Dite cheese al racconto!

Tre scrittori.
Un tema comune.
Tre stili diversi.
Racconti brevi scritti appositamente per l’evento Wanted Stories e in questa serata il tema  su cui gli scrittori si sono cimentati è FOTOGRAFIA, DITE CHEESE AL RACCONTO CHE È IN NOI.

LINDA MOON – Sono single. Ho trentacinque anni. Un fisico formoso ma atletico. Odio la lavanda, credo di essere l’unica persona al mondo. Ricerco l’ordine, o forse dovrei dire la perfezione, in ogni cosa. Sono imprenditrice. Produco un marchio di moda. Nulla a che vedere con Gucci o Louis Vuitton, ma viaggia bene. Apprezzo i piatti semplici, il vino bianco, mangio solo gelato al gusto vaniglia. Non convivo, non ho relazioni, ho solo contratti o incontri a tempo determinato. Tendo al controllo. Sono intelligente, ma a volte dimentico che sono umana e che nulla può seguire in maniera impeccabile il suo percorso. Adoro gli animali solo nei film. Amo la mia famiglia, ma presa a piccole dosi. Ed è qui che decade tutta la mia vita. In un giorno qualunque, il castello che credevo solido e inattaccabile crolla proprio davanti a me, e io con lui.

Non so come quella foto sia arrivata a me, né chi l’abbia scattata, ma ogni domanda che emerge nella mia mente viene allontanata dalla madre di tutte le domande: i bambini stanno bene? Il respiro viene a mancare, la gola prude. Ho la sensazione di aver perso l’udito perché non percepisco nemmeno più la televisione in sottofondo. Non ho loro notizie da oltre un mese. L’ultima volta li ho visti per pochi minuti. Si tenevano per mano camminando verso di me mentre li aspettavo in una stanza e sorseggiavo un caffè. Avevo messo in bella vista due grandi pacchetti regalo, ma non li avevano toccati. Rimanevano fermi immobili come se aspettassero una mia reazione. La più grande aveva appoggiato il braccio sulle spalle del più piccolo che teneva la testa bassa. Io dicevo poche frasi che si concludevano con un gran sorriso da clown. Solo la più grande rispondeva, ma a monosillabi. Serrai le labbra e mi alzai, dicendo che ci saremmo rivisti presto e in quel momento il più piccolo mi guardò. Gli occhi di un marrone chiaro richiamarono il ricordo della loro mamma, la mia sorellina con cui condividevo ogni cosa. Non dice nulla, ma la sua espressione mi fa capire che è consapevole che sto mentendo. E mi sovviene il ricordo di quando da piccola, io la mia sorellina ci divertivamo a rubare i mestoli di mamma per giocare sotto al tavolo mentre lei cucinava; diventava matta ogni volta e quando ci scopriva, o meglio, si stancava, minacciava di toglierci tutti i giochi e noi scappavamo in camera, divertite, perché non sapeva che i giochi migliori li avevamo nascosti nell’armadio, sotto ai piumoni invernali. 

Getto la foto sul tavolo della cucina e mi affaccio alla grande finestra del mio attico. È stupenda la vista da lassù. È stata la carta vincente che mi ha portato all’acquisto. Quei bambini non sono mai venuti qui: ogni oggetto è vintage o di lusso, morirei se qualcosa si rovinasse. Ripenso a mia sorella, e d’istinto porto una mano alla bocca. Non piango mai. Per nessuna ragione. È una cosa così debole che provo una gran vergogna e abbasso lo sguardo, neanche avessi davanti qualcuno a giudicarmi. Mi volto di scatto e spingo una sedia a terra con una violenza di cui non mi credevo capace. Il rumore è assordante a quell’ora della sera. Il mio sguardo è fisso sull’oggetto che pochi istanti dopo rimetto a posto con estrema delicatezza, come se stessi raccogliendo delle rose a cui non ho tolto le spine. Prendo in mano il cellulare e scorro la rubrica con cautela. Forse spero di non trovare registrato quel numero, ma poi appare ai miei occhi chiaro e distinto. Il dito è a mezz’aria e, ancora indeciso, preme sul tasto. Quando una voce femminile risponde, provo un disagio tremendo, praticamente un tuffo a bomba in una piscina dall’acqua gelida. Il capitano delle mie emozioni tiene con le briglie la mia ansia, in fondo devo farle solo una domanda anche se in un lampo riaffiora la nostra prima conversazione dove mi informava che ero la parente più prossima ai miei due nipoti. La mia famiglia era morta in un incidente d’auto: non avevo più una sorella, un cognato, una madre e un padre. I bambini erano a un compleanno. Non avevo trovato il coraggio di andare a prenderli e avevo insistito che fosse lei a occuparsene. Che vigliacca…
Mi scuso per l’orario e lentamente, quasi la mia mente ragionasse come una giostra a gettoni da caricare di continuo, chiedo come stanno i bambini. La mancata fluidità con cui solitamente conversa, la tradisce. Provo un freddo pungente lungo la schiena e stringo il telefono più forte. Chiedo spiegazioni, le pretendo. Mi dice che purtroppo c’è stato un cambiamento e che per un banale disguido, forse, non sono stata avvisata. Mi elenca un indirizzo e il sangue smette di affluire nelle mie vene, o almeno è ciò che sento.

Non mi rendo conto di essere scalza, con indosso solo un tubino e i capelli disordinati. Il portiere al piano terra apre la porta d’ingresso giusto in tempo per evitare che ci finisca contro. Corro veloce lungo il marciapiede. Urto qualche passante, i più furbi si scansano. Attraverso la strada facendo cenno di stop alle auto che non suonano nemmeno il clacson, forse perplesse dalla mia foga. Raggiungo l’altro lato della strada e corro sempre più veloce. Alle superiori era una gran velocista ed è incredibile come il mio corpo ricordi bene il ritmo utile per una corsa equilibrata. Corro per quelli che saranno almeno otto chilometri. Non accenno fiato corto. Non crollo. Mi fermo di scatto davanti alla destinazione e urlo di aprire mentre busso alla porta così forte che dall’altro lato della strada qualcuno blatera a voce alta frasi che non comprendo. Forse mi dicono di fare silenzio, forse mi intimano a fermarmi. Non lo so e non mi interessa. Una luce si accende e quando la porta si apre, non bado a chi ho di fronte. Chiamo i loro nomi di continuo, come fossi un disco rotto e il volume bloccato allo stesso punto, alto e ruggente.
Altre luci si accendono. Sento un brusio di voci, ma non ascolto. Salgo al primo piano e percorro i corridoi. La mia voce squillante risveglia quel posto che non volevo per loro. C’è odore di vecchio, le pareti hanno l’intonaco crepato, la toilette puzza di fogna, il pavimento presenta macchie ovunque. Chiamo i loro nomi ma non li trovo e in quel momento mi blocco perché mi rendo conto di piangere. Mi volto e osservo gli sguardi perplessi o spaventati di bambini nei loro pigiami, alcuni stringono un peluche. Penseranno che sia una pazza e credo di averne l’aspetto. Poi sento chiamare il mio nome e mi volto. Eccoli! 

Prendo in braccio il più piccolo e per mano la più grande e li trascino fino all’ingresso mentre un uomo anziano mi aggredisce a parole che puntualmente ignoro. Esco in strada e cammino senza voltarmi. I bambini non dicono nulla, mi seguono. Più ci allontaniamo da quell’edificio, più ho la sensazione di essere al sicuro. Mi guardo attorno per capire dove ci troviamo e il più piccolo mi guarda e dice che ha fame. Poteva dirmi qualsiasi cosa, anche la più atroce, ne avrebbe avuto diritto. Invece ha solo voglia di mangiare. Anche se non ho un soldo con me, camminiamo verso il primo locale che offra pasti a quell’ora e nel cercarlo, vedo la mia immagine riflessa lungo una vetrata scura. Ho l’aspetto di chi è andato incontro a un uragano, uscendone indenne. Cerco di sistemare i capelli, ma la più grande mi ferma. Mi chiede di non farlo. Dice che le ricordo la sua mamma e il mio petto si scalda facendomi sentire in colpa ma serena al tempo stesso. Sorellina, mi manchi così tanto…

Raggiungiamo un locale che vedo ancora impegnato a servire pasti caldi, ma due pattuglie della polizia si avvicinano. Un uomo in divisa mi analizza come uno scanner e dallo sguardo deciso, comprendo che sa chi sono e cosa ho fatto. Mi chiede di salire in auto e lasciare i bambini alla sua collega che prova ad avvicinarsi, ma io li blocco con un immediato gesto della mano. Dico che non farò nulla di tutto ciò, non prima di aver portato i bambini a mangiare, perché è ciò che desiderano. L’uomo mi fissa serio per secondi che sembrano non avere fine. Di sicuro teme per la vita dei bambini, e il suo giuramento lo obbliga a far rispettare la legge, a servire e proteggere, ma ho anche l’impressione che comprenda il mio stato d’animo perché lentamente perde la posizione rigida e i lati della sua bocca, nonostante siano nascosti dai baffi, si addolciscono. Fa un cenno con la mano che mi rassicura e apre la porta per farci entrare nel locale. 

Il piccolo siede sulle mie gambe, la più grande di fronte a me. Ordiniamo solo tranci di pizza e dolci. Insisto sull’acqua al posto della coca-cola, lo faceva sempre mia sorella. Mangiano e scherzano come se nulla di folle sia successo, come se la polizia non fosse lì fuori, in attesa che usciamo. Forse non sanno cosa accadrà, a dire la verità non lo so nemmeno io, ma in quel momento non m’importa. Do un morso alla torta al cioccolato e lo stomaco si apre in segno di grazia, felice di non dover digerire altro cibo privo di grassi. È il morso più dolce e sensato degli ultimi anni e provo un immenso piacere nell’assaporarlo. Sposto indietro una ciocca di capelli e mi rendo conto di essermi sporcata. Fino a un’ora prima avrei urlato isterica, ora invece osservo curiosa il residuo di cioccolato sulle dita, sul vestito, sui capelli. Il piccolo si volta e ride. Dice che una volta la sua mamma non sapeva se tagliarsi i capelli. Lo ripeteva in continuazione a tutti quanti e lui, stanco di sentirla, le aveva spiaccicato in testa una gomma da masticare. Ricordavo quell’episodio, ero con lei dalla parrucchiera il giorno in cui dovette quasi rasare i capelli a zero. Ci ritroviamo a ridere, quasi a crepapelle. 

Li avevo rifiutati perché non volevo la responsabilità di curarmi di loro. 
Li avevo corrotti con regali per figurare come la zia perfetta. 
Li avevo rapiti senza alcuna spiegazione nel cuore della notte. Eppure erano seduti con me a ridere, a mangiare, a parlare della loro mamma. Spensierati. Com’era possibile? Non serbavano alcun rancore nei miei confronti e io… io non ero mai stata così felice come in quel momento.

ALBERTO SARTORI – Era il nostro posto speciale.
Un pontile di legno e linoleum su quella nave attraccata al porto che ormai da tempo non danzava sulle onde. Era lì, dimenticata, utilizzata solo dai turisti per scattare qualche foto dalla terra ferma. In quello spazio potevamo essere noi stessi, o forse sognavamo solo di esserlo. Un limbo a metà strada tra la vita quotidiana e l’etereo. Una raccolta di momenti incollati alle pagine di un album di vecchie foto in bianco e nero. Sono impresse nella mia mente, indelebili, come fossero state tatuate con la ruggine nei miei instabili neuroni.

Ore 18:00
Domani

Un messaggio molto semplice che trovavo scritto ogni giorno con un gesso colorato vicino alla mia cassetta della posta. Ogni volta il colore del gessetto cambiava per non mescolarsi a quello della volta precedente. Ormai quel pezzo di muretto sembrava un acquerello fatto di arcobaleni intrecciati. Di rado cambiava la parola “domani”, molto spesso cambiava l’orario. Ed io arrivavo puntuale, ci erano concessi massimo dieci minuti di anticipo e nemmeno un secondo di ritardo. Quel giorno, come al solito, non sapevamo quello che avremmo fatto. Solitamente Luna prima del consueto: “A domani, ragazzi!” chiedeva di portare qualcosa, di pensare a qualcosa, di scrivere qualcosa, di sognare qualcosa. Però non ci diceva a cosa sarebbe servito quel qualcosa. E la mia curiosità aumentava di ora in ora. Certe notti non riuscivo nemmeno a dormire.

Ricordo che circa un mese fa ci chiese di scrivere un racconto a noi stessi in cui descrivere i nostri successi ed insuccessi della vita. Potete capire bene la mia insonnia. Subito pensai che avrei scritto un romanzo da mille pagine e invece… alle quattro del mattino avevo scritto solamente il mio nome. «Ben arrivato Giulio». Luna interruppe i miei pensieri. Giulio sono io. Sogno più ad occhi aperti che chiusi, sempre alla ricerca di quell’amore puro che ti corre lungo un brivido dentro la schiena e che ti fa rizzare i peli sulle braccia. Erano le 18:00 in punto e tutti noi eravamo già pronti. Luna ci fece mettere uno accanto all’altro, lo sguardo rivolto verso il mare. 

«Ragazzi», esordì sorridendo, «Questa ringhiera separa il vostro oggi dal vostro domani. L’esercizio è quello di guardare oltre. Cercate di visualizzare il vostro futuro, costruitelo a pezzetti come fossero piccoli mattoncini colorati che andranno a formare i vostri sogni». Senza nemmeno fiatare, ci mettemmo tutti a guardare verso le onde calme del mare. Ai miei fianchi avevo Emma e Stella, riuscivo a percepire i loro respiri. I miei occhi guardavano sempre leggermente verso la mia sinistra, in direzione di Emma. Non riuscivo a distogliere lo sguardo quando c’era lei. Eppure non mi ha mai degnato di una parola, di un’attenzione, di un mezzo sorriso. Ma solo vedere la sua pelle così liscia, bastava e avanzava per accelerare il mio battito cardiaco.

È quella sensazione che provi e che non sai descrivere. Quel leggero tremolio che si irradia nel petto e che ti formicola in gola. Senti quella danza che fanno le ghiandole lacrimali per far brillare gli occhi ma senza farli piangere, rimangono lucidi, come uno specchio che riflette l’immagine di chi ti sta rubando il cuore. È una dolce rapina ben riuscita che non ha bisogno di armi. Non ti puoi nascondere dietro a una maschera perché qualsiasi parola tu dica diverrà subito bugia o verità. E lo si capirà immediatamente da che parte starà perché gli occhi non mentono mai.

Insomma, dai, avete capito a cosa stavo pensando mentre osservavo quel che c’era al di là della ringhiera. C’era il mio futuro con Emma. Perché quello che vivo nei miei sogni e come immagino io il mio futuro, beh, lo decido io. E non sto qui a perdere tempo ad essere pessimista. Nella mia testa mi costruisco il futuro che voglio e me lo godo, me lo abbraccio, me lo…
Sto errando con i pensieri. Sto predicando bene, ma poi? La realtà? Emma non mi parla, non si degna di me. E di nuovo rientro nell’oblio passando dalla porta principale, neanche la chiudo dietro di me, nell’oblio ci stiamo in un bel po’. Potete venire a trovarmi nell’oblio, non si sta così male, nessuna luce che può dare fastidio, un letto di sole doghe senza materasso dove dormire, ci si accontenta e non si rischia di soffrire.
E subito la parte di me che vuole continuare a lottare interviene nuovamente. Il mio cuore vorrebbe correre, volare. La mia mente frena forte perché non vuole farmi soffrire. «Il futuro lo puoi riscrivere, sognalo buono», mi sussurro da solo. Scuoto leggermente la testa per questa gran confusione che alberga dentro di me. Una folata di vento mi risveglia da questo torpore. Qualcosa mi si è infilato tra i capelli. Lo cerco con la mano e tra le dita compare una fogliolina gialla. La ridono al vento e la lascio volare via. 

Istintivamente mi metto a frugare nel borsello alla ricerca di un piccolo specchio. Non esco mai di casa senza. Perché nemmeno il vento ha il permesso di scompigliarmi i capelli. Devono essere sempre perfetti. Osservo il mio riflesso e mi blocco di colpo. I miei capelli sono lunghi e il loro colore si avvicina più a quello della cenere che del mogano. Le rughe sul mio volto sono profonde e ruvide. Il mio naso ha qualche macchiolina in più sulla pelle. Muovo lo specchietto in modo da vedere tutto attorno, il pontile è lo stesso ma non c’è nessuno oltre a me. E’ tutto più sporco, logoro.

Sento la voce di Luna nella mia testa: “Allora Giulio? Come stai vedendo il tuo futuro?”.
«Ma come è possibile?», urlo in un misto di stupore e paura.
“Non fare domande e guardati. Concentrati sull’unica cosa che è davvero importante nella vita e che nessuno ti chiede mai”, continua Luna con voce soave.
«Non vedo nulla, ci sono io con qualche, anzi parecchi anni in più. E sto sorridendo».
“Sei felice?”, incalza Luna.
«Ora? No, per niente!», rispondo io, con troppa fretta.
“Non ora Giulio, nell’immagine allo specchio”.

Inizio a osservarmi meglio e vedo nel sorriso e nel luccicare dei miei occhi una felicità che non ho mai visto, è come se fossi avvolto da gioia pura. «Luna», sussurro ora, con tranquillità. «Mi vedo felice, nel mio futuro sono felice. Non so con chi, non so con cosa, non so dove, non so quando ma mi vedo felice».
“E non è forse l’unica cosa importante da sognare la felicità? Non importano i come, i quando, i perché, i come va, i come stai, i cosa vuoi. Sogna di essere felice. Ogni notte. Ogni giorno. Ogni volta in cui tu sbatterai le palpebre puoi pensare alla tua felicità. Ed ora rimetti via lo specchietto”, mi dice, con voce rasserenante. Eseguo il suo ordine senza tergiversare e mi ritrovo nuovamente nel presente, faccio prendere al mio cuore la rincorsa e decido di buttarmi. 
Mi giro verso Emma, la guardo dritta negli occhi e senza timore le dico: «Ti amo».

ALDO FERRARERE –
Bonjour, Buenos Dias, Good morning, Bom dia.
Buongiorno, ai miei amici, ai miei amati ,ai miei amanti.
Buongiorno ai miei contatti, a coloro che mi stimano e mi vogliono bene.
Buongiorno a tutti voi.
Sono lieta di invitarvi alla mia mia prima e unica personale.
Metterò in scena me stessa, senza veli, senza timori, senza aspettative.
Nuda e cruda, me stessa, la mia vita.
Mi vedrete come nemmeno io ho il coraggio di guardarmi. Immagini, mie, che sarete liberi di fotografare e fare vostre. Foto che apriranno il vostro cuore e la vostra memoria e vi faranno ricordare chi siete.
Ti aspetto.
Ti amo immensamente,
Linette

Non conosco nessuna Linette. Non ho idea di chi possa essere il mittente di questa email e neppure perché sia arrivata a me. Immagino di esserne beneficiario senza alcun motivo. Il mio nome, la mia email in una lunga lista, anonima, dove nessuno conosce nessuno. Un unico legame, Linette.
Ma chi è Linette, un’artista che vuole pubblicizzare il suo lavoro? E dove espone? Dove si svolge questa mostra? Non c’è scritto nulla: né il luogo, né il quando. Una pazzoide che vuole prendersi gioco di me?  “Ti aspetto, ti amo immensamente”...
Caschi male piccola, sono insensibile all’amore, io. Lo conosco abbastanza da starci alla larga. Tutti i giorni fanno la fila per venirsi a confessare: uomini che tradiscono, donne che tradiscono. Violenze. Perversioni. E tutto questo lo fanno per amore!

“Io la amo, ma lei si comporta da vera stronza”
“Anche io lo amo, però amo anche la mia libertà”
“Lavoro venti ore al giorno perché voglio il loro bene, per provvedere a quello che gli serve, ma quando sono a casa mi devono rispettare, non mi devono rompere i coglioni”
“Amo il mio corpo, e il mio corpo è fatto per amare, ho tanta voglia padre, mi perdoni ”

Provo orrore per l’amore. Eppure vorrei sapere chi è Linette, vorrei andarci a quella mostra. E mi inginocchio e prego ma non sono sereno. Tolgo la tunica e vado a dormire. E più volte vengo svegliato da un cane che abbaia e apro gli occhi cercando la fonte di quel latrare, ma subito torna il silenzio. Mi sveglio, prego e confesso, dico messa, e penso. Penso a Linette, non conosco alcuna Linette. Confesso, prego e vado a letto. Sogno! E sento guaire e abbaiare, lo vedo, lo riconosco. È Teo! Il  cane di di quando ero piccolo, lo inseguo nel bosco. Lui corre, si gira e mi aspetta. Abbaia e riparte. Lo perdo. Fa buio e ho freddo, cerco riparo, c’è una baracca, ci entro. E mi accorgo di essere nudo e di non essere solo. Qualcuno mi bacia la schiena, il sedere, mi accarezza lo scroto. Ci faccio l’amore, con rabbia. Poi vengo e la vedo, bambina, e capisco. È lei Linette.

Mi sveglio, fradicio di sudore, con le mutande sporche. Un conato mi sorprende e vomito la cena, e poi  il pranzo, la colazione, la bile, la rabbia, la paura. Così come sono, indosso la tunica, prendo la macchina e guido. E ricordo Linette, che però per noi era Caren. Che a me suonava carina, e carina lo era per davvero. Aveva dodici anni, figlia di desaparecidos del regime di Videla. Era stata adottata dai miei, forse stanchi del mio continuo rinfacciare di essere figlio unico. Stanchi delle mie difficoltà a relazionarmi con gli altri. Stanchi di me, stanchi di loro stessi. Ricordo i nostri giochi, con Teo, da soli. Ricordo il suo corpo, i suoi capelli biondi, i suoi seni acerbi, lo spacco umido tra le gambe, il pelo morbido. Ricordo lei, in piedi, nella cascina in giardino. Io in ginocchio che la bacio tra le gambe. Ricordo un sonoro ceffone. Lei, con la faccia tra le mani, gocce di sangue, io che vengo trascinato fuori, sull’erba, su per le scale, fino in camera mia. Ricordo un uomo e una donna in soggiorno: lei con la valigia, che piange, io che guardo di nascosto e piango. Ricordo il collegio, i preti, la disciplina, il seminario, lo studio, la solitudine.

Intanto arrivo alla vecchia casa dove abitavo con i miei. In vendita da anni, oramai è un rudere. Il cancello è solo accostato, nessuna catena. Entro, attraverso il giardino, uso il cellulare per farmi luce fino al capanno. Il tetto è sfondato, non ci sono più né porte, né finestre. Varco la soglia e mi sorprende sul muro un dipinto, anzi no, è una foto ingrandita. Una bambina piccola, sorridente, con un uomo e una donna, poi un’altra foto con la stessa bambina, ma è triste e una suora le accarezza la testa, poi vedo mio padre che stringe  Caren, o meglio, Linette. Mia madre severa, poi riconosco me stesso, serio, e lei bambina che ride. Sento dentro la pancia quel vuoto che mi accompagna da sempre, farsi solido e freddo, e lo sento salire su, e uscire caldo dagli occhi in un fiume di lacrime. Poi ci sono altre foto, tutte in bianco e nero: lei adolescente in braccio a un uomo con la barba, lei in minigonna e reggiseno con un grosso lecca lecca, poi sotto un lampione seduta sul marciapiede, e ancora, nuda e sorridente stretta tra due uomini. Altre foto dove vestiti e sorrisi scompaiono del tutto e alla fine, raccolta come un feto sul pavimento. 
È bianca e magra, sembra dormire. Sul petto, e per terra, una larga chiazza nerastra, i polsi tagliati e slabbrati. Mi avvicino, non oso toccarla, mi appare bellissima. E un urlo fortissimo mi esce improvviso e squarcia la notte, il tempo e lo spazio. Ricordo, rinasco e ritorno, in me. Le scatto una foto. Mi levo la tunica, per l’ultima volta, so che non la indosserò mai più. E mi sdraio vicino, l’abbraccio, e dormo con lei.

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