LINDA MOON – È il bernoccolo più grande che abbia mai visto.
La mia collega è sdraiata su un lettino e riposa nell’infermeria adiacente alla sala prototipia, dove una dozzina di sarte sono impegnate a cucire capi d’alta moda. O forse dorme, addirittura.
Non ne ho la più pallida idea. Mi sono ritrovata a farle da guardia del corpo per puro caso: stavo andando a fare pipì, quando un altro collega mi ha chiesto di presidiare il locale. Senza avere il tempo di chiedere spiegazioni, ho raggiunto la soglia dello stanzino che ospitava un lettino, un tavolo con la cassetta dei medicinali, due sedie: tutto molto asettico, ma come dovrebbe essere un posto del genere, in fondo?
Ho fissato la collega per diversi secondi e mi sono avvicinata per capire se invece di riposare o dormire, fosse svenuta. Non sono riuscita, però, a valutare le sue condizioni perché sono rimasta a fissare la protuberanza che le si era formata sul lato destro della fronte, appena oltre il sopracciglio. Anche se un cerotto blu lo copriva, quello era davvero il bernoccolo più grande che avessi mai visto.
Che diavolo le è successo?
Non riesco a staccare gli occhi da quella forma tonda che pare crescere ogni volta che la collega inspira aria. Passano dieci minuti, forse qualcosa in più, ma la situazione non cambia: lei moribonda, io in stato di osservazione, come fossi uno scienziato che studia le reazioni delle cavie cui ha appena iniettato un siero speciale.
Quando torno alla mia scrivania, riprendo il lavoro su excel, ma non sono realmente presente. Mi sento come paralizzata. Gli occhi, incantati, guardano lo schermo; credo di muovermi solo perché respiro. Forse accade questo quando viviamo un ricordo particolare. Forse il nostro corpo si muove al rallentatore perché la mente, in quel preciso istante, lancia segnali a ogni cellula per pescare quel ricordo prima che sfugga e diventi un qualcosa che ci fa pronunciare: «…Ho la sensazione di aver già vissuto una cosa simile».
Sono in ufficio con due colleghi che distano un paio di metri da me, lo schermo nasconde il mio viso. Non riescono a vedere l’espressione che emerge lentamente e lo preferisco, perché sento di voler quel momento tutto per me.
Ripenso all’appartamento dove sono cresciuta. Terzo piano. Tricamere, due bagni. Salotto e cucina separati; lo spazio ideale per una famiglia con l’intenzione di allargarsi.
Il corridoio che porta alle stanze si affaccia su un ingresso che collega salotto e cucina e lo spazio è ampio per una bambina di tre anni che vive di gioco e giocattoli. E mentre sono ancora in trance alla mia postazione di lavoro, mi vedo correre lungo il corridoio, sbucare sull’ingresso e fermarmi per prendere una gran rincorsa e spaventare tutti i presenti in cucina. I piedi calpestano il pavimento di un marmo economico, gli occhi mirano alle persone impegnate in una conversazione, ma poco prima di raggiungerle mi ritrovo a urlare così forte che mi sembra di essere sul punto di esaurire la voce.
Quando riapro gli occhi la fronte, che percepisco dolorante e gonfia, è immersa in una ciotola di plastica rossa e, tra le lacrime che strabordano dagli occhi e le mie continue urla, vedo solo la mano della mia nonna materna che prova a darmi sollievo con un liquido che puzza da morire.
Distolgo lo sguardo dallo schermo e sorrido ripensando a quel ricordo gioioso seppur tragico, perché è l’unico momento che ricordo di mia nonna. La nostra unica connessione. Nient’altro. E non so spiegarlo. L’unica certezza che ho, ora che ci penso, è che il bernoccolo della mia collega non è il più grande che io abbia mai visto.
GIULIA ZOCCA – Per il suo racconto, Giulia ha pensato a un ricordo d’infanzia in cui il protagonista fosse in coppia con qualcuno…
Paolo ha quasi trent’anni, una vita frenetica e tanti ricordi.
Il più bello è racchiuso nel suo cuore, protetto dal tempo che passa e dai cambiamenti della vita. In un giorno di giugno, guarda fuori dalla finestra del suo appartamento. La fantasia si libera dalle catene della quotidianità e tutto torna chiaro.
É un bambino vispo di sette anni: ha tanti sogni e voglia di sperimentare. Il suo futuro è pieno di incognite, non ama le regole e nemmeno studiare. Gli piace essere libero, come i gabbiani che volano sopra al mare, senza una meta precisa dove approdare. Si fanno trasportare dal vento, dal cuore e dall’istinto, che quello non sbaglia mai. L’estate è la stagione che preferisce. Non solo per il caldo e le belle giornate, i libri letti all’ombra di un albero e i gelati che colano sul pavimento. L’estate ha un appuntamento fisso, irrinunciabile: le vacanze con il nonno nella sua casa di Rimini. Per un bambino che vive a Milano, in un alto condominio di periferia, è pura evasione. Una boccata d’aria, una tregua dallo smog, dalla vita sempre di corsa, che non ti aspetta mai.
É emozionato prima della partenza, impaziente di giungere a destinazione. Non vede l’ora di rivedere il nonno e abbracciarlo forte, dimostrargli quanto gli sia mancato.
Si divertono molto insieme: vanno a comprare il pane caldo ogni mattina e lo dividono sulla strada del ritorno, coltivano l’orto e fanno lunghe passeggiate al tramonto, per ammirare la bellezza del calar della sera.
Corrono in spiaggia, si sistemano nel posto migliore e danno libero sfogo alla fantasia. Costruiscono innumerevoli castelli, sfidando il vento e la sabbia bollente, si inventano storie con personaggi buffi. Racconti che parlano di re e regine, draghi sputafuoco e principesse da salvare, intrappolate nella torre del castello. Paolo si incupisce se si parla di prigionieri rinchiusi, perché anche lui si sente così nella sua casa di Milano. Ha spessi muri bianchi e anonimi, poche stanze invase da un perenne odore di muffa. Qualche finestra qua e là, costruita come per errore. Se si affaccia non c’è traccia di gabbiani, del mare limpido e silenzioso. Solo altre case, traffico smisurato e tante persone minuscole che corrono da ogni parte, come formiche spaesate intente a trovare il loro posto nel mondo.
Anche Paolo prima o poi dovrà trovarlo, ma promette a sé stesso che non sarà mai Milano. Un qualsiasi altro posto va bene. Rimanere sempre accanto al nonno sarebbe perfetto, sfidando il tempo che passa e la morte. Perché il nonno è invincibile, non lo lascerà mai. Scampa al destino anche quando la sera giocano coi supereroi e Paolo non riesce mai ad avere la meglio: cerca in tutti i modi di sconfiggerlo, di metterlo al tappeto, ma il nonno è forte e gioca d’astuzia. Dopo cena un bel ghiacciolo fresco alla menta, il preferito di entrambi e qualche partita a carte per passare il tempo. Il nonno gli ha insegnato tanti trucchi, ma nessuno sembra essere mai abbastanza efficace.
Un passatempo su cui Paolo non ha rivali, è la corsa con gli aquiloni: si sente veramente sovrano della sua felicità, sgombro da qualsiasi vincolo, da ogni impedimento. Libero di vivere davvero, a pieni polmoni. Gli piace tanto perché non c’è nessuna regola da rispettare. Bisogna solo correre più veloce del vento, anzi alla sua stessa andatura. Andare allo stesso ritmo: né troppo piano da far cadere l’aquilone, né troppo veloce da farlo scivolare via. Perché se va via, non torna più, come il nonno. E Paolo non vuole, non sarà mai pronto. Tiene il filo saldo in mano, con forza. La stessa con cui stringe la mano del suo vecchietto quando passeggiano. In silenzio, perché in certi momenti le parole non servono.
È primo nella gara, il nonno è dietro di lui. Rallenta il passo per diminuire la distanza, per non farlo stancare troppo, ma la meta è vicina. Paolo taglia il traguardo, si gira e vede il nonno che gli applaude. La sua felicità è palese, si riflette negli occhi del nipote. Entrambi spensierati e sorridenti, si abbandonano sulla spiaggia. Ammirano la tranquillità dell’acqua, la sua maestosità. Il suo lineare percorso, che parte da lontano per poi giungere sempre a riva. Senza deviazioni, cambiamenti improvvisi. Paolo si convince che anche il suo rapporto con il nonno rimarrà sempre così, puro e speciale. Anche se da grande farà esperienze, girerà il mondo e sarà distante da lui, in qualche modo tornerà sempre a trovarlo, dimostrandosi fedele e riconoscente nei suoi confronti.
Ora che di anni ne sono passati, Paolo si appresta a diventare padre di una bellissima bambina. Vorrebbe correre su quella spiaggia, andare incontro al nonno e annunciargli la splendida notizia. Consapevole di non poterlo fare, si limita a osservare l’aquilone tatuato sul polso destro e un sorriso malinconico fa capolino sul suo volto.
ALBERTO SARTORI – Per il suo racconto, Alberto ha inserito il nome di una persona che ha votato ai sondaggi e puntato su un racconto introspettivo…
Puoi conservare un solo ricordo di tutta la tua vita. Qual è?
Sulle sponde del lago Bajkal il sole era immobile all’orizzonte, giugno era alle porte e l’aria frizzante mi solleticava le narici. I miei occhi erano chiusi, sentivo il respiro di Valentin farsi sempre più rilassato, percepivo le sue dita accarezzare il lucchetto a forma di carpa.
La mia mente rifletteva alla velocità della luce e si chiedeva perché avessi accettato di incontrare quello sciamano, perché fossi lì, perché non avessi scelto la solita vacanza in Grecia, perché, perché, perché, troppi perché e nessuna risposta.
«Noemi, è arrivato il momento». Valentin sussurrò appena e sentii la sua voce passare dai timpani alla mente. «Non devi temere, ti addormenterai e ti sveglierai dopo qualche istante. Potrai conservare solo un ricordo di tutta la tua vita, sceglilo con cura, fino a mezzanotte non ne avrai altri. Rimarrai qui con me sotto a una coperta di stelle, non avrai freddo, non saprai nemmeno cosa significhi avere freddo, vivrai continuamente solo quel ricordo. Con il nuovo giorno riacquisirai tutta la tua memoria».
Annuii con il pensiero. Vidi tutti gli istanti della mia vita, non percepivo il passare del tempo, sembravano diapositive proiettate sul muro, scorrevano avanti e indietro a mio piacimento. Errori, successi, tradimenti, amanti, serate iniziate male e finite peggio, il mio primo pallone, il mio primo fidanzato, sorrisi, lamenti, lacrime, ossessioni, opinioni. Era tutto così limpido e così tremendamente meraviglioso, indipendentemente dal tipo di ricordo, bello e brutto erano fusi assieme, proprio come una girandola vorticavano e si scioglievano nelle stesse emozioni a cui avevano dato vita. Aprii gli occhi.
Mi ritrovo davanti alle sedie del bar che guarda sul mare, prendo posto senza neanche chiedere il permesso. Ordino un litro di bianco fermo, basterà per l’ora che voglio trascorrere qui a lacerarmi l’anima se lui non verrà. E se non bastasse ne ordinerò ancora fino a stordirmi i pensieri.
Fino a sentirmi parte del mare stesso.
Primo bicchiere. E i miei neuroni si annuvolano un po’.
Secondo bicchiere. Un temporale dentro la mia testa tuona fulmini ammaestrati dalla speranza di vederlo arrivare.
Il mio sguardo si abbassa sempre di più mentre guardo il mondo attraverso il fondo del terzo bicchiere e mi sembra tutto più armonioso.
Sento una mano accarezzarmi la nuca, non reagisco, aspetto di sentirla ancora accarezzarmi il collo. Il ritmo dei miei respiri aumenta quando sento le sue labbra calde appoggiarsi dietro l’orecchio, in quel punto in cui non sai se è solletico o brivido che si irradia fino al petto come una scarica d’amore.
Chiudo gli occhi, gli prendo la mano, lentamente incrocio le dita alle sue e non è solo il respiro che aumenta: battito cardiaco, pressione, passione, ossitocina. Tremo dentro dall’emozione. Solo lui mi fa questo effetto, solo lui.
Mi ritrovo davanti alle sedie del bar che guarda sul mare, prendo posto senza neanche chiedere il permesso. Rivivo lo stesso momento.
Mi ritrovo davanti alle sedie del bar che guarda sul mare. Lo assaporo un’altra volta.
Mi ritrovo davanti alle sedie del bar. Lo faccio mio, perdendo il conto di quante volte io abbia ordinato quel litro di bianco fermo.
Una nebbia si diradò dalla mia testa e la vita intera tornò a riempirla.
Valentin era di fronte a me, la luna stava calando, il numero sul calendario nella camera d’albergo era sicuramente cambiato. Mi misi a piangere, quella reazione improvvisa che non ti aspetti e che non puoi controllare. Le lacrime mi accarezzavano il viso, le raccoglievo coi polpastrelli e le lasciavo asciugare al vento. Mi sentivo spenta, inerme, inadatta. Mi sentivo tutte le sensazioni negative addosso. E un ultimo perché si insinuò nella testa penetrandomi, maledettamente bravo a chiedermi: “Non avresti potuto scegliere un altro ricordo?”.
“Volevo sentirmi viva, per qualche istante, per qualche attimo che sembrasse lungo un’esistenza. Sentirmi amata, inebriata da quelle labbra ormai dimenticate, da quelle sensazioni ormai sopite e abbandonate tra i granelli di polvere che compongono la mia memoria”.
«Cosa farai, Noemi?». La domanda di Valentin fu come il rintocco di una campana a un metro di distanza.
«Porterò dentro quelle emozioni che ho appena rivissuto, le cercherò, ovunque, le riavrò con me, ne sono sicura. Combatterò ogni giorno per far vedere il mio sorriso nonostante le ferite, per mostrare il dito medio a chi vorrà intralciare il mio percorso. Per innamorarmi ancora».
Valentin scomparve, proprio come avevo letto su tutti i racconti che parlavano di lui. Sulla mia mano si formò un piccolo tatuaggio a forma di stella. Era la stella che avrei dovuto seguire sempre: me stessa.
FINE