Due racconti: uno racconto surreale e uno bizzarro. Unico punto in comune: un quadro di Edward Hopper.
Gli scrittori hanno sguinzagliato la loro ispirazione e scritto due brevi racconti, ispirati da un quadro molto particolare del “pittore della solitudine”.
STORIA INTERATTIVA
Mi è stato proposto da Alberto Sartori di elaborare un racconto ispirato al pittore americano Edward Hopper. Esponente del realismo, è famoso in particolare per i ritratti della solitudine, cosa molto affine a questo periodo di “arresti domiciliari”. E come faccio sempre, ho chiesto al pubblico due input, ovvero: qual è il vostro pensiero ricorrente? Qual è la cosa più strana in cui vi siete cimentati?
Ecco i nostri racconti singoli e gli input che ci hanno ispirato! Buona lettura!
Racconto di Linda Moon
(Input di Ugo Domeniconi) – Il mio pensiero ricorrente è “Stavo facendo veramente la vita che avrei voluto fare o con gli anni mi sono adattato agli eventi?”. In altre parole “Che vita vorrei che mi aspettasse fuori?”. La cosa più strana in cui mi sono cimentato? Ho simulato di avere ospiti a cena apparecchiando la tavola per loro senza che ci fossero veramente! E abbiamo anche chiacchierato un po’, ma non lo dire a nessuno!
Leggi il racconto di Linda Moon a questo link: Pilar e i 12 ospiti improbabili
Racconto di Alberto Sartori
(Input di Ugo Domeniconi) – Il mio pensiero ricorrente è: “Stavo facendo veramente la vita che avrei voluto fare o con gli anni mi sono adattato agli eventi?”. In altre parole: “Che vita vorrei che mi aspettasse fuori?”.
(Input di Cecilia Mariani) – La cosa più strana in cui mi sono cimentata? In questa quarantena ho… letto ad alta voce!
Seduto sopra a questo letto di nuvole e cotone, la finestra sembra rimpicciolirsi sempre di più. Ricordo ancora la prima volta in cui vidi questo appartamento, entrai in camera e… meraviglia! La vetrata che si parava di fronte a me era grande come tutta la parete. Ed i pensieri volarono al di là di quello schermo trasparente, alle miriadi di balconi che avrei potuto osservare, ai passanti che piccoli come formiche potevo veder operare ogni giorno, perfino immaginando i loro dialoghi. Ed invece qui, ora, stringendo le ginocchia al petto, quella finestra non mi sembra molto più grande del mirino di una fotocamera.
E di nuovo mi perdo a riflettere sul mutare della percezione delle cose.
E di nuovo mi perdo a meditare sul cambiamento della percezione della vita.
E le domande si adagiano dentro la mia testa come grossi fiocchi di neve cullati dal vento, si depositano colmando ed opprimendo la mia lucidità.
Sto davvero facendo la vita che avrei voluto fare? O con il passare degli anni mi sono adattato agli eventi? Che vita vorrei che mi aspettasse fuori? Le risposte non tardarono ad arrivare, come lame poco taglienti che premono sul costato facendomi mancare l’aria. Tento di alzare le mani ed allungare le ginocchia ma è come se fossi incollato a me stesso. Ed i polmoni sono ormai saturi di anidride carbonica che brama di liberarsi ed uscire dall’interno della mia prigionia.
Sono in apnea.
“Rispondi alle domande, Sergio. Muoviti!” è la mia mente che impartisce gli ordini a me stesso. Lei sa che l’ossigeno inizia a scarseggiare nelle mie arterie.
“No! Non sto facendo la vita che avrei voluto fare!” inizio ad urlare e qualche schizzo di saliva mi esce dalla bocca, prima di riprendere: “Perché me lo chiedi? Ma che cazzo vuoi? Lo sai il perché. Vuoi sentirtelo dire di nuovo? Va bene! Perché mi sono adattato a quello che le persone hanno voluto che io fossi. Perché per avere l’approvazione di chi mi stava attorno sono sempre stato gentile, rispettoso, amorevole ed invece… invece… avrei voluto prendere la macchina e sparire nel nulla.
Andare a sopravvivere, che ne so, in Provenza a raccogliere la lavanda ed a mantenermi con lavori saltuari. Avrei voluto tornare ad amare invece di chiudermi dentro ad un bozzolo di seta senza mai rinascere farfalla. Ed invece piedi sempre bene a terra, lavorare per uno stipendio fisso dimenticando cosa siano davvero le passioni, le emozioni, tentando di far tacere ogni giorno quell’anima creativa che mi esplodeva dentro.”
Sono ancora in apnea.
Sono passati 45 secondi.
“Che vita vorrei che mi aspettasse fuori? Ma te l’ho appena detto! Casomai potrei dirti che vitavorrei che mi aspettasse qui dentro. E sai qual è la risposta? Nessuna! Rinchiuso in questa gabbia che mi sono creato da solo, ferito da una tagliola per orsi mentre io sono soltanto un coniglio, ammaestrato da questa infedele e rabbiosa società.”
Non sono più in apnea.
Sto di nuovo respirando.
L’agitazione contrae spasmodicamente i miei muscoli.
Guardo a destra.
Guardo a sinistra.
Muovo la testa a scatti, come frame di un vecchio cartone animato. Guardo il soffitto, poi il comodino, la scrivania. Fermo lo sguardo. Un solo libro sulla mia scrivania. “Suicidio, istruzioni per l’uso”. Riesco a scollarmi da me stesso e corro a prenderlo, apro una pagina casualmente, mettendomi a leggere a voce alta. Sono davvero impazzito. Quando mai io, Sergio, con questa voce di merda, ho letto a voce alta? Nemmeno a scuola, nemmeno in chiesa, nemmeno al funerale di mia sorella. Ed invece stavolta inizio a leggere ad alta voce.
“Pagina 258. Materiale necessario: sacchetto di plastica almeno cinque volte le dimensioni del cranio. Elastico.
Istruzioni: mettere la testa all’interno del sacchetto di plastica, sigillare con l’elastico all’altezza del collo. Attendere. Respirare con calma.”
Vado in cucina, apro il secondo cassetto e prendo quel maledetto sacchetto di plastica che avevo preparato proprio per questa occasione. All’interno c’è già un elastico color verde acceso.
Torno in camera e prendo la lettera d’addio che ho scritto qualche mese fa, non ricordo nemmeno il giorno preciso, fatico perfino a ricordarne il contenuto.
Chiudo gli occhi e faccio dei bei respiri profondi.
I secondi non scorrono.
Le mani tremano.
Le pareti si allargano alle mie espirazioni e si stringono con le mie inspirazioni.
Chiudo gli occhi.
Bestemmio.
Riapro gli occhi.
Bestemmio.
Delle ganasce immaginarie stringono forte i miei bronchi.
Un ultimo respiro e…
…mi decido ad agire.
Prendo la lettera e la infilo dentro al sacchetto di plastica, sigillo con l’elastico, apro la finestra e
lancio tutto verso la strada sottostante. Da quassù osservo quella donna che vede cadere ad un metro da lei quel pacchetto schifoso. Lo scarta. E’ evidentemente attratta dalla lettera su cui ho impresso: “Con amore. Sergio”. E dopo qualche secondo la sta già leggendo.
“Non basterà il tuo sguardo a togliermi quella malinconia che mi brucia dentro. Non basteranno nemmeno le tue mani mentre accarezzeranno il mio viso, le mie braccia. Non basteranno le parole lontane, sussurrate a malapena da corde vocali impaurite, incapaci di sopravvivere all’amore. Non basteranno i sussurri, le vecchie ragioni, le nuove opinioni, i tuoi sorrisi riflessi nella mia anima. Non basterà il tempo, avvizzito da troppe stagioni, eroso dal passaggio di troppi serpenti sempre sullo stesso cammino. Non basterà la morte a farmi temere un’emozione, assopita, affranta, lacrimata sulle gote. Niente basterà a togliermi da questa tormenta, a far calare il vento che spinge via la mia nave da cuori troppo ammaestrati per esser conquistati. Niente basterà per cullare le mie ore notturne. Niente basterà. Sergio”.
La donna rimane immobile con quel pezzo di carta tra le mani. Sono qui da ben sette eterni minuti, ho contato i secondi uno ad uno. La mia mente è diventata un singhiozzante orologio che dilata le ore a piacimento. La vedo ripiegare con cura la mia lettera e metterla in tasca. Senza togliere lo sguardo frugo, allungandomi, all’interno del cassetto della scrivania e tiro fuori il vecchio binocolo di mio padre. Devo vedere la scena in ogni dettaglio, non so cosa mi stia spingendo a farlo. Lascio che il mio sguardo passi attraverso le lenti di ingrandimento. Ha gli occhi chiusi.
Dal taschino dei jeans esce un pacchetto di Marlboro. I capelli sono raccolti in una lunga e bionda treccia che termina con un spruzzata di colore rosa. Le sue mani sono aperte ai lati del corpo senza appoggiarsi sui fianchi. La vedo riaprire gli occhi e con una lentezza infinita alzare lo sguardo e poi la testa. Sembra stia cercando qualcosa. Continua a guardare in tutte le direzioni possibili e poi si ferma all’improvviso. I suoi occhi penetrano dentro ai miei, mi accecano, le mie iridi iniziano a bruciare, la mia mente va in completo blackout.
Non so come sia possibile.
Non riesco a credere che sia possibile.
Non ho preso pastiglie e non ho inventato nessun nuovo cocktail di psicofarmaci.
Eppure il suo pensiero sta entrando nella mia mente: “Sergio, io ti amo”.
Ed i pensieri iniziano a roteare come in una spirale, il cuore accelera i battiti fino a 180.
Le tempie iniziano a pulsare.
Sorrido e non smetto di guardarla.
Ed in un attimo la vedo scomparire.
Ed in un secondo mi sveglio con quella serenità che avevo ormai perduto da settimane.
La sensazione d’amore pervade tutto il mio corpo.
Mi giro e trovo lei di fianco a me. E’ la donna che nel sogno non avevo riconosciuto.
E’ la donna che non lascerà mai che io cada nell’oblio e nella solitudine.
E’ la donna che non mi farà mai vivere bramando un sacchetto di plastica.
E’ la donna che amo.
E’ la donna che…
…le coperte si sgonfiano e calano lievi sul materasso.
Sul cuscino scompare l’impronta della sua testa.
Il letto è di nuovo vuoto.
Il letto è di nuovo freddo.
Le allucinazioni sulla vita che vorrei lasciano nuovamente spazio a questa mia eterna solitudine.