere con Gucci o Louis Vuitton, ma viaggia bene.

Apprezzo i piatti semplici, il vino bianco, mangio solo gelato al gusto vaniglia. Non convivo, non ho relazioni, ho solo contratti o incontri a tempo determinato. Tendo al controllo. Sono intelligente, ma a volte dimentico che sono umana e che nulla può seguire in maniera impeccabile il suo percorso. Adoro gli animali solo nei film. Amo la mia famiglia, ma presa a piccole dosi. Ed è qui che decade tutta la mia vita. In un giorno qualunque, il castello che credevo solido e inattaccabile crolla proprio davanti a me, e io con lui.

Non so come quella foto sia arrivata a me, né chi l’abbia scattata, ma ogni domanda che emerge nella mia mente viene allontanata dalla madre di tutte le domande: i bambini stanno bene? Il respiro viene a mancare, la gola prude. Ho la sensazione di aver perso l’udito perché non percepisco nemmeno più la televisione in sottofondo. Non ho loro notizie da oltre un mese.

L’ultima volta li ho visti per pochi minuti. Si tenevano per mano camminando verso di me mentre li aspettavo in una stanza e sorseggiavo un caffè. Avevo messo in bella vista due grandi pacchetti regalo, ma non li avevano toccati. Rimanevano fermi immobili come se aspettassero una mia reazione. La più grande aveva appoggiato il braccio sulle spalle del più piccolo che teneva la testa bassa. Io dicevo poche frasi che si concludevano con un gran sorriso da clown. Solo la più grande rispondeva, ma a monosillabi.

Serrai le labbra e mi alzai, dicendo che ci saremmo rivisti presto e in quel momento il più piccolo mi guardò. Gli occhi di un marrone chiaro richiamarono il ricordo della loro mamma, la mia sorellina con cui condividevo ogni cosa. Non dice nulla, ma la sua espressione mi fa capire che è consapevole che sto mentendo. E mi sovviene il ricordo di quando da piccola, io la mia sorellina ci divertivamo a rubare i mestoli di mamma per giocare sotto al tavolo mentre lei cucinava; diventava matta ogni volta e quando ci scopriva, o meglio, si stancava, minacciava di toglierci tutti i giochi e noi scappavamo in camera, divertite, perché non sapeva che i giochi migliori li avevamo nascosti nell’armadio, sotto ai piumoni invernali. 

Getto la foto sul tavolo della cucina e mi affaccio alla grande finestra del mio attico. È stupenda la vista da lassù. È stata la carta vincente che mi ha portato all’acquisto. Quei bambini non sono mai venuti qui: ogni oggetto è vintage o di lusso, morirei se qualcosa si rovinasse. Ripenso a mia sorella, e d’istinto porto una mano alla bocca. Non piango mai. Per nessuna ragione. È una cosa così debole che provo una gran vergogna e abbasso lo sguardo, neanche avessi davanti qualcuno a giudicarmi. Mi volto di scatto e spingo una sedia a terra con una violenza di cui non mi credevo capace. Il rumore è assordante a quell’ora della sera. Il mio sguardo è fisso sull’oggetto che pochi istanti dopo rimetto a posto con estrema delicatezza, come se stessi raccogliendo delle rose a cui non ho tolto le spine.

Prendo in mano il cellulare e scorro la rubrica con cautela. Forse spero di non trovare registrato quel numero, ma poi appare ai miei occhi chiaro e distinto. Il dito è a mezz’aria e, ancora indeciso, preme sul tasto. Quando una voce femminile risponde, provo un disagio tremendo, praticamente un tuffo a bomba in una piscina dall’acqua gelida. Il capitano delle mie emozioni tiene con le briglie la mia ansia, in fondo devo farle solo una domanda anche se in un lampo riaffiora la nostra prima conversazione dove mi informava che ero la parente più prossima ai miei due nipoti. La mia famiglia era morta in un incidente d’auto: non avevo più una sorella, un cognato, una madre e un padre. I bambini erano a un compleanno. Non avevo trovato il coraggio di andare a prenderli e avevo insistito che fosse lei a occuparsene. Che vigliacca…
Mi scuso per l’orario e lentamente, quasi la mia mente ragionasse come una giostra a gettoni da caricare di continuo, chiedo come stanno i bambini. La mancata fluidità con cui solitamente conversa, la tradisce. Provo un freddo pungente lungo la schiena e stringo il telefono più forte. Chiedo spiegazioni, le pretendo. Mi dice che purtroppo c’è stato un cambiamento e che per un banale disguido, forse, non sono stata avvisata. Mi elenca un indirizzo e il sangue smette di affluire nelle mie vene, o almeno è ciò che sento.

Non mi rendo conto di essere scalza, con indosso solo un tubino e i capelli disordinati. Il portiere al piano terra apre la porta d’ingresso giusto in tempo per evitare che ci finisca contro. Corro veloce lungo il marciapiede. Urto qualche passante, i più furbi si scansano. Attraverso la strada facendo cenno di stop alle auto che non suonano nemmeno il clacson, forse perplesse dalla mia foga. Raggiungo l’altro lato della strada e corro sempre più veloce. Alle superiori era una gran velocista ed è incredibile come il mio corpo ricordi bene il ritmo utile per una corsa equilibrata.

Corro per quelli che saranno almeno otto chilometri. Non accenno fiato corto. Non crollo. Mi fermo di scatto davanti alla destinazione e urlo di aprire mentre busso alla porta così forte che dall’altro lato della strada qualcuno blatera a voce alta frasi che non comprendo. Forse mi dicono di fare silenzio, forse mi intimano a fermarmi. Non lo so e non mi interessa. Una luce si accende e quando la porta si apre, non bado a chi ho di fronte. Chiamo i loro nomi di continuo, come fossi un disco rotto e il volume bloccato allo stesso punto, alto e ruggente.

Altre luci si accendono. Sento un brusio di voci, ma non ascolto. Salgo al primo piano e percorro i corridoi. La mia voce squillante risveglia quel posto che non volevo per loro. C’è odore di vecchio, le pareti hanno l’intonaco crepato, la toilette puzza di fogna, il pavimento presenta macchie ovunque. Chiamo i loro nomi ma non li trovo e in quel momento mi blocco perché mi rendo conto di piangere. Mi volto e osservo gli sguardi perplessi o spaventati di bambini nei loro pigiami, alcuni stringono un peluche. Penseranno che sia una pazza e credo di averne l’aspetto. Poi sento chiamare il mio nome e mi volto. Eccoli! 

Prendo in braccio il più piccolo e per mano la più grande e li trascino fino all’ingresso mentre un uomo anziano mi aggredisce a parole che puntualmente ignoro. Esco in strada e cammino senza voltarmi. I bambini non dicono nulla, mi seguono. Più ci allontaniamo da quell’edificio, più ho la sensazione di essere al sicuro. Mi guardo attorno per capire dove ci troviamo e il più piccolo mi guarda e dice che ha fame. Poteva dirmi qualsiasi cosa, anche la più atroce, ne avrebbe avuto diritto. Invece ha solo voglia di mangiare.

Anche se non ho un soldo con me, camminiamo verso il primo locale che offra pasti a quell’ora e nel cercarlo, vedo la mia immagine riflessa lungo una vetrata scura. Ho l’aspetto di chi è andato incontro a un uragano, uscendone indenne. Cerco di sistemare i capelli, ma la più grande mi ferma. Mi chiede di non farlo. Dice che le ricordo la sua mamma e il mio petto si scalda facendomi sentire in colpa ma serena al tempo stesso. Sorellina, mi manchi così tanto…

Raggiungiamo un locale che vedo ancora impegnato a servire pasti caldi, ma due pattuglie della polizia si avvicinano. Un uomo in divisa mi analizza come uno scanner e dallo sguardo deciso, comprendo che sa chi sono e cosa ho fatto. Mi chiede di salire in auto e lasciare i bambini alla sua collega che prova ad avvicinarsi, ma io li blocco con un immediato gesto della mano. Dico che non farò nulla di tutto ciò, non prima di aver portato i bambini a mangiare, perché è ciò che desiderano.

L’uomo mi fissa serio per secondi che sembrano non avere fine. Di sicuro teme per la vita dei bambini, e il suo giuramento lo obbliga a far rispettare la legge, a servire e proteggere, ma ho anche l’impressione che comprenda il mio stato d’animo perché lentamente perde la posizione rigida e i lati della sua bocca, nonostante siano nascosti dai baffi, si addolciscono. Fa un cenno con la mano che mi rassicura e apre la porta per farci entrare nel locale. 

Il piccolo siede sulle mie gambe, la più grande di fronte a me. Ordiniamo solo tranci di pizza e dolci. Insisto sull’acqua al posto della coca-cola, lo faceva sempre mia sorella. Mangiano e scherzano come se nulla di folle sia successo, come se la polizia non fosse lì fuori, in attesa che usciamo. Forse non sanno cosa accadrà, a dire la verità non lo so nemmeno io, ma in quel momento non m’importa. Do un morso alla torta al cioccolato e lo stomaco si apre in segno di grazia, felice di non dover digerire altro cibo privo di grassi. È il morso più dolce e sensato degli ultimi anni e provo un immenso piacere nell’assaporarlo.

Sposto indietro una ciocca di capelli e mi rendo conto di essermi sporcata. Fino a un’ora prima avrei urlato isterica, ora invece osservo curiosa il residuo di cioccolato sulle dita, sul vestito, sui capelli. Il piccolo si volta e ride. Dice che una volta la sua mamma non sapeva se tagliarsi i capelli. Lo ripeteva in continuazione a tutti quanti e lui, stanco di sentirla, le aveva spiaccicato in testa una gomma da masticare. Ricordavo quell’episodio, ero con lei dalla parrucchiera il giorno in cui dovette quasi rasare i capelli a zero. Ci ritroviamo a ridere, quasi a crepapelle. 

Li avevo rifiutati perché non volevo la responsabilità di curarmi di loro. Corrotti con regali per figurare come la zia perfetta. E rapiti senza alcuna spiegazione nel cuore della notte. Eppure erano seduti con me a ridere, a mangiare, a parlare della loro mamma. Spensierati. Com’era possibile? Non serbavano alcun rancore nei miei confronti e io non ero mai stata così felice come in quel momento.

FINE

Pilar e i 12 ospiti improbabili

Pilar leggeva un libro sulla sedia da campeggio mentre prendeva il sole. Era davvero surreale vivere la quarantena da coronavirus in condizioni atmosferiche eccellenti. Erano le quattro del pomeriggio di un Aprile appena sbocciato e aveva pensato che fosse perfetto distrarsi con la lettura. 

Resistette poco più di mezz’ora però, poi chiuse il libro di scatto e si osservò attorno. Era davvero folle che ci fosse a malapena il cinguettio degli uccelli in sottofondo. Niente auto, niente persone. Il nulla. Rientrò in cucina per bere un bicchiere d’acqua e controllare se Marco avesse chiamato, ma lo schermo era privo di notifiche. Fece scorrere la rubrica fino a trovare il numero di nonna Teresa e al sesto squillo la sua voce si fece sentire chiara e squillante. Una conversazione in spagnolo prese atto e più che un parlare, sembrava un recitare un’opera teatrale che viaggiava a suon di maracas.

Sola in casa, Pilar dava libero sfogo alle sue origini spagnole di una Valencia che non vedeva da tempo. Non era pentita di aver mollato il suo lavoro di fotografa per seguire il compagno e futuro sposo in Italia, ma non aveva nemmeno previsto che un virus quasi letale avrebbe seminato il panico e costretto tutti ad una quarantena che ora come ora sembrava non avere fine. 

Si erano stabiliti a Cesena poco prima di Natale e tra il trasloco e il realizzare di essere in una città straniera, Pilar non aveva conosciuto nessuno e il poter uscire solo per questioni importanti come la spesa o la farmacia, limitava di certo la possibilità di incontrare persone nuove. E a peggiorare la situazione era il fatto che Marco era partito appena un mese prima per New York e ora era bloccato lì, senza la certezza di poter tornare a casa. Vivevano in un attico, sopra ad un condominio di dieci piani, ma tutti i residenti sembravano barricati in casa e pronti a scappare non appena incrociavano lo sguardo di qualcuno, anche il più conosciuto.

Quel pomeriggio era per Pilar la quarta settimana in cui rimaneva sola e per un attimo pensò di uscire in strada e urlare. Quella solitudine la stava alienando ma peggio, meschini pensieri si facevano largo nella sua mente. Sdraiata sul divano, guardava la televisione senza volume ma ben presto la cosa si rivelò essere un incubo. Su Real Time, Gordon Ramsay non urlava ad uno chef apprendista di andare a spaccare legna piuttosto che cucinare, ma rimproverava Pilar per aver fatto la stupida scelta di aver seguito il suo amato compagno italiano nella sua terra. Su Cielo un giovane Tom Hanks nei panni di Forrest Gump scappava dai bulli, ma in realtà era lei che scappava da una grande opportunità di lavoro offertale in Valencia, ma che aveva declinato per paura di fallire. Cambiò ancora canale e su Paramount Channel, Carrie Bradshaw in quel preciso momento tirava il bouquet in testa a Big per averla abbandonata all’altare e mentre Pilar guardava il suo anello, pensò che forse avrebbe fatto la stessa fine perché Marco aveva rimandato la data del matrimonio un paio di volte per motivi di lavoro, ma forse la realtà era un’altra e ora c’era pure la pandemia.

L’unica consolazione era che si sarebbe risparmiata l’umiliazione di essere abbandonata il giorno del matrimonio con indosso un abito lontano dall’essere favoloso come quello di Vivienne Westwood e senza indossare un uccello di piume in testa. Per un attimo scosse il capo, quasi volesse spazzare via quei pensieri assurdi e cercò qualcosa di interessante da guardare per passare il tempo, ma se su Rai 4 Andrea Sachs trionfava con Miranda Priestly ne Il Diavolo veste Prada, ottenendo alla fine il lavoro dei sogni, quando cambiò di nuovo canale il suo buonumore crollò alla vista di un Maurizio Crozza che in silenzio scuoteva il capo come dire “Ma la finiamo con ste cazzate?”. Sfinita dallo zapping demoralizzante, si alzò dal divano per fare qualche pulizia di casa. L’aspirapolvere le diede un incredibile sollievo. Mai soldi furono spesi meglio se non per un Folletto. Il rumore le impediva di sentire i suoi pensieri, ma quando passò allo straccio, ecco che ripiombarono ancora più forti di prima, proprio come le bombe all’alba in quel di Pearl Harbour. 

Aveva fatto la scelta giusta nel mollare la vita a Valencia e seguire l’amore della sua vita? Aveva fatto bene a declinare quell’offerta di lavoro? Ma la peggiore delle domande era un’altra: cosa avrebbe fatto finita la quarantena? A quel punto non aveva più scuse. Sapeva di non voler essere solo una giovane sposina, ma cosa avrebbe fatto della sua vita? Forse si stava adattando ad una nuova situazione, ma una parte di sé, nel profondo, voleva urlare che non era così che doveva andare. In quel momento, mentre rendeva il pavimento di marmo splendente, desiderò che la quarantena non finisse mai. Forse poteva abituarsi ad una vita simile. In fondo ci circondiamo sempre di cose futili, invece ora si poteva vivere con poco e sia l’essere umano che la terra ne avrebbero beneficiato. Il crollo economico sarebbe stato disastroso, ma ci si sarebbe risollevati. Abbandonò il mocio e noncurante del pavimento ancora bagnato, si infilò in camera a fumare un poco d’erba e lentamente cadde in un sonno profondo. 
Erano quasi le otto quando riaprì gli occhi. Si trascinò con forza in cucina e guardò il grande salotto vuoto. Fece un sospiro profondo. Non ne poteva più di quella situazione, doveva fare qualcosa. 

Una voce piuttosto squillante fece aggrottare la fronte a Marco. Chiuse lentamente la porta di casa e percorse il corridoio che si affacciava al salotto e ciò che vide lo lasciò basito. Pilar era in abito elegante e aveva apparecchiato la tavola per dodici persone. Riconobbe il servizio in ceramica che avevano acquistato online dopo le feste natalizie. Ma la cosa più strana era che su ogni sedia c’era un oggetto diverso: un orsetto di peluche, un cesto di mollette, una lampada, un quadro, un piumino per spolverare, un frullatore, un vaso con dei fiori, una scatola con sopra delle scarpe nere con tacco, un pacco di rotoli di carta igienica e un cestino vuoto. E Pilar sembrava particolarmente interessata a parlare con quello che era uno scopino dentro il suo apposito contenitore. A volte sbraitava in spagnolo, altre tornava a parlare in italiano. Era un botta e risposta a senso unico. 

«Appena questa situazione sarà finita, cercherò un lavoro come fotografa e se dovrò viaggiare lo farò. Marco dovrà capire! Come hai detto, scopino? Certo, capisco cosa vuoi dire ma non voglio essere solo una sposa e fare la casalinga. È vero che potrei trovare un lavoro come commessa o impiegata ma non sarei felice e… cosa? Lo so che tu fai un lavoro di merda, ma mi pare sia il tuo destino, no? Non ti ci vedo come spazzola sotto la doccia!» e scoppiò a ridere. «Oh, scopino! Sei troppo divertente! Sei l’anima della festa!». Si alzò per prendere una pirofila posta al centro della tavola e si rivolse all’orsetto di peluche alla sua sinistra. «E a te come vanno le cose, Mister Teo? Ho saputo che sei tornato single. Non è il periodo migliore per cercare una compagna, ma puoi sempre usare Tinder. È così che ho conosciuto Marco e non me ne sono mai pentita. Dammi retta, troverai la donna dei tuoi sogni! Ti va un po’ di torta salata, radicchio e gorgonzola?» e ne tagliò una fetta offrendola al peluche su un delizioso piattino.

«Caspita! Ho dimenticato il vino!» e nel momento in cui si alzò per andare in cucina, si ritrovò davanti Marco che la guardava con due occhi sbarrati, l’aria confusa. Ci fu un lunghissimo silenzio. Era quasi inquietante. Marco fece qualche passo in avanti, fissando quello scenario alquanto bizzarro, poi guardò Pilar che era imbarazzata ma anche sorpresa di vederlo.
«Come hai fatto a tornare? Perché non mi hai avvisato?».
«…Ho rotto il cellulare e poi hanno organizzato un volo da un giorno all’altro… ma abbiamo dovuto fare scalo ad Amsterdam e poi a Roma ci hanno tenuto in osservazione e…». Non disse altro, ancora stupito dalla situazione che gli si era presentata davanti. A quel punto Pilar iniziò a raccogliere i piatti, ma Marco la fermò. «Aspetta!» disse con un gesto della mano. Appoggiò il borsone e la guardò sorridendo. «Non mi presenti ai tuoi amici?». 

FINE

Come furia nel cuore

C’è qualcosa di diverso nell’aria quella mattina, ma Francesco non ci fa molto caso. Ha solo un pensiero nella testa: incontrare la S dai capelli biondi e gli occhi azzurri come il fondo dell’oceano.

Al risveglio, ammira l’imponente Torre Eiffel dal suo balcone, poi esce di casa e si avvia lungo il viale principale, passando davanti al Teatro Olimpico in una ridente Vicenza. Cammina fino allo Starbucks su Madison Avenue, poi entra al Guggenheim per vedere se all’ingresso trova la sua amica F e la vede porgere alcuni dépliant a un giovane gruppo di visitatori, vestita con l’austera uniforme nera che prende colore solo grazie ai lunghi boccoli rossi. Non appena i loro occhi si incrociano, lei gli regala un immenso sorriso.

«Ciao Francesco, che cosa ci fai qui?».
«Ho pensato di passare a salutarti visto che ero nei paraggi. Volevo sapere come stavi».
«Grazie, che bel pensiero hai avuto! Sto bene e vedo che stai bene anche tu. Dove stai andando?». «Pensavo di fare una passeggiata e magari andare da S per chiederle se vuole farmi compagnia». F si morde il labbro curiosa, e si fa più vicina, abbassando il tono della voce.

«Allora è una cosa seria? Pensi che le chiederai di fare coppia?». Francesco arrossisce e distoglie lo sguardo altrove. «Che stupida! Scusa, non sono affari miei. Ti auguro una buona giornata, Francesco e non smettere nemmeno per un secondo di credere in te stesso!», e lo abbraccia forte.

Il ragazzo riprende a camminare e raggiunge prima Piazza dei Signori, poi osservando le varie vetrine dei negozi, attraversa Corso Palladio e mentre si ritrova in Piazza Castello, proprio di fianco al Torrione, prende in mano il telefono per cercare il numero di S ma si sofferma su quello di O pensando che forse dovrebbe chiamarlo, ma viene interrotto da una cascata di petali bianchi: i ciliegi in fiore sono scossi da una grande folata di vento che crea un’atmosfera surreale e magica. Tokyo non lo delude mai.

«Francesco, che sorpresa trovarti qui!», esclama S – un’altra S – che gli va incontro e lo abbraccia. Il ragazzo sorride, è felice di vederla, ma lo diverte vedere ogni volta l’abbigliamento dell’amica che è tutto fuorché formale. Indossa un abito con una fantasia di fragole e ciliegie su una base rosa antico. Delle calze color vinaccia e scarpette rosse brillanti, proprio come quelle di Dorothy nel film Il mago di Oz.


«Ti stavo proprio pensando, sai. E stavo proprio venendo a cercarti. Che fortuna averti trovato lungo la strada!».
«Come mai volevi vedermi, che succede?». S gli sorride, i corti capelli castano chiaro e una frangetta perfetta incorniciano un piccolo ovale dalle guance rosee che le regalano un aspetto fanciullesco. Tutto in lei trasmette una forte sicurezza.

«Stavo per chiamare O, volevo sentire come sta». S sbuffa visibilmente scocciata, poi prende Francesco sottobraccio e gli chiede di accompagnarla a fare una passeggiata lungo gli Champs-Elysées per recuperare la bicicletta lasciata a casa di A la sera prima. Le sue piccole scarpette rosse calpestano un pavimento di foglie secche.
«Su dai, ogni tanto devo chiamare O per sentire come sta», dice Francesco ma lei non risponde e si limita a guardarlo come fossero immuni a qualsiasi male, persino alle spiacevoli notizie.
«Sai, volevo cercare S per chiederle di uscire. È inutile nasconderlo, ci frequentiamo da un po’ di tempo e vorrei approfondire il nostro rapporto». Francesco parla senza quasi riprendere fiato. Sa che se non lo dirà ora a voce alta, non lo farà più e cerca l’espressione di S per capire se approva, ma lei non lo degna di uno sguardo, fissando le foglie secche ai loro piedi. Poi si blocca e senza dargli il tempo di chiederle cosa abbia, si ritrova a dirgli: «Io e A stiamo insieme!».

Non ha il coraggio di guardare in faccia Francesco e quando realizza ciò che ha detto, porta le mani alla bocca, trattenendo le lacrime. «Sono contento per voi, davvero!». S si volta verso di lui e lo analizza per capire se stia mentendo, ma poi gli sorride e a quel punto una lacrima cede e corre lungo la sua guancia fino a sotto il mento. Francesco si affretta ad asciugarla, poi appoggia le mani sulle sue spalle. 

«Non hai mai smesso di dirmi che devo essere sicuro di me stesso e che devo seguire il mio istinto. S, se hai trovato una persona che ti ama non dovresti dubitare nemmeno per un istante di te stessa. L’amore è amore, anche tra lo stesso sesso. Non c’è alcuna vergogna», e le stampa un bacio sulla fronte mentre piccoli fiocchi di neve cadono dal cielo, ricoprendo in pochi minuti i verdi giardini di Central Park a New York.

Quando Francesco è di nuovo solo, riprende il telefono, ma prima di chiamare S prova a cercare O che gli risponde dopo solo due squilli. «Ciao O, come stai?». Dall’altra parte una voce maschile risponde con un colpo di tosse che pare più simile a un grugnito. «Dimmi, cosa c’è amico?».


«O è tutto a posto? Stai bene?».
«Sì, va tutto bene, amico. Dove sei?».
«Sono al lago d’Iseo, ti ricordi quando ci siamo stati tanti anni fa?”. Francesco non aggiunge altro, sa che ha fatto toccato il tasto giusto per metterlo a suo agio.
“Caspita Francesco, che ricordi… non ci pensavo da tempo. Sai, sto sistemando la motocicletta, la voglio rimettere in pista al più presto, proprio come i vecchi tempi… mi mancano quei tempi…».

Francesco sorride solo con le labbra, gli piace sapere O felice, cosa non facile. Tutto a un tratto, però, O gli fa una domanda. «Amico, che cosa vuoi sapere?». Il ragazzo si scosta dallo schienale e mentre sta per rispondere si guarda attorno stupito: non si è accorto di essere in metropolitana e in un attimo è in piedi, pronto a scendere alla prima fermata scoprendo in pochi secondi di trovarsi nel centro di Barcellona. È davvero sorpreso di trovarsi lì e cammina a testa bassa, quello non è un bel ricordo e una strana sensazione riaffiora scaldando il suo petto.

«O, che cosa hai fatto?».
«Amico, è tutto a posto. Non ti devi preoccupare. Sono successe tante cose, ma è tutto sotto controllo». Il tono di O è esitante e Francesco intuisce che è successo qualcosa a sua insaputa e ne ha la conferma quando si ritrova a camminare lungo la strada Rambla di Barcellona. È ancora in quel paese, ancora in uno spiacevole ricordo.
«O, devi dirmi che cosa hai fatto!».
«Amico, abbiamo vissuto troppe delusioni, ricevuto troppi no. La vita ci ha trattato molto male e non ho saputo trattenermi…».
«Non dovevi fare niente! Dannazione, a volte sei così testardo! Lo sapevi che è un momento molto delicato della nostra vita, sai che può accadere l’inevitabile da un momento all’altro. Avevamo solo bisogno di tempo per riprenderci e lasciarci il passato alle spalle. Vieni subito qui e porta con te P, so di certo che ti ha traviato con le sue assurde congetture».
«Va bene, la sveglio e ti raggiungiamo. Dove sei?».

Francesco si guarda attorno per confermare la sua posizione, ma non sa più dove si trovi e un’esplosione improvvisa lo paralizza. L’ambiente muta di continuo, non capisce più dove si trovi. Davanti a lui il cielo passa da una sfumatura giallo arancio di un tramonto, all’oscurità di un cielo senza stelle, fino a un panorama grigio e nuvoloso, ma non appena una folata di vento si avvicina, intravede una città sconosciuta che sta letteralmente collassando.

L’aria è pesante, sa di corpi bruciati e raggiunge le narici di Francesco che porta il braccio al viso per proteggersi. Si guarda attorno, confuso, e quando alza lo sguardo verso un grattacielo colpito da un aereo, il suo corpo si fa di ghiaccio e non riesce più a muovere un muscolo. A è aggrappata al bordo di una finestra e penzola nel vuoto.

«Tieni duro A, sto arrivando», e scatta veloce verso l’edificio, nonostante al fondo sia travolto da un’enorme nuvola di polvere. La gente scappa nella direzione opposta alla sua, le auto frenano all’improvviso. Più corre e più sente le urla disperate di A che lo implora di aiutarla ma più corre, più gli sembra di non avvicinarsi, come se corresse sempre sullo stesso punto.

Le urla di A si fanno sempre più strazianti e quando un uomo appare davanti lei, implora Francesco di fare qualcosa, ma lui non riesce a reagire. Sente il corpo farsi pesante, come se una forza invisibile lo stesse trattenendo. Urla contro quello sconosciuto che cerca di buttare A giù dal palazzo. Urla così forte che la voce inizia a mancargli, e non emette alcun verbo, nemmeno il minimo rumore, quando vede la ragazza precipitare nel vuoto. Francesco cade sulle ginocchia, la gola soffocata da una morsa di dolore, le lacrime che escono a singhiozzi. Tutto attorno a lui sta crollando.

Corre senza fermarsi, vuole trovare la S dell’appuntamento, deve trovarla assolutamente. Corre lungo una strada trafficata di una città sconosciuta. Le auto lo evitano quasi avesse il potere di scansarle, ma poi il caos prende il sopravvento e si ritrova sbalzato in aria e quando cade a terra, attorno a lui l’ambiente è completamente diverso. Si solleva a fatica, la testa dolorante. È in una chiesa, nel mezzo di una navata. Il silenzio è inquietante, come se di lì a poco dovesse accadere un’altra catastrofe.


«Francesco!». Una voce lo attira alla sua destra e due ragazze gli vanno incontro. I loro vestiti sono sporchi, il trucco è rovinato, gli occhi lucidi e spaventati. Sono F e S, la ragazza dai boccoli rossi e quella dalle scarpe rosso brillante.

“Ragazze, state bene?”. Francesco appoggia una mano sulla spalla di ognuna, visibilmente preoccupato. Loro annuiscono ma è evidente che siano sconvolte. «Francesco, che cosa succede? Dovevi avere tutto sotto controllo!», gli urla contro F. «Dobbiamo trovare S. Dove dobbiamo andare? Qual è il ricordo? Qual è il ricordo per trovarla?».
«Rimanete qui fino al mio ritorno, non uscite per nessun motivo, va bene?».

Le ragazze, nonostante siano terrorizzate, annuiscono, ma poi si ritrovano a urlare quando avviene un’altra esplosione. Il tetto della chiesa inizia a sgretolarsi, qualche vetrata va in frantumi, poi delle urla interrompono quel momento drammatico. «Lasciatemi, lasciatemi! Francesco aiutami!», urla S mentre degli uomini la trascinano a forza verso il fondo della chiesa. Francesco cerca di raggiungerla, ma poi F urla dalla parte opposta mentre viene trascinata per i capelli. Francesco non sa cosa fare, non sa chi aiutare. 

E non fa in tempo a reagire perché la chiesa crolla letteralmente sopra la sua testa e quando riapre gli occhi, si ritrova davanti a un immenso prato verde e, al margine di un bosco, vicino a un ponte, vede finalmente la S che attendeva di incontra sin dal suo risveglio e corre verso lei come un fulmine.

«S, dobbiamo andare via da qui, dobbiamo trovare un ricordo sicuro», le dice non appena la raggiunge, ma lei non si muove, quasi fosse priva di emozioni. «S, ti prego, dobbiamo sbrigarci prima che ci trovino e sai che non possono trovare te, sei l’unica che ci può salvare». Francesco non comprende il suo silenzio, ma è deciso a portarla via da lì per raggiungere un ricordo sicuro. Le tende la mano e fa un passo avanti ed è in quel momento che il legno sotto di loro scricchiola e all’improvviso si spezza come se qualcuno lo stesse abbattendo con forza. S non reagisce e si lascia inghiottire dal vuoto che si crea ai suoi piedi, ma Francesco riesce ad afferrarle un polso.

«S, non ti lascio andare, non preoccuparti. Aiutami a sollevarti… S, ti prego…». La ragazza lo fissa, i suoi occhi di un intenso azzurro lo osservano come se stesse facendo qualcosa di sbagliato e con sorpresa di Francesco, lei avvicina l’altra mano per liberarsi dalla sua presa. «Lasciami andare e vieni giù con me, non abbiamo alternativa. Troveremo una soluzione, non avere paura. Affronteremo questa guerra e ne usciremo più forti di prima…». Francesco le allontana la mano con rabbia, le urla contro, la obbliga a tirarsi su, ma S non cede e inizia anzi a essere più insistente nel tentare di liberarsi.

«Non farlo! S, ma che ti prende? Perché vuoi farci morire?», chiede sconvolto, ma la ragazza non risponde e in pochi istanti si libera dalla presa e precipita nel vuoto, ma non prima di trascinare con lei Francesco e in un fitto banco di nebbia, sono solo le sue urla l’unico rumore che rimbomba nonostante la guerra in atto.

In un letto d’ospedale, un uomo che riporta gravi ferite in seguito a un tentato suicidio, lotta tra la vita e la morte. Una donna accanto a lui, la sorella minore, lo guarda sconvolta, le lacrime che ha pianto hanno seccato la pelle del suo viso. Non comprende come mai il fratello abbia tentato di togliersi la vita. Forse la fine della sua storia d’amore dopo molti anni, forse l’insoddisfazione lavorativa, forse i traumi irrisolti della loro infanzia con un uomo che non hanno mai concepito come padre. Vorrebbe avere delle risposte, ma prima di tutto vuole che Francesco si salvi.

Il Francesco di fianco al letto la osserva. È sfinito, deluso, amareggiato per ciò che è successo. Vorrebbe tanto che quella donna potesse sentire la sua voce perché le direbbe che le dispiace tanto, in quanto come io interiore ha fallito, non è riuscito a fermare Francesco dal farsi del male. E che lentamente F, che sta per fiducia, e S che sta per stima, sono state trascinate via con violenza. A come amore è precipitato nel vuoto, O come orgoglio e P come paura hanno fatto solo danni sulla base di inutili congetture e che la S che tanto cercava, ovvero la speranza, la ragazza dai grandi occhi azzurri, gli è scivolata via come forse la vita sta facendo con il fratello proprio ora.

Anche se non può né vederlo, né sentirlo, quell’io interiore appoggia una mano sulla sua e le rimane accanto. Rimane così per diverse ore. Ore che diventano giorni. Ripete lo stesso gesto di continuo, il tempo scorre ma nulla cambia fino a quando, in un pomeriggio di sole, percepisce un’altra mano sopra la sua e quella della sorella e quando si volta, vede quei grandi e bellissimi occhi azzurri e in un lampo gli sovviene una frase: “Affronteremo questa guerra e ne usciremo più forti di prima…”.

Fine

One Day

Un litigio. Proprio in mezzo alla strada. Giulia e Leonardo non trovano un punto d’incontro. Lei è irremovibile. Lui ancora di più. Parole che feriscono. Uno schiaffo. E poi quello che sembra un addio. Riusciranno a ritrovarsi?

Wanted Stories 2.0 ha richiesto al pubblico di scegliere un film d’amore tra quelli proposti.

A quel punto abbiamo selezionato una frase del film vincente e richiesto di svilupparla per avere una “base” iniziale da cui partire per scrivere. L’incipit seguente è preso dal film One Day del 2011 diretto da Lone Scherfig e interpretato da Anne Hathaway e Jim Sturgess, tratto dal romanzo Un giorno di David Nicholls.

“Casa mia non è lontana, andiamo? Quanto pensi di fermarti?”

Gli incipit scritti sono stati diversi e quello che più ci ha colpito è stato quello di Anna Rossetto (@vegetal_books) – “Fermarmi? Sto pensando a tutto fuorché a fermarmi. Fuggire, andare avanti, tornare indietro, spostarmi di lato, nascondermi. Tutto ciò che è vita, movimento, azione, emozione. Fermarmi. No. Non più. A meno che non trovi qualcosa che vada oltre: oltre le solite cose, oltre le convenzioni e le convinzioni, oltre il conformismo e il già visto. Pensi di essere tu, ciò che va oltre? Dimostramelo.”

Turno 1 – Alberto
Giulia si tolse i guanti e li lasciò cadere a terra. Si guardò il palmo di una mano, poi l’altro. Alzò lo sguardo e sorrise, quel sorriso che ricorda una stella cadente ad agosto, cerchi di catturarla con gli occhi, fare uno screenshot al firmamento, dimenticandoti di esprimere un desiderio e rischiando di perdere quell’occasione, quell’ennesima occasione che se ne sta andando, lasciandoti solo, ancora. Appoggiò una mano sul cuore di Leonardo, si avvicinò e gli sussurrò all’orecchio: «Vattene».

Turno 1 – Linda
«Ecco la dimostrazione di cui avevo bisogno!». Leonardo si scostò da Giulia e la fissò con aria compiaciuta e allo stesso tempo delusa, come se avesse saputo la sua risposta ancora prima che lei la pronunciasse; in cuor suo ne soffriva, aveva tanto sperato in un’altra reazione. Finalmente l’aveva messa con le spalle al muro come mai prima era riuscito a fare. Lei lo fissava come si fissa un’insegnante noioso durante l’ultima ora di lezione, con il suo sguardo dolce e ambiguo, come fosse incapace di commettere errore; una bambina che ottiene quello che vuole perché sa di poterlo avere, che gioca con i sentimenti altrui come fossero dei pezzi di lego da assemblare a proprio piacimento, a seconda dell’umore. Leonardo avrebbe voluto davvero andarsene, ma se lo avesse fatto, lei avrebbe vinto. Un’altra volta.

Turno 2 – Alberto
Rimase in silenzio, gli occhi che cercavano di aprire una breccia in quelli di Giulia, avrebbe voluto vedere i suoi pensieri, le immagini nella sua mente, i sussurri tra cuore e anima. La sua sicurezza fece nuovamente spazio a una totale insicurezza, quel tratto caratteriale che lo aveva sempre contraddistinto nel loro rapporto. E poi la domanda esagerata gli martellava ancora in testa “Pensi di essere tu, ciò che va oltre?” non se la perdonava. Come se Giulia dovesse diventare una nuova persona per stare con lui; da carnefice a preda senza passare dal via. Non era mai stato così deciso in passato, non l’aveva mai affrontata. Nemmeno quando lei se n’era andata di casa il mese prima, per vivere in un’altra città. Nella mente i brandelli di quella serata. 

Non riusciva nemmeno a riviverla pienamente, solo scene annebbiate, parole sfumate. Lui che misurava sempre le parole, non capiva perché quella sera Giulia si fosse incazzata così tanto, continuava a ripetersi che non era stata colpa sua, se lo ripeteva più volte al giorno e poi cosa c’era di male nel parlare di avere un figlio? Leonardo per un attimo socchiuse le palpebre, gli occhi spenti. Senza più esitare, la prese per un polso e la tirò a sé con forza. La strinse in vita e la baciò con una passione tale che il lampione sopra di loro si spense. Forse fu soltanto una coincidenza, o forse no. Lei non resistette a quel suo bacio fruttato. 

Leonardo riaccese lo sguardo e tornò al presente, analizzando questa sua fantasia di baciarla. Era soltanto una possibile azione da compiere. Risultato: avrebbe vinto lei. E allora qual era la mossa giusta da fare? Andarsene? Fare finta di nulla? Dirle quanto era innamorato e che non gli importava che lei fosse andata via? Avrebbe sempre vinto lei. Più che due amanti sembravano due alfieri di una scacchiera senza re e senza regina. Si muovevano in diagonale e scappavano l’uno dall’altro, rincorrendosi, aspettando quello scacco matto che non sarebbe mai arrivato se avessero continuato a giocare una partita d’amore. 

L’amore non è un gioco da tavolo, è aria calda che si scontra con aria fredda dando vita a un temporale di emozioni. È fiamma e ossigeno che si alimentano e che si infuocano. È tempo da dedicare l’uno all’altra. L’amore è vita senza compromessi, è abbracciarsi sotto la pioggia sentendo soltanto i respiri che si fondono. Una lacrima scese sul suo viso mentre ancora la guardava, nel petto una nuvola di dolore. «Me ne andrò da te e da tutto quello che ti circonda. Giulia, io non posso continuare a inseguirti, rimarrò da solo, un’altra volta, ma forse tu non sei qui per meritarmi». 

Proferì quelle parole singhiozzando, vere come il catrame appena steso sulla strada. Si girò e si incamminò verso le scale della metropolitana. Passarono diversi secondi, il tempo si era dilatato, poi in lontananza sentì la sua voce: «Leonardo, aspetta!», la scala mobile lo stava già inghiottendo e si sentiva nell’aria l’odore pungente dei sotterranei. 

 

Turno 2 – Linda
Giulia lo raggiunse e lo prese per un braccio. Leonardo si voltò e un dolore improvviso emerse sulla sua guancia sinistra. Lo schiaffo era stato forte, quanto inaspettato. Fissò Giulia interdetto, come se si trovasse di fronte a uno sconosciuto che lo aveva aggredito senza alcun motivo.

«Credi di essere superiore a me? Davvero pensi di avere ragione e potermi trattare come non valessi nulla?». I suoi occhi lo penetravano mentre parlava, come se le parole dovessero aggrapparsi alla pelle, ai muscoli, alle ossa, per essere comprese. Leonardo schiuse le labbra, ma lei lo anticipò. «Non me ne frega se siamo pronti ad avere un figlio o meno, non ha importanza se non c’è un legame serio tra noi. La cosa a cui tengo è che tu voglia stare con me. Sei stanco di inseguirmi? E allora perché non mi hai fermato quando me ne sono andata? Non voglio più dovermi impegnare in una relazione per tutti e due. Sarò dura e pretenziosa, ma sono presente, io so cosa voglio. E tu? Tu lo sai che cosa vuoi da noi due?».

Rimise i guanti che aveva recuperato poco prima da terra e quel gesto sollevò Leonardo, il quale intuì che non sarebbe stato preso a schiaffi di nuovo. L’aria fredda non aveva alcun effetto su di loro, era come fossero avvolti in una bolla; nemmeno i passanti sembravano interessati alla loro discussione. Era davvero così poco importante?
«Tu mi hai detto di andarmene e…».
«Facile dare la colpa a me. Leonardo, siamo in due in una relazione ed entrambi abbiamo colpe. Come fai a non capirlo? Comunque stiamo solo perdendo tempo, il motivo per cui ho deciso di vederti questa sera è per dirti che…». 

Il suono di una melodia a pianoforte li interruppe. Giulia serrò le labbra, come se sapesse chi la stava chiamando, poi prese il cellulare e rispose, gli occhi fissi su Leonardo che pendeva letteralmente dalle sue labbra, cercando di non darlo a vedere. «Ciao amore, sì è tutto a posto. Tra poco sarò a casa». Lui mise le mani sui fianchi e la fissò incredulo, ma una sicurezza mai conosciuta prima lo travolse e gli fece scappare una risata di compiacimento. «Dovevo aspettarmelo da te, parli di relazione e tieni il culo su due sedie, invece!».


«È vero, ti ho chiesto di venire a casa mia, ma ti stavo solo mettendo alla prova, Leonardo. Tra i due, quella delusa sono io», e senza aggiungere altro, gli diede le spalle e attraversò la strada. Cosa stava facendo? Cosa stava pensando? L’avrebbe inseguita oppure sarebbe sparito oltre la scalinata per salire nella metro senza più voltarsi? Il cuore di Giulia batteva forte, gli occhi sembravano due linee scure che si sforzavano di trattenere le lacrime. Non c’era nessun nuovo amore che l’aspettava a casa, solo il gioco di un’amica complice. Solo per mettere alla prova il loro amore.

Turno 3 – Alberto
Leonardo rimase immobile, le persone passavano vicino a lui immerse in quel moto perpetuo tipico dell’orario post-lavoro, qualcuno a testa bassa per rincasare in fretta, altri camminavano con il naso in su per ammirare le nuove luminarie di Natale che si erano accese nei corridoi della metro. Non sentiva il rumore dei treni sulle rotaie, non vedeva oltre le sue pupille. Guardava dentro sé stesso per cercare di non implodere, rifletteva per decidere cosa fare, i muscoli delle gambe gelati, ma non dal freddo. Aveva bisogno di un secondo di infinità, doveva decidere in fretta ma pensare lentamente. Si rivide a tavola con Giulia, cercò di vedere la scena da fuori, osservarsi, pensare a quello che aveva provato lei nel sentire le sue parole. 

«Mamma mia Giulia, che giornata, non ne posso più di questo lavoro!».
«Puoi sempre cambiare, rimetterti in gioco, non ti sei mica sposato il titolare», disse lei con quel suo sorriso luminoso. «Sì, vabbè, la fai facile tu che provieni da una famiglia ricca». Giulia era rimasta in silenzio. Era evidente che avesse accusato il colpo ma decise di cambiare argomento. Era una donna molto forte e decisa, lo era sempre stata.
«Leo, ti ricordi di quel viaggio che volevamo fare alle Filippine? Che ne dici se lo prenotiamo per l’estate prossima?».
«Ok, possiamo pensarci, dipende da come andrà il mio inverno. Lo sai che le mie parcelle sono in netto calo e poi sarebbe anche ora di avere un figlio». 

Ritornò al presente: che risposte le aveva dato? Non dimostravano per nulla il suo amore per lei, era stato irritante. Diventò consapevole di come si era comportato. Credeva di essere quello dolce e premuroso, l’amante perfetto. Siamo spesso convinti di essere dalla parte della ragione, finché non ci mettiamo nei panni di chi ci sta vicino. Ed era proprio quello che aveva appena provato. Non aveva chiesto a Giulia di avere un bambino, le aveva servito quella frase oscena su un piatto pieno di superficialità. Mosse un passo titubante verso il convoglio che stava per partire, ma cambiò subito direzione e iniziò a correre. La velocità delle scale mobili non era sufficiente, continuò a correre e riemerse sulla strada. 

Si guardò attorno ma non c’era traccia di Giulia. Nel suo sterno lame affilate ballavano e si contorcevano, danzando attorno a quell’ennesima occasione sprecata. Decise di prendere una boccata d’aria e si incamminò verso una via laterale, seguendo le luci dei lampioni e un profumo di Winter Jack Daniels. La strada brulicava di persone e tutto si fondeva in un vociare sommesso, non si distinguevano le risate degli adulti, né le urla giocose dei bambini, sembrava tutto ovattato. Attraversò un ponticello, dall’altra parte della strada le vetrine illuminavano a giorno il volto dei passanti. Proseguì verso un grazioso mercatino, la piazza era circondata da abeti rossi adornati da giganti omini di marzapane e si fermò davanti a una casetta di legno, era da lì che proveniva quel buonissimo profumo di whiskey bollente. Sulla lavagna, un messaggio scritto con un gessetto bianco recitava “Giorno dell’amore: se rinunci non ci credi, se scappi non lo vivi, se resti è un percorso che vale la pena di essere vissuto”.


«Desidera qualcosa?». L’uomo barbuto oltre il piccolo bancone interruppe le riflessioni di Leonardo.
«Sì, un Winter Jack, doppio, per favore».
«Certo, subito», rispose il signore, mentre stava già riempiendo la tazza. Leonardo la scolò senza tanti complimenti. «Un altro, triplo, grazie», e anche questo andò giù in un secondo. Rimase seduto sullo sgabello di legno, fissava la tazza vuota senza sbattere le palpebre.
«Brutta giornata, eh?».
«Pessima direi…», tagliò corto Leonardo e ordinò un altro whiskey. «Ma non è l’unico, stia tranquillo. Chi per un motivo e chi per un altro, sono in molti che si fermano qui. Ne ho viste oggi di persone con il suo sguardo, mi piace osservare».
«Beato lei», esclamò Leonardo solo per interrompere la conversazione, ma l’altro riattaccò subito. «Si guardi intorno. Vede quel signore? Dev’essere un avvocato, è appena stato qui e ha comprato una bottiglia. Il caso ha voluto che si sedesse proprio accanto a quella ragazza, anche lei passata per bere un paio di bicchierini e diceva di essere astemia», concluse scoppiando in una gran risata.
«Sì, sì, va bene, grazie, interessante, tenga il resto», e si alzò dallo sgabello lasciando cinquanta euro. Senza rendersene conto, passò di fianco alle due persone di cui gli aveva parlato il barista, ma non li guardò nemmeno, finché non sentì la voce di Giulia che lo fece girare di scatto. 

 

Turno 3 – Linda
Lei gli dava le spalle, seduta a un tavolino poco distante dal bancone con una tazza di whiskey fumante stretta in una mano. Era al telefono, ma Leonardo non riusciva a sentire la conversazione. Chiunque ci fosse stato dall’altra parte, però, non aveva importanza: in un attimo gli fu chiaro cosa dovesse fare, o meglio, dire. Lentamente, come se il pavimento fosse fatto di un sottile strato di ghiaccio già crepato, una perfetta analogia del loro rapporto, si avvicinò e si sporse il giusto perché lei alzasse lo sguardo. 

Nei suoi occhi non vedeva più le piccole sfumature verdi che tanto amava di lei, ma anzi, ora intravedeva una luce diversa, come se un manto scuro li avesse completamente avvolti. Non capiva cosa gli stessero dicendo, ma una cosa era certa: non lo stava respingendo. Si sedette davanti a lei, senza dire nulla. La guardava come si guarda la neve cadere dolcemente a terra in un giorno che non ti aspetti o come quando si scarta un regalo che ti riporta a un ricordo del passato, nascosto in un angolo della mente e che riscalda il cuore tutto a un tratto. 

Si scostò dallo schienale pronto a parlare, le parole stampate chiaramente nella sua testa, non poteva concedersi errori, ma poi quel gesto rovinò la fantasia che aveva elaborato: si era immaginato mentre diceva ciò che Giulia avrebbe voluto sentirsi dire, ma lei lo aveva anticipato e con la mano lo intimava a restare in silenzio. Si era poi alzata e muovendo appena la testa a destra e a sinistra, in segno di disapprovazione, era indietreggiata di qualche passo e in pochi istanti era sparita oltre la casetta di legno sotto lo sguardo confuso di Leonardo che si accorse solo in quel momento della neve che aveva iniziato a cadere a terra. In un momento davvero inaspettato.

Finale LINDA MOON

«Giulia!». Leonardo chiamava il suo nome tra la folla. «Giulia!». La intravedeva camminare senza accennare a fermarsi, se non solo per evitare di scontrarsi con qualcuno, e mentre fissava un cappotto blu immerso tra tanti altri dai colori banali, immaginava il suo viso costretto in una smorfia per trattenere le lacrime; lo faceva sempre, detestava piangere. Chiamò il suo nome altre tre o quattro volte, ma era come se nel farlo perdesse terreno, così a quel punto si fermò, indeciso su quale fosse la giusta mossa. 

I secondi scivolavano come fossero acqua che non si riesce a trattenere per quanto strette si tengano le mani, il petto sembrava troppo piccolo per contenere un cuore che pareva gonfiarsi sempre di più e il fiato stava lentamente venendo a meno. Per un istante sorrise e alzò il viso al cielo, lasciandosi accarezzare dai piccoli fiocchi di neve che cadevano con fare delicato sul suo viso. Era follemente innamorato di Giulia. Come aveva fatto a non capirlo prima? Forse i tanti pensieri lo avevano allontanato da quello più importante o forse non erano solo preziosi secondi a scivolare via, ma anche l’insicurezza che lo aveva sempre accompagnato in ogni sua azione. E in quel momento gli fu chiaro cosa dovesse fare. Si guardò attorno come se si trovasse per la prima volta in quella piazza, poi corse verso degli enormi addobbi natalizi a forma di pacco regalo, oltre gli abeti rossi, e una volta in piedi su di essi, gridò con tutta la voce che aveva.


«Fermate la donna con il cappotto blu. Mi ha rubato il portafoglio!». Con una mano indicava un punto preciso e continuò a ripetere la frase fino a quando qualcuno non gli diede retta e reagì. Non era in grado di sentire cosa Giulia stesse dicendo a un paio di persone che l’avevano fermata, indispettite, ma poi la situazione gli sfuggì di mano quando un uomo richiamò l’attenzione di due agenti di polizia. Leonardo fissava la scena stupito e sconvolto allo stesso tempo, non sapendo cosa fare: era troppo distante per far sentire la sua voce e spiegare il malinteso, la piazza ora brulicava di gente e come se non bastasse, un coro natalizio aveva intonato una canzone di natale proprio in quel momento. Non ne aveva la certezza, ma gli pareva di aver visto lo sguardo di Giulia inferocito che lo puntava da lontano.


«Hei, amico, penso ti serva questo». L’uomo barbuto del bar gli passò un megafono e gli diede una pacca sulla spalla. Leonardo gli sorrise e senza perdere un secondo in più, iniziò a parlare.
«Aspettate! Quella donna non mi ha rubato il portafoglio. L’ho detto solo perché qualcuno la fermasse. Chiedo scusa a tutti e Giulia…». S’interruppe per mandare giù un nodo alla gola che gli si era formato nel frattempo. Chiunque poteva sentire cosa stava dicendo, ma soprattutto erano in molti a fissarlo curiosi.
«Vedi, io…». Le parole impresse nella mente fino a poco prima parevano essere svanite come i fiocchi di neve si perdono in un unico manto bianco quando toccano terra.
«Non avrei dovuto dirti le cose che ho detto. Non avrei dovuto dirti che dobbiamo avere un figlio solo perché è ora di farlo. Non avrei dovuto sbatterti la mia superficialità in faccia. Ho accumulato così tanti non avrei dovuto che forse non merito nemmeno questa occasione per parlarti. Ho fatto un casino, lo ammetto. Ma Giulia, non andare via, non lasciamoci così. Io non posso cambiare all’improvviso, anzi, credo proprio che non cambierò mai, ma posso diventare migliore accanto a te, se ti permetto di farlo ed è ciò che voglio». 

Raggiunse il terreno per avviarsi verso di lei.
«Non voglio che ti illudi, avremo momenti in cui discuteremo, forse mi farai dormire sul divano perché lo sappiamo entrambi che toccherà a me farlo, ma ti posso promettere che mi sforzerò di ascoltare il tuo punto di vista e farò del mio meglio per non sparare cazzate. Non scuocerò più la pasta, smetterò di bere dal cartone del succo e tirerò sempre giù la tavoletta del water». Alcune persone si lasciarono scappare una piccola risata a quelle parole mentre Leonardo era ormai a pochi passi da Giulia, il megafono abbassato.

 
«So che ti sembra troppo bello per essere vero, ma sono pronto a rischiare tutto pur di avere un’altra possibilità con te, anche avere tante testimonianze a provarlo», e alzò le braccia a indicare le svariate persone attorno a loro, poi riprese a parlare, «E so che starai pensando che mi comporto così solo per via dell’atmosfera natalizia o per i tanti whiskey bevuti prima, ma ti giuro che non sono mai stato così convinto delle mie parole come lo sono ora. Certo, ogni tanto mi prenderò la libertà di alzare gli occhi al cielo perché lo sai bene che sei una gran rompipalle quando vuoi, ma sarò con te Giulia, ti amo da impazzire, e se ora vuoi andartene puoi farlo, non ti fermerò, ma sappi che ogni volta che vedrò qualcuno camminarmi accanto con un cappotto blu, quel maledetto cappotto che indossi anche le sere d’estate perché sei tremendamente freddolosa, spererò sempre che sia tu».


Nessuno parlava, la gente era rapita da quel momento, curiosa di sapere come sarebbe finita. E tutto attorno era come se il mondo si fosse arrestato per assistere a quel momento in cui il cuore di Leonardo batteva normalmente dopo un lungo arrancare. Giulia si guardò attorno, spostando lo sguardo altrove, poi lo fissò, e sorrise. «Finalmente! Ci hai messo una vita a capirlo…», e lo abbracciò forte. Un abbraccio che Leonardo ricambiò con profondo affetto, come fosse il primo ricevuto e sapendo che non sarebbe stato l’ultimo.

Finale ALBERTO SARTORI

Erano passati quasi tre anni, Giulia seduta in terrazzo stava fumando l’ultima sigaretta prima di andare a dormire. L’estate era alle porte e un vento tiepido le scompigliava i capelli. Una folata più forte fece volare in aria la cenere e rovesciare il calice di gin tonic sul giornale. Il liquido si allargò velocemente sulla carta umida, lei lo tirò via in fretta ma un lembo dell’ultima pagina rimase appiccicato al tavolino. Fece per rimuoverlo ma si bloccò di colpo, il cuore in gola, le tempie sembravano esplodere, le mani tremavano. In quell’apparentemente insignificante pezzetto di carta era stampato in corsivo: “Leonardo Scali. Amici e parenti si stringono attorno a Dio per salutare la scomparsa del caro Leonardo”.


Fu come un colpo di pistola in bocca, lo stomaco iniziò a contrarsi e Giulia si accasciò a terra, piangendo disperata. Non riusciva a respirare, boccheggiava come un pesce saltato fuori dalla boccia. Com’era possibile? Cos’era successo? Ogni risposta veniva soddisfatta da un’altra domanda e l’elenco era interminabile. Non lo aveva più visto dopo quella sera d’inverno, non lo aveva più sentito. Quell’amore litigioso che li aveva uniti per lungo tempo si era sciolto nelle tazze di whiskey caldo come una zolletta di zucchero. Giulia non era più riuscita a costruirsi una vita di coppia, era tornata a vivere nella stessa città in cui aveva convissuto con lui, aveva cambiato mille lavori, era uscita con qualche ragazzo, ma l’amore vero non aveva più bussato alla sua porta. E su quel terrazzo, riversa a terra per i crampi, stava comprendendo che i suoi insuccessi amorosi avevano una sola ragione: non aveva mai smesso di amare Leonardo. 

I giorni passarono lenti, ognuno percepito come fosse una settimana, finché sul calendario comparve lo stesso numero che era scritto nel trafiletto sul giornale. Giulia bevve la sua terza vodka prima di uscire di casa, erano soltanto le due del pomeriggio. L’abito scuro faceva pendant con l’espressione buia del suo viso. La messa sarebbe iniziata di lì a un’ora. Non aveva trovato il coraggio di chiamare nessuno per le condoglianze, tanto era sconvolta dalla notizia quanto non voleva darlo a vedere. Gli amori non dimenticati fanno uno strano effetto, vibrano a frequenze che non riusciamo mai a comprendere del tutto. Camminava a passo svelto verso la chiesa di San Marco, ripensando al primo appuntamento con Leonardo, in quell’istante gli sembrò di riaverlo al suo fianco e una lacrima solcò il viso scendendo al rallentatore.


Arrivò davanti alla porta principale, fece dei respiri profondi per calmarsi e riuscire a fare quei pochi scalini che la separavano dal portico. Iniziò a cercare con lo sguardo i suoi ex suoceri, i cugini, gli amici di Leonardo, tutte persone che pensava non avrebbe più rivisto. Gli ultimi banchi erano vuoti, proseguì facendosi il segno della croce e una rapida genuflessione, poi si voltò a destra e a sinistra ma non riconobbe nessuno. Avanzò ancora con il cuore in gola, senza più voltarsi, guardando solo il marmo rosso del pavimento e arrivò davanti alla bara posta ai piedi dell’altare. Un giaciglio semplice in legno di faggio, adornato con dei rametti d’ulivo. Si tolse i guanti di seta nera e alzò lo sguardo. All’interno della bara un uomo, sulla settantina, barba bianca, carnagione scura, non aveva nulla a che vedere con il “suo” Leonardo. Sorrise, vergognandosi di farlo nel bel mezzo di un funerale, sorrideva in viso e nel petto. Sgattaiolò fuori dalla chiesa mentre lo stomaco si rilassava e il cuore riprendeva a pulsare regolarmente. Sorrise ancora pensando a quanto fosse stata stupida per non aver fatto nemmeno una telefonata, per aver dato per scontato che al mondo ci fosse soltanto un Leonardo Scali.


Nella passeggiata verso casa continuava a ripensare ai bei momenti passati con lui, a quanto forte l’avesse stretta ogni volta in cui lei ne aveva bisogno e si chiese se fosse troppo tardi per sentirlo dopo tutto quel tempo. I suoi piedi avanzavano uno davanti all’altro senza che la mente desse comandi precisi, le sembrava di vagare casualmente finché non si ritrovò davanti al palazzo dove avevano convissuto. Al terzo piano le luci erano accese nonostante il bel sole proveniente dall’esterno. Era stato proprio quello il loro appartamento. Abbassò lo sguardo. Sul campanello tre nomi scritti in grassetto: Leonardo Scali, Stefania Grilli, Giulia Scali.
«Giulia Scali», sussurrò Giulia, «Ha chiamato sua figlia proprio come me». Allungò una mano per suonare, ma la ritirò subito. C’era già una Giulia nella vita di Leonardo. E forse era davvero arrivato il momento di dimenticarlo per sempre.

Fine

Uno speciale ringraziamento va anche a tutti coloro che hanno partecipato alla nostra iniziativa di scrittura e proposto il loro input: Gianluca Santomaso – Giulio Perozzo – Greta Bergamin – Cecilia Mariani – Filippo Romani – Ilaria Marangoni – Giovanni Lembo – giulilai35 – gali4music – farkikka – Andriko_Hajni – @attimidiprosablog

Turno 1 – Linda
«Ecco la dimostrazione di cui avevo bisogno!». Leonardo si scostò da Giulia e la fissò con aria compiaciuta e allo stesso tempo delusa, come se avesse saputo la sua risposta ancora prima che lei la pronunciasse; in cuor suo ne soffriva, aveva tanto sperato in un’altra reazione. Finalmente l’aveva messa con le spalle al muro come mai prima era riuscito a fare. Lei lo fissava come si fissa un’insegnante noioso durante l’ultima ora di lezione, con il suo sguardo dolce e ambiguo, come fosse incapace di commettere errore; una bambina che ottiene quello che vuole perché sa di poterlo avere, che gioca con i sentimenti altrui come fossero dei pezzi di lego da assemblare a proprio piacimento, a seconda dell’umore. Leonardo avrebbe voluto davvero andarsene, ma se lo avesse fatto, lei avrebbe vinto. Un’altra volta.