L’incontro

Alle otto ero già in direzione dell’ospedale. Decisi che  avrei saltato alcune fermate della metropolitana e fatto  una passeggiata. Faceva freddo, ma avevo voglia di cam minare. Solo fino al giorno prima mi sentivo a pezzi, in  quel momento invece ero in gran forma. Passai davanti a  una caffetteria e il profumo di cioccolato e cialde al cara mello per poco non mi fece svenire, ma dovevo resistere.  Mi era stato proibito di mangiare e bere prima dell’esame.  Varcai l’ingresso e andai al banco informazioni, dove mo strai il foglio con gli esami prescritti dal medico. «Terzo piano, sala A», disse un’infermiera. 

Mi affrettai a prendere l’ascensore e, raggiunta la  sala d’attesa, presi il numero dall’apposita macchinetta.  Ero il quarantadue. Accidenti! pensai. Passerò tutta la mattina in  ospedale. Lo schermo in alto era fermo al numero ventuno.  Ero rassegnata a stare in fila, quando apparve un’infermiera. «I numeri dal trentacinque in poi vengano da questa  parte. Eseguiremo gli esami nella sala B». Mi si illuminarono gli occhi e mi affrettai a obbedire  insieme ad altre sette persone. «Trentacinque?». Un uomo alzò la mano e la seguì dentro una stanza  mentre il resto di noi prese posto a sedere. Guardai il cellulare. Erano quasi le otto e mezzo. 

Bene, con buone probabilità alle nove sarò già al centro benessere.  Appena uscita dall’ospedale avrei chiamato per prendere  un appuntamento, anche se volevo proprio fare una sosta  alla caffetteria che avevo visto poco prima; magari avrei  potuto fermarmi solo pochi minuti, giusto per una ciambella al volo. 

«Che fortuna!». Una giovane ragazza si era appena  seduta vicino a me. «Come, prego?», dissi. «Ho detto che abbiamo avuto fortuna! Ora che siamo  in un’altra sala con poche persone finiremo in fretta». Rimasi un attimo in silenzio, poi le risposi: «Sì, è vero».  «È assurdo che non mettano a disposizione più infermieri per eseguire dei semplici esami di routine, non crede?»
«Sì, infatti».
«E pensi a quelle povere persone che lavorano pure  il sabato. Sacrificare mezza giornata per cinque minuti, il  tempo di un prelievo!». Rimasi a fissarla, piuttosto confusa. Il suo volto.  Era impressionante, quanto eravamo simili!

Avevamo  entrambe la pelle ambrata e lineamenti afroamericani.  Io li avevo ereditati da mio padre. Tuttavia avevo anche origini italiane: mia madre era nata e cresciuta a  Vicenza, dove aveva conosciuto mio padre, all’epoca arruolato nell’esercito degli Stati Uniti. Al termine della trasferta, mia madre aveva deciso di seguirlo e così si erano  trasferiti a New York dove lei, passo dopo passo, aveva  fondato la sua impresa di pulizie. L’aveva venduta pochi mesi prima e mio padre era andato in pensione dall’esercito da ormai un anno, così avevano deciso di fare un viaggio in Italia per andare a trovare parenti e amici. 

Chissà, forse anche la ragazza seduta al mio fianco ave va origini simili alle mie. I capelli neri e ricci poggiavano  sulle spalle a entrambe. L’unica cosa che ci distingueva era  il colore degli occhi.

I miei erano marroni, i suoi erano  verdi e avevano qualcosa di familiare. «Sono alla ricerca di un impiego. Mi sono trasferita a  New York da poco. Amo questa città! Non mi sembra  vero di essere qui». Nonostante la nostra somiglianza mi avesse scosso,  mi sentivo a mio agio. Avevo l’impressione di conoscerla.  Di solito ero restia a parlare con gli sconosciuti, anche di  cose minime, ma con lei sentivo di poterlo fare. 
«E che tipo di impiego cerchi?» 
«Non saprei con certezza. Di sicuro mi piacerebbe  lavorare nella moda». 
«Quarantuno?». 
«Oh, sono io», disse la ragazza, e si alzò. Non mi ero accorta che nel frattempo la sala si era  quasi svuotata. «Signorina, è lei il numero quarantadue?», chiese una  robusta infermiera dai capelli biondi. Risposi di sì e mi invitò a seguirla. Mi chiese poi di  tirarmi su la manica del braccio sinistro. Eseguivo come  una brava alunna tutte le sue richieste, sperando facesse  presto, e nel frattempo continuavo a pensare all’incontro  appena avvenuto. Mi era sembrato di rivedere me stessa dieci anni prima. Quella ragazza mi aveva incuriosito e  volevo continuare a parlarci. Quando uscii dalla stanza, la sala d’attesa era vuota.  Mi diressi agli ascensori, ma davanti alle porte non c’era  nessuno. Arrivai al piano terra e mi avviai verso l’uscita.  La ragazza sembrava sparita nel nulla.

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