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Come una madre

Sono single. Ho trentacinque anni. Un fisico formoso ma atletico. Odio la lavanda, credo di essere l’unica persona al mondo. Ricerco l’ordine, o forse dovrei dire la perfezione, in ogni cosa. Sono imprenditrice. Produco un marchio di moda. Nulla a che vedere con Gucci o Louis Vuitton, ma viaggia bene.

Apprezzo i piatti semplici, il vino bianco, mangio solo gelato al gusto vaniglia. Non convivo, non ho relazioni, ho solo contratti o incontri a tempo determinato. Tendo al controllo. Sono intelligente, ma a volte dimentico che sono umana e che nulla può seguire in maniera impeccabile il suo percorso. Adoro gli animali solo nei film. Amo la mia famiglia, ma presa a piccole dosi. Ed è qui che decade tutta la mia vita. In un giorno qualunque, il castello che credevo solido e inattaccabile crolla proprio davanti a me, e io con lui.

Non so come quella foto sia arrivata a me, né chi l’abbia scattata, ma ogni domanda che emerge nella mia mente viene allontanata dalla madre di tutte le domande: i bambini stanno bene? Il respiro viene a mancare, la gola prude. Ho la sensazione di aver perso l’udito perché non percepisco nemmeno più la televisione in sottofondo. Non ho loro notizie da oltre un mese.

L’ultima volta li ho visti per pochi minuti. Si tenevano per mano camminando verso di me mentre li aspettavo in una stanza e sorseggiavo un caffè. Avevo messo in bella vista due grandi pacchetti regalo, ma non li avevano toccati. Rimanevano fermi immobili come se aspettassero una mia reazione. La più grande aveva appoggiato il braccio sulle spalle del più piccolo che teneva la testa bassa. Io dicevo poche frasi che si concludevano con un gran sorriso da clown. Solo la più grande rispondeva, ma a monosillabi.

Serrai le labbra e mi alzai, dicendo che ci saremmo rivisti presto e in quel momento il più piccolo mi guardò. Gli occhi di un marrone chiaro richiamarono il ricordo della loro mamma, la mia sorellina con cui condividevo ogni cosa. Non dice nulla, ma la sua espressione mi fa capire che è consapevole che sto mentendo. E mi sovviene il ricordo di quando da piccola, io la mia sorellina ci divertivamo a rubare i mestoli di mamma per giocare sotto al tavolo mentre lei cucinava; diventava matta ogni volta e quando ci scopriva, o meglio, si stancava, minacciava di toglierci tutti i giochi e noi scappavamo in camera, divertite, perché non sapeva che i giochi migliori li avevamo nascosti nell’armadio, sotto ai piumoni invernali. 

Getto la foto sul tavolo della cucina e mi affaccio alla grande finestra del mio attico. È stupenda la vista da lassù. È stata la carta vincente che mi ha portato all’acquisto. Quei bambini non sono mai venuti qui: ogni oggetto è vintage o di lusso, morirei se qualcosa si rovinasse. Ripenso a mia sorella, e d’istinto porto una mano alla bocca. Non piango mai. Per nessuna ragione. È una cosa così debole che provo una gran vergogna e abbasso lo sguardo, neanche avessi davanti qualcuno a giudicarmi. Mi volto di scatto e spingo una sedia a terra con una violenza di cui non mi credevo capace. Il rumore è assordante a quell’ora della sera. Il mio sguardo è fisso sull’oggetto che pochi istanti dopo rimetto a posto con estrema delicatezza, come se stessi raccogliendo delle rose a cui non ho tolto le spine.

Prendo in mano il cellulare e scorro la rubrica con cautela. Forse spero di non trovare registrato quel numero, ma poi appare ai miei occhi chiaro e distinto. Il dito è a mezz’aria e, ancora indeciso, preme sul tasto. Quando una voce femminile risponde, provo un disagio tremendo, praticamente un tuffo a bomba in una piscina dall’acqua gelida. Il capitano delle mie emozioni tiene con le briglie la mia ansia, in fondo devo farle solo una domanda anche se in un lampo riaffiora la nostra prima conversazione dove mi informava che ero la parente più prossima ai miei due nipoti. La mia famiglia era morta in un incidente d’auto: non avevo più una sorella, un cognato, una madre e un padre. I bambini erano a un compleanno. Non avevo trovato il coraggio di andare a prenderli e avevo insistito che fosse lei a occuparsene. Che vigliacca…
Mi scuso per l’orario e lentamente, quasi la mia mente ragionasse come una giostra a gettoni da caricare di continuo, chiedo come stanno i bambini. La mancata fluidità con cui solitamente conversa, la tradisce. Provo un freddo pungente lungo la schiena e stringo il telefono più forte. Chiedo spiegazioni, le pretendo. Mi dice che purtroppo c’è stato un cambiamento e che per un banale disguido, forse, non sono stata avvisata. Mi elenca un indirizzo e il sangue smette di affluire nelle mie vene, o almeno è ciò che sento.

Non mi rendo conto di essere scalza, con indosso solo un tubino e i capelli disordinati. Il portiere al piano terra apre la porta d’ingresso giusto in tempo per evitare che ci finisca contro. Corro veloce lungo il marciapiede. Urto qualche passante, i più furbi si scansano. Attraverso la strada facendo cenno di stop alle auto che non suonano nemmeno il clacson, forse perplesse dalla mia foga. Raggiungo l’altro lato della strada e corro sempre più veloce. Alle superiori era una gran velocista ed è incredibile come il mio corpo ricordi bene il ritmo utile per una corsa equilibrata.

Corro per quelli che saranno almeno otto chilometri. Non accenno fiato corto. Non crollo. Mi fermo di scatto davanti alla destinazione e urlo di aprire mentre busso alla porta così forte che dall’altro lato della strada qualcuno blatera a voce alta frasi che non comprendo. Forse mi dicono di fare silenzio, forse mi intimano a fermarmi. Non lo so e non mi interessa. Una luce si accende e quando la porta si apre, non bado a chi ho di fronte. Chiamo i loro nomi di continuo, come fossi un disco rotto e il volume bloccato allo stesso punto, alto e ruggente.

Altre luci si accendono. Sento un brusio di voci, ma non ascolto. Salgo al primo piano e percorro i corridoi. La mia voce squillante risveglia quel posto che non volevo per loro. C’è odore di vecchio, le pareti hanno l’intonaco crepato, la toilette puzza di fogna, il pavimento presenta macchie ovunque. Chiamo i loro nomi ma non li trovo e in quel momento mi blocco perché mi rendo conto di piangere. Mi volto e osservo gli sguardi perplessi o spaventati di bambini nei loro pigiami, alcuni stringono un peluche. Penseranno che sia una pazza e credo di averne l’aspetto. Poi sento chiamare il mio nome e mi volto. Eccoli! 

Prendo in braccio il più piccolo e per mano la più grande e li trascino fino all’ingresso mentre un uomo anziano mi aggredisce a parole che puntualmente ignoro. Esco in strada e cammino senza voltarmi. I bambini non dicono nulla, mi seguono. Più ci allontaniamo da quell’edificio, più ho la sensazione di essere al sicuro. Mi guardo attorno per capire dove ci troviamo e il più piccolo mi guarda e dice che ha fame. Poteva dirmi qualsiasi cosa, anche la più atroce, ne avrebbe avuto diritto. Invece ha solo voglia di mangiare.

Anche se non ho un soldo con me, camminiamo verso il primo locale che offra pasti a quell’ora e nel cercarlo, vedo la mia immagine riflessa lungo una vetrata scura. Ho l’aspetto di chi è andato incontro a un uragano, uscendone indenne. Cerco di sistemare i capelli, ma la più grande mi ferma. Mi chiede di non farlo. Dice che le ricordo la sua mamma e il mio petto si scalda facendomi sentire in colpa ma serena al tempo stesso. Sorellina, mi manchi così tanto…

Raggiungiamo un locale che vedo ancora impegnato a servire pasti caldi, ma due pattuglie della polizia si avvicinano. Un uomo in divisa mi analizza come uno scanner e dallo sguardo deciso, comprendo che sa chi sono e cosa ho fatto. Mi chiede di salire in auto e lasciare i bambini alla sua collega che prova ad avvicinarsi, ma io li blocco con un immediato gesto della mano. Dico che non farò nulla di tutto ciò, non prima di aver portato i bambini a mangiare, perché è ciò che desiderano.

L’uomo mi fissa serio per secondi che sembrano non avere fine. Di sicuro teme per la vita dei bambini, e il suo giuramento lo obbliga a far rispettare la legge, a servire e proteggere, ma ho anche l’impressione che comprenda il mio stato d’animo perché lentamente perde la posizione rigida e i lati della sua bocca, nonostante siano nascosti dai baffi, si addolciscono. Fa un cenno con la mano che mi rassicura e apre la porta per farci entrare nel locale. 

Il piccolo siede sulle mie gambe, la più grande di fronte a me. Ordiniamo solo tranci di pizza e dolci. Insisto sull’acqua al posto della coca-cola, lo faceva sempre mia sorella. Mangiano e scherzano come se nulla di folle sia successo, come se la polizia non fosse lì fuori, in attesa che usciamo. Forse non sanno cosa accadrà, a dire la verità non lo so nemmeno io, ma in quel momento non m’importa. Do un morso alla torta al cioccolato e lo stomaco si apre in segno di grazia, felice di non dover digerire altro cibo privo di grassi. È il morso più dolce e sensato degli ultimi anni e provo un immenso piacere nell’assaporarlo.

Sposto indietro una ciocca di capelli e mi rendo conto di essermi sporcata. Fino a un’ora prima avrei urlato isterica, ora invece osservo curiosa il residuo di cioccolato sulle dita, sul vestito, sui capelli. Il piccolo si volta e ride. Dice che una volta la sua mamma non sapeva se tagliarsi i capelli. Lo ripeteva in continuazione a tutti quanti e lui, stanco di sentirla, le aveva spiaccicato in testa una gomma da masticare. Ricordavo quell’episodio, ero con lei dalla parrucchiera il giorno in cui dovette quasi rasare i capelli a zero. Ci ritroviamo a ridere, quasi a crepapelle. 

Li avevo rifiutati perché non volevo la responsabilità di curarmi di loro. Corrotti con regali per figurare come la zia perfetta. E rapiti senza alcuna spiegazione nel cuore della notte. Eppure erano seduti con me a ridere, a mangiare, a parlare della loro mamma. Spensierati. Com’era possibile? Non serbavano alcun rancore nei miei confronti e io non ero mai stata così felice come in quel momento.

FINE

Pilar e i 12 ospiti improbabili

Pilar leggeva un libro sulla sedia da campeggio mentre prendeva il sole. Era davvero surreale vivere la quarantena da coronavirus in condizioni atmosferiche eccellenti. Erano le quattro del pomeriggio di un Aprile appena sbocciato e aveva pensato che fosse perfetto distrarsi con la lettura. 

Resistette poco più di mezz’ora però, poi chiuse il libro di scatto e si osservò attorno. Era davvero folle che ci fosse a malapena il cinguettio degli uccelli in sottofondo. Niente auto, niente persone. Il nulla. Rientrò in cucina per bere un bicchiere d’acqua e controllare se Marco avesse chiamato, ma lo schermo era privo di notifiche. Fece scorrere la rubrica fino a trovare il numero di nonna Teresa e al sesto squillo la sua voce si fece sentire chiara e squillante. Una conversazione in spagnolo prese atto e più che un parlare, sembrava un recitare un’opera teatrale che viaggiava a suon di maracas.

Sola in casa, Pilar dava libero sfogo alle sue origini spagnole di una Valencia che non vedeva da tempo. Non era pentita di aver mollato il suo lavoro di fotografa per seguire il compagno e futuro sposo in Italia, ma non aveva nemmeno previsto che un virus quasi letale avrebbe seminato il panico e costretto tutti ad una quarantena che ora come ora sembrava non avere fine. 

Si erano stabiliti a Cesena poco prima di Natale e tra il trasloco e il realizzare di essere in una città straniera, Pilar non aveva conosciuto nessuno e il poter uscire solo per questioni importanti come la spesa o la farmacia, limitava di certo la possibilità di incontrare persone nuove. E a peggiorare la situazione era il fatto che Marco era partito appena un mese prima per New York e ora era bloccato lì, senza la certezza di poter tornare a casa. Vivevano in un attico, sopra ad un condominio di dieci piani, ma tutti i residenti sembravano barricati in casa e pronti a scappare non appena incrociavano lo sguardo di qualcuno, anche il più conosciuto.

Quel pomeriggio era per Pilar la quarta settimana in cui rimaneva sola e per un attimo pensò di uscire in strada e urlare. Quella solitudine la stava alienando ma peggio, meschini pensieri si facevano largo nella sua mente. Sdraiata sul divano, guardava la televisione senza volume ma ben presto la cosa si rivelò essere un incubo. Su Real Time, Gordon Ramsay non urlava ad uno chef apprendista di andare a spaccare legna piuttosto che cucinare, ma rimproverava Pilar per aver fatto la stupida scelta di aver seguito il suo amato compagno italiano nella sua terra. Su Cielo un giovane Tom Hanks nei panni di Forrest Gump scappava dai bulli, ma in realtà era lei che scappava da una grande opportunità di lavoro offertale in Valencia, ma che aveva declinato per paura di fallire. Cambiò ancora canale e su Paramount Channel, Carrie Bradshaw in quel preciso momento tirava il bouquet in testa a Big per averla abbandonata all’altare e mentre Pilar guardava il suo anello, pensò che forse avrebbe fatto la stessa fine perché Marco aveva rimandato la data del matrimonio un paio di volte per motivi di lavoro, ma forse la realtà era un’altra e ora c’era pure la pandemia.

L’unica consolazione era che si sarebbe risparmiata l’umiliazione di essere abbandonata il giorno del matrimonio con indosso un abito lontano dall’essere favoloso come quello di Vivienne Westwood e senza indossare un uccello di piume in testa. Per un attimo scosse il capo, quasi volesse spazzare via quei pensieri assurdi e cercò qualcosa di interessante da guardare per passare il tempo, ma se su Rai 4 Andrea Sachs trionfava con Miranda Priestly ne Il Diavolo veste Prada, ottenendo alla fine il lavoro dei sogni, quando cambiò di nuovo canale il suo buonumore crollò alla vista di un Maurizio Crozza che in silenzio scuoteva il capo come dire “Ma la finiamo con ste cazzate?”. Sfinita dallo zapping demoralizzante, si alzò dal divano per fare qualche pulizia di casa. L’aspirapolvere le diede un incredibile sollievo. Mai soldi furono spesi meglio se non per un Folletto. Il rumore le impediva di sentire i suoi pensieri, ma quando passò allo straccio, ecco che ripiombarono ancora più forti di prima, proprio come le bombe all’alba in quel di Pearl Harbour. 

Aveva fatto la scelta giusta nel mollare la vita a Valencia e seguire l’amore della sua vita? Aveva fatto bene a declinare quell’offerta di lavoro? Ma la peggiore delle domande era un’altra: cosa avrebbe fatto finita la quarantena? A quel punto non aveva più scuse. Sapeva di non voler essere solo una giovane sposina, ma cosa avrebbe fatto della sua vita? Forse si stava adattando ad una nuova situazione, ma una parte di sé, nel profondo, voleva urlare che non era così che doveva andare. In quel momento, mentre rendeva il pavimento di marmo splendente, desiderò che la quarantena non finisse mai. Forse poteva abituarsi ad una vita simile. In fondo ci circondiamo sempre di cose futili, invece ora si poteva vivere con poco e sia l’essere umano che la terra ne avrebbero beneficiato. Il crollo economico sarebbe stato disastroso, ma ci si sarebbe risollevati. Abbandonò il mocio e noncurante del pavimento ancora bagnato, si infilò in camera a fumare un poco d’erba e lentamente cadde in un sonno profondo. 
Erano quasi le otto quando riaprì gli occhi. Si trascinò con forza in cucina e guardò il grande salotto vuoto. Fece un sospiro profondo. Non ne poteva più di quella situazione, doveva fare qualcosa. 

Una voce piuttosto squillante fece aggrottare la fronte a Marco. Chiuse lentamente la porta di casa e percorse il corridoio che si affacciava al salotto e ciò che vide lo lasciò basito. Pilar era in abito elegante e aveva apparecchiato la tavola per dodici persone. Riconobbe il servizio in ceramica che avevano acquistato online dopo le feste natalizie. Ma la cosa più strana era che su ogni sedia c’era un oggetto diverso: un orsetto di peluche, un cesto di mollette, una lampada, un quadro, un piumino per spolverare, un frullatore, un vaso con dei fiori, una scatola con sopra delle scarpe nere con tacco, un pacco di rotoli di carta igienica e un cestino vuoto. E Pilar sembrava particolarmente interessata a parlare con quello che era uno scopino dentro il suo apposito contenitore. A volte sbraitava in spagnolo, altre tornava a parlare in italiano. Era un botta e risposta a senso unico. 

«Appena questa situazione sarà finita, cercherò un lavoro come fotografa e se dovrò viaggiare lo farò. Marco dovrà capire! Come hai detto, scopino? Certo, capisco cosa vuoi dire ma non voglio essere solo una sposa e fare la casalinga. È vero che potrei trovare un lavoro come commessa o impiegata ma non sarei felice e… cosa? Lo so che tu fai un lavoro di merda, ma mi pare sia il tuo destino, no? Non ti ci vedo come spazzola sotto la doccia!» e scoppiò a ridere. «Oh, scopino! Sei troppo divertente! Sei l’anima della festa!». Si alzò per prendere una pirofila posta al centro della tavola e si rivolse all’orsetto di peluche alla sua sinistra. «E a te come vanno le cose, Mister Teo? Ho saputo che sei tornato single. Non è il periodo migliore per cercare una compagna, ma puoi sempre usare Tinder. È così che ho conosciuto Marco e non me ne sono mai pentita. Dammi retta, troverai la donna dei tuoi sogni! Ti va un po’ di torta salata, radicchio e gorgonzola?» e ne tagliò una fetta offrendola al peluche su un delizioso piattino.

«Caspita! Ho dimenticato il vino!» e nel momento in cui si alzò per andare in cucina, si ritrovò davanti Marco che la guardava con due occhi sbarrati, l’aria confusa. Ci fu un lunghissimo silenzio. Era quasi inquietante. Marco fece qualche passo in avanti, fissando quello scenario alquanto bizzarro, poi guardò Pilar che era imbarazzata ma anche sorpresa di vederlo.
«Come hai fatto a tornare? Perché non mi hai avvisato?».
«…Ho rotto il cellulare e poi hanno organizzato un volo da un giorno all’altro… ma abbiamo dovuto fare scalo ad Amsterdam e poi a Roma ci hanno tenuto in osservazione e…». Non disse altro, ancora stupito dalla situazione che gli si era presentata davanti. A quel punto Pilar iniziò a raccogliere i piatti, ma Marco la fermò. «Aspetta!» disse con un gesto della mano. Appoggiò il borsone e la guardò sorridendo. «Non mi presenti ai tuoi amici?». 

FINE

“JOY”

Dal libro “642 idee per scrivere” del San Francisco Writer’s Grotto, ho selezionato alcune idee e ho chiesto, tramite un post su Instagram, di scrivere il primo pensiero che veniva in mente. Ho poi selezionato le tre risposte che più mi piacevano per trasformarle in racconti.

Il primo racconto lo potete leggere al seguente link, mentre gli altri due, qui di seguito. Come abitudine di Wanted Stories, ho fatto dei sondaggi per far scegliere quello che più ispirava e, a seconda dell’ispirazione, ho richiesto qualche input per iniziare a scrivere! Qui di seguito i testi scritti da due “Joy”! Buona lettura!

joyclaremadness – “5 cose che mi mettono sempre nei guai”Da che ho memoria ho sempre parlato: da piccola, da adulta e persino mentre mangiavo. Avevo sempre qualcosa da dire. Parlare troppo mi ha spesso messo nei guai, ma non solo. Quando da adulta credi di aver superato l’età dell’istintualità, ti accorgi che… NON È VERO! Conseguenze? Cosa sono? Ah sì, quelle che ti prendono a sberle quando AGISCI SENZA PENSARE!

Se poi aggiungiamo la sovrabbondante EMPATIA che ti fa piangere in treno al racconto di un perfetto sconosciuto, capisci che forse non hai superato la tua adolescenza o l’hai fatto male😅. Così mi capita di piombare nei ricordi, dove la MALINCONIA mi fa sembrare i ricordi magnifici e il presente TERRIBILE. Ma ciò che più mi fa precipitare nei guai, come un tuffo di testa da cinque metri, è la CURIOSITÀ, in nome della quale ho combinato una quantità innumerevole di cazzate!

Joy fissa il cellulare come se fosse in procinto di riverarle un segreto. Il pollice della mano destra viene mordicchiato con tenerezza. L’indecisione è troppa. Una videochiamata mancata ha cambiato la sua giornata. Fino a qualche minuto prima, tutto si svolgeva seguendo il solito tran tran quotidiano, ma non appena aveva preso in mano il cellulare, tutto ciò che la circondava era svanito nel nulla e nella sua testa rimbomba solo un nome. Quello del suo ex…

«Secondo te che cosa vuol dire?», chiede Joy mentre cammina avanti e indietro per la lavanderia dove il suo bucato si sta lentamente asciugando. Il pollice, poveretto, sempre tormentato.
«Non chiamarlo! Lascialo perdere! Ti ha mollato e per ben due volte, non vorrai mica cascarci ancora, no?», replica l’amica, il tono esasperato, mentre ascolta Joy nutrendo poche speranza di essere ascoltata.
«L’ultima volta che mi ha lasciato, la seconda intendo, stava ritornando sui suoi passi e…».
«No, Joy, non chiamarlo. Perché insisti a farti del male?».
«Ok, allora lascio stare… forse hai ragione…».
«Ecco, brava! Fila a casa e vedi di non fare cazzate!».
«Ciao Francy, grazie mille. Sei un tesoro!».

Joy chiude la telefonata e si adagia su una sedia di plastica che emette un cigolio poco rassicurante. Totalmente insoddisfatta della telefonata con l’amica, è come se le avessero comunicato il fallimento di un esame importante, ma poi scatta in piedi e digita un messaggio. Le dita corrono veloci sulla tastiera e se la sensazione di quel momento si potesse raffigurare, sarebbe come una lampadina illuminata sopra alla sua testa.

Riprende a camminare attorno ai due tavoli che dividono le lavatrici dalle asciugatrici, in attesa di quel suono che conferma l’arrivo di un messaggio e infatti, dopo nemmeno un minuto, ecco che si ritrova ad aprire una chat di WhatsApp, ma ciò che legge la fa infuriare all’istante. “So già che cosa mi vuoi chiedere e la risposta è LASCIA PERDERE! Francesca mi ha avvisato che avresti provato a contattare anche me. Sono tua amica, ti voglio bene, ma a volte agisci senza pensare e finisci col fare solo grandi cazzate! Ps. sai che ho ragione! Giulia». A quel punto Joy ci rinuncia e, le mani incrociate, fissa l’oblò dell’asciugatrice che di lì a pochi minuti finirà il suo ciclo di lavoro.

«Secondo me devi chiamarlo». Joy si volta e nota un ragazzo di colore, i dredd legati con un elastico nero, con indosso una tuta bianca e blu che inserisce il suo bucato in una delle lavatrici.
«È quello che penso anch’io, ma le mie amiche dicono che sbaglio…».
Il ragazzo le rivolge le spalle, ma continua a parlare.
«Ah, non stare a sentire cosa ti dicono gli altri. Devi fare ciò che senti. Insomma, chi meglio di te sa ciò che vuoi?».
«Hai ragione! Voglio bene alle mie amiche, ma non comprendono l’amore che provo per lui e questa è la mia occasione! C’è una festa in centro, so che lo troverò lì ed è lo scenario perfetto per rimetterci insieme». Il viso di Joy s’illumina mentre tira fuori quasi con furia tutti i vestiti asciutti. Non li piega, ma li butta nelle due sacche di plastica e si affretta a uscire, ma poi si volta verso il ragazzo.

«Grazie mille del tuo consiglio!», dice a voce alta. Il ragazzo si volta e fissa l’ingresso ormai vuoto, poi porta una mano all’orecchio sinistro. «Aspetta, amico, mi pare di aver sentito qualcosa…», e si guarda attorno per vedere se ci sia qualcun’altro nella lavanderia, poi torna a concentrarsi sul bucato e continua la sua conversazione al telefono.Joy attraversa la strada e raggiunge il locale dove sa di trovare il suo ex. Indossa il vestito di cotone bianco con piccoli fiori azzurri che ha comprato durante la loro prima vacanza in Grecia. Erano state due settimane stupende e indossarlo voleva essere un modo per ricordargli i bei tempi, e forse essere anche di buon auspicio.

Si infila tra la gente, lo cerca con lo sguardo. Ogni ragazzo dai capelli castani alto un metro e ottanta che le capita a tiro, attira la sua attenzione, ma è quando riconosce la sua risata che si volta e lo vede. Finalmente! Cammina verso di lui e sorride, ma quando incontra il suo sguardo si mostra improvvisamente seria, quel momento per lei è molto importante. È la svolta che aspettava.

«Hei, Joy, ciao! Come stai?».
«Molto bene, anche tu qui?».
«Non manco mai a una festa! Sai, mi fa piacere vederti…». Joy si sforza di non gongolare, o peggio, ballare di gioia davanti a lui. “Francesca e Giulia, avevate torto!”, pensa celando un sorriso beffardo.
«Sai, fa piacere anche a me e…».
«Ero andato in paranoia, sai… non sapevo come avresti reagito, ma ti vedo bene». Joy schiude le labbra e lentamente le sue sopracciglia si inarcano quando sul suo viso emerge un’espressione confusa.
«Che intendi?».
«La videochiamata che ti ho fatto. Sai, mi è partita per sbaglio!».
E a quel punto fu la fine…

Fine

joy_in_the_deep – “La menzogna più colossale che ti sia mai stata raccontata”
Di menzogne se ne dicono e sentono tante. Sempre a fin di bene? Purtroppo no. Io lo so, fin troppo. Sono sempre state bugie dette per legittima difesa, perlomeno le mie. A mali estremi, estremi rimedi. Frase fatta? Può darsi, ma ahimè è una grande verità. In certe menzogne magari ci si finisce per sbaglio, per paura o per vergogna. Perché non si ha altra scelta o solo per il gusto di farlo, per cattiveria gratuita, di quelle non ho esperienza e neanche pietà. C’è chi non può privarsene. Di tutte le menzogne, le peggiori sono quelle che suonano come un “Ti amo come nient’altro al mondo” e poi si rivelano delle stilettate nel fianco che non smettono più di sanguinare. La menzogna più brutta è quella che ti fa credere di essere amata e invece poi non è vero niente.

Quando Joy entra nel bar che affaccia sulla grande piazza del centro storico, una folata di vento smuove il profumo di croissant ancora caldi e latte mischiato al caffè e per qualche istante ha l’impressione di essere entrata in un’altra realtà. È un venerdì mattina, sono da poco passate le undici e Joy, assieme a un atteggiamento indispettito, si ferma davanti al bancone in attesa di ordinare un caffè. Non ne ha particolarmente voglia, lo fa solo per tenersi occupata.

Rientrare a casa significa rispondere alle domande di sua madre sull’esito del corso di recitazione, giunto alla decima lezione. Il solo pensiero le provoca ansia, l’insegnante non è per nulla soddisfatto dei suoi risultati. Le dice di continuo che un testo va compreso, amato e interpretato, qualunque esso sia. Per lui, il morboso legame di Joy a recitare solo testi che le piacciono, la limita e a fine lezione, le dice che se non impara come si deve la parte assegnata, è il caso che vada a spaccare legna per il resto dei suoi giorni.

«Che cosa prendi?». Joy torna alla realtà e di colpo le sue guance si colorano di rosso quando due occhi verdi la fissano in attesa di una risposta. Lei tentenna, le parole non prendono forma nella sua testa. Lo sguardo che la fissa è così magnetico da renderla quasi incapace di respirare. Non vedeva quel ragazzo lavorare al bar da diverso tempo e non si aspettava certo di vederlo quel giorno, proprio quando aveva pescato dall’armadio dei vestiti che nemmeno una cooperativa avrebbe accettato. Lui inclina la testa, le regala un piccolo sorriso e questo è sufficiente per Joy che d’improvviso disgela la sua mente e riprende possesso del suo corpo. Appoggia entrambe le mani sul bancone e inizia a parlare con una convinzione finora a lei sconosciuta.

«Sai, di menzogne se ne dicono e sentono tante. Sempre a fin di bene? Purtroppo no. Io lo so, fin troppo. Sono sempre state bugie dette per legittima difesa, perlomeno le mie. A mali estremi, estremi rimedi. Frase fatta? Può darsi, ma ahimè è una grande verità. In certe menzogne magari ci si finisce per sbaglio, per paura o per vergogna. Perché non si ha altra scelta o solo per il gusto di farlo, per cattiveria gratuita, di quelle non ho esperienza e neanche pietà. C’è chi non può privarsene. Di tutte le menzogne, le peggiori sono quelle che suonano come un “Ti amo come nient’altro al mondo” e poi si rivelano delle stilettate nel fianco che non smettono più di sanguinare. La menzogna più brutta è quella che ti fa credere di essere amata e invece poi non è vero niente…».

Il cuore di Joy batte così forte che pare rimbombare tra le mura del locale. Le mani lentamente si rilassano e si avvicinano l’una all’altra. L’ansia invade il suo petto e ora il respiro si fa più pesante. Se il suo insegnante fosse stato lì in quel momento avrebbe applaudito per la sua performance. Ne era convinta: era stata formidabile. Ora, però, voleva il parere del ragazzo che la fissava come fosse stato preso a schiaffi senza motivo. Non si conoscevano, che motivo aveva di mentirle?
«Caspita, ti ha proprio spezzato il cuore».
«Come dici?».
«Chiunque sia stato è proprio un pazzo. Non ti conosco, ma mi sembri una brava persona. E sai un’altra cosa?».
Joy scrolla le spalle, l’aria di chi sta cadendo dalle nuvole.
«Voglio invitarti fuori a pranzo. Ti va?».
Nonostante la perplessità del suo viso, Joy riesce a dire un sì appena percettibile e osserva il ragazzo carino e simpatico mentre si appresta a sistemare tazze e bicchieri, forse per impostare il lavoro al collega che inizierà il turno di lì a poco. Prende posto a un tavolino e lo fissa, indecisa se dirgli la verità. “Le bugie non si dicono, mai”. Questo le aveva sempre ripetuto sua madre, instillandole un’assurda paura al solo pensiero di mentire. E una relazione che inizia con una bugia non è una buona partenza. Il ragazzo si volta e richiama la sua attenzione.
«A proposito, io sono Davide».
«Joy».
«Piacere di conoscerti, Joy. Mi piace il tuo nome e sai un’altra cosa? Credo che saresti una grande attrice, hai carisma. Dovresti provarci. Dammi altri cinque minuti, poi possiamo andare».
La voce della madre risuona nella sua testa come un disco inceppato e la tentazione di dire la verità è forte. Forse tra cinque minuti gli dirà come stanno davvero le cose. O forse no…

Fine

Manchi…

Ho scritto una storia assieme ai lettori! Ho dato il via chiedendo di scrivere un incipit con un commento, qualsiasi cosa, e chi proseguiva il commento doveva farlo secondo un senso logico. Al mio stop, ho preso tutti i commenti e sviluppato e concluso il racconto! Cosa sarà venuto fuori?

STORIA INTERATTIVA
Ho fatto un esperimento di scrittura! Ho chiesto al pubblico di scrivere assieme! Un esperimento che è andato piuttosto bene direi, nonostante tutti abbiano sgarrato rispetto alle regole dettate e scritto più di una frase. Stupita da tale coinvolgimento ho deciso di continuare comunque… Al mio “stop” ai commenti, e quasi per caso, si è aggiunto un amico al progetto e assieme abbiamo creato un particolare Cadavere Squisito, l’ormai noto lavoro a quattro mai, e ho deciso di scrivere “intervenendo” tra un commento e l’altro, per concludere assieme nel finale. Inutile dire che l’esperimento ci ha divertito molto!

Ed ecco a voi la storia. Tra un commento del pubblico e l’altro, Linda Moon e Aldo Ferrarese si sono “intromessi” e hanno costruito una storia. Buona lettura!

Federica Del Deo — Si incontrarono alle sette di sera, senza darsi appuntamento. La pioggia cadeva ritmica sulla superficie del lago scuro e senza tregua. Nessuno di loro aveva il coraggio di iniziare la conversazione.

Linda Moon — “Che cosa ci fa qui?” continuava a ripetere a se stessa Erika. Era davvero una strana coincidenza incontrarlo, ma la piacevole sensazione che provava in quel momento le fece capire che i sentimenti nei suoi confronti non erano del tutto sepolti. Lo guardò titubante mentre lanciava nel lago quello che sembrava essere un sacchetto di stoffa. I capelli rasati, la barba appena accennata, gli occhi azzurri e la solita giacca di pelle ormai logora che conosceva bene perché era stata un suo regalo. Era incredibile, Mattia non era cambiato per niente. E proprio in quel momento i loro occhi si incontrarono. Erika per un attimo aveva pensato che lui l’avesse vista, invece si sbagliava. Si fecero vicini fino a quando i loro ombrelli non si scontrarono dolcemente e quando lei prese posto su un muretto, lui fece lo stesso. 

Milena MarottaEd eccola lì, seduta di fronte a questo magnifico tramonto. I pensieri le incasinano la mente. Chi lo avrebbe mai detto che sarebbe successo a lei, proprio a lei. 

Aldo FerraresePensava di essere ormai immune all’amore. Troppo aveva sofferto per quello stupido sentimento e aveva già pianto tutte le sue lacrime. Invece le era bastato vederlo per tornare fragile e insicura. Lui invece appariva ancora più duro di come lo ricordava. «Ho messo in quel sacchetto tutto quello che mi parlava di te. L’ho buttato in fondo al lago per dimenticare, per dimenticarti» disse Mattia ridendo, poi proseguì a parlare, serio. «E tu che fai? Appari dal passato, in carne ed ossa». Lei stava per rispondere ma lui glielo impedì. Le sue mani la trascinarono a terra. La toccarono senza chiedere il permesso. La strinsero forte e con una leggera violenza. 

Ugo DomeniconiAll’improvviso uno squarcio di sole aprì il cielo. La pioggia smise di cadere rumorosamente e sul lago comparvero chiare le sagome di quel paese sull’altra sponda dove si erano conosciuti e dove tutto era cominciato. E fu nel pensare a quello, che lui trovò il coraggio di pronunciare una prima frase. Forse perché pensava che se sull’altra sponda del lago tutto era iniziato, su questa dove si trovavano ora forse tutto sarebbe giustamente finito.

Linda Moon Il cielo si comportava in maniera strana, quasi provasse le stesse emozioni di Erika e Mattia. Uno strano silenzio era calato su quel muretto dove erano tornati a sedere. Lei non riusciva a parlare. Era stata presa con un apparente violenza, ma che celava una grande passione che le era mancata da morire. Allora lui aveva sofferto più di lei. E forse era sincero quando le aveva detto più volte che il suo tradimento era stato un errore di cui si era pentito. Voleva parlargli, ma lui l’anticipò.

Alberto SartoriAttaccò lui: «Hai visto l’ultimo film di Tarantino?». Non poteva fare domanda peggiore. Lui che eterno sognatore aveva ormai dimenticato le vie da percorrere per l’amore, affranto e abbattuto da quei venti mattutini di una vita spinta dalle cicatrici della memoria.

Aldo Ferrarese – Avrebbe voluto stringerla di nuovo a sé e dirle quanto le era mancata, delle notti insonni passate a piangere, delle lacrime che aveva versato. Avrebbe voluto chiederle scusa, dirle ti amo. Ma non ci riuscì. Il rimorso per lo sbaglio commesso ancora lo divorava e la vergogna gli inaridiva la lingua.  Lei sorrise sarcastica prima di rispondere.

Laura Flaminio — «Si, l’ho visto ed anche se, come sai, non è tra i miei registi preferiti, mi è piaciuto. Soprattutto sono riuscita a guardarlo dall’inizio alla fine. Da poco ho riacquistato la capacità di concentrarmi sulle cose. E questo mi rende felice».

Linda Moon — Fissò l’orizzonte mostrandosi sicura. Non voleva far trasparire la fragilità che ancora la faceva da padrona al suo cuore. “Che domanda stupida ha fatto” aveva pensato, ma per un attimo la riportò alla loro quotidianità, quando litigavano per il film da vedere al cinema. Avrebbe voluto sorridere ma solo in quel momento si accorse che era una cosa che non faceva da un po’. 

Maurizio Babini«Vedi» continuò lei accennando un sorriso che da tempo non le si vedeva in volto. Quello sincero e morbido che innescava una serie di meccanismi da farla apparire splendida agli occhi di chiunque. «Se avessi del cibo ora lo getterei nell’acqua a quelle povere anatrelle».
«E questo cosa significa?» domandò lui inarcando le sopracciglia.
«Significa che ho notato quelle povere anatrelle e ho avuto un pensiero per loro. Mi ero così chiusa in me stessa da non riuscire più a vedere nulla di ciò che mi circondava. La mia mente era così pesante, chiusa nella gabbia che il dolore le aveva costruito attorno. A volte mi chiedo come abbia fatto anche solo a mangiare.»

Aldo Ferrarese — «Mi dispiace Erika, io mi sento colpevole».
«È questo ciò che più mi ferisce, Mattia! Ti dispiace, ti senti in colpa, mi salti addosso senza nemmeno chiedermi se io lo voglio oppure no.  Io, Io Io , solo io. Non riesci ad andare al di là di te stesso. Ma di me ti interessa davvero qualcosa? Io avrei saputo addirittura perdonare, ma tu nemmeno ti accorgi di avere a che fare con un altro essere umano, con idee e sentimenti. Ti accorgi solo del tuo dolore, del tuo rimorso, dei tuoi bisogni. Ho pianto, ho passato notti insonni, ho rinunciato a vivere, ho…».

Nazzario AndreelloLui interruppe quella conversazione mentre fissava lo scenario sotto un bellissimo cielo d’agosto. «Andiamo a bere qualcosa». La fissò. «Rischiamo di bagnarci, non ha smesso di piovere del tutto…». Lei rimase in silenzio. Sentire le gocce accarezzare il viso le procurava piacere, poi fece un cenno di approvazione con il capo. Lo prese per mano e si diressero nel locale più vicino. Quando lesse il nome, Igloo, ci rimase di sasso.

Linda MoonNon aveva idea che quel locale fosse ancora aperto. Si vociferava che avessero deciso di chiuderlo, invece il giardino esterno brulicava di persone impegnate a bere i loro dissetanti drink. Avevano sempre parlato di andarci, ma non era mai successo ed era davvero assurdo che si trovassero lì proprio ora. Mattia la guardò senza dire nulla, forse sapeva che era meglio non peggiorare una situazione già precaria. Erika invece si era stupita di quel gesto. Gli aveva preso la mano come fosse una cosa normale, come fossero ancora la coppia felice di un tempo. Il suo cuore batteva forte e nella sua testa pensava ad una cosa sola. Una parola. Sei lettere… 

Massimo DonàManchi. Era la parola che avrebbe tanto voluto urlare a quel cielo grigio, ma che ora, nel momento in cui servirebbe, stentava ad uscire dalle labbra seccate dal vento. Il suo sguardo, però, la tradì e fece capire ciò che pensava. «Lo so!» disse lui, senza aver sentito quella parola intrappolata nella gola. «Come lo sai? Sai cosa?». 
«Lo so, l’ho sempre saputo, che nonostante le tempeste che la vita ci ha sputato addosso avremmo resistito, che ce l’avremmo fatta e saremmo giunti nella stessa riva di questo lago, sotto la pioggia, ad urlare quanto ci siamo mancati!»

…continuano gli autori per il finale…

Erika bevve un sorso d’acqua. Ascoltava distrattamente quello che Mattia le stava dicendo. Nella sua testa non sapeva cosa fare. Ne era ancora innamorata, ma lui l’aveva tradita e questo aveva rovinato il loro rapporto e scalfito la fiducia che aveva nei suoi confronti. Era buffo che si trovassero in quel lato del lago, quando a quello opposto la loro storia aveva avuto inizio. Era forse un segno? Voleva dire che quello era ufficialmente un addio? «Erika?». Lei lo guardò. Era chiaro che le avesse chiesto qualcosa, ma non aveva colto la sua domanda. «Scusa» disse lei. «Puoi ripetere?».
«Certo» rispose lui, poi gonfiò le guance e se ne uscì con una sonora pernacchia. Erika rimase in silenzio, sgranando gli occhi. Lui la fissò con lo sguardo confuso ma buffo. In quel momento pensò che fosse molto bella e che era con lei che voleva stare. Lei pensò che gli era mancato il suo lato spensierato e per quanto lo odiasse, non avrebbe voluto essere da nessun’altra parte. Dopo qualche istante scoppiarono entrambi a ridere, senza riuscire a fermarsi, e quella leggerezza, quella gioia, li accompagnò per il resto della serata, mano nella mano.

Fine

Una Famiglia Felice

Il secondino cammina veloce lungo l’angusto corridoio delle carceri, stringendo una busta bianca con un sigillo rosso che riporta lo stemma della patria.

Nessuno chiudeva una busta in quel modo da oltre mezzo secolo ma, tra le nuove disposizioni dettate dal governo, era stato inserito anche questo dettaglio. Per alcuni una frivolezza, per altri un gesto di onore e fedeltà. Ad ogni modo, il secondino raggiunge un cancello aperto da un altro secondino con ben quattro giri di chiave. Tante regole che sono cambiate e la più assurda di tutte, con precisione l’emendamento n.646-B41, odiato dal popolo ma adorato dai detenuti, è quello che permette di chiedere un ultimo desiderio prima di cadere nel braccio della morte.

Il secondino stringe nella mano l’ultimo desiderio di un uomo che ha commesso un crimine che gli sta costando la vita e quando la busta raggiunge la scrivania del direttore, egli la osserva con poca attenzione, preso da altre scartoffie che legge e firma quasi contemporaneamente. «Signore?» chiama il secondino con un filo di voce. L’uomo alza lo sguardo e, con un cenno della testa, gli fa capire che può lasciare la busta sulla scrivania.

La osserva curioso non tanto di sapere il desiderio ma chi sia il detenuto e a che ora sia la sua esecuzione, perché alle quattro di quel pomeriggio c’è un incontro di boxe che non vuole perdere; o almeno questo è ciò che fa credere a tutti per celare il suo rapporto con un giovane di cui si è invaghito qualche mese fa. Sbuffa, l’aria irritata, e nel momento in cui torna a concentrarsi sulle carte, il secondino è già uscito.

Quando l’orologio segna mezzogiorno, l’intero carcere si mobilita per consumare il pranzo. I detenuti nella sala al piano terra, i secondini al piano superiore. Un pugno di uomini che imbracciano fucili e pistole, i manganelli riposti nella cintura di pelle, tiene la situazione sotto controllo. Solo una persona non partecipa: il direttore.

Spalanca una porta della mensa, si avvicina ad alcuni sottoposti e li invita a seguirlo senza attendere una loro reazione. In meno di un minuto, sono tutti in corridoio a camminare come perfetti soldati e, quando la porta dell’ufficio del direttore si chiude alle loro spalle, l’uomo mostra il contenuto della lettera. Dieci occhi si guardano: le bocche spalancate o in una smorfia idiota. «E questo che razza di desiderio è?».

Senza perdere tempo, mandano a prelevare il detenuto e lo raggiungono in una grande sala dalle mura sbiadite. Al suo interno, un asettico salottino, utilizzato come spazio per il diletto dei peccatori nei loro ultimi momenti di vita; il diretto interessato siede su un divano beige, il tessuto consunto agli angoli. Quella che ora pare una congiura di pazzi, lo fissa come fosse un cane affetto da rabbia.

«Detenuto n.415, ci spieghi la sua richiesta! Comprendiamo che sia terrorizzato all’idea di morire e forse non ha ben chiaro che cosa vuole» dice il direttore. «Mi sovviene il caso del detenuto n.1095: aveva richiesto di pilotare un aereo per raggiungere Manhattan» interviene un sottoposto, subito aggredito da un altro. «Cretino che non sei altro, voleva pilotare un aereo con dei passeggeri a bordo e tentare un atterraggio sul fiume Hudson come il pilota Sully Sullenberger!».

Il collega si stringe nelle spalle, quasi a volersi nascondere per la figuraccia appena fatta. «Signori, signori calmiamoci. Ehm, detenuto n.415, la prego, ci spieghi il suo desiderio. Non è nulla d’impossibile, ma capisce che si tratta di coinvolgere altre persone e non possiamo rischiare di mettere in pericolo degli innocenti. Lei capisce, vero?». Il detenuto tace e guarda quel circo di persone davanti a lui che non smette di osservarlo come un topo oltre il vetro di una gabbia.

«Non c’è nulla da spiegare, ma non riuscirete a esaudirlo. E se non riuscite a farlo sarò un uomo libero. Questo dice la vostra legge, giusto?». La tensione è palpabile quasi fosse una sottile carta velina pronta a spezzarsi al minimo tocco. Il direttore deglutisce a fatica, all’improvviso sente la bocca secca e un disperato bisogno di acqua. Guarda l’ora: sono ormai le tre e nel suo immaginario era già pronto ad approvare desiderio ed esecuzione per correre dal suo amante. Invece, quel maledetto detenuto era riuscito a raggirare il sistema.

«E va bene, mettiamoci all’opera!» esordisce mascherando la sua perplessità. «Sia ben chiaro, però, che dovrà mantenere una distanza di sicurezza dalle persone che porteremo qui, ma potrà parlarci e trascorrere un’ora esatta con loro. Sarà un autentico momento conviviale» e nel pronunciare le ultime parole, unisce le mani e intreccia le dita, quasi a voler sigillare, o forse rafforzare, quanto appena detto.

Il detenuto ride forte e di gusto; una risata che per quella congiura suona terrificante.
«La faccio ridere, detenuto n.415?».
«Eh già, forse non ha ben chiaro quale sia il mio ultimo desiderio: voglio trascorrere un’ora del mio tempo con una famiglia felice e il fatto che sia felice è determinante. Dalle sue parole, mio caro direttore, ho già capito che il mio desiderio non sarà per voi fattibile. Scommetto la mia pena di morte che ha già in mente di chiamare degli attori. Il vostro sistema è precario ed era solo una questione di tempo prima che qualcuno ve lo facesse notare; o come diciamo noi detenuti, ve lo mettesse nel culo!». Si alza e, le mani in tasca, si avvicina alla grande finestra dal vetro rinforzato e una grata metallista esterna. «Chi dovrà attestarne la veridicità, capirà che sarà tutta una farsa e domattina farò colazione di fronte al suo giardino, direttore. Può scommetterci». I volti degli uomini, vestiti con banali completi neri e cravatte grigie, sono trasecolati.

In un attimo, si riuniscono nell’ufficio del direttore a discutere la situazione, visibilmente offesi di essersi lasciati prendere in giro con facilità. «Ecco, lo sapevo che arrivava il più furbo e ci fregava! Ma che cavolo gli è preso al nostro governo? ». Le voci nervose e stanche parlano tra di loro. Emergono parole pesanti, offese, un accenno di rissa. «Basta!» urla il direttore. «Cerchiamo di ragionare, invece. Qui bisogna trovare una soluzione e subito! Se non sarà un desiderio autentico, qui tutto andrà in malora!».

In quel momento, un sottoposto interviene facendosi largo tra gli altro. «È tutta colpa sua, direttore! Aveva anche lei voce in capitolo e poteva evitare questa sciocchezza dell’emendamento n.646-B41! Ora, invece, eccoci qua a massacrarci tra di noi. Se toppiamo stavolta, manderemo tutto il sistema in vacca! E avremo detenuti liberi di girare per tutto il paese! Il suo voto è stato quello decisivo, lo sanno tutti! Ma lei doveva correre dal suo amante, vero? Siete solo due gay del cazzo!».

D’improvviso, cala il silenzio, animato solo da espressioni stupite o disgustate. Un sottoposto si apposta di fronte al direttore, dandogli le spalle, e rivolgendosi ai suoi colleghi.
«Non esageriamo, pensiamo a come rimediare a questo problema. Il direttore ha ragione».
«Ecco, ora ti ci metti anche tu! Lo sanno tutti che non ami più tua moglie e che desideri quella dannata cameriera del ristorante qui accanto che si trascina a ogni turno sua figlia. Siete tutti degli ipocriti!” replica il solito sottoposto. Le parole taglienti lasciano spazio a un grande imbarazzo e, nel momento in cui sta per riprendere a parlare, il direttore esce di corsa, seguito dall’unico sottoposto che l’ha difeso. «Direttore» lo chiama a voce alta, per fermarlo. L’uomo gli ordina di seguirlo e, in pochi istanti, escono dalla prigione.

Il giorno dopo, all’alba, il detenuto n.415 muore per iniezione letale. Dietro al vetro, la schiera di uomini incravattati che il giorno prima era scoppiata di rabbia per l’arroganza dell’uomo che era quasi riuscito a raggirare il sistema, osserva con vago orgoglio la scena.

Il direttore, invece, siede alla scrivania. Legge documenti, compila moduli, firma l’approvazione di nuovi desideri e relative condanne, ma dopo qualche istante si ferma. Apre un cassetto e da una cartellina tira fuori una busta bianca, priva di sigillo; al suo interno una fotografia. Ritrae lui con l’amante, diventato a tutti gli effetti il suo compagno e, accanto a loro, un giovane stringe la mano di una cameriera che stringe tra le braccia una bambina che le somiglia molto. Il detenuto n.415 non è presente perché dietro l’obiettivo. Colpevole di una rapina che ha causato la morte accidentale di tre persone, voleva solo assaporare un ultimo momento sincero insieme a una famiglia felice e così era stato; e nessun emendamento era stato ritirato.

Il direttore ripensa a quel momento e al giorno in cui il suo voto ha approvato la legge più bizzarra che sia mai stata pensata. Si toglie gli occhiali e, lo sguardo assente, si pone una sola domanda: «Ho fatto la cosa giusta? Non è vero? Non è vero…? Non è vero…?».

Fine