Tre scrittori.
Un tema comune.
Tre stili diversi.
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Racconti brevi scritti appositamente per l’evento Wanted Stories e in questa serata il tema su cui gli scrittori si sono cimentati è QUESTA È GUERRA.
Linda Moon
C’è qualcosa di diverso nell’aria quella mattina, ma Francesco non ci fa molto caso. Ha solo un pensiero nella testa: incontrare la S dai capelli biondi e gli occhi azzurri come il fondo dell’oceano.
Al risveglio, ammira l’imponente Torre Eiffel dal suo balcone, poi esce di casa e si avvia lungo il viale principale, passando davanti al Teatro Olimpico in una ridente Vicenza. Cammina fino allo Starbucks su Madison Avenue, poi entra al Guggenheim per vedere se all’ingresso trova la sua amica F e la vede porgere alcuni dépliant a un giovane gruppo di visitatori, vestita nell’austera uniforme nera che prende colore solo grazie ai lunghi boccoli rossi. Non appena i loro occhi si incrociano, lei gli regala un immenso sorriso.
«Ciao Francesco, che cosa ci fai qui?».
«Ho pensato di passare a salutarti visto che ero nei paraggi. Volevo sapere come stavi».
«Grazie, che bel pensiero hai avuto! Sto bene e vedo che stai bene anche tu. Dove stai andando?». «Pensavo di fare una passeggiata e magari andare da S per chiederle se vuole farmi compagnia». F si morde il labbro curiosa, e si fa più vicina, abbassando il tono della voce. «Allora è una cosa seria? Pensi che le chiederai di fare coppia?». Francesco arrossisce e distoglie lo sguardo altrove. «Che stupida! Scusa, non sono affari miei. Ti auguro una buona giornata, Francesco e non smettere nemmeno per un secondo di credere in te stesso!», e lo abbraccia forte.
Il ragazzo riprende a camminare e raggiunge prima Piazza dei Signori, poi osservando le varie vetrine dei negozi, attraversa Corso Palladio e mentre si ritrova in Piazza Castello, proprio di fianco al Torrione, prende in mano il telefono per cercare il numero di S ma si sofferma su quello di O pensando che forse dovrebbe chiamarlo, ma viene interrotto da una cascata di petali bianchi: i ciliegi in fiore sono scossi da una grande folata di vento che crea un’atmosfera surreale e magica. Tokyo non lo delude mai. «Francesco, che sorpresa trovarti qui!», esclama S – un’altra S – che gli va incontro e lo abbraccia. Il ragazzo sorride, è felice di vederla, ma lo diverte vedere ogni volta l’abbigliamento dell’amica che è tutto fuorché formale. Indossa un abito con una fantasia di fragole e ciliegie su una base rosa antico. Delle calze color vinaccia e scarpette rosse brillanti, proprio come quelle di Dorothy nel film Il mago di Oz.
«Ti stavo proprio pensando, sai. E stavo proprio venendo a cercarti. Che fortuna averti trovato lungo la strada!».
«Come mai volevi vedermi, che succede?». S gli sorride, i corti capelli castano chiaro e una frangetta perfetta incorniciano un piccolo ovale dalle guance rosee che le regalano un aspetto fanciullesco. Tutto in lei trasmette una forte sicurezza.
«Stavo per chiamare O, volevo sentire come sta». S sbuffa visibilmente scocciata, poi prende Francesco sottobraccio e gli chiede di accompagnarla a fare una passeggiata lungo gli Champs-Elysées per recuperare la bicicletta lasciata a casa di A la sera prima. Le sue piccole scarpette rosse calpestano un pavimento di foglie secche. «Su dai, ogni tanto devo chiamare O per sentire come sta», dice Francesco ma lei non risponde e si limita a guardarlo come fossero immuni a qualsiasi male, persino alle spiacevoli notizie.
«Sai, volevo cercare S per chiederle di uscire. È inutile nasconderlo, ci frequentiamo da un po’ di tempo e vorrei approfondire il nostro rapporto». Francesco parla senza quasi riprendere fiato. Sa che se non lo dirà ora a voce alta, non lo farà più e cerca l’espressione di S per capire se approva, ma lei non lo degna di uno sguardo, fissando le foglie secche ai loro piedi. Poi si blocca e senza dargli il tempo di chiederle cosa abbia, si ritrova a dirgli: «Io e A stiamo insieme!». Non ha il coraggio di guardare in faccia Francesco e quando realizza ciò che ha detto, porta le mani alla bocca, trattenendo le lacrime. «Sono contento per voi, davvero!». S si volta verso di lui e lo analizza per capire se stia mentendo, ma poi gli sorride e a quel punto una lacrima cede e corre lungo la sua guancia fino a sotto il mento. Francesco si affretta ad asciugarla, poi appoggia le mani sulle sue spalle. «Non hai mai smesso di dirmi che devo essere sicuro di me stesso e che devo seguire il mio istinto. S, se hai trovato una persona che ti ama non dovresti dubitare nemmeno per un istante di te stessa. L’amore è amore, anche tra lo stesso sesso. Non c’è alcuna vergogna», e le stampa un bacio sulla fronte mentre piccoli fiocchi di neve cadono dal cielo, ricoprendo in pochi minuti i verdi giardini di Central Park a New York.
Quando Francesco è di nuovo solo, riprende il telefono, ma prima di chiamare S prova a cercare O che gli risponde dopo solo due squilli. «Ciao O, come stai?». Dall’altra parte una voce maschile risponde con un colpo di tosse che pare più simile a un grugnito. «Dimmi, cosa c’è amico?».
«O è tutto a posto? Stai bene?».
«Sì, va tutto bene, amico. Dove sei?».
«Sono al lago d’Iseo, ti ricordi quando ci siamo stati tanti anni fa?”. Francesco non aggiunge altro, sa che ha fatto toccato il tasto giusto per metterlo a suo agio. “Caspita Francesco, che ricordi… non ci pensavo da tempo. Sai, sto sistemando la motocicletta, la voglio rimettere in pista al più presto, proprio come i vecchi tempi… mi mancano quei tempi…». Francesco sorride solo con le labbra, gli piace sapere O felice, cosa non facile. Tutto a un tratto, però, O gli fa una domanda. «Amico, che cosa vuoi sapere?». Il ragazzo si scosta dallo schienale e mentre sta per rispondere si guarda attorno stupito: non si è accorto di essere in metropolitana e in un attimo è in piedi, pronto a scendere alla prima fermata scoprendo in pochi secondi di trovarsi nel centro di Barcellona. È davvero sorpreso di trovarsi lì e cammina a testa bassa, quello non è un bel ricordo e una strana sensazione riaffiora scaldando il suo petto.
«O, che cosa hai fatto?».
«Amico, è tutto a posto. Non ti devi preoccupare. Sono successe tante cose, ma è tutto sotto controllo». Il tono di O è esitante e Francesco intuisce che è successo qualcosa a sua insaputa e ne ha la conferma quando si ritrova a camminare lungo la strada Rambla di Barcellona. È ancora in quel paese, ancora in uno spiacevole ricordo.
«O, devi dirmi che cosa hai fatto!».
«Amico, abbiamo vissuto troppe delusioni, ricevuto troppi no. La vita ci ha trattato molto male e non ho saputo trattenermi…».
«Non dovevi fare niente! Dannazione, a volte sei così testardo! Lo sapevi che è un momento molto delicato della nostra vita, sai che può accadere l’inevitabile da un momento all’altro. Avevamo solo bisogno di tempo per riprenderci e lasciarci il passato alle spalle. Vieni subito qui e porta con te P, so di certo che ti ha traviato con le sue assurde congetture».
«Va bene, la sveglio e ti raggiungiamo. Dove sei?». Francesco si guarda attorno per confermare la sua posizione, ma non sa più dove si trovi e un’esplosione improvvisa lo paralizza. L’ambiente muta di continuo, non capisce più dove si trovi. Davanti a lui il cielo passa da una sfumatura giallo arancio di un tramonto, all’oscurità di un cielo senza stelle, fino a un panorama grigio e nuvoloso, ma non appena una folata di vento si avvicina, intravede una città sconosciuta che sta letteralmente collassando. L’aria è pesante, sa di corpi bruciati e raggiunge le narici di Francesco che porta il braccio al viso per proteggersi. Si guarda attorno, confuso, e quando alza lo sguardo verso un grattacielo colpito da un aereo, il suo corpo si fa di ghiaccio e non riesce più a muovere un muscolo. A è aggrappata al bordo di una finestra e penzola nel vuoto.
«Tieni duro A, sto arrivando», e scatta veloce verso l’edificio, nonostante al fondo sia travolto da un’enorme nuvola di polvere. La gente scappa nella direzione opposta alla sua, le auto frenano all’improvviso. Più corre e più sente le urla disperate di A che lo implora di aiutarla ma più corre, più gli sembra di non avvicinarsi, come se corresse sempre sullo stesso punto. Le urla di A si fanno sempre più strazianti e quando un uomo appare davanti lei, implora Francesco di fare qualcosa, ma lui non riesce a reagire. Sente il corpo farsi pesante, come se una forza invisibile lo stesse trattenendo. Urla contro quello sconosciuto che cerca di buttare A giù dal palazzo. Urla così forte che la voce inizia a mancargli, e non emette alcun verbo, nemmeno il minimo rumore, quando vede la ragazza precipitare nel vuoto. Francesco cade sulle ginocchia, la gola soffocata da una morsa di dolore, le lacrime che escono a singhiozzi. Tutto attorno a lui sta crollando.
Corre senza fermarsi, vuole trovare la S dell’appuntamento, deve trovarla assolutamente. Corre lungo una strada trafficata di una città sconosciuta. Le auto lo evitano quasi avesse il potere di scansarle, ma poi il caos prende il sopravvento e si ritrova sbalzato in aria e quando cade a terra, attorno a lui l’ambiente è completamente diverso. Si solleva a fatica, la testa dolorante. È in una chiesa, nel mezzo di una navata. Il silenzio è inquietante, come se di lì a poco dovesse accadere un’altra catastrofe.
«Francesco!». Una voce lo attira alla sua destra e due ragazze gli vanno incontro. I loro vestiti sono sporchi, il trucco è rovinato, gli occhi lucidi e spaventati. Sono F e S, la ragazza dai boccoli rossi e quella dalle scarpe rosso brillante. “Ragazze, state bene?”. Francesco appoggia una mano sulla spalla di ognuna, visibilmente preoccupato. Loro annuiscono ma è evidente che siano sconvolte. «Francesco, che cosa succede? Dovevi avere tutto sotto controllo!», gli urla contro F. «Dobbiamo trovare S. Dove dobbiamo andare? Qual è il ricordo? Qual è il ricordo per trovarla?».
«Rimanete qui fino al mio ritorno, non uscite per nessun motivo, va bene?». Le ragazze, nonostante siano terrorizzate, annuiscono, ma poi si ritrovano a urlare quando avviene un’altra esplosione. Il tetto della chiesa inizia a sgretolarsi, qualche vetrata va in frantumi, poi delle urla interrompono quel momento drammatico. «Lasciatemi, lasciatemi! Francesco aiutami!», urla S mentre degli uomini la trascinano a forza verso il fondo della chiesa. Francesco cerca di raggiungerla, ma poi F urla dalla parte opposta mentre viene trascinata per i capelli. Francesco non sa cosa fare, non sa chi aiutare. E non fa in tempo a reagire perché la chiesa crolla letteralmente sopra la sua testa e quando riapre gli occhi, si ritrova davanti a un immenso prato verde e, al margine di un bosco, vicino a un ponte, vede finalmente la S che attendeva di incontra sin dal suo risveglio e corre verso lei come un fulmine.
«S, dobbiamo andare via da qui, dobbiamo trovare un ricordo sicuro», le dice non appena la raggiunge, ma lei non si muove. Sembra priva di emozioni, come se la sua mentre fosse. «S, ti prego, dobbiamo sbrigarci prima che ci trovino e sai che non possono trovare te, sei l’unica che ci può salvare». Francesco non comprende il suo silenzio, ma è deciso a portarla via da lì per raggiungere un ricordo sicuro. Le tende la mano e fa un passo avanti ed è in quel momento che il legno sotto di loro scricchiola e all’improvviso si spezza come se qualcuno lo stesse abbattendo con forza. S non reagisce e si lascia inghiottire dal vuoto che si crea ai suoi piedi, ma Francesco riesce ad afferrarle un polso.
«S, non ti lascio andare, non preoccuparti. Aiutami a sollevarti… S, ti prego…». La ragazza lo fissa, i suoi occhi di un intenso azzurro lo osservano come se stesse facendo qualcosa di sbagliato e con sorpresa di Francesco, lei avvicina l’altra mano per liberarsi dalla sua presa. «Lasciami andare e vieni giù con me, non abbiamo alternativa. Troveremo una soluzione, non avere paura. Affronteremo questa guerra e ne usciremo più forti di prima…». Francesco le allontana la mano con rabbia, le urla contro, la obbliga a tirarsi su, ma S non cede e inizia anzi a essere più insistente nel tentare di liberarsi.
«Non farlo! S, ma che ti prende? Perché vuoi farci morire?», chiede sconvolto, ma la ragazza non risponde e in pochi istanti si libera dalla presa e precipita nel vuoto, ma non prima di trascinare con lei Francesco e in un fitto banco di nebbia, sono solo le sue urla l’unico rumore che rimbomba nonostante la guerra in atto.
In un letto d’ospedale, un uomo che riporta gravi ferite in seguito a un tentato suicidio, lotta tra la vita e la morte. Una donna accanto a lui, la sorella minore, lo guarda sconvolta, le lacrime che ha pianto hanno seccato la pelle del suo viso. Non comprende come mai il fratello abbia tentato di togliersi la vita. Forse la fine della sua storia d’amore dopo molti anni, forse l’insoddisfazione lavorativa, forse i traumi irrisolti della loro infanzia con un uomo che non hanno mai concepito come padre. Vorrebbe avere delle risposte, ma prima di tutto vuole che Francesco si salvi.
Il Francesco di fianco al letto la osserva. È sfinito, deluso, amareggiato per ciò che è successo. Vorrebbe tanto che quella donna potesse sentire la sua voce perché le direbbe che le dispiace tanto, in quanto come io interiore ha fallito, non è riuscito a fermare Francesco dal farsi del male. E che lentamente F, che sta per fiducia, e S che sta per stima, sono state trascinate via con violenza. A come amore è precipitato nel vuoto, O come orgoglio e P come paura hanno fatto solo danni sulla base di inutili congetture e che la S che tanto cercava, ovvero la speranza, la ragazza dai grandi occhi azzurri, gli è scivolata via come forse la vita sta facendo con il fratello proprio ora. Anche se non può né vederlo, né sentirlo, quell’io interiore appoggia una mano sulla sua e le rimane accanto. Rimane così per diverse ore. Ore che diventano giorni. Ripete lo stesso gesto di continuo, il tempo scorre ma nulla cambia fino a quando, in un pomeriggio di sole, percepisce un’altra mano sopra la sua e quella della sorella e quando si volta, vede quei grandi e bellissimi occhi azzurri e in un lampo gli sovviene una frase: “Affronteremo questa guerra e ne usciremo più forti di prima…”.
Marco Simion
Antonio Francisco Jimenez da Silva, conosciuto col nome di Malatesta, si era laureato in Matematica e Astronomia alla prestigiosa università di Ciudad Bolivar, ma non aveva fatto uso del suo titolo di studio. Non per mancanza di capacità, sia inteso, dato che Antonio si era laureato col massimo dei voti.
Le vicissitudini personali e politiche del suo paese avevano fatto sì che Antonio da ormai quasi 25 anni vivesse in un remoto avamposto della civiltà nel mezzo della foresta, un paesino non segnato su nessuna mappa e lontano giorni e giorni dalle principali vie di comunicazione, fregiandosi dell’altisonante grado di Comandante Generale dell’Ejercito Rivolucionario del Pueblo, o ERP. Ma per quasi tutti ormai quella P nella sigla stava per Pacatì, il nome del loro piccolo villaggio.
E non potevano avere più ragione dato che quello che né Antonio Jimenez né i suoi compagni potevano immaginare era che nessuno si ricordasse più della loro esistenza. Molti anni prima il resto della guerriglia si era seduto al tavolo delle trattative col governo e si era giunti alla pace. Tutti i messaggeri che erano stati inviati a cercare la cellula ribelle per comunicargli la fine delle ostilità si erano persi nella foresta, avevano preso la dengue o semplicemente avevano lasciato perdere dopo essersi trovati per l’ennesima volta al punto di partenza. L’ultimo ex comandante rivoluzionario e poi deputato dell’Assemblea nazionale che conosceva l’esatta ubicazione del villaggio, Augustino Cardoso Rodriguez detto Cuba Libre, più per il cocktail che per le idee politiche, era morto in seguito a un eccesso di festeggiamenti per la sua terza rielezione.
Nonostante le circostanze eccezionali della sua fondazione e della sua non esistenza, la vita a Pacatì scorreva tranquilla. Questo fino a quel fatidico giorno in cui all’unica taverna del villaggio un bicchiere di troppo non aveva portato a quella sfortunata discussione che diede inizio a tutto.
“Alejandra, la figlia del Lobo, è la più bella del villaggio, ma che dico di tutto il paese, non ci sono dubbi!” disse Carlos, che non aveva avuto ancora il coraggio di dichiararsi alla figlia del comandante nonostante le 42 lettere d’amore che le aveva scritto e che ormai intasavano il cassetto della sua scrivania. “Tu sei loco. Isabel, la figlia del Tiburon è molto meglio, tra una bionda e una mora non c’è proprio storia. E poi Alejandra mi sembra troppo secca, le si vedono le ossa, sei sicuro che non sia malata?” gli rispose Palmiro, che nel paesino esercitava al tempo stesso i mestieri di barbiere e di dentista, alle volte contemporaneamente. Quando Carlos gli tirò un pugno sul naso e la rissa si spostò nella piazza antistante intervenne tutto il paese per fermarli, ma giunti a conoscenza delle ragioni del contendere nessuno poté fare a meno di cominciare a discutere su quale tra le due ragazze fosse la più bella.
Dato che nei giorni seguenti le discussioni non accennavano a diminuire, tanto che alcuni in paese avevano cominciato a togliere il saluto a chi la pensava in maniera opposta alla propria sul tema, il Consiglio direttivo del Popolo decise di indire una riunione straordinaria, su istanza del Tiburon.
Il motivo per cui Guillermo Sanchez Molina fosse chiamato Tiburon, ovvero lo Squalo, era dovuto non tanto alla ferocia in combattimento, ma per un lavoro di odontoiatria fatto male dopo uno scontro a fuoco con le forze governative molti anni prima, che gli aveva lasciato un sorriso che preferiva non mostrare. Guillermo era un uomo estremamente divertente ma lasciava che a ridere fossero i suoi luminosi occhi verdi, per non sconcertare o spaventare i suoi interlocutori. Occhi verdi che aveva trasmesso alla sua bella figlia, Isabel.
“Compagni, lo so che la questione è frivola e assolutamente di poco conto, ma io non riesco più a vivere a casa mia. Mia figlia, sobillata da amiche, spasimanti ma soprattutto da sua madre, mi dà il tormento perché si stabilisca che lei è la più hermosa del paese. La mia risposta che agli occhi di suo padre lei è la ragazza più bella del mondo ha provocato un lancio di una pentola che quasi mi sistemava lo scempio che mi lasciato Palmiro in bocca”.
“Anche io non ne posso più. Continuo a ricevere, sotto la porta di casa, decine di lettere firmate da un certo “C.” che mi intimano che come uomo e come padre faccia valere le ragioni della grazia di mia figlia, e che tale “incontrovertibile verità” debba essere sancita da un Tribunale del Popolo” aggiunse il Lobo.
“E poi in paese la gente non si parla più, Paula non porta più le uova a Javier, e viceversa Javier si rifiuta di aggiustare la latrina di Paula, che ha strabordato in tutta la piazza. In una parola, compagni, siamo nella merda”.
“Organizziamo un concorso di bellezza, così tagliamo la testa al toro!” propose Spartaco.
“Un concorso di bellezza? Mi sembra una cosa decadente e borghese, e contraria ai principi rivoluzionari” obiettò Antonio Jimenez detto Malatesta.
“Beh, ci vai tu a parlare con mia figlia, se te la senti. Anzi, ti dirò di più, in quanto unico tra noi senza figli, dovresti fare il presidente della giuria”.
Nonostante le sue proteste, la mozione per l’istituzione del primo concorso di Pacatì per la miglior bellezza rivoluzionaria venne approvata con una maggioranza schiacciante, con l’unica opposizione di Malatesta, che ne fu eletto giudice contro la sua volontà.
Il paese si lanciò nei preparativi con una notevole foga e passione, come se non avesse aspettato nient’altro negli ultimi anni.
Il piccolo palco in cui venivano tenuti i comizi per il giorno della Libertà, a cui ormai partecipavano solo gli ex guerriglieri venne smontato, ingrandito e abbellito con fiori tropicali presi dal giardino di Ortencia o direttamente nella selva.
Con sorpresa di Antonio Jimenez, si iscrissero alla gara quasi tutte le ragazze del paese in età da marito, a parte quelle troppo timide per partecipare.
Non c’era dubbio tuttavia, che la vera contesa fosse tra Alejandra e Isabel. Nonostante le parole offensive di Palmiro, per il quale però spesso era più il rum che il cervello a parlare, Alejandra era un piccolo angelo di 17 anni, con i capelli biondi che le cadevano sulle spalle a incorniciare un viso delicato, due occhi azzurri e un sorriso all’apparenza dolce e innocente, ma che forse stava indossando in quel giorno a beneficio della giuria al pari del suo vestitino azzurro a fiori.
Isabel invece aveva un carattere ben più acceso e lo dimostrava con una veste più corta, totalmente bianca e ricamata, simile a quella che tante volte indossato sua madre, la leggendaria Asuncion, da cui aveva preso la splendida pelle quasi d’ebano, i ricci e le labbra carnose. Il Tiburon, come già sappiamo, le aveva donato i suoi scintillanti occhi verdi e una collana di pietre di fiume che aveva messo insieme durante le tante volte che si era assentato da casa per “andare a pesca”, diceva lui. Al vederla gli adulti ebbero un colpo al cuore. Non pochi si erano un tempo innamorati perdutamente di sua madre, per poi doversi mettere l’animo in pace quando lei aveva scelto Guillermo. Seduta in un angolo tra il pubblico, coprendosi dal sole con un ombrello, Asuncion si godette l’effetto che l’entrata in scena di sua figlia fece sui Pacatini, e cercò di ricordare mentalmente quali dei suoi concittadini che ora non riuscivano a staccare gli occhi da sua figlia erano stati un tempo suoi spasimanti. Madre e figlia si scambiarono uno sguardo d’intesa, sicure della vittoria.
Quando le due ragazze sfilarono l’una accanto all’altra per montare sul palco e Alejandra fece un piccolo sgambetto a Isabel, che quasi non scivolò sugli scalini, il brusio della folla diventò un vocio di indignazione e volò qualche epiteto non proprio galante all’indirizzo della figlia del Lobo. “Zitti, zitti, compañeros, oggi non voglio scorrettezze” disse Malatesta. “Temo dovrò darti una penalità, Alejandra, e scusati subito con la tua compagna”. Non fece a tempo a rialzare la testa dopo aver aiutato Isabel a salire le scale che il suo sguardo fu catturato da una delle ultime ragazze in fila che stavano percorrendo la piazza verso il palco. Aveva una veste semplice del colore della terra matura e delle foglie, chiusa sul fianco da delle piume di pappagallo, usate a mo’ di decorazione. I suoi lunghissimi capelli neri scendevano fino alla fine della schiena e scintillavano al sole. I tratti del viso gli ricordavano un po’ quelli degli indios Pacà, da cui il pueblo aveva preso il nome. Ma c’era in loro anche qualcosa di indefinibile, che sfuggiva ad Antonio Jimenez. A guardarne il corpo aggraziato avrebbe potuto avere intorno ai 25 anni, ma quando incrociò i suoi scurissimi occhi neri, Antonio ebbe un dubbio e non ne fu più così sicuro. L’unica cosa di cui era sicuro era che quella ragazza non aveva mai posato piede nel villaggio e soprattutto che Malatesta non aveva visto mai ragazza più bella nella sua vita, nonostante avesse frequentato gli studi superiori nella capitale e prima di darsi alla macchia avesse viaggiato in tutto il paese, dalle città della costa ai villaggi sui monti. Mentre le ragazze si presentavano, Antonio dovette essere più volte tirato per la manica della camicia per ringraziare le ragazze e dire qualche parola di convenienza. Si risvegliò solo quando fu il turno della sconosciuta.
“Come ti chiami?” le chiese “Il mio nome è Alma”. “Alma, e poi, qual è il tuo cognome?”. ”Alma e basta, il resto non è importante.” “E da dove vieni?”. “Ho sempre abitato qui.” “A Pacatì?”.”No, qui.” E nel dirlo fece il gesto di allargare le braccia guardando attorno a sé. “Ho saputo che c’era un premio in palio e mi sono incuriosita”. “Un premio?” si levò qualche voce dubbiosa tra i giudici e tra le partecipanti. Non si era mai parlato di un premio, ma solo di una corona di fiori con cui cingere il capo della vincitrice.
Malatesta sentì le proprie parole, quasi come se la voce non fosse la sua “Certo, c’è un premio…” Faticò a continuare la frase e cercò freneticamente un possibile dono da fare alla prescelta. Alla fine pensò di cavarsela con un all’apparenza innocente “La vincitrice avrà diritto a fare una richiesta, e noi la esaudiremo”. “Perfetto” rispose Alma “non c’è niente che una ragazza possa desiderare di più che scegliere ciò che vuole”.
Dopo di lei le ragazze rimanenti si presentarono e ognuna perorò la sua causa, le sue passioni e le sue qualità. Ma non appena l’ultima ebbe parlato, Malatesta non attese nemmeno un secondo e con dei movimenti febbrili, prese la corona di fiori che era appoggiata sul tavolo dei giudici e andò a posarla sul capo di Alma dichiarando a gran voce “Dichiaro Alma Di Qui la vincitrice del primo concorso di Pacatì per la miglior bellezza rivoluzionaria”.
Il viso di Alma si sciolse in un grande sorriso luminoso e guardò per alcuni lunghi istanti Antonio Jimenez negli occhi, e poi gli disse sottovoce “Il mio desiderio lo dirò solo a te, in confidenza”, dopodiché si alzò sulla punta dei piedi e gli sussurrò qualcosa nell’orecchio per un interminabile minuto.
Mentre la ascoltava Antonio Jimenez non si accorse del putiferio che si stava sviluppando intorno a lui. “E la gara di canto?” si lamentò Alejandra, “E la sfida di ballo?” gridò Isabel. “E le domande sulla storia e la situazione socio-politica?” chiese Patricia, che era la più attiva nella Gioventù Rivoluzionaria di Pacatì.
Dopo avergli detto quello che gli doveva dire Alma riguardò Antonio Jimenez negli occhi e lui fece un breve cenno di assenso con la testa. Lei gli prese il viso tra le mani e gli diede un delicatissimo bacio sulle labbra, che lasciò Malatesta completamente di stucco, e il comandante in capo di un esercito che non prendeva le armi da decenni si trovò ad arrossire come uno scolaretto.
Senza un’altra parola Alma scese dal palco e si allontanò a passi veloci ma leggeri, quasi stesse danzando. Solo in quel momento Malatesta si accorse che non solo non portava scarpe, ma non lasciava nemmeno orme sulla terra sabbiosa della piazza.
Mentre Antonio la guardava scomparire tra i fitti alberi fuori dal paese, intorno a lui scoppiò il finimondo. “Come hai potuto dare la corona a quella forestiera?” gli urlò in faccia Isabel. “Hai premiato la tua amante, dì la verità, Antonio!” lo accusò Asuncion. “Un’india poi, però notevole, devo dartene atto. Dove l’hai trovata?” disse il Lobo, in realtà segretamente ammirato dalla conquista del compagno. “È da lei che passi le notti quando dici che vai a guardare le stelle?” scherzò il Tiburon. Ma la maggior parte delle persone riunite per il concorso cominciò a diventare aggressiva.
Antonio corse via a richiudersi nella sua casa di due piani, che fungeva al piano terra da municipio, mentre fuori le ragazze, le madri e gli altri esagitati gli gridavano di tutto, di essere un venduto, di avere votato con una parte del corpo diversa dalla testa, che quella parte del corpo ce l’avesse AL posto della testa, e altre cose francamente irripetibili. In una cosa però era riuscito Antonio: il paese si era riappacificato e ora ce l’avevano tutti con lui.
Per quattro giorni e quattro notti gli improvvisati manifestanti si accamparono sotto casa sua, battendo le pentole e urlando frasi volgari, dandosi il cambio per non farlo dormire. In mezzo ai cartelloni che parlavano specificamente del concorso c’era chi chiedeva nuove elezioni per un nuovo comandante. In altri momenti Malatesta sarebbe stato molto preoccupato di questa rivoluzione dei rivoluzionari. Ma non in quel momento: la sua testa era assorbita dalla richiesta fattagli da quella ragazza: “Io ho tutto quello che questa foresta possa offrirmi. Ascoltami bene perché quello che desidero è una cosa sola. E finché non me la porterai io mi terrò in pegno il tuo orgoglio e il tuo buon nome. Per trovarmi basta che tu segua la croce del Sud per 7 giorni di cammino”. Per tutti i quattro giorni e le quattro notti si arrovellò su quella richiesta finché all’alba del quinto giorno non ebbe un’illuminazione. A quel punto ruppe uno degli specchi della casa e con una punta lo incise per ricavarne una lente più grande. La lavorò a lungo con gli strumenti che si era portato in mezzo alla selva dal suo vecchio laboratorio, prima che l’Università venisse attaccata dall’esercito regolare. Quando venne il tramonto le montò davanti al suo telescopio, che era fissato sul tetto, nel lato che dava sulla foresta e aspettò che una grande Luna spuntasse all’Orizzonte, dopodiché fissò al telescopio la sua fotocamera, ci mise una lastra cosparsa di sali d’argento, e quando tutto fu a posto scattò.
Corse a portare la lastra nella camera oscura che aveva approntato nel suo piccolo bagno. Quando ebbe una fotografia chiara la pose ad asciugare sopra la vasca e nel frattempo mi mise a preparare febbrilmente l’equipaggiamento per una spedizione nella selva. Si mise la sua divisa mimetica e recuperò foto, zaino, un fucile, un machete e un arco con frecce avvelenate e scese di nascosto lungo il ramo di un albero di cacao che arrivava fino alla sua finestra.
Attraversò la palude malarica che circondava da un lato il villaggio su una canoa che teneva ormeggiata per andare a pescare, evitò i caimani e i morsi dei serpenti, cacciò con l’arco un pacari che macellò e arrostì vicino al fuoco del bivacco. Centrò col fucile giusto in tempo 2 giaguari che al quarto giorno avevano deciso che lui sarebbe stato il loro prossimo pasto. E ogni notte tirava fuori un piccolo cannocchiale per controllare il percorso. Alla fine del sesto giorno si fermò a riflettere sulla follia di essersi avventurato nella foresta senza nessuna indicazione vera e propria, dietro a un’illusione. Eppure la mattina dopo, dopo 3 ore di cammino, si trovò in una piccola raduna in cui al centro c’era una capanna fatta di rami d’albero e col tetto di foglie. Al posto della porta c’era una tenda. La spostò leggermente, dentro non c’era nessuno, ma vide la corona di fiori, intatta, appoggiata sopra il letto e capì di essere arrivato. Uscì dalla tenda e si guardò intorno spaesato quando sentì il rumore dell’acqua e in lontananza una voce melodiosa che cantava. Appoggiò le sue cose all’ingresso della capanna e si avvicinò senza fare rumore. Le parole erano quelle di una vecchia canzone tradizionale indigena, l’aveva già sentita altre volte. E quando spostò un ramo la vide. Era di schiena, e l’acqua le arrivava fino alla vita, mentre i capelli la coprivano completamente e arrivati al fiume si diffondevano attorno a lei come in una corona. Si girò all’improvviso ed era ancora più bella di come la ricordasse, con l’acqua che le scendeva dal viso lungo il petto e fino al ventre piatto. Antonio fece un salto quando lei gli rivolse la parola “Non è educato entrare a casa altrui senza annunciarsi”. Uscì dall’acqua e si infilò sopra la testa una piccola tunica verde che allacciò su un fianco. “Ma ti ho invitato io, percui ti perdono, Antonio Francisco Jimenez da Silva, detto Malatesta”. C’era stata una risata alla fine di quell’ultima frase, eppure non sembrava la voce di una venticinquenne, ma di una donna molto molto più matura. “Perdonami per l’intrusione ma sono venuto a portarti ciò che mi hai chiesto”. Lei scostò un ramo e sbucò nella radura, si avvicinò a lui, gli diede una carezza sul viso e poi gli prese la mano. “Vieni, parliamone all’asciutto”. Entrati nella capanna Antonio le parlò, fermandosi in piedi davanti a lei: “Tu mi hai chiesto una sola cosa l’ultima volta che ci siamo visti. Ho passato tutti questi giorni a chiedermi chi tu fossi veramente, cosa tu fossi veramente e ho deciso che in effetti non mi importava, volevo solo darti ciò che volevi.” Antonio tirò fuori un panno colorato chiuso con un nastro colorato rosso fuoco e lo diede ad Alma. Con le sue dita affusolata lei sciolse il nodo e ne tirò fuori la grande foto che Malatesta aveva avvolto in un panno sette giorni prima, affissa in una cornice argentata come fosse un quadro. Quello che vide la sorprese molto, e c’erano poche cose di questo e dell’altro mondo che potessero sorprenderla. “Mi hai detto che volevi la Luna, e io te l’ho portata”. Alma sorrise compiaciuta. Mise una mano sul letto e fece cenno a Malatesta di sedersi “Sei stato furbo, lo devo ammettere. Non pensavo poteste fare queste cose, è la prima volta che lo vedo. E io sono qui da molto molto tempo. Però credo di essermi spiegata male, quello che volevo davvero è che tu mi raggiungessi e che mi dessi Luna. Sarà così che chiameremo nostra figlia.” Si alzò, lo baciò appassionatamente e lo trascinò sul letto, dove la passione li travolse definitivamente. Una passione che era pari alla fame di chi ha subito una carestia, alla sete di chi ha sofferto la siccità, una pulsione che non lasciava scampo ad altre urgenze o bisogni.
Si rialzarono da quel letto un mese dopo e fu solo dopo 8 mesi che Antonio ritornò al villaggio, in compagnia di Alma, quasi alla fine della sua dolce attesa.
Il resto di Pacatì, a rivedere lui e la radiosità irraggiata da Alma pianse di gioia. Dopo la sua scomparsa, dopo settimane di ricerche tutti l’avevano dato per morto, pentendosi di averlo insultato e credendo di averlo cacciato per una ragione tanto futile.
Era stato persino organizzato vero funerale rivoluzionario ed eretta una tomba all’eroico “Comandante Malatesta, amico fedele, stella dell’avvenire”.
Quella sera venne organizzata una grande festa in onore di Antonio e di Alma. A un certo punto la bella india si alzò in piedi, prese un bicchiere di tequila e disse “Care abitanti di Pacatì, so che la prima volta che mi avete visto avete pensato brutte cose di me e mi avete chiamato con nomi irripetibili – guardò Alejandra e Isabel, che diventarono viola – ma io sono qui per dirvi che queste cose sono nel passato e ringraziarvi di avermi riaccolto qui come io ho accolto voi tempo fa – e qui qualcuno si guardò interrogativo – E soprattutto ringraziarvi di avermi portato Antonio, che sta per prepararsi alla battaglia più difficile della sua vita: l’avere una figlia”. Asuncion e alcuni altri si domandarono come fosse sicura che sarebbe stata una bambina ma in generale la maggior parte non ci fece caso e tutti brindarono allegri.
Quando dopo un paio d’ore ormai tutti erano ubriachi o addormentati nessuno si accorse della scomparsa di Alma, che aveva preso uno scalpello e un martello dalla cassetta degli attrezzi.
La ritrovarono la mattina dopo, sorridente, nel piccolo cimitero del paese, che reggeva tra le braccia una splendida bambina, nata di fronte a una lapide a cui la madre aveva aggiunto da poco “All’uomo, amante e padre che rubò la Luna e visse due volte”.
Alberto Sartori
Prima di uscire dalla metropolitana mi fermo alla nuova macchinetta che il comune ha installato da pochi giorni. È una sorta di mini jukebox che stampa brevi racconti e poesie. Basta premere il bottone rosso e non serve nemmeno inserire una monetina.
Vediamo cos’ha in serbo per me oggi.
Prendo il fogliettino, simile ad uno scontrino, e mi immergo nella lettura:
“Gli anni che non passano
mi guardo alla rovescia
Pensieri già bagnati
ed un anima che striscia
Su una lastra a fil di vetro
crepata dai ricordi
E Dio che mi sussurra:
“Stringi i denti, Mordi!”
Vedo il solito bambino
con le mani sul passato
Non le stacco, non le smuovo
Non le unisco, non le sbatto
Cerco sempre posti nuovi
orizzonti di velluto
E le notti se ne vanno
come in un film muto
Sembra un’ombra maledetta
Questo scampolo di vita
Ti sormonta a piedi pari
Si nasconde tra le dita
Non afferri quei momenti
Attimi bastardi
E Dio che ti sussurra:
“Stringi i denti, Mordi!”
Con quei denti un po’ affilati
di chi ha avuto troppa fame
Stacco il cuore alle persone
Sembra un bel tozzo di pane
Non darò ancora fiato
a quei placidi momenti
Di occhi lucidi, appannati
Occhi viola, occhi spenti”
“Wow!” esclamo a voce alta. Rimango proprio senza parole. Non c’è nemmeno il nome dell’autore. Sarà un povero sconosciuto di provincia ma ha scritto davvero delle rime splendide.
“È ora di rincasare, Martina.” mi dico da sola.
Immersa nei miei pensieri neanche mi accorgo del tempo che passa. In un attimo mi ritrovo davanti al mio appartamento. Cerco di infilare la chiave nella serratura ma è così dura. Cavolo avevo messo giusto sabato scorso un po’ d’olio. Piano piano riesco a girarla e ad aprire la porta ma appena la levo mi si incolla tra le dita.
“Eh no. Adesso installo una telecamera sul pianerottolo.” esclamo ad alta voce, noncurante della signora Angela che dal piano di sotto sbircia tra le fessure della ringhiera sulle scale.
Rientro in casa con della sana rabbia in corpo dopo aver ripulito la toppa della serratura e mi fiondo al PC per ordinare subito una di quelle microcamere wi-fi che posso seguire dal telefonino. “Il tuo ordine verrà consegnato entro stasera.” è la conferma che compare sul monitor.
“Maledetta, l’attack dentro la serratura te la potevi risparmiare!” grido tirandomi i capelli come una pazza.
È da mesi che regolarmente la mia vicina di casa, una tale Ginevra, mi ha apertamente dichiarato guerra. Ogni sera rientro da lavoro con il terrore di vedere cosa la sua fantasia possa aver espresso. È iniziato tutto con la posta giornaliera. Aspettavo una lettera dalla banca con il nuovo PIN del bancomat. Ho trovato la busta davanti alla mia porta d’ingresso, solo che…era stata siliconata al pavimento.
Ho dovuto aprirla lì dov’era e poi raschiare sul marmo quello che ne era rimasto.
“Ma io non sono una tipa vendicativa!” mi ero promessa. Ed invece…
Qualche giorno dopo ho preso le pantofole che aveva lasciato, per suo grave errore, appena fuori dalla sua porta blindata e, insomma, le ho bruciate lì dov’erano. Sembravano così carine tutte nere ed avvizzite con la marca che era diventata Deca invece che De Fonseca.
E per settimane e settimane, ogni giorno era buono per la nostra guerriglia. La battaglia di “Pianerottolo” l’avevo soprannominata.
Proprio ieri l’ho incrociata mentre scendevo le scale ed ha avuto anche il coraggio di sorridere e salutarmi: “Buongiorno, Martina.”
Quanto avrei voluto schiaffeggiare quel suo bel visetto così candido, senza nemmeno una ruga, così pulito e innocente agli occhi, degli altri!
Ma in fin dei conti non ho uno strazio di prova, con la telecamera finalmente potrò incastrarla e pagherà per tutto quello che mi ha fatto. Non riesco ancora a dimenticare quella volta che ho trovato il gatto praticamente imbalsamato. Aveva due metri di gavetta avvolta attorno al corpo e solo la testa rimaneva fuori da un sacchetto di plastica.
Povero Lemon.
Ma l’ho subito “vendicato”. Fa un po’ schifo ma ve la devo raccontare. Ho accorciato qualcuna delle mie unghie e fatto un bel mucchietto. Il mattino seguente il panificio del paese ha lasciato sopra alla sua cassetta della posta il pane fresco. Che buono vero? Con i pezzetti d’unghia che riempiono la mollica è stato ancora meglio, vero Ginevra?
“Bling” i ricordi sono interrotti dal campanello, quello che si trova al piano terra del palazzo.
Scendo di corsa le scale passando di fianco alla vestaglia bianca della signora Angela. Anche la signora Angela era dentro alla sua vestaglia ma faccio finta di non vederla, sembra un fantasma. Rischierei di non dormire più stanotte.
“Buongiorno Signora Martina, ho un pacco per lei.”
“Signora un paio di…” ma lo penso solamente. “Grazie Signor postino.” ed in un amen torno su.
Non voglio perdere tempo. La consegna è stata davvero super rapida, il centro smistamento si trova a neanche 200 metri da casa mia.
Frugo nei cassetti in cucina e prendo del biadesivo, uno di quelli che nella pubblicità ti promettono una tenuta per nove vite, e con un pezzetto incollo la telecamera sopra lo stipite della mia porta d’ingresso. Questo piccolo dispositivo è dello stesso colore dell’intonaco, si mimetizza alla perfezione. Cerco le istruzioni e dopo Cinese, Arabo, Suaili, finalmente ecco l’italiano.
In un attimo è già configurata e pronta a trasmettere.
Mi sdraio sulla penisola del mio divano arancione e resto incollata allo schermo del telefonino come se stessi guardando il film più epico della storia.
Non mi rendo conto del passare delle ore, come fossi ipnotizzata dalle immagini del pianerottolo. “Eccola, eccola.” mi sussurro da sola.
Ginevra è appena uscita dal suo appartamento e tiene in mano una vecchia moka ancora fumante.
Oddio che pigiama orribile. Ma non posso soffermarmi su questi dettagli.
Tiene saldamente la caffettiera facendo molta attenzione a non versarsi il caffè sui piedi. Nell’altra mano trascina una piccola scala a tre gradini. “Cos’ha intenzione di fare?”
La vedo appoggiare la scala vicino alla mia porta. La sua mano cambia forma e rimango sconcertata mentre il suo dito medio è rivolto proprio verso di me, o meglio, verso il mio appartamento.
“Non vorrà versare il caffè bollente sopra alla telecamera?!?” mi chiedo allarmata.
“Adesso la colgo sul fatto.”
Lancio il telefono sul tavolino del salotto e corro in ingresso.
Giro la chiave e spalanco la porta in un nanosecondo.
“Che cosa stai facendo, Ginevra?” le domando con voce tranquilla, mi stupisco di non urlare.
“Volevo offrirti il caffè, Martina. Ti va?”
“Sì, sì, offrirmi il caffè. E cosa fai con il dito medio alzato al cielo?”
La vedo portare la mano molto vicino al viso, i suoi occhi si incrociano e la sento esclamare: “A dire il vero questo deve essere il dito indice, Martina. Ed era puntato dritto verso il tuo campanello.”
“Sì sì, come no, ti credo Ginevra. Pff. E la scala? Dai, smettila. Ho capito cosa volevi fare. Versare il caffè bollente sopra alla mia telecamera.”
“Quale telecamera?” e mi guarda inarcando le sopracciglia.
“Non prendermi per fessacchiotta. Quella telecamera!” ed indico la scatolina bianca sopra alla porta.
“Cosa interessa a me della tua telecamera, Martina? Dov’è? Non riesco nemmeno a vederla da qui. E poi la scala la devo portar giù in garage perché ho finito proprio oggi di tinteggiare.”
“Ma pensi che io sia scema?” mentre lo dico mi accorgo di aver girato la testa da un lato. Come quando da piccola parlavo al mio cagnolino e lui non capendo continuava a girare da una parte e dall’altra il suo musetto.
“Bhe sembri un po’ pazza stasera. Lo vuoi sto caffè o no? Volevo parlarti. Siamo vicine di casa da quanto? Saranno ormai tre anni. Non ci conosciamo per niente. Mai più di due parole in croce e… devo dirti una cosa.”
“Pazza a chi?” urlo prendendo in mano una ciocca di capelli e tirando forte.
“Mamma mia, Martina. Ti vuoi dare una calmata o no?”
“Perché dovrei calmarmi? Me lo spieghi? Dopo il gatto legato e messo quasi sottovuoto? E la busta incollata? Quella te la ricordi? Eh? E poi io dovrei calmarmi?” parlo senza guardarla, gesticolando e fissando punti a caso.
Mentre continuo infervorata con i miei movimenti nevrastenici, neanche la vedo appoggiare la moka per terra e prendere la mia mano tra le sue.
Io mi blocco all’istante. Non riesco a reagire. Il calore che mi trasmette ha un effetto calmante.
Rimaniamo più di un minuto ferme così, i miei occhi nei suoi.
Poi gli ingranaggi della mia mente riprendono il loro movimento e ritiro veloce la mano mettendola in tasca al sicuro. Ma è ancora piena del suo tepore.
Balbetto un: “Ch…che…che cosa volevi Ginevra?”
“Offrirti il caffè. E dirti una cosa.” risponde lei con un sorriso splendido.
“Allora avanti. Dimmi.” la rabbia se ne è completamente andata e non so nemmeno il perché. O meglio lo inizio a comprendere ma non riesco a metabolizzarlo.
“Ok, ho capito, di qui non ci muoviamo per cui niente caffè. Ma volevo dirti che anch’io qualche settimana fa ho installato una telecamera sopra alla mia porta d’ingresso. Ho avuto tempo solo oggi di guardare le registrazioni e sono subito corsa da te. Ho visto quando hai “acceso” le mie pantofole e non ti biasimo. Sai perché?”
“No, Ginevra, perché non sei arrabbiata? Io sarei furibonda.” le dico guardando all’insù.
“Ho capito cos’è successo. Pensavi fossi stata io ad impacchettarti il gatto, vero?”
“Certo che sei stata tu. Chi altri sennò?” ed un po’ di rabbia torna a salirmi dallo stomaco.
“No, Martina. Ti farò vedere i filmati se vorrai. È stata la signora Angela!”
“Oh mio dio.” Sono le uniche tre parole che riesco a blaterare. Che figura. Cos’ho combinato?
Ed io che pensavo che…
Ma è proprio nel pieno dei miei pensieri che lei mi prende di nuovo la mano tra le sue.
Questa volta anche le mie gote prendono calore.
I suoi occhi sono di nuovo nei miei.
Non riesco a muovermi.
La mia mente segnala: Stato confusionale.
Il mio cuore ripensa a quella poesia, così anonima quanto profonda, così dura e sprezzante verso la vita. Ma c’è una frase che non riesco a togliermi dalla testa: “Cerco sempre posti nuovi orizzonti di velluto.”
E finalmente ho trovato il mio.