finale di Marco Simion
Ma come potevo aver fatto così tanti casini in una giornata sola? Altro che grande occasione, avevo l’impressione che tutto il mondo ce l’avesse con me. E anche persone molto pericolose, a quanto pare. Se mi andava bene mi prendevo un pugno in faccia da un attore di chiara fama (o da un tizio pagato per pestarmi) ma se mi andava male mi pigliavo una pallottola in fronte. Decisi di cambiare aria per un po’, magari sarei andato a trovare per un paio di giorni il mio caro amico Carlo, a Copenaghen, finché le acque si sarebbero calmate.
Comprai un biglietto per quella sera stessa, anche se pagai un po’ uno sproposito. Filai a casa cercando di non farmi notare e mi guardai in giro per vedere se c’era qualcuno di sospetto. Via libera, filai dentro e salii al 4° piano. Io stavo al 6°, quindi mi feci a piedi le ultime due rampe di scale, col cuore in gola. Stavo diventando paraonico? Non c’era nessuno sul mio pianerottolo. Aprii la porta e preparai subito una valigia con quattro cose. Meglio metterci un maglione, in Danimarca faceva freddo.
Presi l’auto e mi diressi all’aeroporto, con largo anticipo. Passai i controlli e andai con calma verso il Gate D7, Volo Easyjet U2 3322. Comprai un giornale all’edicola e mi sedetti nella sala d’attesa vicino al gate cercando di non dare nell’occhio. Un signore si sedette a un paio di posti da me. “Mi scusi, mi saprebbe dire che ore sono?”. Quant’è che non sentivo una domanda del genere. “Sa, il cellulare mi si è scaricato”. “Non si preoccupi – dissi io tirando fuori il mio – Sono le 19:15, manca ancora un’ora all’imbarco”. “Ah, se è così allora vado a fare due passi. Grazie mille”.
Passai così il tempo che rimaneva leggendo e vedendo le persone che mano a mano riempivano i divanetti del Gate. Quando annunciarono il nostro volo mi misi in coda tra i primi per salire. Il signore dell’ora era subito dietro di me. Arrivato davanti all’hostess tirai fuori il passaporto e lei lo passò sullo scanner. Rosso. “Mi scusi, ci sono problemi?”. “Sì, temo che ci sia qualcosa che non va. Se può cortesemente seguire il collega.” E sottovoce: “Però non ti agitare troppo, ci servi sveglio”.
A quelle parole guardai il nome sulla targhetta. Lucia. E poi la guardai meglio in viso. Divenni rosso. Era la mia prima ragazza del liceo. Quella della più grossa figura di palta col gentil sesso. Stavo per svenire dall’imbarazzo, quando sentii un pizzico sulla spalla, come una puntura di insetto. Il signore dietro di me si era avvicinato e aveva detto all’hostess “Mi scusi signorina può per cortesia far scorrere la fila?”. Nel farlo sentii che qualcosa premeva contro la mia schiena. E a me all’orecchio disse le ultime parole che ricordo di aver mai sentito: “A quanto pare c’è davvero del marcio in Danimarca”.