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Ombre

finale di Marco Simion

Una porta si apre all’improvviso con un cigolio, e ne esce una bella ragazza, con dei lunghi capelli castani e vestita con un maglione a fiori così simile a quello che mi sembrava di essermi appena sognata. Tiene per il manico una grande pentola fumante, con dentro un mestolo, e nell’altra due piatti. Nella stanza si diffonde un buon odore di funghi, e la pancia emette un sonoro brontolio, mettendomi in imbarazzo. In fondo mi ero messa in cammino nel bel mezzo della preparazione della cena.

“A quanto pare abbiamo ospiti. Tu devi essere Giulia, Luigi mi ha parlato molto di te” mentì lei. “Spero tu ti sia un po’ asciugata. E che tu abbia fame. Vieni, ho fatto una zuppa di funghi, dovrebbe scaldarti”. Il suo sguardo si addolcisce e si posa su Luigi. “Lascialo pure dormire vicino al fuoco, credo non si sveglierà per un bel po’, era veramente distrutto”.

Non so per quale motivo, ma non me la sento di contraddirla. Sposto delicatamente la testa di Luigi dal mio grembo e gli metto la mia giacca sotto la testa. “Ma ce l’abbiamo un cuscino, aspetta”. La ragazza appoggia il pentolone sul tavolo e si dirige verso il letto, prende un cuscino e lo appoggia sotto il capo di Luigi, che non sembra accorgersi di nulla. È solo una mia impressione che nel farlo lei gli accarezzi i capelli? 

La seguo poi al tavolo, dove mi versa una porzione abbondante di zuppa nel piatto. “Aspetta, prendo il pane e qualcosa da bere”. Si affaccia di nuovo nell’altra stanza e ne esce con una grande pagnotta, un fiasco di vino e due calici. Sembra portare tutto con naturalezza, come se tutto non pesasse nulla. “Spero tu gradisca un po’ di vino. Di acqua ne abbiamo presa abbastanza”.

“Quindi ti sei messa in viaggio con questo tempaccio. Molto coraggioso da parte tua. Anche un po’ stupido però”. Non so per quale ragione ma non riesco a replicare. Di solito sarei saltata su per molto meno. Da una sconosciuta poi. “In fondo Luigi qui era al sicuro. E domattina con calma sarebbe sceso a valle. È stato strano rivederlo sai?” Al mio sguardo di stupore mi riempie il bicchiere di vino. “Non credo mi abbia riconosciuta, ma io e lui c’eravamo già visti, quando eravamo appena adolescenti. Io ho sempre abitato in queste valli, e lui era venuto in vacanza coi suoi.

Un giorno mi sono presa una storta nel bosco, e non riuscivo a camminare. Lui era rimasto un po’ indietro in una camminata e ha sentito i miei lamenti. Mi ha portato a spalla fino a casa mia. Un paio di km e, nonostante fossi leggera, credo di essergli pesata un bel po’. Non si era mai lamentato. E poi il giorno dopo era passato a trovarmi. E il giorno dopo ancora. Ed è stato in uno di quei giorni che gli ho dato il suo primo bacio. L’ho capito subito che era il suo primo, da quant’era impacciato. E da quant’era arrossito.

Abbiamo passato le due settimane successive così, sempre insieme. Fantasticavamo di grandi progetti, quando saremmo diventati adulti. Ma in realtà nonostante ci abbia sperato tanto una volta tornato in città non l’ho più rivisto.” Guarda il mio anello. “Tu sei stata più brava, l’hai trovato e sei riuscita a tenertelo. Io credo che neanche si ricordi di me. Cosa sono in fondo, quindici giorni d’estate?”.

“Avevo pensato di dirglielo domattina, e sono sicura che stanotte sarei riuscita a convincerlo a rimanere qui con me. Non sono più una ragazzina ingenua, e ora ho affinato i miei mezzi”. Nel dirlo si passa una mano tra i capelli in modo languido e mi lancia uno sguardo intenso. È ancora più bella di quanto non mi fosse sembrata la prima volta che si era affacciata sulla porta. Nonostante la fiducia che ho in Luigi non dubito nemmeno per un momento che ci sarebbe riuscita. “Ma sei arrivata tu. E ho capito che non potevo essere così egoista da prendermi ciò che non era più mio, e forse non lo era mai stato. Per cui ho deciso di lasciarvi in pace. Potete passare la notte qui, al caldo. Domattina prendete il sentiero che parte a destra della radura, dovreste arrivare al paese in un’oretta. E se ti chiede qualcosa digli che l’hai trovato qui, da solo, in questa capanna e che te l’ha indicata un vecchio cacciatore. Non gli parlare di me, è meglio così, sarà il nostro segreto”.

E nel dirlo mi si avvicina e io mi ritraggo istintivamente, ma lei mi prende il viso tra le mani, e mi dà un delicato bacio in fronte. Poi si china su di Luigi che dorme davanti al fuoco e dà un bacio in fronte anche a lui. “Mi sa che gli è venuta la febbre, prenditi cura di lui. È stato un piacere conoscerti Giulia, ma anche un peccato” mi dice mentre apre la porta principale per uscire nella pioggia. Dopo un attimo di smarrimento mi affaccio alla finestra. Probabilmente è già scomparsa lungo il sentiero tra gli alberi, perché non la vedo più. 

Il giorno dopo Luigi si risveglia accanto a me. Gli tocco la fronte ed è appena tiepida, ma niente di particolare. Non gli faccio nemmeno un cazziatone. Gli dico che mentre salivo per cercarlo ho visto del fumo salire in mezzo al bosco, e fradicia com’ero sono andata in quella direzione, per ripararmi. E lì ho incontrato un montanaro, che mi ha detto di averlo trovato appeso a una parete di roccia e averlo portato qui con uno sforzo notevole.

Luigi è un po’ perplesso ma dice di non ricordarsi bene della sera prima, è tutto un po’ confuso. Io gli riscaldo un po’ di zuppa e passiamo mezza giornata lì finché non mi dice che se la sente di scendere giù, ma che prima deve verificare una cosa. Camminiamo per una mezz’oretta fino al punto in cui era rimasto bloccato la sera prima e io mi preoccupo un po’. Lui mi dice solo che vuole capire che errore ha fatto. Si avvicina a una piccola croce, piantata nel terreno e la guarda per pochi secondi, come di sfuggita e poi si mette a fissare la valle in lontananza.


“Possiamo andare” mi dice. Se mi fossi avvicinata di qualche passo avrei potuto leggere cosa c’era scritto sulla croce. “Soreghina Ciastel – strappata troppo presto all’affetto delle sue montagne. 1984-2001”.

Fine

La campana tibetana

finale di Alberto Sartori 

Il suono di una campana tibetana. Il rintocco è molto forte ma poi si trasforma in un’onda melodiosa che mi fa assopire sempre di più, si avvicina e mi avvolge completamente. Le palpebre sono sempre più pesanti, chiudo gli occhi mentre solo un leggero spostamento d’aria mi culla.

Riapro gli occhi di colpo e tiro uno starnuto. Maledetta pioggia e maledetto freddo. Sono sdraiato sulla pelle di cervo, la mia nuca posata sul suo grembo. È stata così dolce ad accogliermi qui con lei ma ancora non riesco a credere che non abbia capito chi sono. Quelle lunghe estati assieme prima di conoscere Giulia sono impresse nella mia mente e posso riavvolgere il nastro dei ricordi alla perfezione. Sono ancora intorpidito e mi alzo lentamente senza svegliarla.

Il suo respiro è molto affannoso. Vado verso il fuoco che si sta ormai spegnendo ma emana ancora quel suo calore ristoratore, muove un leggero vento verso il mio viso mentre mi avvicino. Sento una ragnatela che mi si posa tra la fronte e i capelli, cerco di levarla con la mano ma oppone resistenza, si attacca con forza alle mie dita. La osservo per vedere dove si sia incastrata e vedo che non è una ragnatela ma un capello di Giulia.

Solo lei ha una ciocca di capelli azzurri tra tutte le donne del paese. Con quelli che perde sarà stato sicuramente impigliato in uno dei miei vestiti. Ripenso a lei ed un brivido mi corre lungo la schiena. L’ho sognata mentre ero assopito, era qui con me. Avevo una paura tremenda che mi scoprisse con Soreghina ma per fortuna non era reale, anche se era un sogno così vivido. “Basta fantasticare Luigi, non era qui. Guarda dietro di te chi c’è” mi dico da solo indispettito. Parlare con me stesso è sempre stata una buona abitudine.

Mi giro per guardare Soreghina e la vedo muovere gli occhi da sotto le palpebre chiuse, sintomo di un sonno molto agitato. Vado verso di lei e la accarezzo dolcemente. Un polpastrello rimane bagnato da una lacrima che sta scendendo sul suo viso. 

“Ehi, Soreghina” la chiamo sottovoce ma non si sveglia. “Devo dimenticarti, di nuovo” le dico con un sussurro ancora più flebile. “È ora di rincasare Luigi!” mi impartisco un ordine da solo. Il temporale è finito da un pezzo e posso prendere in prestito una delle sue torce. Magari penserà che sia stato soltanto un sogno l’avermi qui per una sera. In ogni caso mi ricorderà come quel ragazzo salvato sulla montagna e non di certo come il suo ex. Di sicuro non verrà a cercarmi. Questo ultimo pensiero mi rasserena.

Con passo leggero raccolgo i vestiti fradici lasciati sul pavimento, faccio un fagotto e prendo la torcia sopra alla sua credenza. Il forte rintocco di una campana tibetana mi entra nella testa, sento un liquido caldo scorrere giù per il collo ed inondarmi la schiena. La vista si offusca e tutto diventa nero.

“Ma dove diavolo sta andando Luigi?” penso animosamente. Quella maledetta Soreghina mi ha imbavagliato mentre dormivo e ha preso il mio posto sulla pelle di cervo. Possibile che non si sia accorto di niente? Ringrazio quel tarlo che ha fatto questa piccola fessura sul muro, almeno posso vedere cosa stanno combinando quei due.

“Oh mio Dio” vorrei urlare forte. “No no no no no, non colpirlo brutta stronza. Cosa vuoi fare?” Inizio a dimenarmi con tutta la forza che ho e riesco a liberare una mano. Tolgo il fazzoletto di cotone dalla bocca ed inizio a sciogliere tutti i nodi del lenzuolo che mi stringe polsi e caviglie. Torno a quel piccolo foro e vedo Luigi riverso a terra, una pozza di sangue si allarga sul pavimento. Non c’è tempo per pensare. L’istinto prende il sopravvento, il mio cuore zittisce la mia mente. Scappare o attaccare? Io attacco.

Tiro una spallata alla porta dello sgabuzzino dove ero rinchiusa. Soreghina fa in tempo solo a spalancare i suoi occhi. Colpisco forte l’interno del suo ginocchio e la faccio cadere a terra, ho portato con me il lenzuolo e glielo lego attorno al collo e stringo, stringo forte, stringo finché non vedo Luigi che si sta muovendo. È ancora vivo. Allento la mia presa e lego i suoi polsi. Mi alzo e corro verso Luigi. Inciampo. Cado vicino a lui sbattendo il viso. E di nuovo sento il suono della campana tibetana. Inizia a tintinnare e continua a trasformarsi, diventa un suono intermittente e metallico, poi un ronzio fastidioso.

Apriamo gli occhi all’unisono. Giulia è qui di fronte a me. Anche le due poltrone bianche si guardano tra loro. Fuori il sole sta scendendo. “Allora com’è andata? Oggi c’era un po’ di pepe in più nell’esperienza che vi ho innestato e potevate prendere parecchie scelte. Vi siete divertiti?”

“Sì, dottore. Sembrava così reale” sussurro tristemente. Maledetta terapia di coppia. Questa nuova tecnologia che ci fa vivere situazioni all’unisono nelle nostre menti, prendere delle scelte in modo da registrare le nostre reazioni, sperando di rinsaldare il nostro rapporto proprio non sta funzionando. 

Fine

Cadavere Squisito – 6

Un racconto scritto a sei mani. Ispirati dalla tecnica del Cadavere Squisito. Tre scrittori. Un tema comune. Tre stili diversi che si amalgamano assieme. Un racconto scritto appositamente per l’evento Wanted Stories seguendo le rispettive idee e ispirazioni! 

Ispirati dal tema della Fotografia, abbiamo dato vita a un racconto tra il mistero e la suspense, ambientato nell’ex ospedale psichiatrico di Granzette, a Rovigo. Una struttura che abbiamo visitato di persona, alla ricerca di dettagli per la nostra storia.


L’input di partenza è una frase tratta dal film “Shutter Island” di Martin Scorsese e con Leonardo di Caprio come protagonista principale.

Il racconto è stato scritto secondo la tecnica del Cadavere Squisito. Un gioco di scrittura a più mani dove ogni autore interviene a turno per creare una storia con una trama credibile. Ogni autore scrive il suo finale e durante l’evento ne viene letto solo uno, scelto dal pubblico a inizio serata. Qui li trovate tutti!
Buona lettura!

INCIPIT – Dal film Shutter Island di Martin Scorsese – “Una volta che sei dichiarato pazzo tutto quello che fai è considerato parte di quella pazzia: le ragionevoli proteste sono negazioni, le paure giustificate, paranoia. L’istinto di sopravvivenza… meccanismi difensivi”

Turno 1 Linda

Quando varcò la soglia dell’ex ospedale psichiatrico di Granzette, Giacomo si bloccò. Fino a pochi secondi prima la sua convinzione era forte e sicura, non lo aveva mai abbandonato, ma ora che era fisicamente dentro all’edificio, un’inaspettata esitazione lo travolse, obbligandolo a dubitare persino delle sue azioni. Era l’alba di una domenica mattina. La struttura non avrebbe aperto al pubblico prima di tre ore, ma Giacomo sapeva che doveva visitare quel posto quando era ancora avvolto nel silenzio. 

Così accadeva nel sogno che faceva ripetutamente da qualche tempo. Si vedeva dentro quel luogo con la costante sensazione di dover trovare qualcosa di cui però era ancora all’oscuro. Non sapeva se avrebbe trovato pace al suo tormento, ma sapeva che doveva farlo. Non era preoccupato di essere scoperto. Se lo avessero trovato, li avrebbe ingannati presentandosi come un operatore del comune di Rovigo o meglio ancora, avrebbe detto che si era semplicemente smarrito. Chiunque avrebbe creduto a un uomo di settant’anni.

Turno 1 Alberto

La sua vita si poteva riassumere in due sole parole: zappa e badile. Della moglie defunta non portava rancore, né splendidi ricordi. Un figlio, fino al 2001, partito nel Novembre di quel maledetto anno come volontario in Afghanistan e mai ritornato. Motivazione e scuse in una semplice lettera gialla dell’Esercito Italiano. La salma non era mai tornata, solo una bara di abete non lavorato con una croce di bronzo e un drappo con i colori della bandiera italiana. All’interno solo aria, qualche granello di sabbia e la rabbia di un padre. 

Quella rabbia che non lo aveva mai abbandonato per lunghi interminabili anni. Fino a qualche mese prima era l’unico sentimento che riusciva a permearlo ogni santo giorno, fino a quella notte in cui iniziò a vivere quel sogno maledetto. Continuava a farlo, sempre lo stesso, sempre gli stessi interminabili secondi. Adesso era lì, da solo, in un corridoio che non aveva niente di ospitale, nemmeno un quadro alle pareti, l’intonaco crepato dava vita a strani disegni. 

Eppure gli sembrava di sentire qualcuno vicino a lui, o qualcosa. Sentiva quella sensazione che ti fa svegliare nella notte per andare a vedere se c’è qualcuno fuori dalla porta, per poi trovare solo l’oscurità e alzare gli occhi per essere confortato dal bagliore della luna.

Turno 1 Aldo

Adesso quel sogno lo stava vivendo per davvero. L’edificio aveva perso lo status di ospedale psichiatrico. Non ospitava più malati, solo visitatori, eppure tutt’ora emanava una forte inquietudine, un senso di disagio che entrava sotto pelle e gelava il cuore. Il corridoio che stava percorrendo sembrava in tutto e per tutto quello che più e più volte aveva percorso in sogno. Si accorse di avere paura, una paura immotivata, solida e pulsante. Si chiese cosa stesse facendo lì dentro, e sentì il desiderio di andarsene e di farlo subito. 

Stava già dirigendo i propri passi verso l’uscita, quando la sua attenzione venne catturata da un intreccio di graffi sull’intonaco, apparentemente senza senso. A ben guardare, si poteva leggere in maniera distinta una frase. “Nessuno è te”. Venne colto da un senso di vertigine, un déjà vu, l’immagine di un vecchio che sbavava e mormorava: «Nessuno è te, nessuno è te, nessuno è te». Sentì le gambe farsi di pietra e lacrime calde solcare il volto.

Turno 2 Linda

Proseguì lungo il corridoio, non voleva stare un minuto di più in quel posto, sentiva che qualcosa di brutto stava per accadere. Si diresse verso quella che una volta era la sala mensa, ma quando sentì un rumore sinistro provenire dall’ingresso lì vicino, si bloccò. Senza pensarci oltre, camminò nella direzione opposta, ma quel rumore si ripresentò, ancora più ostile, così si ritrovò a salire la rampa di scale impolverata, l’intonaco scrostato attraversato da una pianta rampicante. 

Passo dopo passo, sentì l’adrenalina salire fino al petto, il fiato corto e la paura aumentare sempre di più. Entrò in una stanza vuota e sporca, i lavandini rotti, uno specchio opaco, la tapparella logora. Socchiuse la porta e restò in ascolto. Il vento soffiava dolce tra i rami degli alberi del verde giardino. Qualche uccello annunciava il suo risveglio, la quiete era quasi spaventosa, ma poi dei passi gli fecero saltare il cuore in gola. 

Era di sicuro un addetto alla struttura, ma quel che vide dalla piccola fessura tra la porta e lo stipite, gli tolse il respiro. Una figura maschile camminava lenta, quasi per inerzia, proprio nel corridoio accanto. Vestito di un pigiama lurido, i piedi scalzi, la testa rasata solo in parte, come se avesse subìto un intervento.

Quella figura non aveva percepito la presenza di Giacomo, ma quando sparì oltrepassando letteralmente un muro, l’uomo emise un debole gemito che scemò, quasi la voce si fosse rotta dalla spettrale visione. Gli occhi erano lucidi e tremanti. E alla fine una lacrima scese lungo il viso, la paura stava lasciando spazio allo scetticismo. I fantasmi non esistevano, o quello di suo figlio forse sì? 

 

Turno 2 Alberto

Il sudore gli scendeva sulla fronte e l’adrenalina iniziò a montargli nel petto. Aprì il rubinetto dell’acqua fredda e si lavò il viso, prese l’asciugamano e si massaggiò la fronte. Sbatté le palpebre rendendosi conto all’improvviso che il rubinetto non c’era, l’acqua non sgorgava su quei lavandini da almeno vent’anni, il cotone dell’asciugamano esisteva solo nei suoi pensieri. 

La confusione guadagnava sempre più spazio dentro la sua testa. In un istante crollò e si sedette a terra, la schiena appoggiata all’intonaco che cadeva a pezzi. Lacrime amare gli solcavano il volto mentre guardava verso l’alto e pregava un Dio in cui non aveva mai creduto. «Dio, ti prego, salvami. Salva la mia anima», sussurrò, quasi in un lamento. Non riusciva più a capire ciò che era reale in quel posto, tutto si confondeva tra presente e passato, tra tangibile e immaginato. Uscì dalla stanza, i pensieri non riuscivano ad essere fluidi nella sua mente, si ritrovò in quella che al tempo doveva essere una sala operatoria. 

Un lettino era posizionato al centro e fissato al pavimento. Tutt’attorno c’erano manichini del corpo umano, semiaperti, che lasciavano vedere gli organi al loro interno. Dentro alle vetrine, decine di attrezzi chirurgici erano ancora ben ordinati. Senza saperne il perché, si ritrovò a stringere in mano un punteruolo chirurgico della lunghezza di circa venti centimetri e si sdraiò sul lettino. Era come se fosse sotto ipnosi, i movimenti robotici. Vide un uomo in camice bianco avvicinarsi. «Ciao Andrea, stai tranquillo, non sentirai nulla». 

Le telecamere di sicurezza inquadravano proprio quella stanza e il ragazzo della cooperativa che gestiva la struttura, arrivato in anticipo a lavoro, era sconvolto nel vedere cosa stesse combinando quel signore. Lo vide fare di sì con la testa fissando il vuoto, poi spalancò gli occhi e sentì un brivido spaccargli in due la schiena quando lo vide avvicinare il punteruolo chirurgico arrugginito all’arcata sopraccigliare. Giacomo iniziò a premere come se volesse eseguire una lobotomia su se stesso, poi si bloccò di colpo. Il ragazzo fissava lo schermo incredulo, prese il mouse e allargò l’immagine per vedere più nitidamente il viso di Giacomo che, proprio in quel momento, mosse tremante le labbra dicendo: «Nessuno è te», mentre allontanava il punteruolo, lasciandolo cadere a terra. 

Turno 2 Aldo

Giacomo era perplesso. Aveva visto suo figlio Andrea vagare come un fantasma tra i corridoi di quel vecchio ospedale psichiatrico, un luogo dove non era mai stato e che gli sembrava stranamente familiare. Un dottore, l’aveva chiamato con il nome di suo figlio, gli diceva  di stare tranquillo, mentre tacitamente lo invitava a spaccarsi il cervello con un punteruolo. Tutta la comprensione di sé e del mondo intero gli stava franando sotto i piedi. Non capiva più nulla: realtà, sogno e incubo si fondevano insieme in un nulla spaventoso. 

Una frase graffiata sul muro gli martellava il cervello. “Nessuno è te. Nessuno è te”. Ma lui, chi era? Sentiva freddo, tanto freddo, e mille pensieri ed emozioni lo paralizzavano. «Io sono Giacomo», disse a se stesso, «ho avuto un figlio, morto in Afghanistan». Vide una bara vuota, una lettera, un volto. Che altro ricordava di Andrea? Aveva studiato?  Quali passioni aveva ? Era fidanzato?  Si accorse con terrore di non ricordare nient’altro. Solo un volto, una lettera, una bara. Ma cosa ricordava esattamente della sua vita? Di suo padre nulla, di sua madre neppure. La moglie defunta? Una vecchia, invalida. 

La vedeva a pranzo e a cena, non parlavano mai. Non ricordava il matrimonio, di averci fatto l’amore, niente. Passava le giornate nell’orto a zappare senza che crescesse mai nulla. Viveva con altra gente. Tutti anziani. E delle persone in camice bianco si prendevano cura di loro. La spaventosa consapevolezza che tutto ciò che pensava reale non lo fosse, piano piano si impossessò di lui. 

Il lavoro nei campi, la moglie, il figlio. Tutta la vita si mostrava per quello che era davvero: illusione, bugia, delirio, vuoto, assenza, nulla. E quel luogo era casa sua. Il dottore che gli era apparso  era un emerito bastardo che lo torturava con salassi, elettroshock, farmaci e bruciature. I corridoi si popolarono all’improvviso di malati sofferenti ed ingobbiti. Risentì le urla, i silenzi, la puzza di escrementi. 

E rivide se stesso prigioniero di quelle mura, bisognoso di aria, di vita, di amore. Privato di tutto, trovava rifugio nella fantasia, nel bisogno e nel potere di creare passato, presente e futuro. Vite, persone, esperienze che poi diventavano  vere, per lui . «Io sono nessuno», disse, «Io non sono», mormorò ancora. «Nessuno è me», prese a urlare forte. Appoggiò nuovamente il punteruolo all’occhio, per infilarselo nel cranio.

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LINDA MOONALBERTO SARTORIALDO FERRARESE

Finale Linda Moon – TITOLO: Delirium
Un infermiere intervenne prima che Giacomo potesse agire, poi spinse la carrozzina su cui era seduto e lo abbandonò in un ufficio. Si guardò attorno, attonito, non riconosceva nulla di ciò che lo circondava, né comprendeva come mai fosse su una carrozzina e non più su un lettino. Davanti a lui una libreria in legno pregiato colma di libri spessi almeno sette centimetri. Tende lunghe con drappeggi su enormi finestre, una scrivania elegante, una pila di documenti e una costosa penna stilografica in bella vista. Tutto risuonava raffinato, quasi di un’altra epoca, di sicuro lontano da ciò cui era abitualmente circondato. Sentì una porta aprirsi alle sue spalle e in pochi secondi il dottore in camice bianco, l’emerito bastardo, prese posto davanti a lui, appoggiandosi alla scrivania e mostrò il punteruolo che Giacomo stava per infilare sotto la sua arcata sopraccigliare. 
«Voleva farlo davvero?», chiese il dottore.
«Dottore, la prego non mi torturi ancora… la prego, non lo faccia». Il dottore sorrise. «È buffo, sa. È la stessa cosa che le aveva chiesto mio padre ma lei non lo ha ascoltato. Lo ha torturato fino alla morte». Giacomo aggrottò la fronte. Non si riconosceva in quelle accuse. Stava ancora sognando? Stava forse delirando? Aveva appena realizzato di non avere avuto nè una moglie, nè un figlio. La vita che aveva immaginato era solo una pure illusione. «Ero tentato di lasciarla fare», disse il dottore, poi proseguì, «non aveva mai provato a ferirsi da solo. È da diverso tempo che facciamo questo gioco e vederla finalmente arrivare al punto di privarsi di ogni ragione ed emozione è stato così inaspettato che mi è venuto istintivo dare ordine di fermarla. Insomma, ciò che sto cercando di dire è che forse non sono pronto a lasciarla morire». Giacomo sgranò gli occhi. Perché gli diceva quelle cose? Nulla per lui aveva senso. «Dottore, non capisco…». L’uomo aprì un cassetto e gli mostrò una foto in bianco e nero. Giacomo si vide più giovane, vestito in tenuta militare, accerchiato da altre persone in uniforme, chiaramente dei subalterni, e davanti a loro una schiera di uomini dall’aspetto emaciato, sporco, vestiti di indumenti a righe chiare e scure. 
«Questo è lei, a Dachau, vicino a Monaco di Baviera. È qui che avete costruito il primo lager ed è qui che avete internato i vostri avversari politici. Tra questi c’era mio padre. Lui non era d’accordo con le vostre folli idee e dopo aver ucciso mia madre davanti a lui, lo avete imprigionato. Lei non si ricorda di me solo perché l’ho privata di ogni ricordo il più possibile, ma so che se si sforza può riaffiorarle alla mente il mio viso, terrorizzato a morte, mentre mi strappava dalle braccia di mio padre. Il suo errore è stato quello di essere eccessivamente ambizioso nella sua vendetta contro di lui. Mi ha fornito un’eccellente istruzione, mi ha cresciuto come uno di voi, ma non lo sono mai stato. Ho recitato tutta la vita, nella speranza di avere la mia vendetta. Sono diventato un medico rispettabile. Avrei potuto operare ovunque, ma quando ho saputo che era ancora vivo, ho avuto la sensazione che un giorno ci saremmo rivisti e così è stato. Sa è davvero buffo che da carnefice lei ora sia diventata la vittima. Lo trovo quasi ingiusto…». Si alzò e si appoggiò alla scrivania, sotto lo sguardo perplesso dell’uomo.
«Non ci credo, non può essere… io mi chiamo Giacomo e non sono chi lei dice che io sia e poi…». Si zittì da solo. I ricordi non erano nitidi ma qualcosa dentro di lui gli intimò di fermarsi. Forse l’inconscio gli suggeriva di tacere, perché la verità appena scoperta poteva essere davvero reale.
«Lei non si chiama Giacomo. Lei è stato un fedele servitore di Heinrich Himmler, di conseguenza un fedele generale per Hitler. Ha torturato e seminato morte ovunque e ha ucciso la mia famiglia. Chiunque sogna la vendetta per il proprio dolore, ma solo pochi hanno l’onore di metterla in atto». Allungò la mano e gli porse il punteruolo. «Le offrirò una possibilità che a me e alla mia famiglia è stata negata. Decida lei se morire come un uomo qualunque o se continuare a vivere con la consapevolezza di chi è e di che cosa ha fatto».

Quando bussarono alla porta, il dottore apparve sulla soglia. L’infermiere richiese la sua presenza nella sala principale e mentre si avviò nel corridoio, si voltò verso il ragazzo e disse: «Riporti il generale Von Werner nella sua camera e mi raccomando, stringa bene le cinghie al letto».

Finale Alberto Sartori – TITOLO: Lettera a me stesso
Il ragazzo della cooperativa, alla vista di quel signore con il punteruolo chirurgico in mano, aveva preso il walkie talkie e avvisato subito il neoassunto, responsabile della sicurezza, Marco Polesel. Nelle ultime settimane erano sparite troppe cose dalle stanze dell’ex manicomio, i più curiosi si erano portati a casa perfino i pappagalli per l’urina come souvenir. Marco aveva raggiunto a grandi falcate Giacomo ed era riuscito a levargli il punteruolo dalle mani prima che potesse conficcarselo nel cranio. Nonostante la convinzione estrema, le mani di Giacomo avevano tremato e non era riuscito a farsi del male. Continuava a balbettare: «Lettera, bara, nessuno è te, nessuno è me». Era completamente bloccato, un vecchio disco rotto che non riusciva a ripartire. Ancora con il fiatone e con il punteruolo al sicuro tra le sue mani, Marco cercò di calmare Giacomo: «Stia tranquillo, va tutto bene, venga con me».

«Vada via! Maledetto! Non vengo da nessuna parte! Mi tolga le mani di dosso!», iniziò a urlare con tutto il fiato che aveva in gola. Si alzò dal lettino e iniziò a togliersi la camicia strappandola, si dimenava come un animale appena catturato, sbavava e urlava frasi senza senso, e senza un apparente motivo si mise a frugare nelle tasche dei pantaloni come per cercare qualcosa, in preda all’agitazione che si stava trasformando in convulsione. Si bloccò appena sentì un fruscìo cartaceo tra i suoi polpastrelli. Gli occhi sbarrati e vuoti, non si mosse per dieci interminabili secondi. Con movimento lento, tirò fuori una lettera gialla sul cui dorso era chiaramente leggibile “Per Andrea Rigoli” e in alto a destra il simbolo dell’Esercito Italiano, disegnato malamente a matita. La porse al ragazzo della sicurezza come per invitarlo a leggergliela. Marco la prese e la aprì con cura, la distese e iniziò a leggere con voce tremante:

18 Novembre
Caro Andrea, pochi istanti di lucidità mi restano ogni giorno. La pazzia mi sta divorando vivo, come un tarlo nella mia testa di legno rimuove a poco a poco i miei pensieri.
I medici non trovano cure, il vecchio balordo in camera con me sa solo ripetere “Nessuno è te” per poi sputarmi addosso.
Mi dispiace. Non volevo farlo. Ma ho dovuto. Volevi partire per l’Afghanistan.
Eri sempre agitato, sempre arrabbiato, violento. Ma non volevo perderti.
Speravo che qualche giorno di cura ti avrebbe aiutato e invece una volta che sei dichiarato pazzo tutto quello che fai è considerato parte di quella pazzia: le ragionevoli proteste sono negazioni, le paure giustificate, paranoia. L’istinto di sopravvivenza… meccanismi difensivi.
E a dichiararti pazzo ero stato proprio io.
È colpa mia. La bara è colpa mia.
La lobotomia è colpa mia.
Una lettera è tutto quello che mi resta per provare a redimere la mia incapacità di essere padre. Per averti perduto. Per averti abbandonato.
Una bara vuota è l’unico ricordo che mi rimane, assieme alla rabbia che provo. Dentro solo polvere. Il tuo corpo sepolto nel giardino del manicomio.
Nessuno è te, Andrea, nessuno lo sarà mai. Nessuno è me e non auguro a nessuno di esserlo.
Sono un vigliacco.
Lascio questa lettera a me stesso, per provare a ricordare quello che ho fatto, sperando che la mia sofferenza mi aiuti a trovare un piccolo angolo di serenità dove morire.
Lascio questa lettera a me stesso, come fosse un cilicio che mi possa aiutare a soffrire.
Tuo padre Giacomo.

Marco finì di leggere tra le lacrime. Alzò lo sguardo e guardò con compassione quell’uomo che non si dava pace per il suo passato, dopo tutto come dargli torto. Sentì movimento alle sue spalle, si girò ma non vide nulla, eppure i passi sul pavimento impolverato erano nitidi. Sentì un colpo d’aria muovergli i capelli. Vide Giacomo fare due passi verso di lui. Gli accarezzò il viso, lo abbracciò e con voce flebile gli sussurrò all’orecchio: «Li vedi anche tu?».

Finale Aldo Ferrarese – Titolo: Requiem
Spinse forte. Sentì il metallo sfondare l’occhio e perforare il cervello. Il manico sbattere forte contro l’arcata sopraccigliare. Sangue, misto a poltiglia, scese piano lungo la guancia, ed entrò in bocca con uno schifoso sapore che sapeva di ferro. Avvertì il tonfo che fece cadendo, i passi di qualcuno che entrava e poi usciva, correndo e sbattendo la porta. Si vide per quello che era. Vecchio, celibe, solo, malato. Congedò, ringraziando tutte le illusioni e le fantasie che gli avevano tenuto compagnia. Una gran pace si fece spazio in  lui, poi il buio, il silenzio, la fine. 
Giacomo Rigoli visse nel manicomio per oltre quarant’anni. Vi era stato rinchiuso da adolescente in seguito a ripetuti atti di violenza verso se stesso e gli altri. Poi, quando questo venne chiuso negli anni ‘80, a seguito della legge Basaglia, venne trasferito in una struttura protetta. Fu sepolto nel piccolo cimitero di Granzette. Non aveva famiglia, ma la chiesa era gremita. La storia del vecchio matto evaso dall’ospizio per  suicidarsi dove aveva vissuto, aveva attirato molti curiosi. I matti si sa, se in vita danno fastidio, poi diventano interessanti, da morti. 

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Cadavere Squisito – 5

Un racconto scritto a sei mani. Ispirati dalla tecnica del Cadavere Squisito. Tre scrittori. Un tema comune. Tre stili diversi che si amalgamano assieme. Un racconto scritto appositamente per l’evento Wanted Stories seguendo le rispettive idee e ispirazioni!

Ispirati da questo tema, i tre scrittori hanno dato vita a un racconto piccante e ricco di emozioni. L’input di partenza, una frase tratta dal racconto “Scirocco” e parte dell’anotologia erotica Uccellini scritta dall’autrice Anais Nin, nota anche per aver scritto opere come Il Delta di Venere.

INCIPIT –  Dal breve racconto erotico dell’antologia di Anais Nin – “Incominciai a sentire rumori che venivano dalla stanza vicina, come di corpi che lottavano. Sentivo il fruscio delle stuoie, occasionalmente un mormorio soffocato. All’inizio non mi resi conto di cosa si trattasse. Una volta, mi alzai silenziosamente e aprii la porta…”

Turno 1 Linda

Ciò che vidi mi agitò come un’onda si infrange impetuosa contro gli scogli. Violenta e inaspettata. Il cuore sembrava voler uscire dal mio petto e anche se non potevo vedere il mio viso, ero più che sicura che fosse di un rosso vivo, come se avessi corso attorno al grande cortile che circondava la villa in cui mi trovavo. Rientrai in camera, mi liberai della vestaglia e tornai a infilarmi sotto le lenzuola di cotone, completamente nuda. Nonostante le avessi odiate dal primo istante per quanto erano secche e ruvide, ora le vedevo come uno scudo che mi proteggeva dalla scena appena vista. Avevo prenotato quel viaggio per stringere nuove amicizie e magari vivere anche un’avventura di una notte, eppure ora ero pentita e imbarazzata. Non mi sentivo pronta a conoscere nessuno, tanto meno a farci l’amore. Dovevo essere molto presa dai miei pensieri, perché non sentii nessuna porta aprirsi, ma qualcuno si era adagiato accanto a me, la mano appoggiata sul mio fianco.

Turno 1 Alberto

Sentivo il mio braccio destro vibrare senza capire se fosse per il mio fragile sistema nervoso o per l’adrenalina che iniziava a montarmi nel petto. Ora non sentivo più la mano sul fianco ma solamente un flebile respiro che usciva dalla narici e mi solleticava il collo: la cosa più fastidiosa che avessi mai provato. Mi alzai con calma, mettendomi seduta e infilando le ciabattine, per poi andare in bagno come se niente fosse, facendo finta di trovarmi qui da sola come in uno dei miei tanti viaggi in barca a vela. Mi lavai il viso con l’acqua fredda, gli occhi chiusi e il viso immerso nell’asciugamano morbido che profumava di gelsomino. Per un secondo, un infinito e calmo secondo, la mia mente si spense. I miei ricordi si spinsero fino a lui, la mia ancora di salvezza. Quando ci pensavo, mi sentivo al sicuro. Mi sembrava di sentire le sue mani sul mio ventre e il suo petto premuto sulla mia schiena. Era come se fosse proprio qui, dietro di me, silenzioso e pronto a farmi diventare la sua preda. Sentivo il suo calore irradiarsi fino al mio cuore per riaccenderlo ancora un po’ dopo tutte le notti fredde passate nell’ultimo interminabile inverno. «Smettila di sognare, Ester», dissi sottovoce. Lasciai cadere l’asciugamano sul lavandino e mi bloccai. Non ero sola riflessa allo specchio.

Turno 1 Monica

Due uomini con lo stesso volto erano accanto al mio. Uno vestito con una di quelle ridicole camicie hawaiane che lo divertiva tanto indossare. L’altro spoglio e magro, senza occhiali, gli occhi profondamente azzurri e grandi ancora più maledetti, inquietanti. Erano stati quelli a fregarmi, oltre alla sua voce. Dio ti prego fa che non parli. Nessuno dei due. Che non mi dica niente. Ho paura di sentire le sue parole. Era lui. Doppio. Fuori. Come lo era dentro. Io una. Unica. Troppo. Avevo sempre un troppo addosso. Lui invece diceva che ero sempre esagerata. In tutto. Anche ora che nuda mi lasciavo scrutare da quel doppio sguardo che non cercava il mio corpo ma la mia anima avevo ancora troppo sentimento sulla pelle. Lo sentivo. Aveva sempre fatto così quell’uomo, anche quando lo vedevo uno, uno come me. Quando mi faceva credere di essere della mia stessa sostanza svelandomi solo un volto, quello buono che tanto mi aveva affascinato. «Voglio fare l’amore un’ultima volta ancora con la tua anima. Penetrerò la tua mente e soltanto alla fine mi prenderò anche il tuo corpo. Tu sei mia. Non ti è concesso andartene. Ti è vietato». Aveva parlato quello nudo, quello più vero. Quello che era lui davvero. Quello con la camicia sbottonata sul petto villoso invece se ne uscì con una battuta poco felice, strano, in genere quello mi faceva tanto ridere quando parlava. «Ti sei truccata stasera. Troppo. Lo sai che non mi piacciono quelle con il rossetto, non le guardo nemmeno. Mi piacciono le donne acqua e sapone». 
«Ma io sono acqua e sapone dentro. È questo che ti piace di me», cercavo di dire per difendermi dalle sue parole che giocavano con la mia anima facendola ridere, mentre quello nudo incominciava a toccarmi la mente. Ed era maledettamente bravo. Ci sapeva fare. E io mi lasciavo fare. Come sempre. Non avevo mai avuto il suo corpo. 

Turno 2 Linda

Mentre la mia mente era tormentata dall’uomo che mi aveva illuso come fossi un ingenua bambina in prima fila in un circo, incantata da un gran prestigiatore, il riflesso allo specchio si faceva più vicino. Potevo sentire un corpo aderire contro la mia schiena. Delle mani che si appoggiavano alle mie spalle. E di nuovo il respiro contro il mio collo. Fu quel gesto irritante a farmi voltare, non lo sopportavo, ma prima che potessi reagire in qualsiasi modo, quella presenza mi baciò. Eravamo avvolti nel buio della stanza, la luce che filtrava dalle tende era poca e debole, ma lo riconobbi. 

Era la guida turistica che ci aveva accolto al villaggio, dopo che la barca aveva attraccato al piccolo molo al nostro arrivo qualche giorno fa. Anche se le mie labbra erano adagiate alle sue, era lui a compiere ogni movimento. E quando si scostò, mi agitai all’improvviso. Non vedevo il suo di volto, ma quello dell’uomo che mi aveva ferito mente e cuore senza nemmeno mai sfiorarmi. Fui colta da un momento di follia e gli diedi uno schiaffo, poi uscii dal bagno, ma fui fermata e messa contro la parete della stanza. «Ti ho visto spiare dalla porta», disse con tono basso e quasi asettico. 


«Ti è piaciuto quello che hai visto?». Trattenevo il respiro, avevo il timore che se lo avesse sentito avrebbe capito quanto il mio cuore stesse battendo forte per l’eccitazione e l’adrenalina che stavano prendendo possesso del mio corpo. La mia pelle era calda come se dentro di me si fosse acceso un fuoco che ardeva sempre più forte. Ma non era quella presenza a innescarla. 

Quel lui che continuava a tormentarmi anche da lontano non usciva dalla mia testa, e il mio corpo rapito da una forza intangibile, mi spingeva tra le braccia di quello che era un semplice ragazzo, il cui volto sostituivo con un altro. Colui che era riuscito a manipolarmi come fossi solo una bambola, un gioco, un vizio, una banale piacevolezza. Quel ragazzo mi baciò di nuovo e io non resistetti. Gli presi la mano e la spinsi tra le mie gambe. Provai vergogna nel percepire quanto fossi desiderosa ma non volevo fermarlo. Non ci riuscivo.

Turno 2 Alberto

La sua mano si muoveva bene, le sue dita mi accarezzavano nei punti più caldi prima dolcemente, poi mi stringevano con energia. Tornavano ad accarezzarmi e poi di nuovo a toccarmi con passione. Bastarono pochi secondi e gemetti di un piacere che non avevo mai provato prima. Sentii le mie cosce bruciare mentre lui non si fermava e io lo lasciavo fare. Socchiusi gli occhi, iniziai a baciare la sua spalla, poi il petto, all’improvviso la mia mente si bloccò mentre il mio corpo si lasciava andare, lui mi accarezzava il seno, tornava tra le mie gambe, mi faceva godere con le sue mani. Il mio corpo bramava piacere, voleva essere posseduto, i miei occhi erano invece fissi sulle parole che erano tatuate sottili sul suo addome Mente e corpo conquistano colui che non ha fama di possedere.


E nella mia testa di nuovo quell’immagine sdoppiata dell’uomo che mi aveva rapito i pensieri e che non mi aveva mai concesso il suo corpo, nemmeno lui aveva mai sfiorato il mio, trattandolo come fosse un inviolabile giaciglio di petali di rosa. Stavo per impazzire, lo sentivo nella mia testa, quello con la camicia sbottonata diceva: “Alla fine ti sei fatta togliere il rossetto, non è da brava ragazza, te l’avevo detto che ti preferivo struccata”. La sua immagine nella mia mente rimase immobile, la sua testa girò di 360 gradi e comparve quello magro senza occhiali, la camicia scomparve e disse: “La tua anima è ancora mia, lasciati profanare quanto vuoi, fai l’amore con chi vuoi, non ti libererai mai di me. Potranno prendere la tua carne, penetrare ogni angolo della tua intimità, ma la tua mente correrà sempre da me”. 


Quanto avrei voluto che non avesse ragione. Le mie sbarre erano fatte di capelli, i miei confini di ossa craniche. Separata da me stessa. Io che ero sempre stata una e unica. Era come se mi stessi osservando dall’esterno. Quel ragazzo mi stava baciando premendomi al muro, la stanza odorava dei nostri corpi. Lui mi spingeva forte e io respiravo a bocca aperta, gli occhi chiusi. Nei pensieri sempre lui, la mia ancora di salvezza o il sasso al collo che mi farà annegare? Lo vidi venirmi incontro e sentii nitidamente la sua voce, non era dell’uno o dell’altro questa volta ma una voce unica, un sussurro con un tono che non avevo mai sentito. “Ester, scappa! Non ti avrà. Tu hai soltanto me. Io solo esisto e ricorda che senza di me saresti solo carne e cenere”.

Turno 2 Monica

Sentire la sua voce roca piena del suo volermi bene, fece riaffiorare tutta l’immensità del mio sentimento verso quell’uomo che avevo in mente e che mi divorava da tempo, pur non avendolo mai posseduto. Mi parve di udire la sua voce sorridere con una sottile punta di amore mentre mi implorava di scappare. Scappare da un’avventura di una notte? Scappare dalla mia voglia di fare l’amore? O scappare da lui che non mi toccava pur dicendomi sua? 

Oh, se solo potessi essere certa del suo amore per me, se solo potessi averlo, sarei una donna felice. Ma se davvero gli importasse qualcosa di me sarebbe lui nel mio letto. Sarebbero le sue mani a toccarmi con desiderio, sarebbe la sua bocca a scendere sulla mia, cercando, esigendo. Continuavo a pensare a lui mentre ero sempre più consapevole del corpo duro e voglioso del giovane amante premuto sul mio. La mia coscienza era sempre più stimolata dal contatto, il sapore e l’odore di quell’uomo che si muoveva su di me. Sentii accendersi una scintilla che mi scosse il corpo e mi accese la mente e mi lasciai lentamente andare dentro un vortice di sensazioni tutte piacevoli e provocanti. I nervi mi si sciolsero in una calda eccitazione dilagante. Cessai di dibattermi. 


«Ti arrendi così facilmente? Mi era sembrato di sentire un po’ di fuoco nell’ondeggiare dei tuoi fianchi. Allora non mi ero sbagliato. C’è parecchia voglia sotto la cenere». Mi ritrovai ansimante a fissare i suoi occhi. Le braccia scivolarono intorno al suo dorso e la mia passione eguagliò quella di lui. Lo strinsi più forte a me mentre lo accoglievo, spingendolo dentro di me, andandogli incontro, soddisfandolo. I miei occhi erano pieni di lacrime mentre mi penetrava e sentivo la voce dell’altro dentro la mia testa, “Non innamorarti di me. Mi dispiacerebbe ferirti”. 

Dio quanto lo amavo, Dio quanto lo detestavo perché aveva l’abilità di intenerire il mio cuore contro la mia volontà, gli bastava prendermi tra le braccia e parlarmi per abbattere ogni mia resistenza. Ma io volevo anche il suo corpo, lo desideravo alla follia mentre venivo presa ed eccitata da un uomo che non conoscevo. E mentre veniva dentro di me e io venivo travolta dall’orgasmo, ansimando il nome dell’uomo con cui avevo fatto l’amore solo con la testa, il giovane si staccò bruscamente dal mio corpo con lo sguardo ancora lascivo e sprezzante, dopo essersi pienamente soddisfatto. 


«Saresti venuta da me spontaneamente se non mi desiderassi come desideri quell’altro?». Lo sguardo dell’uomo frugava negli abissi dei miei occhi con la stessa forza impetuosa con cui prima aveva penetrato la mia intimità. «Dopo questa notte il mio amore è tutto ciò che mi rimane. L’uomo che amo non avrebbe bisogno di pregarmi di portarmi a letto, di prendermi così e di concedergli quello che gli spetta. Tu hai soltanto preso quello che avevo conservato per il mio uomo. Tuttavia il mio amore mi è rimasto e lo posso donare o negare a chi voglio a seconda delle mie voglie».

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LINDA MOONALBERTO SARTORIMONICA VACCARETTI

FINALE LINDA – Un sapore di ferro
Il ragazzo uscì dalla stanza e mi piombò addosso una grande tristezza. Era come se assieme a lui fossero usciti il mio desiderio, l’eccitazione della mia mente, l’odore di pelle sudata macchiata della nostra intimità, ma anche la mia poca sicurezza, la persona migliore che pensavo di essere in quel posto, lontano da casa. All’improvviso le lenzuola ruvide non divennero solo uno scudo, ma una sorta di isolante che mi divideva dal mondo reale. Mi coprii fin sopra ai capelli e mi rannicchiai. Piansi qualche lacrima a fatica. Non volevo farlo, ma mi sentivo così impotente, debole, un’inetta. Fui presa dalla collera, mi odiavo per ciò che provavo verso un uomo che era solo un bugiardo, un manipolatore, un falso e vigliacco ma non potei fare a meno di pensare a lui mentre stringevo il cuscino. Lo desideravo più di me stessa. Nonostante tutto.

Forse la sensazione che provai quella sera non sparì del tutto. Forse si era evoluta e si era insinuata, diabolica vendicatrice, nelle mie ossa, nel mio sangue, nel più profondo del mio emisfero destro dove le emozioni erano ormai tramutate in intenzioni. Non so se fossi stata offuscata da tutto ciò, ma il mio raziocinio mi fece pensare a questo. Agli agenti di polizia, però, ciò non interessò. Non capivano. Scuotevano il capo, convinti dell’unica verità per loro credibile e logica. Se solo avessero provato ciò che provavo io, non sarei in manette, seduta in una stanza asettica e fredda. Forse serviva loro tempo. Per capire. Per sviluppare la giusta empatia.

Quando una donna mi fece alzare e reclamò i miei vestiti, osservai sgomenta le mie mani sporche di terra e sangue e in quel momento sentii la mente abbracciare il mio cuore, euforica. Mi venne ordinato di pulirmi e io eseguii, in silenzio, travolta dalla rapsodia di emozioni che a mano a mano cresceva dentro di me. Osservai la mia immagine allo specchio. Terra e sangue, ancora. E ora vidi lui. Sdoppiato. Quello con la camicia hawaiana che mi faceva sempre ridere e quello dal viso magro e quasi assente. Sembravano pietrificati, come se mancasse loro la parola, come se non fossero più in grado di respirare. Allungai la punta della lingua sulle labbra. Il sapore di ferro era forte e i miei occhi brillavano di adrenalina mentre mi sentivo leggera come l’aria, quasi sospesa nel mezzo della stanza. Sorrisi allo specchio. Sorrisi a quei due uomini. Mai nella vita la mia immagine era stata così viva, così bella e in pace col mondo. Sorrisi ancora, poi scoppiai a ridere. Risi di gusto, come non facevo da tempo. Fu strano, quasi un sogno, sentire l’anima risvegliarsi come da un lungo sonno…

FINALE ALBERTO – Vizio capitale 
Non proferì parola. Si alzò e si rimise i jeans, prese in mano le infradito e uscì dalla stanza. Ritornò alla camera dove avevo visto quella scena che mi aveva eccitata e spaventata al tempo stesso: oltre a lui c’erano un altro ragazzo e una donna sulla cinquantina, piena di anelli e collane d’oro, che li possedeva entrambi e li teneva al guinzaglio come fossero due cuccioli da ammaestrare. E invece ora sono qui da sola a guardare il soffitto. Nella testa una confusione mai provata prima. Con chi avevo appena fatto l’amore? Con l’uomo nella mia testa o con il ragazzo sul letto? Non c’era una risposta univoca. Probabilmente con nessuno dei due. L’amore è fatto di mente e corpo assieme, due parti indivisibili che si donano all’altro. Non esiste carne senza pensieri. Piano piano mi misi seduta e mi alzai. La testa girava e le mie cosce erano ancora bagnate dall’eccitazione. Misi un paio di pantaloncini e una maglietta. Camminando lenta, uscii dalla porta della mia camera. Ero stanca ma stranamente lucida. Il corridoio era illuminato da una sola candela. Iniziai a notare una serie di dettagli che non avevo visto al mio arrivo. Eravamo sul lato nord della villa, una zona dedicata integralmente alle camere da letto. Una… due… tre… Sette porte oltre a quella d’ingresso. Tutte sullo stesso lato del corridoio, tutte a uguale distanza. Moquette sul pavimento color sabbia, muri intonacati di un bianco anonimo, nessun quadro, nessun mobile, la candela su un vecchio candelabro di latta appoggiato a terra. Socchiusi gli occhi. Sulla mia porta una targhetta: Gola. Un brivido sgattaiolò lungo la mia spina dorsale e la mia temperatura corporea si abbassò di colpo. Andai a leggere le targhette sulle altre porte. 

Ira. Avarizia. Invidia. Superbia. Accidia. Lussuria. “Gola? Cosa c’entra con quello che ho appena vissuto?”, dissi a voce alta. Un cassettino della mia memoria si aprì all’improvviso, come se gli avessi dato un preciso comando. Ricordai le parole del professore di lettere: Gola è descrivibile come l’insaziabilità su tutti i piani, quindi sia materiale che spirituale. I miei pensieri erano in contrasto tra loro, non ero insaziabile, ero solo confusa. O ero forse insaziabile d’amore? Amore materiale per il ragazzo a cui mi ero appena donata? Amore spirituale per l’uomo dei miei pensieri? Ma soprattutto, chi mi aveva destinato a questa stanza? Mi sembrava di essere stata manovrata, una vecchia marionetta che può parlare solo attraverso un ventriloquo. All’improvviso si aprì un’altra porta ma non uscì nessuno. La mia curiosità venne investita dalla paura. Era la porta della Superbia. Ma non mi importava, ne avevo già avuto abbastanza di quella “vacanza”. Andai verso la porta d’ingresso e uscii. Mi voltai per tirarla e chiuderla bene e nella fessura che si stava sempre più riducendo lo rividi, spoglio e magro, senza occhiali, gli occhi azzurri e grandi ancora più maledetti, la camicia hawaiana in mano, pronto per diventare l’altro.
Superbia: radicata convinzione della propria superiorità. «Mi dispiace Diego», sussurrai nella penombra, «La mia mente non sarà più tua», e la porta si chiuse con uno scatto.

FINALE MONICA VACCARETTI – Sono una rosa bianca spruzzata di vino
Girai la testa sul cuscino dall’altra parte. Non sopportavo il suo sguardo ancora posato sul mio corpo, non volevo restare negli occhi di quello sconosciuto, né guardarlo come ci si perde negli occhi dell’amato dopo l’amore. Nel momento in cui lasciava il mio corpo e, sollevando le lenzuola se ne andava e si infilava i pantaloni senza dire una parola, le lacrime mi scivolarono sul naso, le labbra e la guancia, bagnando il lino della federa. Fu un pianto silenzioso e ferito. Lui non lo sentii o finse di non accorgersi del mio silenzio. Dentro urlavo per non sentirlo attorno a noi due, in quella stanza che ora era diventata improvvisamente fredda. Rabbrividii, cercai il lenzuolo per coprirmi senza mai voltarmi. Sentii che non mi guardò nemmeno prima di uscire.

Quando la porta si richiuse, restai ancora un poco immobile a guardare il riflesso delle mie gambe tra le tende della finestra aperta che dava sul giardino. Apparivo e scomparivo mossa dal venticello che le faceva ondeggiare e frusciare lievemente. Poi mi raggomitolai abbracciandomi e restai immobile per ore finché l’alba non mi trovò addormentata e tormentata. Avevo un unico pensiero. Dove sei, amore mio? Mi svegliai che era già tardi, con le gocce di pioggia e un cielo buio di tempesta che incupiva la camera. Sentivo ancora addosso l’eccitazione di quella notte folle e la tristezza della notte appena consumata. Feci per toccarmi i seni nudi, i fianchi, le cosce. Cercandomi. Sentivo ancora le sue mani dappertutto. Provai ancora voglia sotto le lenzuola, avevo fatto una sciocchezza a lasciarmi andare così ma quell’uomo era stato maledettamente bravo. Ma che diamine, come avevo potuto cedere e subire la sua violenza? No, lo avevo voluto anch’io alla fine, avevo accettato il suo gioco perverso ben sapendo quel che gli avevo visto fare nella stanza accanto, prima che venisse da me lasciando l’altra e mi trovasse in bagno. Pensavo e mi toccavo. Ma che diamine? Non ero nuda. Il mio pigiama di lino mi copriva leggero. Mi voltai dall’altra parte, verso la porta da dove era entrato e se ne era andato. Era socchiusa. Nel girarmi mi punsi il naso con una spina. Una rosa bianca era posata sul cuscino. Mi alzai di scatto, stupita. Possibile che fosse tornato indietro a donarmi un fiore? E che mi avesse rivestita? Non aveva senso. Mi alzai con la rosa in mano e mi guardai attorno, confusa.

Ero nella mia camera da letto. Non ero in nessun posto diverso da qui. Era stato solo un sogno. Nessun uomo nel mio letto. Nessuna notte erotica senza amore. Niente. Solo una fantasia. Mi sedetti sulla poltroncina settecentesca accanto alla finestra e mi portai alle labbra i petali del bocciolo di rosa. Non ero andata da nessuna parte, non avevo fatto nessuna follia. Sentii un misto di sollievo e di delusione. Almeno nel sogno ero riuscita a tradire il pensiero di quell’uomo che diceva di amarmi ma non mi voleva. Ero riuscita a essere femmina oltre che donna. Sul comodino c’erano ancora la bottiglia di Vespaiolo e il calice. Avevo bevuto troppo. Avevo annegato nel vino la malinconia e la solitudine della sera prima. La rosa l’avevo rubata al roseto del parco tornando a casa dopo il lavoro. E prima di perdere i sensi nell’ubriachezza, me l’ero messa sul guanciale accanto a me. Come fanno gli amanti dopo l’amore, prima di andarsene e lei, come capita nei film, si risveglia felice del dono e di essersi donata. Volevo svegliarmi con l’illusione e con la bellezza di un mio gesto romantico. Per me. Da me. Invece avevo sognato l’impossibile. Era sembrato tutto possibile. La mente inganna quando sogna intensamente il desiderio, rendendolo così vivo tanto può essere struggente. Allora la prossima volta cospargerò il letto di petali rossi e ci farò l’amore sopra. Da sogno. Nel sogno. Come capita nei libri di Danielle Steel. Sì, la prossima volta sarà bellissimo. Con una bottiglia di Garganega sul comò’, farò meglio delle tre civette con la figlia del dottore. Poi proverò con un Pinot grigio, chissà dove mi porteranno i solfiti. E con uno Chardonnay magari farò l’amore su un prato di lavanda o un vigneto nel sud della Francia. Magari in ogni bottiglia trovo un uomo diverso. Da stappare. Sorrido delle mie giocose fantasie sessuali, penso che sono soltanto una rosa bianca. Sola. Elegante. Pura. Di una bellezza solitaria. Che ha paura. Di amare. 

“Matrimonio d’amore” di Hauser mi suona al cellulare. Che suoneria intonata, al momento e al mio umore! Lo lascio squillare, soltanto per sentire il violoncello che mi tocca qualche corda dentro e mi commuove ancora fino alle lacrime. E poi non ho voglia di parlare con nessuno. Quando la musica si interrompe, arriva un messaggio. È lui. L’uomo dello specchio, quello del sogno nella vita reale. 
“Buongiorno ragazza con le ali. Stasera vengo da te”. La corda si spezza. Forse stanotte non sarà soltanto un sogno. Ma farò in modo che lo sia. Lascerò sul comodino due bottiglie di vino bianco, bianco come la mia rosa sul cuscino, e due calici a coppa. A coppa, grande, della misura dei miei seni. Ci sono etichette di vini per ogni occasione. Prima, con i baci e gli abbracci, brinderemo con l’euforia del Tempo Perduto. E poi il Tempo Ritrovato ci troverà nudi insieme. E con la rosa bianca spruzzata di vino saprai che farmi. 

Cadavere Squisito – 4

Un racconto scritto a sei mani. Ispirati dalla tecnica del Cadavere Squisito. Tre scrittori. Un tema comune. Tre stili diversi che si amalgamano assieme. Un racconto scritto appositamente per l’evento Wanted Stories seguendo le rispettive idee e ispirazioni!

Per questo Cadavere Squisito abbiamo scelto tra le vostre proposte un mestiere con una caratteristica, un oggetto, una frase d’effetto. La storia è composta esclusivamente da dialoghi – ad eccezione dei finali – e come sempre è il pubblico a scegliere il finale vincente!
Gli input forniti dal pubblico sono i seguenti:

Frase:
“IL MONDO È NELLE MANI DI COLORO CHE HANNO IL CORAGGIO DI SOGNARE E DI CORRERE IL RISCHIO DI VIVERE I PROPRI SOGNI”
utilizzata da Linda e fornita da Clarissa P.

Oggetto:
UN GAROFANO BIANCO
utilizzato da Alberto e fornito da Eleonora G.

Personaggio:
UN MADONNARO CHE NON CREDE IN DIO
utilizzato da Marco e fornito da Anna R.

Turno 1: Linda

“Io proprio non capisco, ma come ti è venuto in mente? Solitamente ponderi sempre le tue scelte, invece ora… ti giuro che non ho parole. Mannaggia a te, manca pure poco al Natale!”

Turno 1: Alberto

“Cosa ti devo dire, Melania? Mi piaceva troppo. Guarda che sfumature! Non ti piace? Era da anni che sognavo di tatuarmi sul collo il logo dei Guns & Roses. È splendido, guarda! Ci ho pure fatto un piccolo cambiamento rispetto all’originale, un tocco di classe.”

Turno 1: Marco 

“Dai Melania, non è mica la fine del mondo. Giorgio è entrato nella sua fase di ribellione adolescenziale. Solo che c’è arrivato a 35 anni. Però è rimasto con la testa agli anni ‘90. Niente di male, eh, credo che nostra madre se ne potrà fare una ragione. Circa. Dite che col cuore ora sia a posto? Certo che potevi farti quello con solo le pistole e le rose, e lasciare perdere il teschio. Però dai, sarà una cena di Natale movimentata, almeno. Scommetto 5 euro su dopo quanto tempo salterà fuori l’espressione “figli del demonio”. Per me anche prima degli antipasti. E perlomeno forse quest’anno non si parlerà di cosa dovrei fare nella vita.

Turno 2: Linda

“Niente scommesse, non quest’anno lazzaroni che non siete altro! E certo che mamma non è a posto con il cuore e per questo non dobbiamo sconvolgerla in alcun modo. Ecco perché il nostro caro fratellino indosserà un elegante dolcevita alla moda per coprire quella blasfemia! Caspita, che situazione! Giorgio con il tatuaggio di una banda di squinternati e Simone che torna a casa dopo un lungo viaggio senza nemmeno avvisarci, single e senza un lavoro. Ma che vi è preso a tutti e due? Proprio quest’anno che papà ha pure invitato Don Pinetto a casa nostra per la cena di natale! Vedete di comportarvi bene, eh! A proposito Simone, dov’è il rosario che ho fatto benedire appositamente per te e che ti ho regalato prima della tua partenza?

Turno 2: Marco 

Cara la mia sorella addolorata, assunta e genuflessa, fino a prova contraria siamo tutti e due maggiorenni e liberi di fare quello che crediamo opportuno. Ti stai avviando proprio a diventare la degna erede della mamma. Come non ci bastasse già averne una in casa, di suora mancata. Io di questo viaggio ne avevo un estremo bisogno. Anche se l’ho iniziato con Carla, e dopo appena dieci giorni ci siamo resi conto che non avevamo più niente da dirci, altro che preparare un matrimonio. Dopo che è tornata indietro ho deciso di restare, di godermi questa vacanza che mi ero sudato da quel lavoro d’ufficio che odio. E alla fine le 3 settimane sono diventate cinque mesi e ho capito tante cose di me. Comunque il tuo rosario ce l’ha Lihn, una splendida ragazza vietnamita che ho conosciuto nel delta del Mekong. Abbiamo avuto un’esperienza estremamente “spirituale”, a modo nostro, e siamo rimasti insieme per alcune settimane. Alla fine mi ha chiesto di lasciarglielo come ricordo. 
 

Turno 2: Alberto

“Scusate, che stavate dicendo? Questi nuovi auricolari spingono che è una bomba. Ho sentito solo te Melania nominare la parola “dolcevita” e poi ho alzato il volume. Ma sei impazzita? Sai quanto mi è costato questo tatuaggio? Lo metterò bene in vista, sarà il mio ritorno alla gioventù: fine anni 90, Eiffel 69 I’m blue Da ba dee da ba daa, da ba dee da ba daa, da ba dee da ba daa, il ritorno di Giò l’eletto. Mancheranno solo Trinity e Morpheus e poi potrei girare Matrix. Allora fratellini? Venite qui che vi voglio abbracciare forte. Sarà un Natale da infarto!”

Turno 3: Linda

E molla questi auricolari o ti ci strozzo mentre dormi! Vedi di mettere giudizio, indossa un maglione a collo alto, una sciarpa, lo Shih Tzu dei vicini ma copri quel dramma fatto d’inchiostro e corri subito a prendere un bel mazzo di fiori per mamma, tieni qui cinquanta euro e portami il resto! E tu, Simone, chiama quella donna di facili costumi con cui credi di aver avuto chissà quale connessione ancestrale e fatti ridare il mio prezioso rosario! Non hai idea di che salti mortali ho fatto per averlo e farlo pure benedire e pensare che ho pure pregato tanto per te, ma che ti è preso? Mi farete impazzire prima della cena, avevo tutto sotto controllo e invece ora guarda che disastro! Siete due sconsiderati! 

Turno 3: Marco

Ma dove credi che sia? Dall’altra parte della città, e che mi possa fare un DHL? E comunque non ti permettere, Lihn era una brava ragazza, non una “professionista” come insinui tu, si era laureata all’università di Ho Chi Min e lavorava al ministero dei beni culturali. Ci ho pensato sul serio di fermarmi lì, ma poi ho capito che avevo delle cose da sistemare a casa. E comunque un regalo è un regalo. E quindi ci posso fare quello che voglio. E per di più, è solo un oggetto. Non è che con le benedizioni acquista poteri magici. Ne ho abbastanza di queste superstizioni da Medioevo. Se credi che abbia fatto il giro del mondo per tornare a farmi comandare a bacchetta da una bigotta ti sbagli. Comunque ora ho le idee più chiare e in Asia ho capito cosa voglio fare. Sarò un pittore di strada. 

Turno 3: Alberto

“Suor Melania con i 50 Euro le comprerò anche un bel rosario nuovo, quello con i grani grossi così la presbiopia non le darà problemi. E quanto a lei Simone Picasso Monet Matisse, cosa vuol fare? Ahahahah? Che? Il pittore di strada? Che è? C’hai il nuovo x-factor della pittura, Simone? Ragazzi giuro che a guardarvi per un attimo ho pensato di essere a Zelig.

Smettetela dai. Vado a prendere i fiori per la vecchia”

Turno 4: Linda

Ma come vi permettete? Sono la maggiore e l’unica, a quanto pare, che ci tiene davvero alla famiglia! Giorgio, vedi di fare meno lo sbruffone e torna con dei fiori decenti o farai venire davvero un infarto a mamma e pure a Don Pinetto! E povero il mio rosario: prima in mano ad un uomo di poca fede e ora ad una delle sue conquiste. Sarà sicuramente chiuso in un cassetto a raccogliere polvere. Simone che fa il pittore… wow… sai, ricordo ancora la frase che mi hai detto poco prima di partire… Il mondo è nelle mani di coloro che hanno il coraggio di sognare e di correre il rischio di vivere i propri sogni… adesso come allora penso la stessa cosa: Simone sei davvero un cretino!

Turno 4: Marco

Ma sentila. Attenzione a quello che dici perchè poi ti tocca recitare un bel po’ di padrenostri. Dimmi un po’, quand’è l’ultima volta che ti sei sentita viva, che hai fatto qualcosa di sconsiderato? Tu sei invidiosa perché non hai mai avuto il coraggio di rischiare e di disobbedire una sola volta a mamma o al pretino di turno. Perchè a me questi che vengono a casa mia a farmi la morale e a mangiare a sbafo mi hanno davvero rotto le palle. Però sarai contenta, ho ricevuto un incarico per affrescare una parete e indovina chi me l’ha dato? Ti risparmio di tirare a indovinare, che la fantasia non è il tuo forte. Proprio Don Pinetto. Per la chiesetta di S. Giovanni Decollato, quella a metà della Via Crucis. D’altronde pagava bene, e mi ha lasciato libertà sul tema da ritrarre. Il lavoro l’ho quasi finito, per ora l’ho coperto con un telo in attesa che si asciughi. Pensavo di mostrarne un’anteprima proprio alla cena. 

Turno 4: Alberto

Eccomi ragazzi! L’ultima cosa che ho sentito prima di uscire erano le parole: “Ma come vi permettete?”. Ci sono altre novità o l’avete finita di bisticciare? Et voilà! Il fiore per mamma. Non ho resistito. C’era una signora con un banchetto lungo la via che vendeva queste meraviglie fatte di fimo. E questo garofano bianco ha subito attirato la mia attenzione. Guardate, sul gambo è incisa una frase proprio per mamma: “La vecchiaia è andare a dormire con un dolore e svegliarsi con cinque nuovi”. 

Leggi il finale di Linda Moon “Un Grinch in famiglia!

Leggi il finale di Alberto Sartori “Don Pinetto

Leggi il finale di Marco Simion “San Giovanni Decollato

Cadavere Squisito – 3

Un racconto scritto a sei mani, ispirati dalla tecnica del Cadavere Squisito. Tre scrittori. Un tema comune. Tre stili diversi che si amalgamano assieme. Un racconto scritto appositamente per l’evento Wanted Stories seguendo le rispettive idee e ispirazioni!

Turno 1: Marco
Paolo aveva 29 anni, un cane bassotto e un lavoro part-time con cui integrava il modesto rimborso spese del suo stage in un’azienda di biscotti: faceva il pagliaccio alle feste per bambini. Aveva iniziato all’università ma era un segreto che non aveva mai rivelato a nessuno, nemmeno ai suoi migliori amici.

Turno 1: Alberto
Ogni sabato mattina seguiva il suo breve rito di vestizione: naso rosso, cerone bianco, capello riccio sparato verso le stelle con i residui dei coriandoli di tutte le feste dal 2001 ad oggi. Se quella parrucca fosse stata analizzata al carbonio 14 probabilmente rivelerebbe tracce della tomba di Tutankhamon. L’aveva trovata in un vecchio mercatino dell’usato, i capelli finti color rosso vivo.

Turno 1: Linda
Quel giorno era in programma una festa di Halloween per il figlio di una facoltosa famiglia nella provincia veneta e Paolo si stava preparando per l’occasione: il compenso concordato era ottimo e non voleva combinare pasticci, ma in un attimo gli prese il panico. Il sacchetto con il nuovo materiale di scena non era in casa. L’aveva lasciato sull’autobus con cui era rincasato poco fa! Oh no!

Turno 2: Marco
Vestito e truccato di tutto punto, inforcò la biciclettina con le ruote mignon parcheggiata davanti a casa e cominciò a pedalare a perdifiato nella direzione in cui era andato il bus. Tutti i bambini che incrociò non riuscivano a staccare gli occhi da quella strana visione. Anche qualche adulto alla guida a dire il vero, e ci furono un paio di tamponamenti che ruppero la calma di quel sabato pomeriggio di provincia.

Turno 2: Alberto
I clacson dominavano l’aria e i proprietari delle auto iniziavano a scendere imprecando. Paolo se ne fregava beatamente e con il suo sorriso stampato alla perfezione sfrecciava su e giù dai marciapiedi. Si dovette fermare di fronte ad un gruppo vestito come la famiglia “Addams”, stavano occupando tutta la ciclabile. Di fronte a lui i coniugi Addams e la loro bambina, truccata proprio come Venerdì, impugnava una grossa mazza di gomma piuma. Paolo le sorrise e lei in cambio gli diede una mazzata sulla nuca. Lui fece finta che gli girasse la testa e il verso degli uccellini che girano in tondo, fischiettando, poi prese la sua mazza di spugna dal mini cestello della bici e cercò di colpire Venerdì con movimenti buffi e scherzosi ma cadde in avanti a faccia in giù, sbavando sui mocassini neri del padre.

Turno 2: Linda
In meno di un secondo si rialzò e scattò sopra alla biciclettina allontanandosi da quella scena, raggiungendo il capolinea degli autobus per reclamare il suo prezioso sacchetto. Raggiunse un ufficio di quelli prefabbricati e si ritrovò davanti una grassa donna dai corti capelli tinti di un rosso acceso, gli occhi truccati nel peggiore dei modi e un’espressione in faccia di chi non ha voglia di problemi. “Salve, ho lasciato un sacchetto sull’autobus numero 5, so che a quest’ora rientrano qui i veicoli. Potrebbe controllare?”. La donna lo guardò con aria seria, poi gli rispose senza nemmeno guardarlo in faccia. “Siamo chiusi!”. Paolo guardò l’orologio appeso al muro: mancavano ancora dieci minuti alla chiusura”. “Signora, a dire il vero avrei ancora tempo per…”. Paolo non finì la frase che la donna lo guardò in cagnesco emettendo una sorta di grugnito , così si allontanò dalla vetrata ma aveva già in mente cosa fare.

Turno 3: Marco
“Signora, le piacciono i fiori?” le disse affacciandosi sopra il bancone del servizio clienti all’altezza della feritoia nella vetrata. Lo sguardo perplesso della Wanna Marchi del trasporto locale fu cancellato da uno spruzzo d’acqua di notevole intensità. Mentre lei si premurava di sgranare il rosario evocando tutti i santi senza mancare gli anni bisesti e i devoti della tradizione orientale, Paolo fece un balzo alla Yuri Chechi, afferrò le chiavi con scritto Magazzino Oggetti Smarriti e si dileguò prima che lei potesse urlare “D’accordo???”. 

Il magazzino si trovava dietro una porta polverosa e Paolo dovette soffiarci sopra, sollevando una nube che offuscò l’aria della stanza, prima di trovare la toppa della serratura. Dietro la porta cigolante c’era una scalinata buia e Paolo la percorse facendosi luce col cellulare e cercando di non incespicare con le sue lunghissime scarpe da clown. Si trovò di fronte un’enorme stanza sotterranea con decine e decine di corsie di armadi piene di oggetti e cianfrusaglie. Paolo fece un rapido calcolo: dalla grandezza di quel posto doveva coprire non solo il capolinea degli autobus, ma il sottosuolo dell’intero centro cittadino.

Turno 3: Alberto
Il sacchetto che cercava era di colore blu simile a quello dei jeans. Il sindaco ne aveva regalato uno ad ogni cittadino per la festa annuale del Maiale di mare. Una festa insulsa a cui partecipavano tutti solo per ricevere ogni volta un gadget diverso: un walkie talkie, una candela di Sailor Moon,  una borsetta di cotone per fare la spesa. 

Aumentò la potenza della torcia del cellulare ed iniziò a sventagliarla a mò di accendino ai concerti. Poco lontano individuò un armadio pieno zeppo di sacchetti, tutti uguali a quello che cercava. “E adesso cosa faccio?” sussurrò a se stesso. Estrasse dalle tasche un pacco di palloncini e ne gonfiò parecchi intrecciandoli fino a che riuscì a ricreare una sorta di cestello portatutto.

Prese tutti i sacchetti che riuscì e ve li gettò dentro, quando l’allarme iniziò a suonare. Le sirene rosse lampeggiavano fastidiose e Paolo iniziò a correre, inciampando ogni 3×2, rischiando di schiacciare il cesto-contenitore-simil-carriola-senza-ruote ed il prezioso contenuto. Sgattaiolò fuori da una porta finestra aperta verso una via laterale ma il cesto rimbalzò sull’asfalto e lui rimbalzò con esso ritrovandosi con le scarpone da pagliaccio sopra ai suoi occhi.

Turno 3: Linda
Si rialzò intontito, ma così velocemente che non vide il limite della stradina che costeggiava lo stabile degli autobus, e ruzzolò più e più volte per circa una decina di metri cadendo poi rovinosamente ma in maniera bizzarra sul marciapiede di una via della periferia e finalmente, quando testa e cervello furono connessi nuovamente tra loro, disse a se stesso “Oh Signore, peggio di così non mi può andare!” e quelle furono le classiche ultime parole famose.

Turno 4: Marco
Ancora intontito percorse qualche metro in come riconobbe come il facoltoso quartiere Pedrolli. La zona gli era familiare, anche troppo, e in pochi secondi si rese conto di trovarsi di fronte alla casa del suo capo ufficio, Gino Casarin. Bolt, il suo labrador da competizione, vincitore di vari premi per il salvataggio in tutti i fiumi e in tutti i laghi, riconobbe subito l’odore di Paolo, che gli aveva fatto un paio di volte da dog-sitter. Il quadrupede cominciò ad abbaiare e a fargli le feste zompandogli addosso e buttandolo a terra. Casarin si affacciò dalla porta “Che c’è, Bolt?” e poi vedendo il pagliaccio, azzardò un “Meneghetti, ma è lei?”. 

“No, no, io sono il Grande Zumba, l’amico di tutti i bambini!” disse Paolo, cercando di fare la sua migliore voce da clown in falsetto.

Turno 4: Alberto
“Grande Zumba? Che fa, balla?” Incalzò Casarin ridendo di gusto e continuando: “E poi cosa porta lì su quell’ammasso di palloncini?”.
“Porto dolcetti e scherzetti, signore. Ne vuole uno?”.
“Dai dai, lanciami un sacchetto pagliaccio da quattro soldi!” rispose quasi irritato il capo ufficio. Forse non l’aveva davvero riconosciuto ma Paolo stava sudando freddo. Non voleva che nessuno sapesse di quel suo secondo lavoro anche se, dopo tutto, era un lavoro onesto e dignitoso per riuscire ad arrivare a fine mese. Prese il sacchetto più vicino e lo lanciò. Casarin fece qualche passo e lo raccolse quasi indignato; era sempre stato indecifrabile nei suoi comportamenti.

Lo aprì e la sua espressione cambiò completamente: viso di ceramica, occhi sbarrati. Con una calma ed una lentezza infinita estrasse dal sacchetto un orologio. “Pagliaccio!” Urlò squarciando l’aria. “È il mio Rolex questo!”

Turno 4: Linda
Tutto accadde in un attimo: Casarin corse fuori di casa per raggiungerlo e Paolo si diede alla fuga. Un uomo qualunque rincorreva un pagliaccio e la gente lungo la strada ammirava quella scena esilarante quanto incredibile. “Fermate quel ladro!” urlò Casarin. Paolo aumentò la velocità, ma le scarpe da pagliaccio lo limitavano. Dalla disperazione si buttò in mezzo ad un incrocio sperando di scoraggiare il capo ufficio, ma la situazione peggiorò perché attirò l’attenzione di un vigile del traffico che gli fischiò contro urlando di fermarsi e pochi istanti dopo si mise a rincorrerlo quando vide un uomo, Casarin appunto, che lo inseguiva chiamandolo ladro. Il pagliaccio in testa, vigile del traffico e cittadino subito dietro: erano un trio alquanto ridicolo! Paolo era sfinito ma, quando vide un apecar in partenza lungo un marciapiede, colse l’occasione e vi si gettò dentro, nascondendosi sotto ad un telo bianco e sporco, sfuggendo così ai suoi inseguitori. Quando fu sicuro di essere fuori dalla loro vista, scese al volo, reggendo come poteva il cesto fatto di palloncini ma ritrovandosi nuovamente nel panico più totale. 

“Oh no!” disse sconsolato quando i palloncini iniziarono a scoppiare uno alla volta. La cosa era davvero strana, ma poi Paolo si accorse che alcuni bambini li stavano prendendo di mira con sassi e fionde. “No, per favore no!” diceva cercando di recuperare quanti più sacchetti possibili. Li apriva a mano a mano per cercare il materiale per la festa e quando vide un uomo vestito in giacca e cravatta avvicinarsi incuriosito dalla scena e stringere tra le mani una strana scatola fuoriuscita da uno dei tanti sacchetti, gli intimò di non toccare nulla, ma ormai era tardi. La scatola gli esplose in faccia e un pugno attaccato ad una molla lo colpì in pieno viso facendolo cadere a terra. Paolo lo raggiunse e quando si accorse che era il padre della facoltosa famiglia di cui doveva intrattenere la prole, cercò di nascondere il volto ma nel farlo premette inavvertitamente il fiore che indossava e che spruzzò un forte getto d’acqua. “Ma che sta facendo? Si tolga da sopra di me!” diceva l’uomo. “Aspetti, lasci che l’aiuti” ma la situazione degenerò ancora…

Leggi il finale di Linda Moon “Corri, clown, corri

Leggi il finale di Alberto Sartori “Cleptomania

Leggi il finale di Marco Simion “Profiler

Cadavere Squisito – 2

Un racconto scritto a sei mani. Ispirati dalla tecnica del Cadavere Squisito. Tre scrittori. Un tema comune. Tre stili diversi che si amalgamano assieme. Un racconto scritto appositamente per l’evento Wanted Stories seguendo le rispettive idee e ispirazioni! 

Questa volta gli autori mettono un bivio: sta al pubblico scegliere lo svolgimento della storia. Il protagonista, una situazione o un particolare momento si svilupperanno secondo l’opzione proposta da ogni autore e più gradita a voi! I finali saranno sempre tre e anche in questo caso la scelta sarà vostra!

Turno 1: Linda

Ancora non ci credo, mi sembra troppo bello per essere vero! Finalmente ho un colloquio in una redazione e tutto grazie ad un articolo scritto in fretta e furia pubblicato nel mio blog Notizie da Zero!. Ha scatenato non poche polemiche ma ottenuto anche riscontri positivi. Il giornalismo funziona così: o ti amano o ti odiano. Scorro la pagina della homepage del sito della redazione e ammiro gli articoli. Il carattere Helvetica non è tra i miei preferiti, avrei optato per un Garamond e cambiato anche un paio di titoli, ma cerco di frenare il critico che è in me. Metto via il cellulare nella mia borsa porta fortuna; una borsa a tracolla di vera pelle color testa di moro che avrà almeno dieci anni, i bordi lacerati lo confermano chiaramente. Abbasso lo sguardo e mi metto a tirare un filo dei jeans in un punto dove si stanno sfilacciando. Quei Jacob Cohen hanno molti più anni della borsa il che fa intendere che non amo molto lo shopping ma non mi interessa, perché il mio pensiero torna all’imminente colloquio. Finalmente tutte quelle ore passate a studiare siti di redazioni, a seguire corsi e conferenze, a studiare articoli di grandi giornalisti si sta ripagando anche se il ragazzo seduto di fianco a me con cui mi sono ritrovato a dividere per sbaglio il taxi, inizia ad infastidirmi. Parla forte, è visibilmente incazzato e pare ce l’abbia a morte con qualcuno che deve averlo diffamato o qualcosa del genere. Cerco di non ascoltarlo e guardo fuori dal finestrino, mancherà circa mezz’ora all’arrivo alla meta, anche se sono in anticipo di diverse ore, ma preferisco “sondare” il terreno, prepararmi, stare nei paraggi. Le nostre destinazioni sono vicine e mi chiedo dove stia andando esattamente. Mi giro appena per guardarlo. Indossa una tenuta da jogging in uno strano tessuto tecnico e i capelli castano dorato sono tenuti indietro da una fascia. Amo le donne, ma devo ammettere che è un ragazzo molto affascinante. Ora pare stia ascoltando qualcuno che dall’altra parte lo sta probabilmente tranquillizzando ed è in quel momento, quando abbassa la bandana che gli copre parte del viso, che mi si gela il sangue, il cuore batte all’impazzata e inizio a sudare nel maglione antracite dallo scollo a v. “Oh ho” penso. “È lui! Porca vacca è lui!”.

Turno 1: Alberto

“Sì, ok ok ok. Mi dò una calmata. Dai smettila non sono più un bambino. Ma come dove sono? In taxi! Qui di fianco c’è un tipo che sembra vestito dallo stilista di Sgarbi, ma deve aver disegnato quei vestiti senza occhiali, di notte e dopo aver bevuto un paio di Cognac. Hey tassista, cambia marcia che un altro po’ i pistoni vengono qui a ballare il tuca tuca con noi” lo sento dire con arroganza. Faccio finta di non ascoltarlo e, dopo tutto, mi piace questo suo modo di fare. Altri ragazzi si sarebbero arrabbiati ma io, beh io, me la devo giocare bene questa volta anche se, come al solito, apro bocca solo per dare aria e senza minimamente ragionare.

“Scusi, hey, scusi!” gli rivolgo la parola timidamente.
“Dica, Sig. Jacob Cohen” e si gira puntando i suoi occhi direttamente nei miei.
“Oh mio dio, che sorriso, ma quanti denti ha? Settantadue? E sono così brillanti!” penso inebetito ed inebriato dall’averlo qui di fianco a me.
“No, niente, sa…tra poco…io sono…” ed inizio a vedere tutto nero. Non è possibile. Succede ogni volta che la mia adrenalina inizia a scorrere. Mi spengo. È come se qualcuno premesse CTRL + ALT + CANC non appena le mie emozioni superano una determinata soglia. E anche questa volta mi risveglio in una camera d’albergo da quattro soldi e nessuna stella. La testa che vortica come il cuore dell’uragano Katrina nel 2005, il cuore che sobbalza tra il settimo e l’ottavo grado della scala Richter. Cosa ci faccio qui? E soprattutto cos’è successo? Mi sento male. Respira Simone, respira. Ohmmmmmmmm.

Turno 1: Marco

Ho sempre avuto questo problema, fin da quando ero piccolo. Non conto più le volte che questo “lievissimo” contrattempo mi ha messo in imbarazzo e mi ha sabotato. Ad esempio quando mi fecero leggere in chiesa alla mia prima comunione e mi spensi all’improvviso  sbattendo la testa prima sul microfono con un rimbombo infernale e poi sul leggio, quando Giulia Masseri mi diede il primo bacio e svenendo le diedi una testata, durante la mia prima volta con Lucia… vabbè questa è troppo imbarazzante e ve la risparmio, diciamo solo che lei pensò che avessi avuto un infarto durante, neanche fossi un ottantenne. Povera Lucia, quando mi risvegliai stava ancora urlando dal terrore, chissà se da allora è riuscita ad avere una vita sentimentale normale.

C’è però un’altra cosa strana. Ogni volta che ho avuto qualcuno dei miei “episodi” al mio risveglio c’era un dettaglio di quello che mi circondava di cui non mi ricordavo, come se la mia memoria avesse fatto cilecca e avesse cancellato un piccolo ricordo. Per quello mi ero costruito una routine ogni volta che mi risvegliavo. Controllavo il cellulare, facevo mente locale, chiamavo il mio migliore amico per chiedergli se si ricordava cosa avevamo fatto negli ultimi giorni. 

Questa volta non ce ne fu bisogno. Notai sul comodino un biglietto da visita “Patrizia de Paoli. Redazione “Pubblica con noi”. Via Condotti 18. Roma. 0659670029”. E sopra era scarabocchiato a penna un “Spero tu stia meglio. Chiamami. Luca”. Luca? Ma quale Luca? Ma non sarà mica Luca Valdis, il protagonista di “Notti senza luna” che aveva sbancato ai botteghini l’anno prima? Quel Luca Valdis che mi sono trovato ad avere seduto accanto in taxi e che per il quale avevo avuto un blackout appena mi aveva rivolto la parola? E chi aveva fatto il check-in nella stanza d’albergo? Cos’era successo tra quando mi ero accasciato e il risveglio? Mentre ci pensavo, una sirena cominciò a suonare in un angolo della mia mente, sempre più forte: l’incontro in redazione!

Infilai il biglietto da visita nel portafoglio, cercai di non pensarci più, almeno per un po’, e mi diedi una sistemata in vista del colloquio. Non capita tutti i giorni di avere una possibilità di entrare in uno dei principali quotidiani italiani, anche se probabilmente mi avrebbero al massimo offerto un ruolo molto ma molto piccolo. Ma ero pronto a farmi tutta la gavetta necessaria. Presi una pillola dalla piccola boccetta che mi portavo sempre dietro, per aiutare a calmarmi, e uscii dalla porta diretto verso l’ascensore.  

Turno 1: Linda

Quando le porte si aprirono, entrai a testa bassa e vidi una ragazza molto giovane con un’uniforme grigia dalla scollatura ambigua per quel ruolo, ma non per l’hotel. I capelli, legati in un disordinato chignon, erano neri e sottili e aveva gli occhi di un azzurro intenso, troppo intenso per essere vero, ma ciò che mi colpì di più furono i tatuaggi: intriganti ed eccessivi al tempo stesso. Avevo il vago sentore di averla già vista ma non riuscivo a ricordare. E ti pareva. Lei mi fissava, seria e divertita al tempo stesso. Riguardai il biglietto da visita, cercando di ripercorrere gli ultimi eventi. Ma quali eventi se nemmeno ero in grado di ricordarne uno? Forse dovevo chiamare il mio migliore amico. Forse Davide poteva darmi qualche spiegazione. Avevo un importante colloquio o almeno era quello che mi ero messo in testa e non volevo lasciare nulla al caso. 

Presi in mano il cellulare cercando il suo nome in rubrica, quando la ragazza mi rivolse la parola non appena le porte dell’ascensore si aprirono. “Ore fa eri un leone a letto, ora mi saluti a fatica?” e guardandomi con sguardo ambiguo, uscì dall’ascensore lasciandomi a bocca aperta. “Ho fatto sesso e nemmeno lo ricordo?” chiesi a me stesso, lo sguardo stupito e rimbambito e per qualche secondo mi tornò in mente l’espressione terrorizzata di Lucia, la mia ex e la nostra imbarazzante esperienza sessuale.

Scrollai il capo e con un braccio bloccai le porte dell’ascensore che si stavano per chiudere e camminai spedito lungo la hall, tirando su il colletto del giubbino blu per passare inosservato e raggiungendo il bancone per chiedere se dovevo ancora saldare il conto e un giovane ragazzo di colore con una targhetta che riportava il nome Kamir mi guardò stranito. 

“Mi e stato detto che il conto lo deve saldare lei, signore”. Sfoggiai tutta la mia perplessità ma Kamir si mostrò subito efficiente, presentando il foglio del check-in con la mia firma e in quel momento mi mancò il fiato. Non era la mia calligrafia! Allungai la carta di credito incredulo per ciò che avevo appena scoperto, cercando di capire chi avesse firmato al posto mio, poi mi affrettai ad allontanarmi, facendo però cadere a terra una vetrinetta con svariati depliant che Kamir si offrì di sistemare. 

Non appena mi ritrovai all’aria aperta, feci un lungo sospiro. Attorno a me la normale confusione di gente che andava e veniva da un albergo che, confermo, di stelle proprio non ne aveva e poco più in là una pattuglia della polizia che ignorai voltandomi dall’altra parte. M’incamminai verso il lato opposto della strada, finalmente libero, quando delle voci mi distrassero. Mi voltai e vidi Kamir che mi indicava un uomo robusto, che aveva tutta l’aria di essere una guardia di sicurezza o qualcosa del genere, o forse anche no, che mi veniva incontro.

Interazione con il pubblico – Il protagonista, Simone, si trova fuori dall’albergo e ha due opzioni: può scegliere di farsi avvicinare dalla “presunta” guardia di sicurezza e scoprire che cosa vuole oppure può scappare, rischiando però di ficcarsi, probabilmente, in altri guai. Alla serata dell’11 Ottobre il pubblico ha scelto l’opzione 2!

 

Interazione 2 – Mi voltai e vidi che l’uomo era ancora dietro di me e si faceva sempre più vicino. Se correvo, confermavo di nascondere qualcosa. Se mi fermavo, temevo di ficcarmi nei guai. Che cosa mi avrebbe suggerito quel pazzo di Davide? Mi bastarono tre secondi per decidere ed ecco che iniziai a correre quasi avessi un’orda di zombie ad inseguirmi. Mi buttai in strada senza nemmeno guardare, creando un ovvio scompiglio tra il traffico che rispose a tono premendo il clacson e imprecando. L’uomo era sempre più distante ma non accennava a rallentare, così mi ritrovai ad attraversare un parco, scontrandomi con qualche passante fino a quando mi fermai in una piccola via chiusa al traffico, circondato da negozi e passanti. Ripresi fiato, portando le mani alle ginocchia e dopo pochi istanti appoggiai la schiena al muro. “Ricorda, Simone, ricorda!” dissi a me stesso. Iniziai ad essere davvero preoccupato, non mi era mai capitato di avere cosi tanti pensieri confusi. Decisi di dirigermi comunque alla redazione per il colloquio, non volevo perdere l’occasione, ma non appena camminai in direzione della strada principale, il mio sguardo incrociò quello di un poliziotto che mi bloccò all’istante. Era la pattuglia appostata vicino all’hotel. “Ecco, lo sapevo. Ora sono nei guai seri” pensai. Il poliziotto mi chiese i documenti e il mio tentativo di liberarmi da quella situazione fallí quando, con tono serio e duro, mi intimò di fornirgli la mia identità. Mi arresi e portai una mano alla tasca posteriore dei jeans, quando il rumore del mio cellulare lo distrasse e a quel punto lo spinsi contro l’auto e la scavalcai, finendo a terra in maniera ridicola ma rialzandomi subito, correndo come un pazzo. Correvo cercando di resistere al dolore che sentivo nella zona addominale. Mi sentivo sfinito. Recuperai il cellulare e improvvisamente rallentai, sentendomi quasi tranquillo quando vidi un nome amico sullo schermo. Era Davide, ma quando risposi ciò che mi disse non mi piacque per nulla. 

Turno 1: Alberto

“Ma sei completamente impazzito? Cioè…voglio dire… cosa ti sei fumato stamattina? Brutto disgraziato che non sei altro. Io ti organizzo il più fico dei colloqui nella redazione più importante di tutta Roma e tu cosa fai? No davvero, dimmi che pastiglie hai preso per favore che vengo lì e ti cavo gli occhi con un cucchiaino da caffè!” Davide era davvero infuriato. Non l’avevo mai sentito usare questo tono così gracchiante. La sua voce era perfino distorta dall’altoparlante del mio telefono Huawei da quattro soldi. “Davide? Ti dai una calmata per favore? Non so nemmeno cosa ho fatto nelle ultime ore. Per cui…ecco…è sempre un gran casino quando mi sveglio…lo sai…chi meglio di te può capirmi e darmi una mano?”. La mia voce era quasi disperata questa volta. Sembravo un bambino che stava cercando di scusarsi dopo aver rovesciato un vaso di fiori con una pallonata di un vecchio “Tango”. Il silenzio di Davide mi fece continuare il discorso. “E poi cosa vuol dire che TU hai organizzato il colloquio in redazione? Se non mi sbaglio è stato il mio articolo su Notizie da zero! che me l’ha fatto ottenere. E poi che cosa avrei combinato di così eclatante? Dammi delle risposte perchè io proprio non le ho.” dissi con voce decisa. 

“Ma mi prendi per i fondelli, Simone? Ah no, è vero, il mio migliore amico soffre di disturbi di memoria anche se ultimamente mi sembra stiano peggiorando”. Davide aveva cambiato tono di voce. Ci conoscevamo da quando avevamo dodici anni: non eravamo mai stati nella stessa classe e probabilmente era stato quello a legarci ancora di più. Ogni pomeriggio sua mamma andava a lavoro e lo portava da me per fare i compiti, ma puntualmente passavamo le ore a giocare con i giochetti delle moto al computer. Era una lotta continua sulla pista più semplice del gioco solo per limare qualche millesimo sul giro. “Simone, ci sei? O ti sei spento di nuovo?”.
“Ci sono, ci sono. Cos’ho fatto questa volta? Spara”.
“Non so nemmeno da dove partire. Tra pochi minuti avresti dovuto fare un colloquio. Lasciamo stare chi e come l’ha ottenuto, ne parleremo un’altra volta. Dieci minuti fa ho ricevuto una telefonata”.

Interazione con il pubblico – Chi ha chiamato Davide per parlargli di Simone e dirgli che stavolta l’ha combinata davvero grossa? È stata Patrizia de Paoli, responsabile della redazione, oppure Luca Valdis, l’attore famoso che era nello stesso taxi di Simone? Alla serata dell’11 Ottobre il pubblico ha scelto l’opzione 2!

Interazione 2 – “Era Luca Valdis. Ti rendi conto? Era incazzato come una vipera a cui è stata pestata la coda”. Il tono di Simone era fin troppo serio.
“Ma cosa posso aver combinato? Nemmeno lo conoscevo prima di incontrarlo nel taxi.”
“Appunto Simone, come sempre hai fatto i tuoi danni dopo il blackout e prima del tuo risveglio. Mi ha chiamato per dirmi che sua moglie aveva ricevuto una videochiamata. Sai chi è sua moglie vero? È Patrizia De Paoli, quella con cui avresti dovuto fare il colloquio oggi pomeriggio. Mi ha detto che dopo la telefonata di un certo Simone Bonandi che ammiccava sullo schermo in cerca di improbabili seduzioni, Patrizia è uscita dalla redazione e non ha più fatto ritorno.”
“E quindi?” dico io solo per tagliare l’aria e far continuare Davide.
“E quindi ti sei giocato il colloquio. Valdis ha detto le testuali parole: “Dì al tuo amico che se ne può stare a casa sua. Sicuramente Patrizia non lo vorrà nemmeno vedere. Ha già lasciato l’ufficio.” ed è stato gentile.”
“Porca vacca.” non riesco a dire nient’altro.
“Simone, non è la cosa peggiore che tu abbia combinato.”

Turno 1: Marco

“Accendi la tv, lo capirai da solo”. Aggancio la chiamata ed entro in un bar, di quelli in cui di solito si guardano le partite di coppa e chiedo al barista se posso cambiare canale. “Edizione straordinaria. Si infittisce lo scalpore politico rispetto all’articolo apparso per alcune ore sul sito del Corriere. In questo articolo si accusava il Presidente della Repubblica Palladini di essere implicato in un traffico illegale internazionale di armi destinate a teatri di guerra come la Siria e lo Yemen, e di aver intascato ingenti somme di denaro per consentire, in qualità di Capo delle Forze Armate, il trasporto di queste armi su navi della Marina Militare, nascondendole all’interno di casse di aiuti umanitari. L’articolo fa il nome anche del Ministro della Difesa Gandolfi e del Capo di Stato maggiore della Marina, l’Ammiraglio Pancrazi. La società produttrice delle armi sarebbe la Inflimex, con sede a Villamassargia, nel Sulcis-Iglesiente. L’articolo sarebbe firmato da un certo Simone Bonandi di cui potete vedere ora la foto. Raggiunto dai nostri inviati il Direttore del Corriere, Carlo Amendola, afferma che non ci sia nessun Bonandi che lavora nella propria testata, e che si deve essere trattato di un attacco informatico da parte di un hacker e che il Corriere ha già sporto denuncia verso questo Simone Bonandi e verso ignoti. Amendola afferma che potremmo stare assistendo forse a un tentativo di destabilizzazione da parte di servizi segreti, come abbiamo visto recentemente durante le elezioni americane, per riportare il paese alla strategia della tensione degli anni di Piombo. Nel frattempo, l’opposizione ha richiesto chiarimenti al Capo dello stato e chiede le dimissioni dei Ministri e dei militari nominati. Nuovi aggiornamenti nella prossima edizione del telegiornale.” 
Una persona si affaccia all’interno del bar. “Simone Bonandi?”.

Interazione – Chi è il nuovo avventore? Un membro dei servizi segreti oppure un blogger complottista della controinformazione?

Interazione 1 – “Andrò subito al dunque. Chi sono io non è importante, sappia solo che ho a cuore la sicurezza del paese. Non so come lei abbia avuto queste informazioni ma la voglio avvisare che lei è finito nel radar di parecchie persone di diversi paesi e con cattive intenzioni. Chi le ha passato queste informazioni? Sono stati i Russi? Oppure sono stati i Francesi che vogliono sabotare la nostra industria bellica per fare affari con Assad? Naturalmente tutte queste accuse verranno negate e tutto si risolverà in un buco nell’acqua, ma se vuole la nostra protezione, le consiglio di dirci tutto.” Gli diede un biglietto da visita “In quel caso chiami questo numero. E si ricordi, non ci siamo mai visti”.

Interazione 2 –“Che cosa incredibile. Non so come tu abbia fatto ma nel GVV siamo tutti molto emozionati. Scusami, non mi sono presentato, sono Paolo Mitri. Scrivo nel blog “Tutto quello che ci nascondono”, ci occupiamo di controinformazione, per far venire a galla tutto il marcio che in questo paese e in tutto il mondo i poteri forti nascondono sotto il tappeto. Lo sapevi che non solo non siamo mai stati sulla Luna, ma in realtà noi italiani non siamo mai stati nemmeno in Libia? Chi è mai stato davvero in Libia? Conosci qualcuno che sia mai stato in Libia? E allora vedi? Noi di GVV, Gruppo Vere Verità, crediamo che la Libia non esista. Secondo noi Gheddafi era un attore italo-tunisino che era pagato per fare finta di essere un dittatore Nord-Africano. Una enorme campagna di disinformazione in piedi dal 1912. Il grande imbroglio del governo Giolitti. Comunque, ora che il tuo nome è stato bruciato, ti consiglio di mettere in salvo le tue informazioni e noi siamo le persone giuste. Mi diede un biglietto da visita. C’era scritto Mario Petri. “Capirai che non posso dare il mio vero nome. Probabilmente ci stanno ascoltando pure ora. Appena sarai pronto chiama questo numero. Possibilmente da un telefono pubblico se ce ne sono ancora. Li stanno smantellando per toglierci le ultime libertà di comunicare senza essere intercettati. E ricordati, non ci siamo mai visti”. 

Leggi il finale di Linda Moon “Quando meno te lo aspetti…boom!

Leggi il finale di Alberto Sartori “Calibro 9

Leggi il finale di Marco Simion “Sala d’attesa

Cadavere Squisito – 1

Un racconto scritto a sei mani, ispirati dalla tecnica del Cadavere Squisito. Tre scrittori. Un tema comune. Tre stili diversi che si amalgamano assieme. Un racconto scritto appositamente per l’evento Wanted Stories seguendo le rispettive idee e ispirazioni!

Turno 1: Alberto

Finalmente ho trovato un appiglio. Lo tengo stretto tra le mani. Non riesco ancora a capire se sia un tronco o un’asperità della montagna. In questo buio totale non mi resta che rimanere qui. Tra poche ore la luna spunterà e illuminerà questo mio cammino improvvisato. Maledetto a me e a quell’insana voglia di incamminarmi al tramonto. Pensavo di riuscire a scalare prima della notte, ma i miei piedi non sono allenati come un tempo. “Cerca di essere felice e il tempo passerà più in fretta” dico sottovoce e il mio respiro si fa meno teso.


Turno 1: Linda

“Giuro che lo uccido!” dico visibilmente in collera. Stringo il coltello e affondo la lama nella carne cruda, lo sguardo serio e nervoso. “Ma perché è andato in montagna proprio oggi? Lo sa benissimo che mi agito dal giorno prima quando i miei ci vengono a trovare” e inizio ad affettare delle patate senza smettere di agitare il coltello mentre parlo da sola come una vera pazza. “Insomma, non mi pare molto chiedere di averlo vicino nel momento del bisogno. 

Che cosa c’è di così difficile da capire? Almeno avesse portato con sé il cellulare, no nemmeno quello è stato capace di fare!”. Per un attimo chiudo gli occhi, portando una mano sulla fronte per riprendere il respiro e riflettere, ma poi sbotto di nuovo. “No, è deciso. Questa volta lo uccido! E andrò a recuperarlo da quella stupida montagna io stessa!”.


Turno 1: Marco

Ha anche iniziato a piovere. Eppure avevo controllato accuratamente il meteo e non avevo visto nessuna nuvola all’orizzonte mentre salivo. All’inizio era una pioggia leggera che avevo facilmente tenuto a bada con il cappuccio della mia giacca tecnica e confidavo sarebbe stata una cosa passeggera. Ora però la pioggia si sta facendo più fitta, sono completamente fradicio e comincio a tremare per il freddo.

La cosa che mi preoccupa è che la mia presa si sta facendo sempre più tenue; il mio appiglio, che mi sono reso conto essere una radice che esce da un anfratto della roccia, è sempre più scivoloso e nella mia testa comincia a farsi largo, prima come una remota eventualità e col passare del tempo come probabilità sempre più concreta, il terrore di non riuscire a resistere e di cadere di sotto nello strapiombo. 

All’improvviso un fulmine squarcia il cielo e illumina per qualche secondo il fianco della parete di roccia sopra di me. Se solo riuscissi a tirarmi su fino a quella pedana e a quella rientranza nella roccia sarei salvo…

Turno 2: Alberto

Un altro fulmine esplode nell’aria, socchiudo gli occhi per non farmi abbagliare ma al tempo stesso cerco di mettere a fuoco quella cavità. Sarà a due metri da me, dovrei usare tutte le mie forze, spingere con entrambi i piedi e lanciarmi come una scimmia volante. “Non credo ai miei occhi”. 

È la mia stessa voce che mi sorprende. Tra un lampo e l’altro intravedo una figura sul ciglio della roccia. Sembra di donna, i capelli sono lunghi e le forme sinuose. “Ehi! Ehi tu! Ti lancio una cima” la sento urlare per sovrastare il rumore dei tuoni che si stanno avvicinando. Non ho nemmeno il tempo di rispondere che avverto un colpo sulla schiena. Istintivamente stacco la mano e la porto dietro di me, cerco di afferrare qualcosa nell’aria ma catturo solo il vento. Un altro colpo sulla fronte, non del tutto piacevole, mi fa intravedere la fune prima che cada troppo in basso e la afferro. 

Mi lascio cadere nell’aria tenendo stretta la corda tra le mani, sbatto sulla parete rocciosa senza subire troppe contusioni. Non riesco ad issarmi ma mi sto muovendo, sto salendo, e in un attimo mi ritrovo pancia a terra in quello che sembra un balcone di roccia. Alzo lo sguardo e di fronte a me c’è una ragazza, mi sorride. È così splendida che quasi non sembra reale. Vorrei ringraziarla ma sono senza energie e rifiatando appoggio la fronte a terra.

Turno 2: Linda

Quando arrivo ad un bivio mi pento di non aver chiesto informazioni poco prima. Tutto solo per puro orgoglio o forse inconsciamente penso sia meglio così, senza chiedere a nessuno. Ora però mi ritrovo sotto una pioggia incessante a riflettere se prendere la strada ripida a sinistra o quella che pare continui in pianura alla mia destra. Sono anni che non faccio questo percorso con lui e il buio non aiuta. 

Avrei dovuto accostare e chiedere informazioni quando ero ancora dentro al paese. Tutti quei pensieri però spariscono improvvisamente quando ripenso ad una gita in particolare e per un attimo addolcisco i tratti del viso per lasciare spazio ad un’espressione spensierata, proprio come quel giorno, quando gli tenevo stretta la mano e giocherellavo con le nostre fedi. 

Lui portava lo zaino blu che gli avevo regalato il giorno del compleanno e insisteva ad usare un bastone di legno trovato a terra per camminare ed eravamo proprio a questo bivio quando, per indicarmi la via giusta, me lo aveva quasi sbattuto in testa. Ricordo di aver riso così tanto quel giorno e per un attimo mi guardo attorno per ritrovare quell’emozione, quasi sia anch’essa laggiù con lui, ma poi scuoto il capo tornando in me. 

So quale strada dovevo scegliere e nel momento in cui proseguo, un lampo illumina il cielo, quasi squarciandolo, e stringo gli occhi in direzione della cima a poca distanza da me. Mi sembra di vedere qualcosa, ma non capisco se vedo una o due persone…

Turno 2: Marco

“Ce la fai a camminare?” mi chiede mentre mi dà la mano per rialzarmi. “È meglio che andiamo al coperto, non vorrei ci colpisse un fulmine”. E poi la sento tra sè e sè borbottare qualcosa nel dialetto della valle, che non ho mai imparato a parte qualche imprecazione dai vecchi mentre giocano al bar. La seguo senza fare tante domande, mentre batto i denti dal freddo, quasi completamente al buio, cercando di non inciampare nella boscaglia. 

Solo di una cosa mi rendo conto, ed è che pur sotto quella pioggia i suoi capelli castani non sembrano particolarmente bagnati. “Avrà camminato al riparo degli alberi” penso io, ma in realtà sono un po’ stanco per ragionare e in tutta onestà non vedo l’ora di arrivare ovunque lei mi stia portando. Raggiungiamo una piccola casetta di legno, una sorta di malga, in una piccola radura. “Entra, entra, dentro ci aspetta un fuoco caldo”. Abbasso la testa per entrare dalla porta e mi ritrovo in una casetta di montagna, molto rustica come potrebbe esserlo il capanno di un cacciatore. 

All’interno ci sono alcune sedie, un tavolo in legno massiccio, una pelle di cervo distesa di fronte a un fuoco scoppiettante, una cassapanca con sopra dei cuscini ricamati a mano e un solo letto, grande, a un’estremità della stanza. “È meglio che ti togli quei vestiti bagnati e ti asciughi se non vuoi prenderti una febbre. Nella cassapanca ci sono dei vestiti, spero ti stiano”. È alla luce del fuoco che riesco finalmente a vederla per bene: due occhi azzurri di un azzurro profondissimo, i bei capelli castani che le cadono lunghi sotto le spalle, quasi immacolati, nonostante l’acqua. La osservo di soppiatto mentre si toglie il giaccone, di una foggia un po’ desueta, che appoggia su una delle sedie di fronte al fuoco e sotto indossa un maglione chiaramente fatto a mano, con motivi floreali. 

“Temo che non ci siano molti posti per cambiarsi, ma non ti preoccupare, io mi giro e non sbircerò” dice ridendo. Per l’imbarazzo di dovermi spogliare davanti ad una donna che non sia Giulia, provo a cambiare discorso. “Non ti ho ancora ringraziato. Io mi chiamo Luigi, qual è il tuo nome?”. “Te lo dico se prometti di non riderne”. Stupito la rassicuro. “E perché dovrei?” chiedo. “Perchè è un nome che non si sente spesso. 

E va bene. Se dobbiamo passare la notte qui perlomeno è buona creanza che i nomi ce li scambiamo. Mi chiamo Soreghina. È un nome di qui, è un nome antico”. Spiazzato, rimango in silenzio. “Ti avverto! Se mi giro e vedo che stai ridendo ti rimando fuori al freddo!”.

Turno 3: Alberto

Non è di certo un sorriso quello che appare sul mio volto. Nemmeno nella mia mente prende forma un sorriso. È solo allora che i ricordi lontani riaffiorano e quel volto smette di essere quello di una sconosciuta. Per fortuna sono ancora girato dall’altra parte, altrimenti lei vedrebbe di quanto stupore siano pieni i miei occhi. 

“Luigi? Ci sei?” sento la sua voce lontana come fosse ancora nell’anfratto della montagna e io appeso alla cima che mi aveva lanciato. “Sì, Soreghina, certo sono qui. Il freddo deve avermi bloccato per qualche istante. Dicevamo?” la mia voce è senza enfasi, quasi come fosse quella di un robot che cita meccanicamente il suo vocabolario. È lei che scoppia in una gran risata e in quel momento il calore della stanza riprende vita.

 “Dicevamo solo i nostri nomi. Devo però farti i miei complimenti. Sei uno dei pochi a non esserti messo a ridere dopo aver saputo il mio. Per questo stanotte non ti ucciderò”. La sua voce è passata in un attimo dal sorriso caloroso al gelo delle ultime parole e io mi sento tremare. Mi giro di scatto preso dalla paura. Lei è lì che mi guarda. Un mestolo alzato nella mano sinistra. L’altra mano che sta già coprendo i suoi occhi. Ero ancora completamente nudo. “Sono proprio un idiota” esclamo lasciando andare quell’attimo di terrore dovuto alla sua ultima frase e poi riprendo a parlare ma sempre con un po’ di agitazione. 

“Ho visto troppi film, ho pensato che volessi davvero farmi a pezzettini e cucinarmi”. Il mio sorriso si allarga ma dentro di me sto bruciando. Come fa a non avermi riconosciuto? Sono cambiato in questi ultimi anni ma non riesco a credere che proprio lei mi abbia dimenticato. Oddio se la vedesse mia moglie che cosa penserebbe? “Ti puoi girare per favore? E smettila di guardare la televisione che poi ti vengono idee assurde come questa” è la sua voce imbarazzata che interrompe i miei pensieri. 

Mi giro e in un attimo sono già vestito, tutto mi calza alla perfezione, soprattutto la camicia a rombi grigi e neri. “Tra poco sarà pronta la cena, Luigi. Quand’è l’ultima volta che hai mangiato con una ragazza bella come me? E senti che caldo sta facendo il fuoco, io mi metto comoda…


Turno 3: Linda

Dentro di me l’ho già perdonato. La fatica di risalire la cima sotto la pioggia e il fatto di essere da diverso tempo fuori allenamento, mi sta sfinendo in una maniera inaspettata. Vedo del fumo uscire da in mezzo agli alberi. Desidero solo raggiungere quella che probabilmente è una malga e spero di trovarlo e basta. Anzi, di riposare tra le sue braccia. Detesto quando si impunta a seguire le sue idee folli, ma ricordo anche che è per questo motivo che l’ho sposato o almeno è quello che ho detto al matrimonio durante lo scambio delle promesse. 

Tanti pensieri affollano la mia mente e la tentazione di prenderlo a sberle svanisce man mano che cammino e mi avvicino al tratto in pianura. “Lo perdono, tutto pur di arrivare a destinazione” dico sottovoce, forse per convincermi di più. Quando sono a pochi passi dalla malga, mi avvicino lentamente ad una finestra. C’è luce, quindi c’è qualcuno dentro e a confermare ciò è anche una voce che sento a tratti. Il buio è così fitto che non vedo nulla e la torcia mi ha abbandonata nel momento del bisogno. 

Cerco di appoggiarmi con una mano alla parete di legno, spostando alcuni rami di un albero proprio lì a fianco e osservo dentro. “Grazie al cielo!” penso. Luigi è dentro e parla, ma sembra quasi imbarazzato o forse spaventato. Sono otto anni che lo conosco e ancora non riesco a decifrare alcune sue espressioni. Mi avvicino alla porta con incredibile lentezza, non sento più le gambe e quando busso, all’improvviso cala il silenzio. Sento dei rumori, poi ancora silenzio. Busso forte e dopo pochi istanti lo chiamo. 

“Come mai ci mette così tanto ad aprire?” penso. Sento dei passi e dopo quella che pare essere una lunga esitazione da parte sua, finalmente la porta si apre. “Giulia!” dice stupito. Mi faccio spazio, entro nella stanza e lo sommergo di parole. “Ma che diavolo ti è preso? Venire qui in una giornata come questa? E lo sai che domani vengono i miei genitori. Oddio non oso immaginare che cosa diranno quando sapranno cosa è successo e mia madre poi… ho già i brividi al pensiero!”. 

Mentre gli parlo, senza quasi degnarlo di uno sguardo, mi libero del k-way e strizzo i capelli inzuppati d’acqua. Finalmente i nostri occhi si incrociano per più di cinque secondi e lui mi guarda in silenzio, quasi non mi riconoscesse. “Luigi, stai bene?” chiedo sistemando il maglione fortunatamente intatto. Lui si guarda attorno e sussurra un debole sì. “E poi che stavi facendo? Sembravi un matto!” dico andandogli finalmente incontro, accarezzando il suo viso. “Ero davvero in pensiero”. Lui mi prende la mano. 

“Matto? Che intendi?”. Gli dò le spalle e mi avvicino al fuoco per scaldarmi. “Ma sì dai, poco fa mi sono avvicinata alla finestra e ti vedevo parlare da solo… con chi ce l’avevi?”. Presa dal fuoco che mi ridona il calore mancato, non faccio caso alla sua espressione basita e forse un po’ preoccupata e tiro indietro i capelli cercando un elastico per legarli. Lo osservo e vedo che il suo sguardo è rivolto verso la porta che da sul retro. Sembra incantato. 

Guardo anch’io nella sua prospettiva, poi lo riguardo e lo vedo fissarmi. “Luigi, che cosa c’è? Sembra quasi che tu abbia visto un fantasma” chiedo tendendo la mano verso di lui. “Vieni a sederti qui con me”. Il suo comportamento è ambiguo. I suoi occhi sembrano persi nel vuoto, ma il freddo che fa ancora da padrone al mio corpo mi fa concentrare principalmente sul fuoco. Lentamente si avvicina e si siede di fianco a me, sopra alla pelle di cervo, scrollando il capo. “Niente, niente…” dice abbracciandomi, accennando appena un sorriso.  “Credo solamente di essere molto stanco…”.


Turno 3: Marco

Il calore del fuoco è rilassante e a poco poco vedo che Luigi comincia a far fatica a tenere gli occhi aperti e questo nonostante abbia fatto uno sforzo notevole per tenersi sveglio, dandosi anche dei pizzicotti sulle braccia. Credo si senta in colpa per avermi fatto salire fin quassù e voglia farmi compagnia, eppure finisce per appoggiare la testa sul mio grembo e si addormenta di colpo, come un bimbo. Io gli accarezzo i capelli e mi fa quasi tenerezza, alla fine passare la notte lì mi sembra ora una prospettiva piacevole, e alla malora la visita dei miei, in fondo quant’è che io e lui non passiamo una notte fuori, da soli, lontano da tutto lo stress della vita di tutti i giorni?

 
Faccio passare le dita sui suoi capelli umidi di sudore e pioggia e poi lungo il collo, fino alle braccia sentendo i muscoli sotto la camicia grezza da montanaro, che non credo di avergli mai visto addosso. All’improvviso questa sensazione mi ricorda della prima volta che l’ho spogliato, in quella tenda nel campeggio al mare dove eravamo andati con gli amici, e pure quella volta mi ricordo che pioveva. Il viso mi si tinge di rosso, che cosa assurda arrossire dopo tutti questi anni, eppure sento un gran calore. 

Per un attimo i miei occhi passano dal suo viso alla legna che scoppietta nel camino e sarà la stanchezza o gli occhi appannati ma mi sembra di scorgere un’immagine fugace in mezzo alle fiamme, come una figura di ragazza, con lunghi capelli castani, che ha indosso quello stesso costume che avevo sulla spiaggia quel giorno al campeggio. Una ragazza che mi ricorda qualcuno che conoscevo molti anni fa, eppure il nome non mi arriva alle labbra, come se non volesse saperne di uscire. 

E un attimo dopo mi sembra di vedere il mio viso, con addosso un maglione a fiori che non userei mai. Le immagini si sovrappongono tra di loro davanti alle fiamme, in un momento c’è la ragazza dai capelli castani che sta facendo l’amore nella tenda con Luigi e in un altro ci sono io che con una lunga veste azzurra cammino scalza tra i boschi incidendo la corteccia di un albero con un lungo coltello dal manico d’osso. Il calore dal mio viso si propaga al collo e da lì scende sulle braccia fino al petto e poi sempre più giù, ed è una sensazione spaventosa ma anche un po’ piacevole. Ed è allora che ho sentito quel suono.

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La campana tibetana

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