Sono single. Ho trentacinque anni. Un fisico formoso ma atletico. Odio la lavanda, credo di essere l’unica persona al mondo. Ricerco l’ordine, o forse dovrei dire la perfezione, in ogni cosa. Sono imprenditrice. Produco un marchio di moda. Nulla a che vedere con Gucci o Louis Vuitton, ma viaggia bene.
Apprezzo i piatti semplici, il vino bianco, mangio solo gelato al gusto vaniglia. Non convivo, non ho relazioni, ho solo contratti o incontri a tempo determinato. Tendo al controllo. Sono intelligente, ma a volte dimentico che sono umana e che nulla può seguire in maniera impeccabile il suo percorso. Adoro gli animali solo nei film. Amo la mia famiglia, ma presa a piccole dosi. Ed è qui che decade tutta la mia vita. In un giorno qualunque, il castello che credevo solido e inattaccabile crolla proprio davanti a me, e io con lui.
Non so come quella foto sia arrivata a me, né chi l’abbia scattata, ma ogni domanda che emerge nella mia mente viene allontanata dalla madre di tutte le domande: i bambini stanno bene? Il respiro viene a mancare, la gola prude. Ho la sensazione di aver perso l’udito perché non percepisco nemmeno più la televisione in sottofondo. Non ho loro notizie da oltre un mese.
L’ultima volta li ho visti per pochi minuti. Si tenevano per mano camminando verso di me mentre li aspettavo in una stanza e sorseggiavo un caffè. Avevo messo in bella vista due grandi pacchetti regalo, ma non li avevano toccati. Rimanevano fermi immobili come se aspettassero una mia reazione. La più grande aveva appoggiato il braccio sulle spalle del più piccolo che teneva la testa bassa. Io dicevo poche frasi che si concludevano con un gran sorriso da clown. Solo la più grande rispondeva, ma a monosillabi.
Serrai le labbra e mi alzai, dicendo che ci saremmo rivisti presto e in quel momento il più piccolo mi guardò. Gli occhi di un marrone chiaro richiamarono il ricordo della loro mamma, la mia sorellina con cui condividevo ogni cosa. Non dice nulla, ma la sua espressione mi fa capire che è consapevole che sto mentendo. E mi sovviene il ricordo di quando da piccola, io la mia sorellina ci divertivamo a rubare i mestoli di mamma per giocare sotto al tavolo mentre lei cucinava; diventava matta ogni volta e quando ci scopriva, o meglio, si stancava, minacciava di toglierci tutti i giochi e noi scappavamo in camera, divertite, perché non sapeva che i giochi migliori li avevamo nascosti nell’armadio, sotto ai piumoni invernali.
Getto la foto sul tavolo della cucina e mi affaccio alla grande finestra del mio attico. È stupenda la vista da lassù. È stata la carta vincente che mi ha portato all’acquisto. Quei bambini non sono mai venuti qui: ogni oggetto è vintage o di lusso, morirei se qualcosa si rovinasse. Ripenso a mia sorella, e d’istinto porto una mano alla bocca. Non piango mai. Per nessuna ragione. È una cosa così debole che provo una gran vergogna e abbasso lo sguardo, neanche avessi davanti qualcuno a giudicarmi. Mi volto di scatto e spingo una sedia a terra con una violenza di cui non mi credevo capace. Il rumore è assordante a quell’ora della sera. Il mio sguardo è fisso sull’oggetto che pochi istanti dopo rimetto a posto con estrema delicatezza, come se stessi raccogliendo delle rose a cui non ho tolto le spine.
Prendo in mano il cellulare e scorro la rubrica con cautela. Forse spero di non trovare registrato quel numero, ma poi appare ai miei occhi chiaro e distinto. Il dito è a mezz’aria e, ancora indeciso, preme sul tasto. Quando una voce femminile risponde, provo un disagio tremendo, praticamente un tuffo a bomba in una piscina dall’acqua gelida. Il capitano delle mie emozioni tiene con le briglie la mia ansia, in fondo devo farle solo una domanda anche se in un lampo riaffiora la nostra prima conversazione dove mi informava che ero la parente più prossima ai miei due nipoti. La mia famiglia era morta in un incidente d’auto: non avevo più una sorella, un cognato, una madre e un padre. I bambini erano a un compleanno. Non avevo trovato il coraggio di andare a prenderli e avevo insistito che fosse lei a occuparsene. Che vigliacca…
Mi scuso per l’orario e lentamente, quasi la mia mente ragionasse come una giostra a gettoni da caricare di continuo, chiedo come stanno i bambini. La mancata fluidità con cui solitamente conversa, la tradisce. Provo un freddo pungente lungo la schiena e stringo il telefono più forte. Chiedo spiegazioni, le pretendo. Mi dice che purtroppo c’è stato un cambiamento e che per un banale disguido, forse, non sono stata avvisata. Mi elenca un indirizzo e il sangue smette di affluire nelle mie vene, o almeno è ciò che sento.
Non mi rendo conto di essere scalza, con indosso solo un tubino e i capelli disordinati. Il portiere al piano terra apre la porta d’ingresso giusto in tempo per evitare che ci finisca contro. Corro veloce lungo il marciapiede. Urto qualche passante, i più furbi si scansano. Attraverso la strada facendo cenno di stop alle auto che non suonano nemmeno il clacson, forse perplesse dalla mia foga. Raggiungo l’altro lato della strada e corro sempre più veloce. Alle superiori era una gran velocista ed è incredibile come il mio corpo ricordi bene il ritmo utile per una corsa equilibrata.
Corro per quelli che saranno almeno otto chilometri. Non accenno fiato corto. Non crollo. Mi fermo di scatto davanti alla destinazione e urlo di aprire mentre busso alla porta così forte che dall’altro lato della strada qualcuno blatera a voce alta frasi che non comprendo. Forse mi dicono di fare silenzio, forse mi intimano a fermarmi. Non lo so e non mi interessa. Una luce si accende e quando la porta si apre, non bado a chi ho di fronte. Chiamo i loro nomi di continuo, come fossi un disco rotto e il volume bloccato allo stesso punto, alto e ruggente.
Altre luci si accendono. Sento un brusio di voci, ma non ascolto. Salgo al primo piano e percorro i corridoi. La mia voce squillante risveglia quel posto che non volevo per loro. C’è odore di vecchio, le pareti hanno l’intonaco crepato, la toilette puzza di fogna, il pavimento presenta macchie ovunque. Chiamo i loro nomi ma non li trovo e in quel momento mi blocco perché mi rendo conto di piangere. Mi volto e osservo gli sguardi perplessi o spaventati di bambini nei loro pigiami, alcuni stringono un peluche. Penseranno che sia una pazza e credo di averne l’aspetto. Poi sento chiamare il mio nome e mi volto. Eccoli!
Prendo in braccio il più piccolo e per mano la più grande e li trascino fino all’ingresso mentre un uomo anziano mi aggredisce a parole che puntualmente ignoro. Esco in strada e cammino senza voltarmi. I bambini non dicono nulla, mi seguono. Più ci allontaniamo da quell’edificio, più ho la sensazione di essere al sicuro. Mi guardo attorno per capire dove ci troviamo e il più piccolo mi guarda e dice che ha fame. Poteva dirmi qualsiasi cosa, anche la più atroce, ne avrebbe avuto diritto. Invece ha solo voglia di mangiare.
Anche se non ho un soldo con me, camminiamo verso il primo locale che offra pasti a quell’ora e nel cercarlo, vedo la mia immagine riflessa lungo una vetrata scura. Ho l’aspetto di chi è andato incontro a un uragano, uscendone indenne. Cerco di sistemare i capelli, ma la più grande mi ferma. Mi chiede di non farlo. Dice che le ricordo la sua mamma e il mio petto si scalda facendomi sentire in colpa ma serena al tempo stesso. Sorellina, mi manchi così tanto…
Raggiungiamo un locale che vedo ancora impegnato a servire pasti caldi, ma due pattuglie della polizia si avvicinano. Un uomo in divisa mi analizza come uno scanner e dallo sguardo deciso, comprendo che sa chi sono e cosa ho fatto. Mi chiede di salire in auto e lasciare i bambini alla sua collega che prova ad avvicinarsi, ma io li blocco con un immediato gesto della mano. Dico che non farò nulla di tutto ciò, non prima di aver portato i bambini a mangiare, perché è ciò che desiderano.
L’uomo mi fissa serio per secondi che sembrano non avere fine. Di sicuro teme per la vita dei bambini, e il suo giuramento lo obbliga a far rispettare la legge, a servire e proteggere, ma ho anche l’impressione che comprenda il mio stato d’animo perché lentamente perde la posizione rigida e i lati della sua bocca, nonostante siano nascosti dai baffi, si addolciscono. Fa un cenno con la mano che mi rassicura e apre la porta per farci entrare nel locale.
Il piccolo siede sulle mie gambe, la più grande di fronte a me. Ordiniamo solo tranci di pizza e dolci. Insisto sull’acqua al posto della coca-cola, lo faceva sempre mia sorella. Mangiano e scherzano come se nulla di folle sia successo, come se la polizia non fosse lì fuori, in attesa che usciamo. Forse non sanno cosa accadrà, a dire la verità non lo so nemmeno io, ma in quel momento non m’importa. Do un morso alla torta al cioccolato e lo stomaco si apre in segno di grazia, felice di non dover digerire altro cibo privo di grassi. È il morso più dolce e sensato degli ultimi anni e provo un immenso piacere nell’assaporarlo.
Sposto indietro una ciocca di capelli e mi rendo conto di essermi sporcata. Fino a un’ora prima avrei urlato isterica, ora invece osservo curiosa il residuo di cioccolato sulle dita, sul vestito, sui capelli. Il piccolo si volta e ride. Dice che una volta la sua mamma non sapeva se tagliarsi i capelli. Lo ripeteva in continuazione a tutti quanti e lui, stanco di sentirla, le aveva spiaccicato in testa una gomma da masticare. Ricordavo quell’episodio, ero con lei dalla parrucchiera il giorno in cui dovette quasi rasare i capelli a zero. Ci ritroviamo a ridere, quasi a crepapelle.
Li avevo rifiutati perché non volevo la responsabilità di curarmi di loro. Corrotti con regali per figurare come la zia perfetta. E rapiti senza alcuna spiegazione nel cuore della notte. Eppure erano seduti con me a ridere, a mangiare, a parlare della loro mamma. Spensierati. Com’era possibile? Non serbavano alcun rancore nei miei confronti e io non ero mai stata così felice come in quel momento.
FINE
Molto emozionante. La prima parte molto immersiva e trascinante. La descrizione dei bambini, gli atteggiamenti , le espressioni, tridimensionali. Sembra di essere dentro il racconto. Brava Linda. Scorrevole e coinvolgente.
Grazie del tuo commento Michela! Mi hai emozionato come lo ha fatto questo racconto mentre lo scrivevo e rileggevo!