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Goffredo Parise: lo scrittore de I Sillabari

Sono andata a visitare la casa di cultura dello scrittore vicentino Goffredo Parise. 
Non ero a conoscenza di questa cosa e l’ho scoperta durante la mia visita alla libreria di Pescara: Il Libraio di Notte [leggi qui l’articolo che gli ho dedicato].

Quando Paolo Fiorucci, titolare della libreria, ha scoperto la mia città natale, Vicenza, mi ha parlato dello scrittore e di un libro che si può considerare il suo best-seller di allora: Il prete bello. 

La copertina del libro "Il prete bello"





Trama – Ambientato in epoca fascista, il romanzo ha per voce narrante un bambino di nome Sergio, membro di una banda di ragazzi di Vicenza, attraverso i cui occhi viene svelata la realtà del mondo degli adulti.

Il romanzo si sofferma in particolare sulla vicenda di don Gastone Caoduro, giovane e avvenente parroco, sostenitore del regime e oggetto di desiderio delle zitelle della parrocchia.

Il suo entusiasmo era tale da parlarmi dello scrittore, della sua casa di cultura a Ponte di Piave, in provincia di Treviso, e omaggiarmi il libro Il prete bello. Infine, mi ha anche lasciato la borsa con il logo del suo negozio e richiesto, se possibile, di fotografarla all’interno della casa dello scrittore. E l’ho fatto!

La storia di Parise è molto interessante ed è uno scrittore italiano che merita di essere conosciuto: come personaggio e attraverso i suoi testi. Quindi, ecco i punti che tratterò:

Goffredo Parise: l’uomo dall’umore ballerino

 

Nasce a Vicenza l’8 dicembre 1929, da Ida Wanda Bertoli, figlia adottiva di un fabbricante di biciclette, e da un medico veneto che abbandona la donna ancora in stato interessante. Il bambino cresce con il nonno materno e spende la maggior parte del tempo in casa per non subire scherni da parte dei compagni vista la sua condizione di figlio illegittimo.

Un fardello pesante da sopportare ma che apre le porte a Osvaldo Parise, direttore de Il Giornale di Vicenza, che sposa Ida nel 1937 e che dà il suo cognome a Goffredo. Da quel momento inizia il suo percorso verso il mondo della scrittura.

Goffredo Parise è un personaggio interessante perché non vive in relazione alla scrittura e alla fama che ne deriva, ma anzi, predilige i rapporti umani rispetto a quelli commerciali; il trasferimento da una città come Roma alle campagne di Treviso ne è una evidente conferma.

Inoltre il ricordo che ha lasciato in diverse persone è autentico. Per alcuni è stato un grande amico, per altri un buon compagno, in alcuni casi una figura paterna. E il suo umore ballerino traspariva anche con la più cara delle persone perché Goffredo era fatto così.

Era una persona che non teneva al guinzaglio le emozioni, di qualunque natura esse fossero. Se si ritrovava a parlare con qualcuno, uno studente che lo idolatrava ad esempio, ma la conversazione non lo interessava, smetteva di ascoltare senza preoccuparsi di risultare maleducato. Insomma, non infamava nessuno ma respingeva con disarmante indifferenza.

L’aneddoto che più mi è piaciuto ascoltare è stato quello che ha visto il coinvolgimento del produttore cinematografico Dino De Laurentis, il quale lo aveva ingaggiato per scrivere la sceneggiatura di un film per il regista Gian Luigi Polidoro. Un viaggio tutto a spese di De Laurentis che rimase con l’amaro in bocca quando Goffredo tornò senza niente in mano: New York lo aveva deluso. Punto. E per lui non c’era altro da dire.

Insomma, un uomo dalle mille sfaccettature, che prediligeva amici e famiglia rispetto a fama e ricchezza. Con un matrimonio fallito alle spalle e due relazioni, quella più importante è stata con Giosetta Fioroni, pittrice, che lo ha assistito fino alla morte nonostante vivesse una relazione con un’altra donna.

A causa di un’arteriopatia diffusa, gli furono impiantati quattro bypass aorto-coronarici e alla fine del 1981 iniziò un ciclo di dialisi che durò sei anni. Ricoverato all’ospedale Ca’ Foncello di Treviso, morì il 31 agosto 1986.

L'esterno della "Casa Rossa", abitazione dello scrittore Goffredo Parise

La sua bellissima casa di cultura

Nel 1984, lo scrittore Goffredo Parise si stabilisce nella cosiddetta “Casa Rossa” che sarà la sua dimora fino alla morte. Le sue ultime volontà prevedono che il Comune di Ponte di Piave ne faccia una casa di cultura intestata a suo nome che dovrà essere custodita e avere una targa così concepita:

Casa di cultura Goffredo Parise” per studi. Poiché lascio la casa con tutto quanto contiene [mobili, libri, quadri etc]. Essa, a giudizio del Comune, potrà essere aperta ed eventualmente ospitare studiosi delle mie opere”.

La cosa che colpisce di più, però, è la concessione del comune nel seppellire le sue ceneri nel giardino della casa, sotto alla statua dello scultore Constantin Brâncuși.

Arrivati all’ingresso, ci si ritrova subito davanti a un giardino e, in bella vista, c’è la sua tomba con una piccola lapide in marmo. Il piano superiore è a tutti gli effetti una biblioteca comunale, mentre il piano terra è rimasto tale e quale a come l’ha lasciato lo scrittore. Sulle pareti del corridoio che conducono al cuore della casa ci sono alcuni quadri dell’artista, e amico, Mario Schifano e un’opera in legno di Mario Ceroli che ricrea il profilo dello scrittore.

Il salotto sembra una pinacoteca-libreria: altri quadri di Schifano, un’opera di Giosetta Fioroni, un quadro riportato a casa dopo un viaggio in Giappone [punto di partenza sulla ricerca dell’essenzialità nei suoi racconti] e diversi suoi libri sparsi qua e la. Tra le poltrone, un tavolino con sopra una bottiglia di scotch, qualche bicchiere e sigarette Muratti. Era un gran fumatore.

Si prosegue poi nella cucina, dove sono appesi alcuni suoi quadri. Ebbene sì, ha provato anche a dipingere. E poi ci sono le ultime due stanze: il suo studio e la camera da letto. Quest’ultima si presenta molto minimale, un chiaro riferimento al suo amore per l’essenziale. Un letto, un armadio con alcuni abiti, alcuni quadri, tra cui uno che rappresenta il suo cane Pepito e un piccolo quadretto con una poesia di Eugenio Montale; ovviamente anche una libreria colma di libri.

Lo studio è la parte a mio avviso più bella. Un’asse retta da due cavalletti funge da scrivania per accogliere una macchina da scrivere, i suoi occhiali da vista, un tesserino Alitalia, un biglietto da visita e altri accessori. E ancora quadri, un evidente legame con la pittura e con gli artisti, coloro che erano prima di tutto cari affetti.

In tutta la casa si respira la sua attrazione per ciò che gli piace, per ciò che ritiene autentico e che può arricchirlo. Passioni, amori, oggetti che hanno lasciato una traccia significativa nella sua vita e nella scrittura.

Lo scotch e le sigarette che Goffredo Parise preferiva
Il salotto della casa con vista sul giardino esterno
La libreria all'interno della camera da letto dello scrittore
Lo studio di Goffredo Parise

Le sue opere e il concetto di essenzialità

Collabora con l’Alto Adige di Bolzano e l’Arena di Verona. Pubblica il suo primo romanzo Il ragazzo morto e le comete con Neri Pozza nel 1951 cui segue, nel 1954 la pubblicazione de Il prete bello, uno dei libri più venduti del dopoguerra.

Nel 1955 lavora per il Corriere della Sera mentre continua a pubblicare romanzi come Il fidanzamento e Amore e fervore. Diventa anche sceneggiatore, collaborando ai film di Mauro Bolognini: Agostino, tratto dal romanzo di Alberto Moravia e Senilità, tratto dal romanzo di Italo Svevo. Non da meno, collabora anche con Federico Fellini per un episodio di Boccaccio ’70, di preciso Le tentazioni del dottor Antonio.

Dalla fine del primo, e unico, matrimonio nasce l’opera L’assoluto naturale, scritto per il teatro e incentrato sull’analisi del rapporto di coppia e qualche anno dopo, nel 1966, conosce la pittrice Giosetta Fioroni con cui inizia una relazione amorosa.

L’opera più significativa e intensa di Parise, non solo per la mia propensione alla forma breve, sono I Sillabari. Nati dopo le sue svariate esperienze nelle terre d’oriente, lasciano un indelebile segno nella sua scrittura che si libera di orpelli e diventa minimale.

A suo avviso, l’ideologia ingabbia l’uomo e percepisce la necessità di “tornare al concetto di umanità”, indagando a fondo i sentimenti, scrivendo ciò che tutti possono provare, prima o poi, nella vita.

Nati in due volumi, il primo pubblicato nel 1972 e il secondo esattamente 10 anni dopo con cui vince, tra l’altro, il premio Strega, sono stati poi unificati nel 1984. L’autore racconta, e analizza, un sentimento per ogni lettera dell’alfabeto, ma alla lettera “S” si ferma. I suoi, più che racconti, suonano come poesie o, forse ancora meglio, come un piccolo dizionario dei sentimenti umani.

 

 

 

«Nella vita gli uomini fanno dei programmi perché sanno che, una volta scomparso l’autore, essi possono essere continuati da altri. In poesia è impossibile, non ci sono eredi. Così è toccato a me con questo libro: dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z. Sono poesie in prosa. Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore».


Goffredo Parise

Un libro in prestito da oltre 40 anni

Ho visitato la casa di cultura assieme a mia madre e nel farlo è riemerso un buffo ricordo che le ha strappato un gran risata, contagiando anche me. Tornate a casa, ci siamo buttate a capofitto nella ricerca di un libro. Dopo 40 anni non era poi così certa che fosse ancora in casa e che avesse resistito a tre traslochi, ma alla fine l’ha trovato. Si tratta del testo Il ragazzo morto e le comete.

Quel libro le fu consegnato da suo padre, mio nonno, ma in realtà apparteneva a un ragazzo che secondo lui era perfetto per mia madre. Era il suo modo di fare Cupido – o il Tinder dell’epoca – per farli incontrare. Com’è andata?
Mia madre il libro non l’ha mai restituito perché quel tizio lei non lo voleva incontrare, non le piaceva. Punto.

E non è mai stato reso da nessun’altro. Mia madre ha voluto comunque tenerlo: una dimenticanza o forse una scusa per rivederlo, se avesse cambiato idea? Questo non lo so di preciso… Forse un giorno me lo dirà, ora il libro è nella mia libreria. Non so dove sia questo tizio e se sia ancora vivo, non so se leggerò mai il libro o se lo custodirò per mia madre, donandolo a qualcuno tra 40 anni; raccontando la stessa storia. Davvero, non lo so… Avete suggerimenti?

SPAZIO PER IL LETTORE

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Racconti edizioni: la sfida di una casa editrice

La frase “In Italia non si leggono racconti” riecheggia spesso online e a volte tra le parole di chi stringe tra le mani l’ultimo romanzo in testa alle classifiche. Verità o bugia? Assieme alla Scuola Martin Eden, abbiamo deciso di mettere a tacere una volta per tutte quella che sembra ormai una leggenda, e cercare una risposta. E quale modo migliore per farlo se non intervistando l’unica casa editrice in Italia che pubblica esclusivamente racconti?

Conosciuti online e visti di persona al Book Pride [qui l’articolo], li abbiamo contattati per scambiare due chiacchiere e farci dire da loro come stanno davvero le cose. Stefano Friani, editore assieme a Emanuele Giammarco, ci ha fornito le risposte che cercavamo e confermato come hanno superato i pregiudizi sul racconto e di come, alla fine, ce l’abbiano fatta!

1 Sfatiamo subito un mito: è vero che in Italia è ancora molto piccolo il pubblico che legge racconti?

Nessun mito da sfatare: la sfera online pullula di riviste che propongono racconti, incentivo che ha innescato l’idea di una casa editrice fondata sulla forma breve. I lettori ci sono e alcuni di loro si possono definire affezionati. I racconti, insomma, funzionano.

2 Come e da chi nasce l’idea di aprire una casa editrice? E come si costruisce una casa editrice sui racconti?

Assieme a Emanuele Giammarco, siamo i fondatori di Racconti Edizioni che nasce nel 2016 da quella che si potrebbe definire davvero un’impavida idea. In quel periodo non esistevano case editrici dedicate al racconto, un perfetto deterrente per demolire il progetto all’istante, però l’esistenza di tante riviste letterarie che li pubblicavano e di un terreno fertile da cui partire, ci ha spronati a iniziare. E oggi ci siamo ancora. 

Racconti Edizioni, però, non nasce solo da una nostra forte motivazione. Alle spalle c’è un lungo anno di lavoro e di ricerca per creare un buon catalogo: la colonna portante della casa editrice. Abbiamo elaborato una minuziosa selezione dei classici, rispolverando i racconti di Virginia Woolf e di Eudora Welty ad esempio, cui abbiamo accostato voci nuove – esordienti o emergenti – per equilibrare e allo stesso tempo arricchire le nostre proposte al pubblico. Scavando nel grande mondo editoriale, abbiamo portato alla luce opere da lungo tempo snobbate.

3 Come scegliete il vostro catalogo? [Autrici/Autori/Generi…]

Il nostro è un catalogo che guarda molto oltreoceano, senza rinunciare alle penne italiane. Ciò che sia io che Emanuele amiamo dei libri che selezioniamo, una sorta di fil rouge, è la letteratura di minoranza, di stranieri che scrivono nella propria lingua. Optiamo per testi dimenticati o trascurati che meritano di essere letti e condivisi, ma soprattutto ricerchiamo raccolte di racconti che facciano emergere il concetto di coesione e che, di conseguenza, comunichino un’identità a chi li legge.

Un autore tanto stimato, pubblicato a soli tre anni dall’apertura della casa editrice e che ha, in un certo senso, fatto da apriporte a tutti gli altri racconti, è stato Philip Ó Ceallaigh con Appunti da un bordello turco. Un’altra bella scoperta, nonché pubblicazione, è stata anche quella di Elvis Malai nel 2017: autore di origine albanese, selezionato al Premio Strega 2018 con l’esordio Dal tuo terrazzo si vede casa mia, una raccolta di racconti.

4 Quanto è ampio il mercato editoriale in termini di domanda, offerta e fatturato?

Dall’esordio a oggi la strada è stata lunga, ma sempre in salita. Il fatturato è in continua crescita, grazie a un catalogo non solo vario ma ben studiato e che per Racconti Edizioni ha fatto e fa tuttora la differenza. Ciò che viene maggiormente apprezzato e regala enormi soddisfazioni è la clientela che ha dimostrato fiducia nei nostri confronti: i lettori tornano! Vanno a curiosare le proposte, richiedono informazioni, sono la prova che non solo la domanda c’è, ma che il racconto viene preso in considerazione, ricercato, letto, recensito: lascia un segno in chi legge.

5 Quali feedback ricevete dal pubblico che ha letto e/o legge tuttora ciò che offrite?

Emerge un’accoglienza positiva riguardo quanto proposto come letture. La nostra è ormai una casa editrice riconoscibile i cui contenuti riscuotono interesse e condivisioni; la gente presta attenzione a ciò che gira in editoria, insomma. Non sono però solo i libri ad attrarre i lettori ma anche le copertine su cui abbiamo investito molto tempo e studio. Le immagini minimaliste, l’attenzione per i colori e la grafica hanno portato a creare copertine d’impatto, riconoscibili, più coinvolgenti.

Dettagli che fanno la differenza non solo per la vendita, ma che riassumono in un unico colpo d’occhio quanto è scritto all’interno di una raccolta di racconti che si ricollega a quel concetto di identità cui teniamo molto; impresa non facile sia per gli illustratori che per me ed Emanuele, perché per entrambi un libro non deve essere bello solo dentro. Questo salto di qualità grafica è appagante anche se prediligiamo con tanta passione le copertine bianche, facili a sporcarsi, ma di una nitidezza unica, simbolo di un’avversione nel seguire i trend del settore editoriale.

6 Quali attività di promozione adottate?

Indubbiamente, il sito ufficiale e i relativi social sono fondamentali per la promozione della casa editrice, degli eventi e del catalogo. Non da meno, siamo supportati da un solido ufficio stampa, ma la promozione non si limita a questo. Racconti Edizioni si appoggia anche a  quotidiani e riviste del settore e, nel corso degli anni, abbiamo anche instaurato un rapporto diretto con alcune librerie, cosa tra l’altro richiesta dai librai stessi. Attenzione particolare viene dedicata a ogni singolo libro perché ogni fase è fondamentale per presentarlo al pubblico: dalla quarta di copertina alle note sull’autore, fino alle anteprime e altri dettagli utili alla promozione.
La differenza la fa come un libro viene raccontato.

7 Perché c’è una discrepanza [di numero e interesse] tra i lettori del nord Italia rispetto a quelli del sud?

La nostra è una distribuzione capillare in tutta Italia, ma emerge comunque un certo dislivello in Italia tra i lettori del nord e del sud. Ciò è dovuto al fatto, innanzitutto, che i libri sono considerati un bene accessorio e questo modo di considerare la lettura fa un’enorme differenza nel modo in cui la distribuzione di testi, e la spinta alla lettura, si muovono nel nostro bel paese. I poli editoriali principali sono Milano e Roma, punti di riferimento da cui dovrebbe partire l’iniziativa a promuovere una miglior distribuzione dei libri e che potrebbero fungere da motore per spronare un pubblico maggiore a leggere.

Qualcosa si muove, ma la forza di chi ci sta provando è ancora poca e limitata; pensiamo ad esempio a LiberAria di Bari o a Pidgin di Napoli. I dati parlano chiaro: c’è interesse a fare editoria altrove, un’editoria di valore, ovviamente, con un approccio più sano e meno materiale che guardi anche a quel pubblico che non legge ma che sia invitato –  e si senta coinvolto – a farlo. 

Un chiaro esempio che qualcosa nell’editoria si sta muovendo è la fiera del libro di Napoli, che per il 2022 è in programma dal 29 settembre al 2 ottobre e che prevede anche l’ingresso di nuovi organizzatori, come Fondazione Campania dei festival e la neocostituita Fondazione Guida. Giunta alla sua 4 edizione, è simbolo di innovazione e un punto di partenza per una visione diversa dell’editoria che potrebbe portare a una diffusione più omogenea sul territorio italiano e, di conseguenza, a una promozione di libri e di lettura diversa da come la conosciamo.

Insomma, il racconto va forte, piace, viene letto e c’è chi vuole saperne di più! E per chiudere in bellezza, vogliamo lasciarvi una breve lista di raccolte di racconti che suggeriamo di leggere: ogni link vi porterà alla pagina del libro nel sito Racconti Edizioni. Scegli la raccolta più affine al tuo gusto letterario, oppure lascia che sia lei a scegliere te. 
Ecco la lista, buona lettura!

Guida alla notte per principianti di Mary Robinson
Fantasie di stupro di Margaret Atwood
Appunti da un bordello turco di Philip Ó Ceallaigh
Coriandoli il giorno dei morti di B. Traven
Birra scura e cipolle dolci di John Cheever

 

L’articolo è scritto in collaborazione con:
Scuola Martin Eden
“Fai salpare le tue storie”

Scuola di scrittura creativa a Padova 
Facebook & Instagram
info@martin-eden.it 

Come una madre

Sono single. Ho trentacinque anni. Un fisico formoso ma atletico. Odio la lavanda, credo di essere l’unica persona al mondo. Ricerco l’ordine, o forse dovrei dire la perfezione, in ogni cosa. Sono imprenditrice. Produco un marchio di moda. Nulla a che vedere con Gucci o Louis Vuitton, ma viaggia bene.

Apprezzo i piatti semplici, il vino bianco, mangio solo gelato al gusto vaniglia. Non convivo, non ho relazioni, ho solo contratti o incontri a tempo determinato. Tendo al controllo. Sono intelligente, ma a volte dimentico che sono umana e che nulla può seguire in maniera impeccabile il suo percorso. Adoro gli animali solo nei film. Amo la mia famiglia, ma presa a piccole dosi. Ed è qui che decade tutta la mia vita. In un giorno qualunque, il castello che credevo solido e inattaccabile crolla proprio davanti a me, e io con lui.

Non so come quella foto sia arrivata a me, né chi l’abbia scattata, ma ogni domanda che emerge nella mia mente viene allontanata dalla madre di tutte le domande: i bambini stanno bene? Il respiro viene a mancare, la gola prude. Ho la sensazione di aver perso l’udito perché non percepisco nemmeno più la televisione in sottofondo. Non ho loro notizie da oltre un mese.

L’ultima volta li ho visti per pochi minuti. Si tenevano per mano camminando verso di me mentre li aspettavo in una stanza e sorseggiavo un caffè. Avevo messo in bella vista due grandi pacchetti regalo, ma non li avevano toccati. Rimanevano fermi immobili come se aspettassero una mia reazione. La più grande aveva appoggiato il braccio sulle spalle del più piccolo che teneva la testa bassa. Io dicevo poche frasi che si concludevano con un gran sorriso da clown. Solo la più grande rispondeva, ma a monosillabi.

Serrai le labbra e mi alzai, dicendo che ci saremmo rivisti presto e in quel momento il più piccolo mi guardò. Gli occhi di un marrone chiaro richiamarono il ricordo della loro mamma, la mia sorellina con cui condividevo ogni cosa. Non dice nulla, ma la sua espressione mi fa capire che è consapevole che sto mentendo. E mi sovviene il ricordo di quando da piccola, io la mia sorellina ci divertivamo a rubare i mestoli di mamma per giocare sotto al tavolo mentre lei cucinava; diventava matta ogni volta e quando ci scopriva, o meglio, si stancava, minacciava di toglierci tutti i giochi e noi scappavamo in camera, divertite, perché non sapeva che i giochi migliori li avevamo nascosti nell’armadio, sotto ai piumoni invernali. 

Getto la foto sul tavolo della cucina e mi affaccio alla grande finestra del mio attico. È stupenda la vista da lassù. È stata la carta vincente che mi ha portato all’acquisto. Quei bambini non sono mai venuti qui: ogni oggetto è vintage o di lusso, morirei se qualcosa si rovinasse. Ripenso a mia sorella, e d’istinto porto una mano alla bocca. Non piango mai. Per nessuna ragione. È una cosa così debole che provo una gran vergogna e abbasso lo sguardo, neanche avessi davanti qualcuno a giudicarmi. Mi volto di scatto e spingo una sedia a terra con una violenza di cui non mi credevo capace. Il rumore è assordante a quell’ora della sera. Il mio sguardo è fisso sull’oggetto che pochi istanti dopo rimetto a posto con estrema delicatezza, come se stessi raccogliendo delle rose a cui non ho tolto le spine.

Prendo in mano il cellulare e scorro la rubrica con cautela. Forse spero di non trovare registrato quel numero, ma poi appare ai miei occhi chiaro e distinto. Il dito è a mezz’aria e, ancora indeciso, preme sul tasto. Quando una voce femminile risponde, provo un disagio tremendo, praticamente un tuffo a bomba in una piscina dall’acqua gelida. Il capitano delle mie emozioni tiene con le briglie la mia ansia, in fondo devo farle solo una domanda anche se in un lampo riaffiora la nostra prima conversazione dove mi informava che ero la parente più prossima ai miei due nipoti. La mia famiglia era morta in un incidente d’auto: non avevo più una sorella, un cognato, una madre e un padre. I bambini erano a un compleanno. Non avevo trovato il coraggio di andare a prenderli e avevo insistito che fosse lei a occuparsene. Che vigliacca…
Mi scuso per l’orario e lentamente, quasi la mia mente ragionasse come una giostra a gettoni da caricare di continuo, chiedo come stanno i bambini. La mancata fluidità con cui solitamente conversa, la tradisce. Provo un freddo pungente lungo la schiena e stringo il telefono più forte. Chiedo spiegazioni, le pretendo. Mi dice che purtroppo c’è stato un cambiamento e che per un banale disguido, forse, non sono stata avvisata. Mi elenca un indirizzo e il sangue smette di affluire nelle mie vene, o almeno è ciò che sento.

Non mi rendo conto di essere scalza, con indosso solo un tubino e i capelli disordinati. Il portiere al piano terra apre la porta d’ingresso giusto in tempo per evitare che ci finisca contro. Corro veloce lungo il marciapiede. Urto qualche passante, i più furbi si scansano. Attraverso la strada facendo cenno di stop alle auto che non suonano nemmeno il clacson, forse perplesse dalla mia foga. Raggiungo l’altro lato della strada e corro sempre più veloce. Alle superiori era una gran velocista ed è incredibile come il mio corpo ricordi bene il ritmo utile per una corsa equilibrata.

Corro per quelli che saranno almeno otto chilometri. Non accenno fiato corto. Non crollo. Mi fermo di scatto davanti alla destinazione e urlo di aprire mentre busso alla porta così forte che dall’altro lato della strada qualcuno blatera a voce alta frasi che non comprendo. Forse mi dicono di fare silenzio, forse mi intimano a fermarmi. Non lo so e non mi interessa. Una luce si accende e quando la porta si apre, non bado a chi ho di fronte. Chiamo i loro nomi di continuo, come fossi un disco rotto e il volume bloccato allo stesso punto, alto e ruggente.

Altre luci si accendono. Sento un brusio di voci, ma non ascolto. Salgo al primo piano e percorro i corridoi. La mia voce squillante risveglia quel posto che non volevo per loro. C’è odore di vecchio, le pareti hanno l’intonaco crepato, la toilette puzza di fogna, il pavimento presenta macchie ovunque. Chiamo i loro nomi ma non li trovo e in quel momento mi blocco perché mi rendo conto di piangere. Mi volto e osservo gli sguardi perplessi o spaventati di bambini nei loro pigiami, alcuni stringono un peluche. Penseranno che sia una pazza e credo di averne l’aspetto. Poi sento chiamare il mio nome e mi volto. Eccoli! 

Prendo in braccio il più piccolo e per mano la più grande e li trascino fino all’ingresso mentre un uomo anziano mi aggredisce a parole che puntualmente ignoro. Esco in strada e cammino senza voltarmi. I bambini non dicono nulla, mi seguono. Più ci allontaniamo da quell’edificio, più ho la sensazione di essere al sicuro. Mi guardo attorno per capire dove ci troviamo e il più piccolo mi guarda e dice che ha fame. Poteva dirmi qualsiasi cosa, anche la più atroce, ne avrebbe avuto diritto. Invece ha solo voglia di mangiare.

Anche se non ho un soldo con me, camminiamo verso il primo locale che offra pasti a quell’ora e nel cercarlo, vedo la mia immagine riflessa lungo una vetrata scura. Ho l’aspetto di chi è andato incontro a un uragano, uscendone indenne. Cerco di sistemare i capelli, ma la più grande mi ferma. Mi chiede di non farlo. Dice che le ricordo la sua mamma e il mio petto si scalda facendomi sentire in colpa ma serena al tempo stesso. Sorellina, mi manchi così tanto…

Raggiungiamo un locale che vedo ancora impegnato a servire pasti caldi, ma due pattuglie della polizia si avvicinano. Un uomo in divisa mi analizza come uno scanner e dallo sguardo deciso, comprendo che sa chi sono e cosa ho fatto. Mi chiede di salire in auto e lasciare i bambini alla sua collega che prova ad avvicinarsi, ma io li blocco con un immediato gesto della mano. Dico che non farò nulla di tutto ciò, non prima di aver portato i bambini a mangiare, perché è ciò che desiderano.

L’uomo mi fissa serio per secondi che sembrano non avere fine. Di sicuro teme per la vita dei bambini, e il suo giuramento lo obbliga a far rispettare la legge, a servire e proteggere, ma ho anche l’impressione che comprenda il mio stato d’animo perché lentamente perde la posizione rigida e i lati della sua bocca, nonostante siano nascosti dai baffi, si addolciscono. Fa un cenno con la mano che mi rassicura e apre la porta per farci entrare nel locale. 

Il piccolo siede sulle mie gambe, la più grande di fronte a me. Ordiniamo solo tranci di pizza e dolci. Insisto sull’acqua al posto della coca-cola, lo faceva sempre mia sorella. Mangiano e scherzano come se nulla di folle sia successo, come se la polizia non fosse lì fuori, in attesa che usciamo. Forse non sanno cosa accadrà, a dire la verità non lo so nemmeno io, ma in quel momento non m’importa. Do un morso alla torta al cioccolato e lo stomaco si apre in segno di grazia, felice di non dover digerire altro cibo privo di grassi. È il morso più dolce e sensato degli ultimi anni e provo un immenso piacere nell’assaporarlo.

Sposto indietro una ciocca di capelli e mi rendo conto di essermi sporcata. Fino a un’ora prima avrei urlato isterica, ora invece osservo curiosa il residuo di cioccolato sulle dita, sul vestito, sui capelli. Il piccolo si volta e ride. Dice che una volta la sua mamma non sapeva se tagliarsi i capelli. Lo ripeteva in continuazione a tutti quanti e lui, stanco di sentirla, le aveva spiaccicato in testa una gomma da masticare. Ricordavo quell’episodio, ero con lei dalla parrucchiera il giorno in cui dovette quasi rasare i capelli a zero. Ci ritroviamo a ridere, quasi a crepapelle. 

Li avevo rifiutati perché non volevo la responsabilità di curarmi di loro. Corrotti con regali per figurare come la zia perfetta. E rapiti senza alcuna spiegazione nel cuore della notte. Eppure erano seduti con me a ridere, a mangiare, a parlare della loro mamma. Spensierati. Com’era possibile? Non serbavano alcun rancore nei miei confronti e io non ero mai stata così felice come in quel momento.

FINE