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Come furia nel cuore

C’è qualcosa di diverso nell’aria quella mattina, ma Francesco non ci fa molto caso. Ha solo un pensiero nella testa: incontrare la S dai capelli biondi e gli occhi azzurri come il fondo dell’oceano.

Al risveglio, ammira l’imponente Torre Eiffel dal suo balcone, poi esce di casa e si avvia lungo il viale principale, passando davanti al Teatro Olimpico in una ridente Vicenza. Cammina fino allo Starbucks su Madison Avenue, poi entra al Guggenheim per vedere se all’ingresso trova la sua amica F e la vede porgere alcuni dépliant a un giovane gruppo di visitatori, vestita con l’austera uniforme nera che prende colore solo grazie ai lunghi boccoli rossi. Non appena i loro occhi si incrociano, lei gli regala un immenso sorriso.

«Ciao Francesco, che cosa ci fai qui?».
«Ho pensato di passare a salutarti visto che ero nei paraggi. Volevo sapere come stavi».
«Grazie, che bel pensiero hai avuto! Sto bene e vedo che stai bene anche tu. Dove stai andando?». «Pensavo di fare una passeggiata e magari andare da S per chiederle se vuole farmi compagnia». F si morde il labbro curiosa, e si fa più vicina, abbassando il tono della voce.

«Allora è una cosa seria? Pensi che le chiederai di fare coppia?». Francesco arrossisce e distoglie lo sguardo altrove. «Che stupida! Scusa, non sono affari miei. Ti auguro una buona giornata, Francesco e non smettere nemmeno per un secondo di credere in te stesso!», e lo abbraccia forte.

Il ragazzo riprende a camminare e raggiunge prima Piazza dei Signori, poi osservando le varie vetrine dei negozi, attraversa Corso Palladio e mentre si ritrova in Piazza Castello, proprio di fianco al Torrione, prende in mano il telefono per cercare il numero di S ma si sofferma su quello di O pensando che forse dovrebbe chiamarlo, ma viene interrotto da una cascata di petali bianchi: i ciliegi in fiore sono scossi da una grande folata di vento che crea un’atmosfera surreale e magica. Tokyo non lo delude mai.

«Francesco, che sorpresa trovarti qui!», esclama S – un’altra S – che gli va incontro e lo abbraccia. Il ragazzo sorride, è felice di vederla, ma lo diverte vedere ogni volta l’abbigliamento dell’amica che è tutto fuorché formale. Indossa un abito con una fantasia di fragole e ciliegie su una base rosa antico. Delle calze color vinaccia e scarpette rosse brillanti, proprio come quelle di Dorothy nel film Il mago di Oz.


«Ti stavo proprio pensando, sai. E stavo proprio venendo a cercarti. Che fortuna averti trovato lungo la strada!».
«Come mai volevi vedermi, che succede?». S gli sorride, i corti capelli castano chiaro e una frangetta perfetta incorniciano un piccolo ovale dalle guance rosee che le regalano un aspetto fanciullesco. Tutto in lei trasmette una forte sicurezza.

«Stavo per chiamare O, volevo sentire come sta». S sbuffa visibilmente scocciata, poi prende Francesco sottobraccio e gli chiede di accompagnarla a fare una passeggiata lungo gli Champs-Elysées per recuperare la bicicletta lasciata a casa di A la sera prima. Le sue piccole scarpette rosse calpestano un pavimento di foglie secche.
«Su dai, ogni tanto devo chiamare O per sentire come sta», dice Francesco ma lei non risponde e si limita a guardarlo come fossero immuni a qualsiasi male, persino alle spiacevoli notizie.
«Sai, volevo cercare S per chiederle di uscire. È inutile nasconderlo, ci frequentiamo da un po’ di tempo e vorrei approfondire il nostro rapporto». Francesco parla senza quasi riprendere fiato. Sa che se non lo dirà ora a voce alta, non lo farà più e cerca l’espressione di S per capire se approva, ma lei non lo degna di uno sguardo, fissando le foglie secche ai loro piedi. Poi si blocca e senza dargli il tempo di chiederle cosa abbia, si ritrova a dirgli: «Io e A stiamo insieme!».

Non ha il coraggio di guardare in faccia Francesco e quando realizza ciò che ha detto, porta le mani alla bocca, trattenendo le lacrime. «Sono contento per voi, davvero!». S si volta verso di lui e lo analizza per capire se stia mentendo, ma poi gli sorride e a quel punto una lacrima cede e corre lungo la sua guancia fino a sotto il mento. Francesco si affretta ad asciugarla, poi appoggia le mani sulle sue spalle. 

«Non hai mai smesso di dirmi che devo essere sicuro di me stesso e che devo seguire il mio istinto. S, se hai trovato una persona che ti ama non dovresti dubitare nemmeno per un istante di te stessa. L’amore è amore, anche tra lo stesso sesso. Non c’è alcuna vergogna», e le stampa un bacio sulla fronte mentre piccoli fiocchi di neve cadono dal cielo, ricoprendo in pochi minuti i verdi giardini di Central Park a New York.

Quando Francesco è di nuovo solo, riprende il telefono, ma prima di chiamare S prova a cercare O che gli risponde dopo solo due squilli. «Ciao O, come stai?». Dall’altra parte una voce maschile risponde con un colpo di tosse che pare più simile a un grugnito. «Dimmi, cosa c’è amico?».


«O è tutto a posto? Stai bene?».
«Sì, va tutto bene, amico. Dove sei?».
«Sono al lago d’Iseo, ti ricordi quando ci siamo stati tanti anni fa?”. Francesco non aggiunge altro, sa che ha fatto toccato il tasto giusto per metterlo a suo agio.
“Caspita Francesco, che ricordi… non ci pensavo da tempo. Sai, sto sistemando la motocicletta, la voglio rimettere in pista al più presto, proprio come i vecchi tempi… mi mancano quei tempi…».

Francesco sorride solo con le labbra, gli piace sapere O felice, cosa non facile. Tutto a un tratto, però, O gli fa una domanda. «Amico, che cosa vuoi sapere?». Il ragazzo si scosta dallo schienale e mentre sta per rispondere si guarda attorno stupito: non si è accorto di essere in metropolitana e in un attimo è in piedi, pronto a scendere alla prima fermata scoprendo in pochi secondi di trovarsi nel centro di Barcellona. È davvero sorpreso di trovarsi lì e cammina a testa bassa, quello non è un bel ricordo e una strana sensazione riaffiora scaldando il suo petto.

«O, che cosa hai fatto?».
«Amico, è tutto a posto. Non ti devi preoccupare. Sono successe tante cose, ma è tutto sotto controllo». Il tono di O è esitante e Francesco intuisce che è successo qualcosa a sua insaputa e ne ha la conferma quando si ritrova a camminare lungo la strada Rambla di Barcellona. È ancora in quel paese, ancora in uno spiacevole ricordo.
«O, devi dirmi che cosa hai fatto!».
«Amico, abbiamo vissuto troppe delusioni, ricevuto troppi no. La vita ci ha trattato molto male e non ho saputo trattenermi…».
«Non dovevi fare niente! Dannazione, a volte sei così testardo! Lo sapevi che è un momento molto delicato della nostra vita, sai che può accadere l’inevitabile da un momento all’altro. Avevamo solo bisogno di tempo per riprenderci e lasciarci il passato alle spalle. Vieni subito qui e porta con te P, so di certo che ti ha traviato con le sue assurde congetture».
«Va bene, la sveglio e ti raggiungiamo. Dove sei?».

Francesco si guarda attorno per confermare la sua posizione, ma non sa più dove si trovi e un’esplosione improvvisa lo paralizza. L’ambiente muta di continuo, non capisce più dove si trovi. Davanti a lui il cielo passa da una sfumatura giallo arancio di un tramonto, all’oscurità di un cielo senza stelle, fino a un panorama grigio e nuvoloso, ma non appena una folata di vento si avvicina, intravede una città sconosciuta che sta letteralmente collassando.

L’aria è pesante, sa di corpi bruciati e raggiunge le narici di Francesco che porta il braccio al viso per proteggersi. Si guarda attorno, confuso, e quando alza lo sguardo verso un grattacielo colpito da un aereo, il suo corpo si fa di ghiaccio e non riesce più a muovere un muscolo. A è aggrappata al bordo di una finestra e penzola nel vuoto.

«Tieni duro A, sto arrivando», e scatta veloce verso l’edificio, nonostante al fondo sia travolto da un’enorme nuvola di polvere. La gente scappa nella direzione opposta alla sua, le auto frenano all’improvviso. Più corre e più sente le urla disperate di A che lo implora di aiutarla ma più corre, più gli sembra di non avvicinarsi, come se corresse sempre sullo stesso punto.

Le urla di A si fanno sempre più strazianti e quando un uomo appare davanti lei, implora Francesco di fare qualcosa, ma lui non riesce a reagire. Sente il corpo farsi pesante, come se una forza invisibile lo stesse trattenendo. Urla contro quello sconosciuto che cerca di buttare A giù dal palazzo. Urla così forte che la voce inizia a mancargli, e non emette alcun verbo, nemmeno il minimo rumore, quando vede la ragazza precipitare nel vuoto. Francesco cade sulle ginocchia, la gola soffocata da una morsa di dolore, le lacrime che escono a singhiozzi. Tutto attorno a lui sta crollando.

Corre senza fermarsi, vuole trovare la S dell’appuntamento, deve trovarla assolutamente. Corre lungo una strada trafficata di una città sconosciuta. Le auto lo evitano quasi avesse il potere di scansarle, ma poi il caos prende il sopravvento e si ritrova sbalzato in aria e quando cade a terra, attorno a lui l’ambiente è completamente diverso. Si solleva a fatica, la testa dolorante. È in una chiesa, nel mezzo di una navata. Il silenzio è inquietante, come se di lì a poco dovesse accadere un’altra catastrofe.


«Francesco!». Una voce lo attira alla sua destra e due ragazze gli vanno incontro. I loro vestiti sono sporchi, il trucco è rovinato, gli occhi lucidi e spaventati. Sono F e S, la ragazza dai boccoli rossi e quella dalle scarpe rosso brillante.

“Ragazze, state bene?”. Francesco appoggia una mano sulla spalla di ognuna, visibilmente preoccupato. Loro annuiscono ma è evidente che siano sconvolte. «Francesco, che cosa succede? Dovevi avere tutto sotto controllo!», gli urla contro F. «Dobbiamo trovare S. Dove dobbiamo andare? Qual è il ricordo? Qual è il ricordo per trovarla?».
«Rimanete qui fino al mio ritorno, non uscite per nessun motivo, va bene?».

Le ragazze, nonostante siano terrorizzate, annuiscono, ma poi si ritrovano a urlare quando avviene un’altra esplosione. Il tetto della chiesa inizia a sgretolarsi, qualche vetrata va in frantumi, poi delle urla interrompono quel momento drammatico. «Lasciatemi, lasciatemi! Francesco aiutami!», urla S mentre degli uomini la trascinano a forza verso il fondo della chiesa. Francesco cerca di raggiungerla, ma poi F urla dalla parte opposta mentre viene trascinata per i capelli. Francesco non sa cosa fare, non sa chi aiutare. 

E non fa in tempo a reagire perché la chiesa crolla letteralmente sopra la sua testa e quando riapre gli occhi, si ritrova davanti a un immenso prato verde e, al margine di un bosco, vicino a un ponte, vede finalmente la S che attendeva di incontra sin dal suo risveglio e corre verso lei come un fulmine.

«S, dobbiamo andare via da qui, dobbiamo trovare un ricordo sicuro», le dice non appena la raggiunge, ma lei non si muove, quasi fosse priva di emozioni. «S, ti prego, dobbiamo sbrigarci prima che ci trovino e sai che non possono trovare te, sei l’unica che ci può salvare». Francesco non comprende il suo silenzio, ma è deciso a portarla via da lì per raggiungere un ricordo sicuro. Le tende la mano e fa un passo avanti ed è in quel momento che il legno sotto di loro scricchiola e all’improvviso si spezza come se qualcuno lo stesse abbattendo con forza. S non reagisce e si lascia inghiottire dal vuoto che si crea ai suoi piedi, ma Francesco riesce ad afferrarle un polso.

«S, non ti lascio andare, non preoccuparti. Aiutami a sollevarti… S, ti prego…». La ragazza lo fissa, i suoi occhi di un intenso azzurro lo osservano come se stesse facendo qualcosa di sbagliato e con sorpresa di Francesco, lei avvicina l’altra mano per liberarsi dalla sua presa. «Lasciami andare e vieni giù con me, non abbiamo alternativa. Troveremo una soluzione, non avere paura. Affronteremo questa guerra e ne usciremo più forti di prima…». Francesco le allontana la mano con rabbia, le urla contro, la obbliga a tirarsi su, ma S non cede e inizia anzi a essere più insistente nel tentare di liberarsi.

«Non farlo! S, ma che ti prende? Perché vuoi farci morire?», chiede sconvolto, ma la ragazza non risponde e in pochi istanti si libera dalla presa e precipita nel vuoto, ma non prima di trascinare con lei Francesco e in un fitto banco di nebbia, sono solo le sue urla l’unico rumore che rimbomba nonostante la guerra in atto.

In un letto d’ospedale, un uomo che riporta gravi ferite in seguito a un tentato suicidio, lotta tra la vita e la morte. Una donna accanto a lui, la sorella minore, lo guarda sconvolta, le lacrime che ha pianto hanno seccato la pelle del suo viso. Non comprende come mai il fratello abbia tentato di togliersi la vita. Forse la fine della sua storia d’amore dopo molti anni, forse l’insoddisfazione lavorativa, forse i traumi irrisolti della loro infanzia con un uomo che non hanno mai concepito come padre. Vorrebbe avere delle risposte, ma prima di tutto vuole che Francesco si salvi.

Il Francesco di fianco al letto la osserva. È sfinito, deluso, amareggiato per ciò che è successo. Vorrebbe tanto che quella donna potesse sentire la sua voce perché le direbbe che le dispiace tanto, in quanto come io interiore ha fallito, non è riuscito a fermare Francesco dal farsi del male. E che lentamente F, che sta per fiducia, e S che sta per stima, sono state trascinate via con violenza. A come amore è precipitato nel vuoto, O come orgoglio e P come paura hanno fatto solo danni sulla base di inutili congetture e che la S che tanto cercava, ovvero la speranza, la ragazza dai grandi occhi azzurri, gli è scivolata via come forse la vita sta facendo con il fratello proprio ora.

Anche se non può né vederlo, né sentirlo, quell’io interiore appoggia una mano sulla sua e le rimane accanto. Rimane così per diverse ore. Ore che diventano giorni. Ripete lo stesso gesto di continuo, il tempo scorre ma nulla cambia fino a quando, in un pomeriggio di sole, percepisce un’altra mano sopra la sua e quella della sorella e quando si volta, vede quei grandi e bellissimi occhi azzurri e in un lampo gli sovviene una frase: “Affronteremo questa guerra e ne usciremo più forti di prima…”.

Fine

AAA. Cercasi cadavere

Dal libro “642 idee per scrivere” del San Francisco Writer’s Grotto, ho selezionato alcune idee e ho chiesto, tramite un post su Instagram, di scrivere il primo pensiero che veniva in mente. Ho poi selezionato le tre risposte che più mi piacevano per trasformarle in racconti.

Come abitudine di Wanted Stories, ho fatto dei sondaggi per far scegliere quello che più ispirava per iniziare a scrivere e associato due domande a risposta aperta per avere a disposizione un paio di input da inserire nel racconto.

In questo caso, e in base al testo vincente, ho richiesto:
Quale segreto nascondono le due donne? Un cadavere 
Quale lavoro svolge Michela? È un’investigatrice

Qui di seguito il testo scritto da michela_m68 e a seguire, il racconto che ho sviluppato, ispirato proprio ad esso! Buona lettura!

Una famiglia (non la tua) che viveva nella via in cui sei cresciuto”Fino all’età di 12 anni sono cresciuta al primo piano di un piccolo appartamento. Ci abitavamo noi e due sorelle che erano anche proprietarie dell’intero stabile. Erano una vedova e una signorina, molto legate tra loro in un modo un po’ inquietante, come se nascondessero un segreto. Giocavo sul pianerottolo e a volte salivo e mi fermavo davanti alla loro porta e le ascoltavo parlare. A volte bussavo e si dimostravano generose: mi offrivano sempre caramelle e dolcetti. A distanza di anni ho capito che mi hanno trasmesso quella curiosità e voglia di indagare che mi appartiene tuttora.

L’auto si addentra in una zona residenziale, e si allontana lentamente dalle vie che ospitano negozi e locali. La strada che divide Michela dalla sua destinazione è minima ormai, mentre il tempo che l’ha vista lontana dallo stabile che sta per raggiungere è di gran lunga maggiore. Il collega parcheggia l’auto e si china in avanti, l’aria incerta. Alti palazzi dalle mura grigie circondano la strada e un velo di mistero piomba all’improvviso tutto attorno; è come se la città si fosse spenta al loro arrivo. «Ma dove siamo finiti?». La domanda è retorica, anche se l’espressione che gli si stampa sul viso pare reclamare risposta. «Chiudiamo questo caso in velocità, non ho alcuna voglia di passare l’intera giornata qui». L’uomo si avvicina al portone, fissa il civico, poi abbassa lo sguardo su un foglio e si rivolge a Michela.
«È questo lo stabile, ultimo piano. Andiamo».
«Ci penso io, non preoccuparti», risponde. Lui la fissa stranito, ma dal suo sguardo percepisce che sotto quella gentilezza si nasconde un ordine. Prende un pacchetto di sigarette dal taschino interno della giacca e se ne accende una, buttando fuori una gran nuvola di fumo. È sollevato dal non dover gestire un interrogatorio che voleva proprio risparmiarsi.

Michela appoggia la mano sul ruvido legno del portone che risulta aperto e che si apre emettendo un cigolio. Sale le scale piano, quasi avesse dei pesi alle caviglie. Ogni dettaglio attira la sua attenzione. Osserva con curiosità come le cose appaiono ai suoi occhi a distanza di trent’anni. Le scale presentano qualche crepa in più lungo il bordo sporgente. La ringhiera è arrugginita ma per nulla impolverata, come se venisse pulita regolarmente. Le pareti bianche si presentano ingiallite e l’intonaco in alcuni tratti è scrostato. A ogni passo, un tassello del passato fa capolino nella mente di Michela e in un lampo si rivede dodicenne mentre corre su e giù per le scale o gioca sul pianerottolo con l’amica del palazzo di fronte.

E quasi senza rendersene conto, è davanti alla porta d’ingresso dell’appartamento dove abitano le due donne. Non suona il campanello, ma rimane in attesa, proprio come faceva da piccola, quando la sua curiosità la spingeva a tendere l’orecchio per sentire cosa accadesse al suo interno. È passata da poco l’ora di pranzo e un silenzio che non le è per nulla familiare la confonde, perché le due donne erano sempre impegnate a fare qualcosa. Michela lo trovava strano e si era chiesta più volte cosa combinassero; persino la notte, prima di addormentarsi, percepiva i passi sul pavimento. Era come se per loro stare ferme determinasse il manifestarsi di una catastrofe.

Michela scuote il capo, scrollandosi di dosso i vecchi ricordi, poi suona il campanello. Sente qualcosa che striscia sulla porta, forse qualcuno la fissa dallo spioncino, poi si ritrova faccia a faccia con una donna dai capelli neri e qualche ciocca grigia che le regala un immenso sorriso. «Salve, posso aiutarla?». Michela non risponde, è travolta dall’emozione. Non vede una sessantenne con le rughe in fronte e l’aria stanca. Ai suoi occhi, appare la trentenne che le regalava sempre qualche caramella. Le teneva raccolte nel palmo della mano come fossero qualcosa di prezioso. In assenza di risposta, la donna ripete la domanda. «Mi scusi… Buongiorno, sono Michela Berico. Sono un’investigatrice». Lo dice come se fosse lo slogan di una pubblicità di un prodotto dalle caratteristiche promettenti. La donna si stringe nello scialle e chiede spiegazioni, più incuriosita che intimidita dalla sua presenza.
«Vede, signora…».
«Mi chiami Beatrice, la prego. E comunque non sono sposata…».
«Mi scusi… Beatrice, seguo il caso della scomparsa di un uomo, Antonio Perri, cinquantuno anni, vive in questo quartiere da circa un anno. L’ultima volta è stato visto in questo stabile e da alcune testimonianze pare che frequentasse spesso questa casa. Le dispiace se entro per farle qualche domanda?».

La donna spalanca la porta senza esitare e le fa cenno di entrare quasi avesse piacere della sua compagnia.
Michela si guarda attorno e trattiene un sorriso. Per lei si è appena scoperchiato il vaso di pandora perché solo ora si ritrova a soddisfare una curiosità che ha avuto per trent’anni: visitare l’interno dell’appartamento delle due sorelle dal fare così misterioso. La casa pare un museo: carta da pareti a tema floreale, nei toni del rosa e del verde, fanno sembrare l’ambiente un caldo e luminoso giardino. Un divano e due poltrone, in tessuto damascato, occupano il centro del salotto e i mobili in legno hanno un aspetto molto più vecchio delle proprietarie. La luce che entra dalla portafinestra crea un’atmosfera rilassante, quasi surreale; è come se una volta entrati, si fosse superato un confine che porta in un altro mondo. A Michela pare quasi di sognare.
«Dunque, che cosa vuole sapere?», chiede la donna.
«Io… lei… ehm… in che rapporti era con il signor Perri?». La domanda inizia con titubanza, ma si conclude con un tono serio.
«Lo conoscevo appena, in realtà. Ci aiutava con qualche lavoretto in casa, sa… caldaia, lavatrice. Quegli aggeggi si rompono senza motivo a volte».
«Ha detto ci… vive con qualcuno?».
«Mia sorella».
«È in casa?». Beatrice fa cenno di sì col capo.
«Potrei parlare anche con lei?». La donna non risponde. È come se quella sua reazione volesse intendere un chiaro no, ma poi sparisce lungo un corridoio ed entra in una stanza, chiudendo la porta. Percepisce delle voci e quella che pare una discussione. Fa qualche passo verso il corridoio, ma si arresta di colpo quando dalla stanza escono Beatrice e un’altra donna.

«Buongiorno, sono Milena. Mia sorella mi ha detto che è qui per parlare del signor Perri». Senza rendersene conto, Michela si lascia scappare un sorriso. La donna che ha davanti pare non essere cambiata per nulla. Giunonica, i capelli castani legati nel solito chignon composto, gli occhi piccoli e marroni, la fossetta sulla guancia destra. E l’immancabile eleganza non tanto del suo abbigliamento, dettato da un vestito di cotone rosa sotto a un cardigan beige, bensì dai suoi gesti. Le braccia poggiano sul ventre arrotondato, le mani unite e le dita intrecciate; la postura rigida che rimanda a quella delle ballerine di danza classica.

«Sì, vede signora, la vittima è scomparsa da quasi una settimana e alcune testimonianze portano a voi. Siete le uniche persone ad abitare qui e…». Milena la interrompe per offrirle un caffè che Michela accetta volentieri, prendendo posto sul divano, mentre le due donne siedono di fronte a lei sulle poltrone. Ora che Milena è entrata in scena, pare che Beatrice sia solo un oggetto in più ad arredare il salotto.
«Il signor Perri è stato qui un paio di settimane fa. Abbiamo avuto problemi con la caldaia. Ha cenato da noi. Raramente accettava di essere pagato e ogni tanto lo invitavamo a fermarsi a cena. Non possiamo dire di conoscerlo bene, era una persona di poche parole. In ogni caso, per quel che ne so, se ne è andato da qui con le sue gambe e respirava ancora!».

Lo dice sporgendosi in avanti e spalanca gli occhi come affermazione di ciò che ha appena detto mentre sorseggia il suo caffè. Regge il piattino con una mano, mentre con l’altra accompagna la tazza alla bocca con una invidiabile compostezza. «A suo avviso, poteva essere turbato per qualcosa? Ha notato nulla di strano in lui, quella sera?». Beatrice beve il caffè in silenzio, ha occhi solo per Milena. Stringe la tazza con entrambe le mani e beve come se fosse l’unica cosa che sappia fare. «Direi di no. Abbiamo cenato e chiacchierato del tempo, ma nulla fuori dall’ordinario».

Michela chiede qualche dettaglio in più sulla serata e Milena risponde con una prontezza incredibile ma lentamente le parole si disperdono quando nota un oggetto su una mensola. Un vaso in vetro lavorato, largo quanto un piatto da dessert e lungo una ventina di centimetri. Sembra contenere piccole pietre preziose, ma Michela sa bene che quelle palline colorate sono caramelle. Le stesse di trent’anni fa che le due donne le rifilavano quando capitava alla loro porta o le incrociava sulle scale mentre giocava. Qualcuna la mangiava subito mentre le altre le nascondeva per soddisfare momenti di golosità improvvisa. Milena continua a parlare, ma Michela finge di ascoltare, travolta dal passato cui non pensava di essere così tanto legata.

Ricorda i sorrisi di Beatrice e la mano a coppa piena di caramelle, l’aria fragile ma affettuosa, che la incoraggiava a giocare fuori di casa. “In questo modo si rimane giovani sempre!”, diceva. E Milena, con il suo fare regale e composto, la salutava con un cenno dello sguardo e le rare volte in cui le rivolgeva la parola era per chiederle cosa studiasse a scuola e aggiungeva sempre qualche titolo di un libro o citazione di qualche personaggio importante di cui però, all’epoca, Michela ignorava l’esistenza. Era grazie a quei brevi incontro che si era fatta la tessera per la biblioteca. Da lì era nato il suo amore per i libri e aveva sviluppato una curiosità a dir poco insaziabile. E questo l’aveva portata a fare l’investigatrice. Il rumore della tazza che sbatte sul tavolino la riporta alla realtà.

«Questo è quanto posso dirle, né io né mia sorella lo abbiamo più visto». A quel punto Milena si alza e d’istinto lo fa anche Michela, seguendola in silenzio quando con un gesto la invita all’ingresso. «Mi dispiace di non esserle di aiuto». I loro sguardi si incrociano per qualche istante e la mente di Michela cede di nuovo perché si vede una bambina sulla soglia dell’appartamento delle due sorelle, curiosa di sapere la loro storia. Qualunque cosa, ma niente che abbia a che fare con il signor Perri.
«Buona giornata», dice Milena e prima che Michela possa rispondere, Beatrice la raggiunge e le porge una mano. Il palmo pieno di caramelle.
«Tenga, ma non le mangi tutte in una volta». Il sorriso della donna è una stretta al cuore e mentre Michela stringe il dono prezioso, la porta si chiude e un silenzio improvviso pervade il pianerottolo.

«Un’altra giornata buttata al vento. Te lo dico io che è successo. Quel tizio si è ubriacato ed è finito in qualche fosso. Dicono che a volte ci desse dentro col bere. Ecco che fine ha fatto il nostro caro Perri… Che caso noioso, non capisco perché hai voluto prenderlo in considerazione…», dice il collega mentre guida, l’aria scocciata e la sigaretta stretta tra le labbra. Michela lo guarda e si limita a sorridergli. Non dice nulla in merito al polso arrossato di Beatrice, dei segni sul pavimento come se qualcosa di pesante fosse stato trascinato, del forte odore di candeggina che invadeva il pianerottolo. Rigira una caramella tra le mani e pensa che è da molto tempo che non visita una biblioteca.

Fine

One Day

Un litigio. Proprio in mezzo alla strada. Giulia e Leonardo non trovano un punto d’incontro. Lei è irremovibile. Lui ancora di più. Parole che feriscono. Uno schiaffo. E poi quello che sembra un addio. Riusciranno a ritrovarsi?

Wanted Stories 2.0 ha richiesto al pubblico di scegliere un film d’amore tra quelli proposti.

A quel punto abbiamo selezionato una frase del film vincente e richiesto di svilupparla per avere una “base” iniziale da cui partire per scrivere. L’incipit seguente è preso dal film One Day del 2011 diretto da Lone Scherfig e interpretato da Anne Hathaway e Jim Sturgess, tratto dal romanzo Un giorno di David Nicholls.

“Casa mia non è lontana, andiamo? Quanto pensi di fermarti?”

Gli incipit scritti sono stati diversi e quello che più ci ha colpito è stato quello di Anna Rossetto (@vegetal_books) – “Fermarmi? Sto pensando a tutto fuorché a fermarmi. Fuggire, andare avanti, tornare indietro, spostarmi di lato, nascondermi. Tutto ciò che è vita, movimento, azione, emozione. Fermarmi. No. Non più. A meno che non trovi qualcosa che vada oltre: oltre le solite cose, oltre le convenzioni e le convinzioni, oltre il conformismo e il già visto. Pensi di essere tu, ciò che va oltre? Dimostramelo.”

Turno 1 – Alberto
Giulia si tolse i guanti e li lasciò cadere a terra. Si guardò il palmo di una mano, poi l’altro. Alzò lo sguardo e sorrise, quel sorriso che ricorda una stella cadente ad agosto, cerchi di catturarla con gli occhi, fare uno screenshot al firmamento, dimenticandoti di esprimere un desiderio e rischiando di perdere quell’occasione, quell’ennesima occasione che se ne sta andando, lasciandoti solo, ancora. Appoggiò una mano sul cuore di Leonardo, si avvicinò e gli sussurrò all’orecchio: «Vattene».

Turno 1 – Linda
«Ecco la dimostrazione di cui avevo bisogno!». Leonardo si scostò da Giulia e la fissò con aria compiaciuta e allo stesso tempo delusa, come se avesse saputo la sua risposta ancora prima che lei la pronunciasse; in cuor suo ne soffriva, aveva tanto sperato in un’altra reazione. Finalmente l’aveva messa con le spalle al muro come mai prima era riuscito a fare. Lei lo fissava come si fissa un’insegnante noioso durante l’ultima ora di lezione, con il suo sguardo dolce e ambiguo, come fosse incapace di commettere errore; una bambina che ottiene quello che vuole perché sa di poterlo avere, che gioca con i sentimenti altrui come fossero dei pezzi di lego da assemblare a proprio piacimento, a seconda dell’umore. Leonardo avrebbe voluto davvero andarsene, ma se lo avesse fatto, lei avrebbe vinto. Un’altra volta.

Turno 2 – Alberto
Rimase in silenzio, gli occhi che cercavano di aprire una breccia in quelli di Giulia, avrebbe voluto vedere i suoi pensieri, le immagini nella sua mente, i sussurri tra cuore e anima. La sua sicurezza fece nuovamente spazio a una totale insicurezza, quel tratto caratteriale che lo aveva sempre contraddistinto nel loro rapporto. E poi la domanda esagerata gli martellava ancora in testa “Pensi di essere tu, ciò che va oltre?” non se la perdonava. Come se Giulia dovesse diventare una nuova persona per stare con lui; da carnefice a preda senza passare dal via. Non era mai stato così deciso in passato, non l’aveva mai affrontata. Nemmeno quando lei se n’era andata di casa il mese prima, per vivere in un’altra città. Nella mente i brandelli di quella serata. 

Non riusciva nemmeno a riviverla pienamente, solo scene annebbiate, parole sfumate. Lui che misurava sempre le parole, non capiva perché quella sera Giulia si fosse incazzata così tanto, continuava a ripetersi che non era stata colpa sua, se lo ripeteva più volte al giorno e poi cosa c’era di male nel parlare di avere un figlio? Leonardo per un attimo socchiuse le palpebre, gli occhi spenti. Senza più esitare, la prese per un polso e la tirò a sé con forza. La strinse in vita e la baciò con una passione tale che il lampione sopra di loro si spense. Forse fu soltanto una coincidenza, o forse no. Lei non resistette a quel suo bacio fruttato. 

Leonardo riaccese lo sguardo e tornò al presente, analizzando questa sua fantasia di baciarla. Era soltanto una possibile azione da compiere. Risultato: avrebbe vinto lei. E allora qual era la mossa giusta da fare? Andarsene? Fare finta di nulla? Dirle quanto era innamorato e che non gli importava che lei fosse andata via? Avrebbe sempre vinto lei. Più che due amanti sembravano due alfieri di una scacchiera senza re e senza regina. Si muovevano in diagonale e scappavano l’uno dall’altro, rincorrendosi, aspettando quello scacco matto che non sarebbe mai arrivato se avessero continuato a giocare una partita d’amore. 

L’amore non è un gioco da tavolo, è aria calda che si scontra con aria fredda dando vita a un temporale di emozioni. È fiamma e ossigeno che si alimentano e che si infuocano. È tempo da dedicare l’uno all’altra. L’amore è vita senza compromessi, è abbracciarsi sotto la pioggia sentendo soltanto i respiri che si fondono. Una lacrima scese sul suo viso mentre ancora la guardava, nel petto una nuvola di dolore. «Me ne andrò da te e da tutto quello che ti circonda. Giulia, io non posso continuare a inseguirti, rimarrò da solo, un’altra volta, ma forse tu non sei qui per meritarmi». 

Proferì quelle parole singhiozzando, vere come il catrame appena steso sulla strada. Si girò e si incamminò verso le scale della metropolitana. Passarono diversi secondi, il tempo si era dilatato, poi in lontananza sentì la sua voce: «Leonardo, aspetta!», la scala mobile lo stava già inghiottendo e si sentiva nell’aria l’odore pungente dei sotterranei. 

 

Turno 2 – Linda
Giulia lo raggiunse e lo prese per un braccio. Leonardo si voltò e un dolore improvviso emerse sulla sua guancia sinistra. Lo schiaffo era stato forte, quanto inaspettato. Fissò Giulia interdetto, come se si trovasse di fronte a uno sconosciuto che lo aveva aggredito senza alcun motivo.

«Credi di essere superiore a me? Davvero pensi di avere ragione e potermi trattare come non valessi nulla?». I suoi occhi lo penetravano mentre parlava, come se le parole dovessero aggrapparsi alla pelle, ai muscoli, alle ossa, per essere comprese. Leonardo schiuse le labbra, ma lei lo anticipò. «Non me ne frega se siamo pronti ad avere un figlio o meno, non ha importanza se non c’è un legame serio tra noi. La cosa a cui tengo è che tu voglia stare con me. Sei stanco di inseguirmi? E allora perché non mi hai fermato quando me ne sono andata? Non voglio più dovermi impegnare in una relazione per tutti e due. Sarò dura e pretenziosa, ma sono presente, io so cosa voglio. E tu? Tu lo sai che cosa vuoi da noi due?».

Rimise i guanti che aveva recuperato poco prima da terra e quel gesto sollevò Leonardo, il quale intuì che non sarebbe stato preso a schiaffi di nuovo. L’aria fredda non aveva alcun effetto su di loro, era come fossero avvolti in una bolla; nemmeno i passanti sembravano interessati alla loro discussione. Era davvero così poco importante?
«Tu mi hai detto di andarmene e…».
«Facile dare la colpa a me. Leonardo, siamo in due in una relazione ed entrambi abbiamo colpe. Come fai a non capirlo? Comunque stiamo solo perdendo tempo, il motivo per cui ho deciso di vederti questa sera è per dirti che…». 

Il suono di una melodia a pianoforte li interruppe. Giulia serrò le labbra, come se sapesse chi la stava chiamando, poi prese il cellulare e rispose, gli occhi fissi su Leonardo che pendeva letteralmente dalle sue labbra, cercando di non darlo a vedere. «Ciao amore, sì è tutto a posto. Tra poco sarò a casa». Lui mise le mani sui fianchi e la fissò incredulo, ma una sicurezza mai conosciuta prima lo travolse e gli fece scappare una risata di compiacimento. «Dovevo aspettarmelo da te, parli di relazione e tieni il culo su due sedie, invece!».


«È vero, ti ho chiesto di venire a casa mia, ma ti stavo solo mettendo alla prova, Leonardo. Tra i due, quella delusa sono io», e senza aggiungere altro, gli diede le spalle e attraversò la strada. Cosa stava facendo? Cosa stava pensando? L’avrebbe inseguita oppure sarebbe sparito oltre la scalinata per salire nella metro senza più voltarsi? Il cuore di Giulia batteva forte, gli occhi sembravano due linee scure che si sforzavano di trattenere le lacrime. Non c’era nessun nuovo amore che l’aspettava a casa, solo il gioco di un’amica complice. Solo per mettere alla prova il loro amore.

Turno 3 – Alberto
Leonardo rimase immobile, le persone passavano vicino a lui immerse in quel moto perpetuo tipico dell’orario post-lavoro, qualcuno a testa bassa per rincasare in fretta, altri camminavano con il naso in su per ammirare le nuove luminarie di Natale che si erano accese nei corridoi della metro. Non sentiva il rumore dei treni sulle rotaie, non vedeva oltre le sue pupille. Guardava dentro sé stesso per cercare di non implodere, rifletteva per decidere cosa fare, i muscoli delle gambe gelati, ma non dal freddo. Aveva bisogno di un secondo di infinità, doveva decidere in fretta ma pensare lentamente. Si rivide a tavola con Giulia, cercò di vedere la scena da fuori, osservarsi, pensare a quello che aveva provato lei nel sentire le sue parole. 

«Mamma mia Giulia, che giornata, non ne posso più di questo lavoro!».
«Puoi sempre cambiare, rimetterti in gioco, non ti sei mica sposato il titolare», disse lei con quel suo sorriso luminoso. «Sì, vabbè, la fai facile tu che provieni da una famiglia ricca». Giulia era rimasta in silenzio. Era evidente che avesse accusato il colpo ma decise di cambiare argomento. Era una donna molto forte e decisa, lo era sempre stata.
«Leo, ti ricordi di quel viaggio che volevamo fare alle Filippine? Che ne dici se lo prenotiamo per l’estate prossima?».
«Ok, possiamo pensarci, dipende da come andrà il mio inverno. Lo sai che le mie parcelle sono in netto calo e poi sarebbe anche ora di avere un figlio». 

Ritornò al presente: che risposte le aveva dato? Non dimostravano per nulla il suo amore per lei, era stato irritante. Diventò consapevole di come si era comportato. Credeva di essere quello dolce e premuroso, l’amante perfetto. Siamo spesso convinti di essere dalla parte della ragione, finché non ci mettiamo nei panni di chi ci sta vicino. Ed era proprio quello che aveva appena provato. Non aveva chiesto a Giulia di avere un bambino, le aveva servito quella frase oscena su un piatto pieno di superficialità. Mosse un passo titubante verso il convoglio che stava per partire, ma cambiò subito direzione e iniziò a correre. La velocità delle scale mobili non era sufficiente, continuò a correre e riemerse sulla strada. 

Si guardò attorno ma non c’era traccia di Giulia. Nel suo sterno lame affilate ballavano e si contorcevano, danzando attorno a quell’ennesima occasione sprecata. Decise di prendere una boccata d’aria e si incamminò verso una via laterale, seguendo le luci dei lampioni e un profumo di Winter Jack Daniels. La strada brulicava di persone e tutto si fondeva in un vociare sommesso, non si distinguevano le risate degli adulti, né le urla giocose dei bambini, sembrava tutto ovattato. Attraversò un ponticello, dall’altra parte della strada le vetrine illuminavano a giorno il volto dei passanti. Proseguì verso un grazioso mercatino, la piazza era circondata da abeti rossi adornati da giganti omini di marzapane e si fermò davanti a una casetta di legno, era da lì che proveniva quel buonissimo profumo di whiskey bollente. Sulla lavagna, un messaggio scritto con un gessetto bianco recitava “Giorno dell’amore: se rinunci non ci credi, se scappi non lo vivi, se resti è un percorso che vale la pena di essere vissuto”.


«Desidera qualcosa?». L’uomo barbuto oltre il piccolo bancone interruppe le riflessioni di Leonardo.
«Sì, un Winter Jack, doppio, per favore».
«Certo, subito», rispose il signore, mentre stava già riempiendo la tazza. Leonardo la scolò senza tanti complimenti. «Un altro, triplo, grazie», e anche questo andò giù in un secondo. Rimase seduto sullo sgabello di legno, fissava la tazza vuota senza sbattere le palpebre.
«Brutta giornata, eh?».
«Pessima direi…», tagliò corto Leonardo e ordinò un altro whiskey. «Ma non è l’unico, stia tranquillo. Chi per un motivo e chi per un altro, sono in molti che si fermano qui. Ne ho viste oggi di persone con il suo sguardo, mi piace osservare».
«Beato lei», esclamò Leonardo solo per interrompere la conversazione, ma l’altro riattaccò subito. «Si guardi intorno. Vede quel signore? Dev’essere un avvocato, è appena stato qui e ha comprato una bottiglia. Il caso ha voluto che si sedesse proprio accanto a quella ragazza, anche lei passata per bere un paio di bicchierini e diceva di essere astemia», concluse scoppiando in una gran risata.
«Sì, sì, va bene, grazie, interessante, tenga il resto», e si alzò dallo sgabello lasciando cinquanta euro. Senza rendersene conto, passò di fianco alle due persone di cui gli aveva parlato il barista, ma non li guardò nemmeno, finché non sentì la voce di Giulia che lo fece girare di scatto. 

 

Turno 3 – Linda
Lei gli dava le spalle, seduta a un tavolino poco distante dal bancone con una tazza di whiskey fumante stretta in una mano. Era al telefono, ma Leonardo non riusciva a sentire la conversazione. Chiunque ci fosse stato dall’altra parte, però, non aveva importanza: in un attimo gli fu chiaro cosa dovesse fare, o meglio, dire. Lentamente, come se il pavimento fosse fatto di un sottile strato di ghiaccio già crepato, una perfetta analogia del loro rapporto, si avvicinò e si sporse il giusto perché lei alzasse lo sguardo. 

Nei suoi occhi non vedeva più le piccole sfumature verdi che tanto amava di lei, ma anzi, ora intravedeva una luce diversa, come se un manto scuro li avesse completamente avvolti. Non capiva cosa gli stessero dicendo, ma una cosa era certa: non lo stava respingendo. Si sedette davanti a lei, senza dire nulla. La guardava come si guarda la neve cadere dolcemente a terra in un giorno che non ti aspetti o come quando si scarta un regalo che ti riporta a un ricordo del passato, nascosto in un angolo della mente e che riscalda il cuore tutto a un tratto. 

Si scostò dallo schienale pronto a parlare, le parole stampate chiaramente nella sua testa, non poteva concedersi errori, ma poi quel gesto rovinò la fantasia che aveva elaborato: si era immaginato mentre diceva ciò che Giulia avrebbe voluto sentirsi dire, ma lei lo aveva anticipato e con la mano lo intimava a restare in silenzio. Si era poi alzata e muovendo appena la testa a destra e a sinistra, in segno di disapprovazione, era indietreggiata di qualche passo e in pochi istanti era sparita oltre la casetta di legno sotto lo sguardo confuso di Leonardo che si accorse solo in quel momento della neve che aveva iniziato a cadere a terra. In un momento davvero inaspettato.

Finale LINDA MOON

«Giulia!». Leonardo chiamava il suo nome tra la folla. «Giulia!». La intravedeva camminare senza accennare a fermarsi, se non solo per evitare di scontrarsi con qualcuno, e mentre fissava un cappotto blu immerso tra tanti altri dai colori banali, immaginava il suo viso costretto in una smorfia per trattenere le lacrime; lo faceva sempre, detestava piangere. Chiamò il suo nome altre tre o quattro volte, ma era come se nel farlo perdesse terreno, così a quel punto si fermò, indeciso su quale fosse la giusta mossa. 

I secondi scivolavano come fossero acqua che non si riesce a trattenere per quanto strette si tengano le mani, il petto sembrava troppo piccolo per contenere un cuore che pareva gonfiarsi sempre di più e il fiato stava lentamente venendo a meno. Per un istante sorrise e alzò il viso al cielo, lasciandosi accarezzare dai piccoli fiocchi di neve che cadevano con fare delicato sul suo viso. Era follemente innamorato di Giulia. Come aveva fatto a non capirlo prima? Forse i tanti pensieri lo avevano allontanato da quello più importante o forse non erano solo preziosi secondi a scivolare via, ma anche l’insicurezza che lo aveva sempre accompagnato in ogni sua azione. E in quel momento gli fu chiaro cosa dovesse fare. Si guardò attorno come se si trovasse per la prima volta in quella piazza, poi corse verso degli enormi addobbi natalizi a forma di pacco regalo, oltre gli abeti rossi, e una volta in piedi su di essi, gridò con tutta la voce che aveva.


«Fermate la donna con il cappotto blu. Mi ha rubato il portafoglio!». Con una mano indicava un punto preciso e continuò a ripetere la frase fino a quando qualcuno non gli diede retta e reagì. Non era in grado di sentire cosa Giulia stesse dicendo a un paio di persone che l’avevano fermata, indispettite, ma poi la situazione gli sfuggì di mano quando un uomo richiamò l’attenzione di due agenti di polizia. Leonardo fissava la scena stupito e sconvolto allo stesso tempo, non sapendo cosa fare: era troppo distante per far sentire la sua voce e spiegare il malinteso, la piazza ora brulicava di gente e come se non bastasse, un coro natalizio aveva intonato una canzone di natale proprio in quel momento. Non ne aveva la certezza, ma gli pareva di aver visto lo sguardo di Giulia inferocito che lo puntava da lontano.


«Hei, amico, penso ti serva questo». L’uomo barbuto del bar gli passò un megafono e gli diede una pacca sulla spalla. Leonardo gli sorrise e senza perdere un secondo in più, iniziò a parlare.
«Aspettate! Quella donna non mi ha rubato il portafoglio. L’ho detto solo perché qualcuno la fermasse. Chiedo scusa a tutti e Giulia…». S’interruppe per mandare giù un nodo alla gola che gli si era formato nel frattempo. Chiunque poteva sentire cosa stava dicendo, ma soprattutto erano in molti a fissarlo curiosi.
«Vedi, io…». Le parole impresse nella mente fino a poco prima parevano essere svanite come i fiocchi di neve si perdono in un unico manto bianco quando toccano terra.
«Non avrei dovuto dirti le cose che ho detto. Non avrei dovuto dirti che dobbiamo avere un figlio solo perché è ora di farlo. Non avrei dovuto sbatterti la mia superficialità in faccia. Ho accumulato così tanti non avrei dovuto che forse non merito nemmeno questa occasione per parlarti. Ho fatto un casino, lo ammetto. Ma Giulia, non andare via, non lasciamoci così. Io non posso cambiare all’improvviso, anzi, credo proprio che non cambierò mai, ma posso diventare migliore accanto a te, se ti permetto di farlo ed è ciò che voglio». 

Raggiunse il terreno per avviarsi verso di lei.
«Non voglio che ti illudi, avremo momenti in cui discuteremo, forse mi farai dormire sul divano perché lo sappiamo entrambi che toccherà a me farlo, ma ti posso promettere che mi sforzerò di ascoltare il tuo punto di vista e farò del mio meglio per non sparare cazzate. Non scuocerò più la pasta, smetterò di bere dal cartone del succo e tirerò sempre giù la tavoletta del water». Alcune persone si lasciarono scappare una piccola risata a quelle parole mentre Leonardo era ormai a pochi passi da Giulia, il megafono abbassato.

 
«So che ti sembra troppo bello per essere vero, ma sono pronto a rischiare tutto pur di avere un’altra possibilità con te, anche avere tante testimonianze a provarlo», e alzò le braccia a indicare le svariate persone attorno a loro, poi riprese a parlare, «E so che starai pensando che mi comporto così solo per via dell’atmosfera natalizia o per i tanti whiskey bevuti prima, ma ti giuro che non sono mai stato così convinto delle mie parole come lo sono ora. Certo, ogni tanto mi prenderò la libertà di alzare gli occhi al cielo perché lo sai bene che sei una gran rompipalle quando vuoi, ma sarò con te Giulia, ti amo da impazzire, e se ora vuoi andartene puoi farlo, non ti fermerò, ma sappi che ogni volta che vedrò qualcuno camminarmi accanto con un cappotto blu, quel maledetto cappotto che indossi anche le sere d’estate perché sei tremendamente freddolosa, spererò sempre che sia tu».


Nessuno parlava, la gente era rapita da quel momento, curiosa di sapere come sarebbe finita. E tutto attorno era come se il mondo si fosse arrestato per assistere a quel momento in cui il cuore di Leonardo batteva normalmente dopo un lungo arrancare. Giulia si guardò attorno, spostando lo sguardo altrove, poi lo fissò, e sorrise. «Finalmente! Ci hai messo una vita a capirlo…», e lo abbracciò forte. Un abbraccio che Leonardo ricambiò con profondo affetto, come fosse il primo ricevuto e sapendo che non sarebbe stato l’ultimo.

Finale ALBERTO SARTORI

Erano passati quasi tre anni, Giulia seduta in terrazzo stava fumando l’ultima sigaretta prima di andare a dormire. L’estate era alle porte e un vento tiepido le scompigliava i capelli. Una folata più forte fece volare in aria la cenere e rovesciare il calice di gin tonic sul giornale. Il liquido si allargò velocemente sulla carta umida, lei lo tirò via in fretta ma un lembo dell’ultima pagina rimase appiccicato al tavolino. Fece per rimuoverlo ma si bloccò di colpo, il cuore in gola, le tempie sembravano esplodere, le mani tremavano. In quell’apparentemente insignificante pezzetto di carta era stampato in corsivo: “Leonardo Scali. Amici e parenti si stringono attorno a Dio per salutare la scomparsa del caro Leonardo”.


Fu come un colpo di pistola in bocca, lo stomaco iniziò a contrarsi e Giulia si accasciò a terra, piangendo disperata. Non riusciva a respirare, boccheggiava come un pesce saltato fuori dalla boccia. Com’era possibile? Cos’era successo? Ogni risposta veniva soddisfatta da un’altra domanda e l’elenco era interminabile. Non lo aveva più visto dopo quella sera d’inverno, non lo aveva più sentito. Quell’amore litigioso che li aveva uniti per lungo tempo si era sciolto nelle tazze di whiskey caldo come una zolletta di zucchero. Giulia non era più riuscita a costruirsi una vita di coppia, era tornata a vivere nella stessa città in cui aveva convissuto con lui, aveva cambiato mille lavori, era uscita con qualche ragazzo, ma l’amore vero non aveva più bussato alla sua porta. E su quel terrazzo, riversa a terra per i crampi, stava comprendendo che i suoi insuccessi amorosi avevano una sola ragione: non aveva mai smesso di amare Leonardo. 

I giorni passarono lenti, ognuno percepito come fosse una settimana, finché sul calendario comparve lo stesso numero che era scritto nel trafiletto sul giornale. Giulia bevve la sua terza vodka prima di uscire di casa, erano soltanto le due del pomeriggio. L’abito scuro faceva pendant con l’espressione buia del suo viso. La messa sarebbe iniziata di lì a un’ora. Non aveva trovato il coraggio di chiamare nessuno per le condoglianze, tanto era sconvolta dalla notizia quanto non voleva darlo a vedere. Gli amori non dimenticati fanno uno strano effetto, vibrano a frequenze che non riusciamo mai a comprendere del tutto. Camminava a passo svelto verso la chiesa di San Marco, ripensando al primo appuntamento con Leonardo, in quell’istante gli sembrò di riaverlo al suo fianco e una lacrima solcò il viso scendendo al rallentatore.


Arrivò davanti alla porta principale, fece dei respiri profondi per calmarsi e riuscire a fare quei pochi scalini che la separavano dal portico. Iniziò a cercare con lo sguardo i suoi ex suoceri, i cugini, gli amici di Leonardo, tutte persone che pensava non avrebbe più rivisto. Gli ultimi banchi erano vuoti, proseguì facendosi il segno della croce e una rapida genuflessione, poi si voltò a destra e a sinistra ma non riconobbe nessuno. Avanzò ancora con il cuore in gola, senza più voltarsi, guardando solo il marmo rosso del pavimento e arrivò davanti alla bara posta ai piedi dell’altare. Un giaciglio semplice in legno di faggio, adornato con dei rametti d’ulivo. Si tolse i guanti di seta nera e alzò lo sguardo. All’interno della bara un uomo, sulla settantina, barba bianca, carnagione scura, non aveva nulla a che vedere con il “suo” Leonardo. Sorrise, vergognandosi di farlo nel bel mezzo di un funerale, sorrideva in viso e nel petto. Sgattaiolò fuori dalla chiesa mentre lo stomaco si rilassava e il cuore riprendeva a pulsare regolarmente. Sorrise ancora pensando a quanto fosse stata stupida per non aver fatto nemmeno una telefonata, per aver dato per scontato che al mondo ci fosse soltanto un Leonardo Scali.


Nella passeggiata verso casa continuava a ripensare ai bei momenti passati con lui, a quanto forte l’avesse stretta ogni volta in cui lei ne aveva bisogno e si chiese se fosse troppo tardi per sentirlo dopo tutto quel tempo. I suoi piedi avanzavano uno davanti all’altro senza che la mente desse comandi precisi, le sembrava di vagare casualmente finché non si ritrovò davanti al palazzo dove avevano convissuto. Al terzo piano le luci erano accese nonostante il bel sole proveniente dall’esterno. Era stato proprio quello il loro appartamento. Abbassò lo sguardo. Sul campanello tre nomi scritti in grassetto: Leonardo Scali, Stefania Grilli, Giulia Scali.
«Giulia Scali», sussurrò Giulia, «Ha chiamato sua figlia proprio come me». Allungò una mano per suonare, ma la ritirò subito. C’era già una Giulia nella vita di Leonardo. E forse era davvero arrivato il momento di dimenticarlo per sempre.

Fine

Uno speciale ringraziamento va anche a tutti coloro che hanno partecipato alla nostra iniziativa di scrittura e proposto il loro input: Gianluca Santomaso – Giulio Perozzo – Greta Bergamin – Cecilia Mariani – Filippo Romani – Ilaria Marangoni – Giovanni Lembo – giulilai35 – gali4music – farkikka – Andriko_Hajni – @attimidiprosablog

Traffic

Rebecca è una giornalista, ma prima di tutto un’idealista. Vuole giustizia, sempre! E quando le capita una buona storia, non si tira indietro. È pronta a tutto. E lo sa bene che ci saranno conseguenze, perché c’è sempre un prezzo da pagare. Solo, a volte, il rischio è fin troppo alto.

STORIA INTERATTIVA

Ho sperimentato un Cadavere Squisito, il racconto scritto a più mani, con una nuova recluta: Aldo Ferrarese. Un ragazzo con una storia di vita molto interessante che si è divertito in questo gioco di scrittura! E come primo debutto assieme, piuttosto soddisfacente ho lanciato come input una breve frase. In seguito, poco prima della stesura del finale, abbiamo chiesto al pubblico come dovesse proseguire la storia e ha vinto l’opzione “Svolta inquietante con omicidio”. E ognuno di noi ha scritto il suo finale!

Buona lettura!

“Ci scusi tanto signorina, c’è stato un errore nel database. Questo successo non è suo, lo deve restituire. Ci scusi sa, a volte capita anche a noi di sbagliare”.

(Input di Linda Moon)

Turno 1 Linda

Rebecca fissava l’ambiente davanti a sè che pareva aver perso ogni colore. Teneva gli occhi incollati sullo schermo del cellulare, incredula di ciò che aveva appena letto. In un lampo sentì una strana sensazione al petto che raggiunse la gola e le fece quasi mancare il respiro. Aveva lentamente smesso di camminare e si era fermata al centro del marciapiede, noncurante delle persone che dovevano deviare il percorso per non urtarla. I suoi occhi erano sgranati e allibiti. Il corpo rigido come un tronco d’albero. Solo i lunghi capelli castano chiaro si muovevano seguendo il leggero vento che aveva da poco spazzato via le nuvole per lasciar spazio ad una bellissima giornata di sole. Ma le condizioni atmosferiche erano l’ultimo dei suoi problemi. Si trovava a pochi passi dalla destinazione che a breve l’avrebbe vista al centro di in un’intervista in diretta nazionale. 

Ce l’aveva fatta! Questo le era stato comunicato tramite email appena una settimana prima quando aveva ricevuto l’esito del concorso letterario cui aveva partecipato inviando il suo romanzo. Ora però asserivano il contrario e anzi, reclamavano indietro quel successo che, a quanto pare, non era meritato.


Turno 1 Aldo

Come cavalli imbizzarriti, pensieri ed emozioni litigavano per ottenere la sua attenzione. «Pazzesco! Mi hanno preso in giro! Era troppo bello per essere vero! E ora vogliono pure distruggere la mia credibilità. Troppo strano che la mia denuncia e le mie indagini  fossero state accolte con tanto interesse. Maledetta critica! Fasulla e legata ad interessi e poteri che non tollerano la verità». Rebecca era furibonda. Se prima volevano premiarla per il suo lavoro, ora di sicuro qualcuno voleva ridicolizzarla in diretta nazionale.

Chiuse gli occhi fino a che una luce bianca e potente fece piazza pulita di ogni pensiero e paura. Ora sapeva cosa doveva fare. Si asciugò le lacrime e percorse velocemente i pochi passi che la dividevano dalla redazione. Varcò la soglia, indossando il sorriso più radioso. Strinse mani, scambiò saluti ed esibì la propria femminilità ed il suo essere donna. Sentiva crescere forza e determinazione dentro di sé e quando, dopo i soliti convenevoli, prese finalmente la parola, esordì decisa. «Signori, vi ringrazio, ma non posso accettare questo premio, e non farò nessuna intervista».

Turno 2 Linda

Lo staff della redazione la guardò allibita. Chiesero subito spiegazioni, ma Rebecca lì interruppe e raggiunse l’uscita più veloce della luce per fuggire a domande che voleva evitare. Non sapeva se aveva fatto la cosa giusta. Sapeva solo di essere incazzata come mai lo era stata in tutta la sua vita ed era decisa a capire come mai la situazione si era capovolta. Aveva scritto un buon libro, ne era certa, ma ora tutto sembrava crollare come un castello di sabbia che si sgretola per il forte vento. Si affrettò a rientrare a casa e, portatile alla mano, iniziò a cercare delle risposte.

Passò in rassegna ogni suo contatto del settore del giornalismo, ma ben presto capí che non avrebbe concluso nulla. Internet o le email scambiate con gli organizzatori del concorso non avrebbero dato le risposte che cercava. Eppure doveva scoprire che cosa fosse successo. Si strinse nelle spalle, mostrando un amaro sorriso all’appartamento che non vedeva l’ombra di straccio e scopa da almeno una settimana, poi l’illuminazione. C’era ancora una persona che non aveva contattato.


Turno 2 Aldo

Si affrettò a cercare il numero di Riccardo, un vecchio contatto dell’editoria, e fissò un appuntamento per il pomeriggio. Si conoscevano poco ma la stima era tanta e reciproca. Riccardo apprezzava gli articoli che lei pubblicava e  il suo cercare sempre la verità, anche quella più scomoda. Rebecca, dal canto suo, lo riteneva una persona unica e speciale. A cinquant’anni suonati, Riccardo aveva scelto di dedicarsi ai più bisognosi e da dieci continuava a farlo senza sosta. Gestiva un giornale intitolato Sulla strada di cui era direttore, redattore e giornalista. Il settimanale veniva distribuito in esclusiva sui marciapiedi dai barboni al costo di un euro che a volte diventava qualcosa di più, a seconda della bontà delle persone. Lo scopo era fare beneficenza, ma ne godevano anche il contenuto che trattava svariati argomenti: attualità, politica, interviste a persone che volevano far sentire la loro voce.

Arrivata in redazione, Riccardo accolse Rebecca in una stanza occupata per la maggior parte da libri e riviste accumulati in ogni angolo e tutto era impregnato di fumo. Riccardo si presentò alla ragazza in jeans e maglione, con i capelli spettinati  di un castano ormai sbiadito. Si sposava in maniera perfetta con il disordine che dominava l’ambiente. Rebecca invece, con il suo elegante tailleur e fresca di acconciatura, appariva fuori luogo ma non esitò a prendere posto sulla traballante sedia di legno. “Ho scritto un libro, Riccardo, un buon libro, che avrebbe dovuto vincere il premio Bancarella. Quando già mi aspettavano i giornalisti per l’intervista, mi è stato comunicato che non avevo vinto. Penso che qualcuno di influente si sia messo in mezzo per ostacolarne la pubblicazione”. Lui stava in piedi davanti a lei, appoggiato alla scrivania, le braccia incrociate. 

«E dimmi, Rebecca, che cosa vuoi da me?». 

«Voglio che stampi il mio libro. Voglio che venga distribuito nelle strade. Non mi interessa il profitto, voglio solo che la gente sappia la verità. E forse questo è l’unico modo». Riccardo la fissò in silenzio. Girò attorno alla scrivania e si accese una sigaretta, poi si sedette. «L’idea mi piace e sai che ti darei il mio appoggio a occhi chiusi ma…» e buttò fuori una grande nuvola di fumo «…che cosa hai scritto di così scandaloso?».

Turno 3 Linda

In meno di cinque minuti Rebecca gli aveva spiegato tutto. Delle sue ricerche. Di ciò che aveva scoperto. Delle denunce e del marciume che girava nelle strade della loro amata città. Nel suo libro metteva in luce la gestione del traffico di esseri umani. Delle povere donne che venivano ingannate, rapite e trasportate da  paesi stranieri come semplice merce di scambio.

«Allora, Riccardo, farai girare questo libro nelle strade?» chiese con voce tremante, come se tutto ad un tratto dubitasse anche di lui. Nell’ufficio l’unico rumore era quello della carta da giornale che veniva mossa a tratti dal vento. Il puzzo di fumo era diventato quasi insopportabile e Rebecca trattenne il respiro, ma non appena vide un sorriso sul volto dell’uomo non ci fece più caso. «Sappi però che corri un grande rischio e che probabilmente ti attaccheranno e non parlo solo a livello professionale…».

Lasciò in sospeso la frase per darle il tempo di realizzare che la sua folle idea avrebbe salvato molte vite, ma compromesso la sua. Rebecca rimaneva ferma immobile, sicura di ciò che voleva fare. «Macchieranno il tuo nome, la tua reputazione e con molta probabilità ti verranno a cercare». A quel punto Riccardo appoggiò i gomiti sulla scrivania, in attesa di una sua risposta. Lei lo fissò con un velo di tristezza ma era chiaro che non fosse per timore di rischiare la vita. Dentro di sé piangeva per le povere vittime che ancora non erano state salvate. «Lascia che mi trovino, non ha alcuna importanza».


Turno 3 Aldo

Rebecca uscì dalla redazione stanca ma contenta per aver trovato in Riccardo l’aiuto di cui aveva un disperato bisogno. Era però consapevole che quell’incontro avrebbe cambiato per sempre la sua vita. Si salutarono amichevolmente sulla soglia mentre fuori si era fatto buio. Nel suo elegante completo, si avviò verso casa e mentre camminava lungo la strada, non potè non notare il degrado del quartiere. Al lato opposto, donne che arrivavano da chissà dove si esibivano con falsa allegria in attesa di clienti. Una macchina si fermò per ripartire poi in velocità dopo aver fatto salire una ragazza, probabilmente minorenne. Un uomo in bicicletta urlò oscenità mentre passava loro davanti.

Poteva vedere i volti di alcune di loro tristi e allo stesso tempo vuoti, quasi fossero prive di un’anima. Gli occhi le si fecero lucidi e una lacrima corse lungo la sua guancia. Non appena vide un taxi lo fermò e mentre saliva non potè fare a meno di immaginarsi dall’altro lato della strada, in quelle condizioni terribili. In quel preciso istante decise che non sarebbe indietreggiata di un passo. Non avrebbe avuto paura, né permesso a nessuno di metterla a tacere.

Finale di Linda Moon

Finale di Aldo Ferrarese

Chiusi in ascensore per 12h

Cosa potrebbe succedere se due persone rimanessero chiuse in ascensore per 12h? Dopo un primo e probabile spavento, potrebbero perdersi in chiacchiere e sperare assieme e di uscirne vivi. Ma se le persone in questione si odiano da morire? Ecco, questa è tutta un’altra storia…

STORIA INTERATTIVA

Il team di Wanted Stories ha chiesto tramite un sondaggio su Facebook un input per iniziare a scrivere una storia sulla base del tema “DUE PERSONE CHE SI ODIANO RIMANGONO CHIUSE IN ASCENSORE PER 12 H”. Ne abbiamo ricevuti diversi e la scelta (non facile) ci ha portato a tenerne addirittura due! 

Dopo aver scritto il primo turno, abbiamo chiesto al pubblico l’andamento della storia proponendo “botte da orbi” VS “emozione galoppante” e abbiamo scoperto che il nostro pubblico è fatto di gran teneroni: l’emozione ha stravinto!

Ecco il racconto che io, Linda Moon, ho sviluppato con Alberto Sartori. Buona lettura!

Era un martedì come tanti in una fredda mattina di Dicembre a New York. Carlo e Serena fino a quel momento erano due perfetti sconosciuti e non sapevano nemmeno che quel giorno i loro destini si sarebbero incrociati in una situazione molto particolare. (input di Ermes Basso)

Serena era emozionata ma allo stesso tempo nervosa per un importante colloquio che aveva presso la Gagosian Gallery in Madison Avenue. Era la sua grande occasione! Aveva appuntamento con l’agenzia delle risorse umane al ventesimo piano di un edificio sito nelle vicinanze della galleria. Doveva compilare alcuni moduli prima del colloquio ufficiale. Raggiunse l’ascensore a passo svelto ma titubante sul suo tacco dodici mentre reggeva un caffè ancora bollente preso al volo da Starbucks. Al decimo piano, però, le porte si aprirono e il ragazzo che le apparve davanti mutò completamente l’espressione sul viso di Serena. (input di Daniela Zanconato)

Turno 1 Alberto

“Buongiorno!” disse Carlo portando indietro i folti capelli biondi. Da parte di Serena nessun cenno di risposta. Sembrava fissare le scarpe del ragazzo firmate Louis Vuitton. Probabilmente non ne aveva mai visto un paio di così costose. Dava l’impressione di trovarsi per la prima volta nell’ascensore di un edificio prestigioso. E come dar torto al suo imbarazzo? Carlo fece leva su tutto il suo carisma e le rivolse di nuovo la parola. 
“Buongiorno, a che piano deve salire?

Turno 1: Linda

Lei non lo degnó d’uno sguardo, ma non voleva risultare sgarbata, non in quel momento almeno. “Vado al ventesimo piano” si limitó a dire e strinse i manici della borsa nella speranza che l’ascensore arrivasse presto a destinazione. Doveva concentrarsi sul colloquio e non farsi distrarre da quel pomposo e ricco ragazzo che detestava. E come non farlo? I giornali lo presentavano come un ragazzo destinato a grandi cose, ma gli scandali erano il suo forte e pareva pure vantarsene. Si sentiva osservata ma continuava ad ignorarlo, fissando i numeri dei piani che man mano si illuminavano. Non vedeva l’ora di uscire da quello spazio angusto nonostante potesse contenere almeno quaranta persone. Non sopportava i tacchi che le stavano provocando le vesciche, inoltre strizzata in quel tailleur sotto al cappotto, si sentiva soffocare e quando il tasto del diciottesimo piano si illuminò, un rumore metallico assordante la fece spaventare e le luci al neon per un attimo si spensero.
“Dio mio, che succede?” chiese a voce alta.

Turno 2: Alberto

“Cosa vuole che sia successo? Si è fermato l’ascensore” rispose Carlo. E quando una sirena iniziò a suonare, Serena urlò terrorizzata. “Aiuto! Qualcuno ci aiuti!”. Ancora al buio, iniziò ad allungare le mani per cercare un appiglio ma le muoveva nel vuoto. Improvvisamente la luce si riaccese e quando si voltò, vide Carlo a petto nudo. Giacca, camicia e cravatta erano a terra. Lei lo guardò basita. Lui era rosso in viso dalla collera. Calò il silenzio totale, nemmeno la sirena suonava più e quando Serena schiuse le labbra per parlare, si rese conto che non reggeva più il caffè bollente tra le mani. I vestiti di Carlo erano macchiati e a terra una chiazza nera si allargava lenta sul pavimento.


Turno 2: Linda

Serena rimase a bocca aperta, anche se uno sguardo compiaciuto apparve sul suo volto per sparire non appena Carlo la fissò. Era parecchio scocciato. “Aspetta, prendo qualche fazzoletto. A proposito, io sono Serena” disse mentre rovistava nella borsa senza smettere di trattenere una risata. “E che cosa me ne faccio? Guarda che hai combinato! Questo completo vale tremila dollari e ora è da buttare. Spero sarai contenta!”. Lui continuava a guardare affranto il suo vestito. “Arrangiati allora!” disse Serena lanciando ai suoi piedi il pacchetto di fazzoletti. Mise il broncio ed incrociò le braccia. In quel momento lo avrebbe preso a schiaffi. “Proviamo ad uscire da qui piuttosto!” e si avvicinò ai pulsanti cercando quello per contattare la sicurezza.

“Le faremo sapere?” disse facendo una smorfia verso Carlo. “Ma che razza di risposta è? Siamo bloccati qui ed è tutto quello che hanno da dire?”. Serena era sempre più nervosa. Si mise in un angolo e sbuffò, mentre lui si lasciò scappare un sorriso. “Ti fa ridere questa situazione?”. Carlo la fissò sicuro di sé, facendosi molto vicino a lei che arrossì imbarazzata. Per un attimo si guardarono senza dire una parola. Serena era paralizzata e pensò che fosse molto inopportuno che ci provasse con lei proprio in quel momento, ma poi Carlo premette il tasto per contattare la sicurezza.

“Pronto, qui la sicurezza”.

“Buongiorno, sono Carlo Riggi, amministratore delegato della HR Executives e sono bloccato nell’ascensore”.

“Sig. Riggi, ci scusiamo per il disagio. Mandiamo subito qualcuno a risolvere il problema”.

“Grazie!” e si mise al lato opposto di Serena, guardandola in silenzio mentre indossava la giacca sopra alla bianca canotta di cotone e piegava la camicia con cura. Aveva l’aria compiaciuta, al contrario di Serena la cui espressione era a dir poco furiosa.

Turno 3: Alberto

Più Carlo la fissava, soddisfatto di averla zittita, più quel viso gli sembrava familiare. Aveva l’aria della brava ragazza. Trucco delicato. Capelli biondi raccolti in una coda. Abbigliamento semplice ma elegante. Non era il genere di ragazza che frequentava, eppure era sicuro di averla già vista da qualche parte. E dopo qualche istante, l’illuminazione. “Oh mio Dio!” si fece sfuggire a voce alta.

“Che cosa c’è?” chiese lei con l’aria di chi si aspetta un’imminente catastrofe.

“Ah, niente. Ho un appuntamento molto importante tra poco e lo salterò di sicuro se non ci tirano fuori da qui” riuscì a dire Carlo in fretta e furia. A stento dovette trattenersi dal nervoso che gli stava suscitando Serena. Quella maledetta!

Adesso ricordava tutto. La voglia dietro al collo era inconfondibile. Ricordò di aver pensato che se ci avesse disegnato due punti e un sorriso stilizzato, sarebbe sembrata un fantasma. Era quella disgraziata che due settimane prima gli aveva rubato il taxi da sotto il naso, facendolo tardare ad una cena con una famosa modella che non solo aveva fatto una scenata epica non appena si era presentato e lasciato un conto salato da pagare, ma che lo aveva liquidato a fine serata con un “Grazie ma non penso vorrò rivederti!” umiliandolo in pubblico e creando l’ennesimo gossip, cosa di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Aveva giurato a se stesso che si sarebbe vendicato se mai l’avesse rivista e ora che era ad appena un metro da lui, pensò che il karma avesse uno strano modo di agire quel giorno.


Turno 3: Linda

Nonostante Carlo avesse avvisato della sua presenza nell’ascensore, sia lui che Serena erano ancora bloccati lì dentro ed erano passate già due ore. Carlo sedeva a terra, scrutando il cellulare mentre Serena era in piedi dall’altro lato, la schiena contro la parete, e stringeva il cappotto tra le braccia, sbuffando di tanto in tanto in maniera pesante.

“Puoi smettere di farlo?” chiese Carlo in tono seccato.

“Fare cosa?”.

“Respirare forte. E’ fastidioso”.

Serena alzò le sopracciglia, visibilmente infastidita. “Mi scusi Sig. Riggi, farò in modo di non respirare affatto!” sbottò seria e distolse lo sguardo altrove. Carlo si alzò in piedi e provò nuovamente a ricontattare la sicurezza, che rispose prontamente anche se la situazione non era affatto invariata. Sospirò forte, le mani sui fianchi, e si lasciò scappare una parolaccia. Serena scoppiò in una risata. “E sono io quella fastidiosa?” intervenne lei scuotendo il capo. 

“Ti conviene non esagerare, ladra di taxi!”.

“Scusa, come mi hai chiamato?”.

“Hai capito bene! Due settimane fa stavo salendo su un taxi e tu me l’hai letteralmente rubato da sotto il naso!”. Carlo allargò le braccia per enfatizzare il suo disappunto.

“Ora ricordo… e guarda che quel taxi l’avevo fermato io per prima. E poi hai sicuramente mille modi diversi per spostarti. Io no!”.

“Avevo una cena importante!” disse urlando. Si stava davvero innervosendo e il caldo si faceva sentire in quello spazio che ormai era stretto anche solo per due persone.

“E con chi? Con l’oca di turno? Dovresti ringraziarmi, ti ho fatto un favore!”.

Carlo fece per parlare, ma preferì mordersi la lingua. Sperava solo che la sicurezza intervenisse al più presto. 

Turno 4: Alberto

Carlo si assopì e anche Serena entrò in uno stato di dormiveglia. Passarono ben otto ore senza che i due se ne accorgessero, travolti dalla stanchezza e dal sistema nervoso in mille pezzi. Fu come passare una notte intera di sonno tutt’altro che riposante. Si svegliarono quasi di soprassalto quando sentirono un rumore metallico. Forse qualcuno li stava finalmente soccorrendo, ma persero presto le speranze quando piombò nuovamente il silenzio. Guardarono entrambi i loro cellulari, le batterie erano ormai esaurite. Non avevano più contattato la sicurezza ma Carlo, estenuato, decise di ritentare.

“Pronto, sicurezza”.

“Sono sempre il Sig. Riggi e siamo ancora chiusi in ascensore!” tuonò furibondo.

“Quale ascensore? Sono Andrea e ho appena iniziato il turno. Ah sì, eccovi lì, vi vedo dalla telecamera. Mando subito qualcuno” e riattaccò. Carlo non ebbe nemmeno la forza di arrabbiarsi e si sorprese quando si sedette accanto a Serena.

“Che situazione surreale” disse, lasciandosi scappare una piccola risata.

“Potresti stare un po’ più in là e non invadere il mio spazio vitale? Non togliermi quel poco ossigeno che mi rimane…” disse lei, ma la voce non era quella di una persona arrabbiata. Era ormai distrutta. In quel momento, spinto dall’istinto, Carlo le prese la mano. Era come se la sua mente non riuscisse più a comandare i movimenti del corpo. Fino a poche ore prima odiava quella ragazza. Ora non riusciva a capacitarsi di quel gesto. Serena non lo respinse, anzi. Se ne restarono così, in silenzio, senza dire niente e a fissare la parete opposta dell’ascensore. Le mani sempre strette l’una all’altra. Il battito di Carlo era stabile sui cento al minuto. Non riusciva a gestire la sensazione del calore del palmo di Serena contro il suo.


Turno 4 Linda

Serena sentì lo sguardo di Carlo su di lei. I loro respiri viaggiavano all’unisono. E quando si voltò era palese e al tempo stesso incredibile l’attrazione che provavano l’uno per l’altra. Si erano odiati ancor prima di conoscersi. Avevano discusso mandandosi mentalmente a quel paese. Ora invece tutto era cambiato. In quasi dodici ore erano passati da nemici a qualcosa come due anime, forse, innamorate. In quel momento un altro rumore metallico rimbombò in quello spazio, ma loro non si mossero. E quando le luci si spensero, le loro lingue si cercarono, quasi con foga. Serena pensò che quello fosse il più bel bacio mai ricevuto. Carlo pensò che per la prima volta dopo molto tempo, baciava una ragazza desiderandolo per davvero. Era un momento quasi surreale e quando le luci al neon tornarono timidamente ad illuminare la stanza, Serena si allontanò di scatto, alzandosi velocemente per chiamare la sicurezza e in meno di un minuto le porte finalmente si aprirono.

Leggi il finale scritto da Linda Moon

Leggi il finale scritto da Alberto Sartori

Fine