Dopo un viaggio di sei ore in auto, interrotto solo da un paio di pause in autogrill, Sabrina raggiunge la vecchia casa di famiglia, quella in cui non mette piede da quasi tre anni. Parcheggia l’auto in fondo alla via e impiega un tempo piuttosto lungo prima di scendere e avviarsi verso l’ingresso; lo stesso atteggiamento di un detenuto in procinto di prendere posto sul lettino prima di ricevere l’iniezione letale. Si guarda attorno e l’immagine attorno a sé pare una di quelle cartoline che si trovano nei negozi di souvenir a Venezia o Roma, dove il panorama è lo stesso di sempre. I condomini accanto sono gli stessi, persino le auto sembrano identiche a quelle che ricorda. Gli alberi sono stati sfoltiti, ma sono sempre al loro posto.
Raggiunto il cancello, fissa il campanello con il doppio cognome e sforza di allungare l’indice per premerlo. Un rumore elettronico fa scattare l’apertura e Sabrina la oltrepassa, senza indugiare oltre. Ormai la sua presenza è stata annunciata. L’ascensore sale fino al quarto piano, la porta d’ingresso è aperta. Si sofferma all’entrata e tende l’orecchio: la televisione è accesa sul canale del telegiornale, un frigorifero viene aperto e chiuso e quello che sembra un piatto viene appoggiato con poca grazia sul tavolo. Sabrina fa un sospiro ed entra.
Pochi passi e si ritrova nella cucina dove ha fatto migliaia di colazioni, pranzi e cene. Un ricordo all’apparenza banale ma che la travolge come un’onda inaspettata. Il padre la saluta mentre condisce della pasta e la riversa su un piatto, accomodandosi a capo tavola. Sabrina siede al lato opposto, stretta nel cappotto e nella sciarpa, lo zainetto sulle spalle. Mostra un sorriso che si perde quando pronuncia un Ciao e fissa il televisore senza ascoltare realmente ciò che la conduttrice sta dicendo, distogliendo lo sguardo dal padre.
Lui attira la sua attenzione e batte due dita su una busta. Sabrina si inclina in avanti e la nota, oltre un sacchetto di pane. La prende e la rigira nella mano, c’è scritto solo il suo nome. Tutta quella strada per una lettera da parte della madre ritrovata in un cassetto dopo il suo funerale. Sabrina l’appoggia al tavolo, poi si alza per bere dell’acqua e vuota il bicchiere con calma prima di rispondere al padre che nel frattempo le ha chiesto come vadano le cose. Tutto bene per entrambi è una risposta più che sufficiente. Riprende la lettera in mano, ottima scusa per dileguarsi da quella situazione, e se ne va. Probabilmente sarà l’ennesima ramanzina sotto forma di lettera che sua madre era solita fare, con la differenza che questa volta non è riuscita a spedirla perché un’auto glielo ha impedito…
Uscita di casa, apre la lettera e trova un biglietto scritto a mano, attaccato sopra ad un’altra busta che dice: “Cara bambolina, leggi questa lettera e poi vieni a casa da me. Ti voglio bene, mamma”. Quella parola – bambolina – l’ammorbidisce all’istante. Sua madre non la chiamava così da anni, ma soprattutto non si trattava della solita ramanzina messa per iscritto, un’abitudine che detestava e non aveva mai capito. Leggerla e non poterla affrontare è un duro colpo da digerire, poi le viene in mente dove può andare. Anzi, dove deve andare.
Percorre il viale alberato, la mano al collo per tenere ferma la sciarpa e proteggersi dal forte vento che sembra voler accelerare il suo passo verso la tomba della madre. Lato est, sedicesima fila, cinque tombe dall’interno della passerella. Sabrina si china e fissa l’immagine della madre. Conosce bene quella foto: era il suo cinquantunesimo compleanno. Sabrina apre la seconda busta e inizia a leggere a bassa voce quanto scritto in una sola pagina.
Sabrina chiude gli occhi, ma questo non impedisce alle lacrime di scendere lungo le guance arrossate dal freddo. Ritorna all’auto e, con fare agitato, cerca la piccola agenda sepolta nel fondo dello zainetto, sperando di trovarla ancora lì. Eccola! Sfoglia con foga le pagine e si blocca osservando una lista. Nessuna voce è ancora stata barrata, ma è il presupposto di una lista…