Davanti a loro quattro uomini della sicurezza e due che sembravano essere i manutentori dell’ascensore. Serena li guardò in modo bizzarro, come se fosse stupita nel vederli e senza dare attenzione alle parole di uno di loro, che probabilmente le stava chiedendo se stesse bene, proseguì a camminare senza voltarsi.
“Serena”. La ragazza non si voltò, ma sapeva che Carlo le stava dietro. “Serena, aspetta!” disse prendendola per un braccio. “Aspetta!”. Finalmente la ragazza si voltò ma teneva la testa bassa. All’improvviso era tornata la timida e impacciata ragazza che barcollava su un tacco dodici. “Che cosa c’è?”. Evitava di proposito il suo sguardo. Carlo non disse nulla, ma la baciò ancora. A quel punto Serena si scostò, allontanandolo. Lui la fissò sgomento.
“Quello che c’è stato prima in ascensore…”. Lei lo interruppe.
“Non era niente di importante. Eravamo stanchi… siamo stanchi”.
“Io non credo. Ho provato qualcosa di travolgente e so che lo hai provato anche tu!”.
“Sì, forse. Ma ora che siamo fuori da quell’ascensore tutto torna come prima. E tu lo sai meglio di me!”.
“Sai cosa, io credo che tu abbia paura ad ammettere che è nato qualcosa tra di noi. Sento che c’è qualcosa…”.
Serena gli si piazzò a pochi centimetri dalla faccia, lo sguardo non più timido ma aggressivo. “Non potrei mai stare con uno come te. Oggi mi ameresti e domani ameresti un’altra donna. Non sei affidabile!”. Carlo si ritrovò a stringere la camicia macchiata di caffè mentre vedeva Serena allontanarsi, quando lei si voltò di scatto. “Non siamo più prigionieri tra quattro mura e a meno che non accada di nuovo, non sapremo mai che cosa proviamo l’una per l’altra” e sparì oltre una porta di sicurezza, i tacchi in mano, mentre scendeva le scale fino al piano terra.
Raggiunto l’ingresso dell’edificio, Serena rimase a bocca aperta. Non solo si stupì di vedere che il sole era tramontato da ore e aveva lasciato spazio alle migliaia di luci artificiali che illuminavano Madison Avenue, ma vide anche Carlo, al centro di un piazzale, in manette. “Carlo ma che cosa è successo?” chiese letteralmente sconvolta. “Ho insultato questo agente”. Lei sgranò gli occhi, dandogli del pazzo. “Sig.Riggi, la prego mi segua” disse l’uomo in divisa. Serena li fermò, voleva altre spiegazioni. “Che cosa stai combinando? È una tua trovata questa, non è vero?” disse sbuffando.
Lui rise. “Lo sapevo. Sei proprio un cretino! E questo agente? Scommetto che è tutta una messinscena!” e gli buttò a terra il cappello, invitandolo in maniera elegante ad andare a quel paese. In pochi istanti, Serena fu arrestata per aggressione e portata assieme a Carlo al distretto n.24 di New York. La ragazza aveva provato a ribellarsi, ma le era stato caldamente consigliato di non dire altro e di contattare un avvocato. A quel punto aveva taciuto ma il suo io interiore aveva già commesso diversi reati nei confronti di Carlo che, a quanto pare, era l’unico ad essere tranquillo.
Neanche a farlo apposta, furono messi in due celle separate ma una parete, o meglio un lato con le sbarre, era in comune. Lei lo guardò alzando le braccia, in attesa di spiegazioni. Lui sorrise, le mani in tasca. Aveva uno sguardo vittorioso, ma dolce. “Allora?” disse lei avvicinandosi alle sbarre. “Vuoi dirmi che cosa succede?”. Lui fece un paio di passi in avanti. “Siamo prigionieri tra quattro mura, o meglio, sbarre. Ora possiamo sapere cosa proviamo l’uno per l’altra. Penso che abbiamo tutto il tempo del mondo…”.
Lei non disse niente. Era la rabbia in persona. Aspirò forte dalle narici, proprio come i tori nei cartoni animati, poi il suo sguardo si distese.
“Appena usciamo di qui ti faccio a pezzi”.
“Provaci, ladra di taxi”.
“Casanova dei miei stivali”.
“Imbranata sui tacchi”.
“Stupido ragazzino viziato”.
“Imbranata con caffè”.
A mano a mano che si insultavano si avvicinavano sempre di più, come se il volume delle loro voci aumentasse passo dopo passo.
“Sei ridicolo nel tuo completo da tremila dollari”.
“E tu non hai buoni riflessi”. A quella frase Serena aggrottò la fronte, e fu a quel punto che lui la sorprese, afferrandola per gli avambracci e attirandola a sé. I loro visi, nonostante le sbarre, distavano di pochissimi centimetri. Ci fu un breve gioco di sguardi, poi lui la baciò e lei non si oppose e allungò le braccia per stringersi a lui. Una ridicola guardia con i capelli a spazzola e un peso che superava i cento chili li intimò di allontanarsi, ma loro la ignorarono, senza smettere di baciarsi. “Ora hai tempo di capire se provi qualcosa per me” disse lui scostandosi appena. Lei lo fissò sorridendo. “Tu che dici…?”.