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Cadavere Squisito – 7

Un racconto scritto a sei mani. Ispirati dalla tecnica del Cadavere Squisito. 
Tre scrittori. Un tema comune. Tre stili diversi che si amalgamano assieme.

Un racconto scritto appositamente per l’evento Wanted Stories seguendo le rispettive idee e ispirazioni. Ispirati dal tema dell’ARTE, abbiamo dato vita a tre brevi racconti, ognuno scritto con il proprio stile. L’input di partenza è stato un’artista e un quadro di sua realizzazione.

Il racconto di Linda Moon si ispira all’opera di Hieronymus Bosch “Vizi Capitali” e ha scritto il racconto su una bizzarra investigazione per omicidio, le cui accuse fanno acqua da tutte le parti! 

Il racconto di Monica Vaccaretti si ispira all’opera di Renzo Crociara “Nuca” dal quale ha estrapolato il massimo delle emozioni per un racconto di autentica spontaneità e naturalezza che parla di baci, di pelle e di sensazioni. 

Il racconto di Aldo si ispira all’opera di Matisse “Gioia di vivere” e parla di una donna in attesa di prendere un volo che rivede in qualche sconosciuto frammenti del suo passato. 


INCIPIT – “Spazziamo tutto quanto sotto il tappeto con una bella pacca sulle spalle, un sorriso e del buon champagne per allentare la tensione. Abbiamo problemi qui? Non credo! Perché se li avessimo basterebbe cacciare un po’ di soldi. Tanto tutti sappiamo che non c’è niente che non si può comprare…”.

Turno Linda

Lucilla lesse la battuta e mano a mano che le parole uscivano dalla sua bocca, sgranò gli occhi disgustata. Si bloccò all’istante e si rivolse verso la platea. «Ma che razza di battuta è questa? Volete rendere il mio personaggio ancora più antipatico e agghiacciante di quanto già non lo sia? Sono una vedova, cacciatrice di doti, con un figlio che mi odia e una figliastra che mi snobba. Ho un amante di trent’anni più giovane che mira solo a un avanzamento di carriera nell’azienda del mio quarto marito e ora mi fate dire questo turpiloquio? Renato, tesoro, so che sei un grande sceneggiatore, ma te lo devo proprio chiedere, chi ti ha insegnato a lavorare, Paperino?». 

Turno Aldo

Renato, oltre che sceneggiatore era pure regista dello spettacolo. Incassò l’ennesimo sfogo dell’attrice senza battere ciglio. Sfoderò il migliore dei suoi sorrisi fasulli e disse: «Lucilla, mia cara, con il tuo talento e la tua bellezza qualsiasi personaggio per quanto sgradevole non può che risultare gradito al pubblico. Stai tranquilla, interpreta la parte con la grazia di cui madre natura ti ha fatto dono e vedrai che sarà un successo, l’ennesimo della tua splendida carriera!». L’attrice, lusingata, si calmò. Renato invece, senza darlo a vedere, ribolliva di rabbia. Non sopportava più lei, le sue arie da star, i suoi capricci. La parte, però, era fatta su misura per lei e la congedò come di consueto con un «…ottimo lavoro mia cara!», e prese la giacca avviandosi al pub, smanioso di un poco di pace e di un barile di birra. Lucilla invece, mente si dirigeva al suo camerino, incrociò Anselmo, il tuttofare del teatro impegnato a sistemare i sedili e gli soffiò un bacio che lui accettò con un sorriso e un brivido lungo la schiena. Aveva la metà dei suoi anni ed erano amanti. Questo gli aveva permesso di avere quel lavoro, la motocicletta, e uno standard di vita relativamente agiata, però non la sopportava più. Di giorno a teatro e di notte a letto. Era troppo. Le era grato, ma si sentiva soffocare. “Meglio poveri, ma liberi”, pensava. Però i soldi facevano comodo, come pure le raccomandazioni e gli aiutini che lei garantiva. Ricambiato il bacio di malavoglia, si girò dall’altra parte. Lei, contenta, sculettò fino alla porta, sparendo oltre il suo camerino. 

Turno Monica

“Il teatro è polvere di palcoscenico”, pensò Lucilla mentre accendeva la lampada in stile liberty sul tavolo da trucco, sorseggiando il prosecco che Anselmo le aveva fatto trovare prima delle prove e che non era riuscita a finire, richiamata sul proscenio dalla voce indispettita di Renato. Era arrivata in ritardo quella sera e con gli abiti inzuppati, il temporale che si era rovesciato sulla città l’aveva sorpresa a piedi per strada. Si era messa addosso un abitino nero con un grembiulino bianco che era stato un costume di scena dell’ultimo musical Waitress, il primo che nella fretta aveva afferrato dall’appendino. Quando era comparsa da dietro le quinte con i capelli bagnati e il vestito preso in prestito da un’altra pieces che non si adattava con il copione sgualcito che teneva tra le mani, Renato l’aveva rimproverata con quello sguardo di disappunto malcelato che le urtava i nervi. Non era facile lavorare sotto la sua regia, la faceva provare anche per otto ore di fila, come fanno gli attori professionisti. Era un perfezionista e non trascurava niente: dizione, postura e scenografia dovevano essere impeccabili a ogni spettacolo. Lucilla amava recitare e senza Renato la sua carriera sarebbe già finita. Entrambi amavano quel teatro storico che era diventato un po’ la loro casa, ma Lucilla ancor di più amava Anselmo. La sensazione che provava quando stava con lui ogni volta che saliva sul palcoscenico di notte, quando il teatro si spegneva ed era tutto per loro due, le dava una eccitazione che non aveva mai provato prima. Dietro il sipario chiuso si consumavano ogni notte amplessi e storie da mettere in scena l’indomani. Era Anselmo che, guardando le americane appese e le corde ben tirate mentre si fumava un po’ d’erba dopo aver fatto l’amore sdraiati su un tappeto che ricopriva le schegge di legno scricchiolante, le suggeriva fantasie di possibili scenari e le ispirava dialoghi e monologhi. Anselmo era il corpo ed era la mente. Mentre beveva l’ultima goccia dal calice, Lucilla si rese conto che non poteva rinunciare al suo giovane amante. Doveva trovare il modo di legarlo a lei per sempre. Il suo successo dipendeva ormai dalla dipendenza fisica che aveva di lui, pensò mentre usciva dal camerino e salì distrattamente le scale. Lucilla si slacciò il grembiule, lasciò cadere ai piedi l’abitino nero, spense tutte le luci del teatro e andò a sdraiarsi sul proscenio, aspettando che la polvere di palcoscenico entrasse dentro di lei. 

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LINDA MOONMONICA VACCARETTIALDO FERRARESE

Finale Linda Moon – TITOLO: Nonostante tutto, mai una gioia!
Una luce illuminò all’improvviso Lucilla che basita si rialzò coprendosi con un tessuto che recuperò da terra. Sentì dei passi, ma non erano di una sola persona e presa dal panico, scese dal palco e si nascose sotto di esso mentre stringeva il cellulare in mano, pronta a chiamare aiuto se fosse stato necessario. I passi si fermarono proprio sopra di lei, la quale tese l’orecchio per capire chi ci fosse. Sentì un debole mormorio, poi un gran sbuffare.
«Non puoi mollare ora! Dopo lo spettacolo sarà fatta! Io avrò il mio successo e tu ne gioverai, stai tranquillo, ma devi tenermi buona Lucilla!». 
«È che non ne posso più di lei e delle sue follie, mi manda al manicomio!».
«Lo so, sogno di strangolarla ogni volta che sale sul palco ma vedrai che dopo lo spettacolo avremo il nostro meritato successo e potremo liberarci di lei. A proposito, non devi vederla ora?».
«Sì, sarà meglio che vada a cercarla, chissà cosa mi farà fare stasera… pensa che sia il suo bel cagnolino… non hai idea di come mi senta…».
«Però la vita agiata ti piace, mi pare…». 
«Sì, ma a che prezzo?».
«Dai su, datti da fare, falla impazzire, sarà per l’ultima volta. La voglio in forma smagliante per lo spettacolo. L’ho studiato bene per fare colpo su quel viziato e stupido investitore che vuole fare l’intellettuale nel mondo teatrale, come se ci capisse qualcosa… ma ci farà cambiare vita per sempre e diremo addio a quella rompipalle e bisbetica di Lucilla, intesi?». Anselmo alzò gli occhi al cielo, poi acconsentì e sparì oltre il sipario.

Lo spettacolo fu un successo e un’ora dopo, Renato e Anselmo si trovavano nell’ufficio dell’investitore, pronti a discutere di un futuro luminoso quando questi, dopo aver servito loro del costoso champagne, aprì il brindisi con una frase alquanto bizzarra. «Ogni battaglia che si rispetti, persino il più banale dei litigi, inizia per la stessa medesima motivazione. Un’offesa». Renato e Anselmo si guardarono allibiti. «Sig.Belvedere, che brindisi particolare… immagino sarà legato anche a un aneddoto, o sbaglio?», chiese Renato. «Certo che lo è!», rispose lui, poi prese un telecomando e fece partire quella che pensarono fosse musica quando invece risultò essere una registrazione. Si trattava della discussione di quella sera a teatro quando complottavano contro Lucilla che entrò pochi istanti dopo sfoggiando un sorriso compiaciuto come avesse appena vinto una gara di competizione. Aveva registrato tutto e negoziato la sua rivincita col l’investitore. Quella che però si prospettava come la fine di una relazione professionale stretta ormai a tutti, innescò invece un gran litigio. Renato le lanciò il bicchiere pieno di champagne ai piedi e le diede della pazza psicopatica. Lei si infuriò e lo colpì come poteva con entrambe le mani, maledicendolo di continuo. Si tirarono i capelli, un fermaglio con pietre colorate volò a terra, una cravatta fu stretta al collo come un cappio. Si sentiva chiaramente il rumore delle cuciture dei vestiti saltare. Sembravano due barboni che si contendevano l’ultimo boccone di un panino sfizioso. Il signor Belvedere scosse il capo come un insegnante fa con uno studente che proprio non mostra impegno in una materia, piena disapprovazione, poi fissò Anselmo e lo squadrò dalla testa ai piedi. Gli regalò un sorriso e ammiccò indicando verso la sua destra. «Sei carino, vuoi farti un giro nell’altra stanza?». Il ragazzo si paralizzò osservandolo guardingo. Era davvero ironica la situazione: voleva liberarsi della bella quanto instabile ma benestante Lucilla e ora una persona ancora più ricca di fascino, carisma e soldi gli proponeva qualcosa di promettente ma di sicuro peccaminoso. Era una situazione tanto ironica quanto assurda, ma poi fissò gli altri due, ancora presi a darsele di santa ragione, ed esclamò: «Tra i due litiganti, il terzo gode, giusto?», e finì lo champagne, anche se dentro di sé pensava: “…oh, mai una gioia!”, e sparì assieme al signor Belvedere oltre una porta di legno scuro.

Finale Monica Vaccaretti – TITOLO: Parole di polvere
Il buio era ancora più buio e freddo stavolta. Lucilla si avvolse il grembo con un lembo del sipario rosso e si girò sul fianco guardando verso le quinte nascoste dal drappo nero. Non si dà mai le spalle al pubblico in sala, era la regola aurea di un attore principiante, pensò sorridendo. E nemmeno i glutei. Passarono i minuti e poi le vennero i dieci minuti. Ma dove diavolo era andato Anselmo? Infastidita si mise dapprima a sedere guardando verso la scaletta che conduceva nel foyer e poi lentamente, tenendosi avvolta nel sipario, fece qualche passo verso il pianoforte a coda che era in scena. Prese l’accendino che aveva dimenticato lì durante la pausa delle prove, si accese una Marlboro e poi con la sigaretta diede fuoco allo stoppino della candela nella bugia di rame che aveva usato nel terzo atto. Ora il buio era meno buio e il palcoscenico aveva qualche ombra qua e là che le facevano compagnia nell’attesa di quell uomo. Era lei stessa un’ombra, in fondo viveva un amore nascosto, non alla luce del sole. Al pensiero si incupì un poco. Sempre avvolta dal sipario di broccato che incominciava a starle stretto se faceva per allontanarsi di altri passi, si sedette sul pianoforte accanto alla bugia. Mai accendere un lume in teatro, altra regola aurea. «Caspita, devo stare attenta, stasera potrei prendere fuoco e incendiare tutto. Se tarda ancora prendo fuoco sul serio! Come in Set Fire in the Rain di Adele. Tra poco mi metto a urlare anch’io alla pioggia il tuo nome. Anselmo!!!!! Dove sei finito!?», e Lucilla lo urlò a voce alta. Silenzio. Nessuno. Solo la pioggia attutita dai coppi sul tetto e dai muri vecchi e umidi tutt’attorno. Il temporale fuori era sopra di lei. E dentro sentiva nascere tempesta. Le mancava l’aria. Se fosse stata a casa avrebbe spalancato la finestra. Si sentì improvvisamente dentro una scatola. Si deve essere sentito così il mio canarino Aquila quando l’ho portato a casa dal Garden per poi metterlo nella voliera. Ma almeno la sua scatola aveva i buchi. Qui invece era tutto chiuso. Anche la porta di sicurezza, che dava sulla rampa di accesso ai camion delle compagnie teatrali per accedere in sicurezza al palcoscenico per allestire le scenografie, sembrava chiusa per quel che riusciva a vedere dalla parte opposta in cui si trovava. Silenzio misto a pioggia. Spense la sigaretta sulla bugia e scivolando sul pianoforte mise i piedi nudi sul legno del palco e si diresse verso la porta che dava sul cortile. Il sipario tornò oscillando al suo posto. Un improvviso tuono che sembrò squarciare il velo del teatro, come fosse il tempio di Gerusalemme, la fece fermare a pochi passi dalla maniglia. Un vento di burrasca penetrò dalla porta che era stata soltanto socchiusa, spalancandola con fragore sul muro esterno. Lucilla fu colpita sulle cosce nude da una sferzata di acqua gelida e grandine che la fece indietreggiare e poi cadere, inciampando sul costume di Waitress. E nel fragore di altri tuoni, sempre più vicini, Lucilla scoppiò improvvisamente in lacrime. Un pianto inconsolabile se ci fosse stato qualcuno a consolarla. La bugia sul pianoforte si spense in un soffio di vento più veloce che la raggiunse. Tornò il buio e i singhiozzi di Lucilla frantumarono il silenzio. Spoglia e infreddolita, scossa da tremori incontrollabili, la donna a terra si rese conto di quanto fosse caduta in basso. Questa era la verità. Di quanto mentisse a se stessa. Di quanto si accontentasse di certa gente che la circondava per non sentire il peso della solitudine. Di quanto dipendesse psicologicamente da Anselmo. Che non l’amava. Lo sapeva. Lo sentiva, non era una stupida. Le mentiva, la usava soltanto. Per il piacere o per lo stipendio che gli garantiva. Era umiliante quel gioco di seduzione che aveva accettato, che aveva inscenato. Silenzio. Misto a pianto. Anselmo non sarebbe venuto stanotte e lei comunque non lo avrebbe voluto. Non voleva più sentirsi usata, non amata. E usarlo per un bisogno o un capriccio non la faceva intimamente stare bene. Doveva liberarsene, altro che non lasciarlo andare via. Bé, se ne sa andato da solo in fondo. Aveva scelto di non venire e non a caso. Anche se magari domani avrebbe inventato qualche scusa e le avrebbe chiesto scusa, gli piaceva farla arrabbiare per poi farle passare il muso. No, davvero non aveva bisogno di Anselmo. Di farsi prendere in giro. Non a quarant’anni, quasi cinquanta. Soltanto per avere sesso? Lei voleva amore. E a fanculo chi non la voleva per volerla veramente. E che dire di Renato? Si detestavano da anni eppure avevano cercato di sopportarsi per via di quel successo che entrambi inseguivano da una vita ma che non era mai abbastanza. Era un mondo difficile, il teatro. Una vita di invidia e rivalità. Renato non la stimava sinceramente, non era nemmeno un buon amico. Non aveva gentilezze e attenzioni particolari nei suoi confronti e lo sentiva falso e opportunista.  Che vada a fanculo pure lui. Basta. Doveva dire basta. Doveva tornare a essere vera. Sincera. E lei… che era? Polvere. Di palcoscenico. Avrebbe voluto essere polvere di stelle. Pensando si era avvicinata al pianoforte. Silenzio. Misto a silenzio. Anche la pioggia stava in silenzio ad ascoltare quel che lei aveva da pensare. Il cielo fuori stava a vedere. Non c’erano più parole da dire per stanotte. Domani forse ne avrebbe dette ancora. O forse no, una donna può anche non dire niente quando decide che è finita. Niente. Silenzio. Le parole a volte sono di polvere. Sono di troppo. Coprono tutto. E mentre lo pensava, il suo dito scrisse sulla polvere nera che velava il pianoforte una sola parola. Si avvicinò al quadro elettrico a lato del sipario che si riaprì lentamente con un lieve fruscio e accese tutte le luci, uno scatto dopo l’altro. Restò a guardare il teatro, anche lassù in platea, finché le lacrime non le fecero vedere più niente. Non si lasciano mai accese le luci in teatro, un’altra regola aurea. Si passò una mano sul viso e con l’altra prese la bugia e la lasciò ai piedi del quadro. La fiamma crepitava bene illuminando soltanto le gambe del pianoforte mentre la porta si richiudeva piano dietro Lucilla. Poi tutte le ombre rimaste appese sul sipario si accesero. E se ne andò anche il silenzio.

Finale Aldo Ferrarese – TITOLO: Bang Bang Rodeo 
Lucilla, stesa sul proscenio, fremeva di desiderio.  Le ossa a contatto con  il duro pavimento di legno cominciavano a farle male. Aveva freddo, era nuda ed era molto indispettita. Il suo amante tardava ad arrivare e la sua pazienza era al limite. Anselmo sapeva bene che lei lo stava aspettando e non era disposta a tollerare un tale ammutinamento. Era persa in simili pensieri quando improvvisamente sentì spalancarsi e sbattere rumorosamente la porta laterale del teatro. Abbrancò un lenzuolo e lo usò per coprirsi alla meglio, mentre due persone cominciavano a discutere animosamente.
Incuriosita ma anche spaventata, si mosse in direzione delle voci e per maggiore sicurezza prese la rivoltella con cui avrebbe dovuto inscenare il suicidio. Era sicura che dentro al teatro erano rimasti solo lei e Anselmo e non aveva idea di chi potesse essere l’intruso. Arrivata in prossimità dell’uscita laterale, si fece piccola e si nascose per assistere a ciò a cui mai avrebbe pensato possibile. Renato e Anselmo stretti in un vigoroso abbraccio si stavano baciando. Poi il regista spintonò violentemente l’altro e, vistosamente ubriaco cominciò a imprecare. «Non ne posso più, sono stanco di te, non ci sei mai, da quando ti ho fatto avere questo lavoro sei sparito. Quella  pazza mi sta tirando scemo, si crede chissà chi e non sa nemmeno recitare. Raggiungimi a casa, subito, oppure giuro che te ne torni in strada», finì con un grande rutto. «Dammi un’ora», rispose Renato, «sistemo le ultime cose e ti raggiungo, e ti giuro parleremo e faremo l’amore tutta la notte. Io ti amo». Lucilla non credeva né ai propri occhi, né alle proprie orecchie. Furiosa e umiliata, uscì urlando dal proprio nascondiglio e inciampò sul lenzuolo. I due la videro arrivare come una furia, nuda e armata di pistola e al primo sparo di misero a correre. 

Ci fu un’inchiesta. I clienti del pub, per quanto avvezzi all’alcool, confermarono tutti di aver visto il noto regista in compagnia di un giovane scappare a gambe levate da una pazza urlante che sparava all’impazzata.  I tre indagati, convocati in caserma, parlarono in maniera confusa di certe prove, di uno spettacolo che avrebbero dovuto mettere in scena. Le indagini confermarono che la rivoltella era caricata a salve e non avrebbe potuto uccidere nessuno. Il tutto si risolse con un nulla di fatto. L’imbarazzo però fu tanto, come tanti furono i pettegolezzi e le risate. La collaborazione artistica fra Renato, Anselmo e Lucilla ebbe fine, come pure i loro intrallazzi amorosi. E non ci furono repliche. 

Cadavere Squisito – 2

Un racconto scritto a sei mani. Ispirati dalla tecnica del Cadavere Squisito. Tre scrittori. Un tema comune. Tre stili diversi che si amalgamano assieme. Un racconto scritto appositamente per l’evento Wanted Stories seguendo le rispettive idee e ispirazioni! 

Questa volta gli autori mettono un bivio: sta al pubblico scegliere lo svolgimento della storia. Il protagonista, una situazione o un particolare momento si svilupperanno secondo l’opzione proposta da ogni autore e più gradita a voi! I finali saranno sempre tre e anche in questo caso la scelta sarà vostra!

Turno 1: Linda

Ancora non ci credo, mi sembra troppo bello per essere vero! Finalmente ho un colloquio in una redazione e tutto grazie ad un articolo scritto in fretta e furia pubblicato nel mio blog Notizie da Zero!. Ha scatenato non poche polemiche ma ottenuto anche riscontri positivi. Il giornalismo funziona così: o ti amano o ti odiano. Scorro la pagina della homepage del sito della redazione e ammiro gli articoli. Il carattere Helvetica non è tra i miei preferiti, avrei optato per un Garamond e cambiato anche un paio di titoli, ma cerco di frenare il critico che è in me. Metto via il cellulare nella mia borsa porta fortuna; una borsa a tracolla di vera pelle color testa di moro che avrà almeno dieci anni, i bordi lacerati lo confermano chiaramente. Abbasso lo sguardo e mi metto a tirare un filo dei jeans in un punto dove si stanno sfilacciando. Quei Jacob Cohen hanno molti più anni della borsa il che fa intendere che non amo molto lo shopping ma non mi interessa, perché il mio pensiero torna all’imminente colloquio. Finalmente tutte quelle ore passate a studiare siti di redazioni, a seguire corsi e conferenze, a studiare articoli di grandi giornalisti si sta ripagando anche se il ragazzo seduto di fianco a me con cui mi sono ritrovato a dividere per sbaglio il taxi, inizia ad infastidirmi. Parla forte, è visibilmente incazzato e pare ce l’abbia a morte con qualcuno che deve averlo diffamato o qualcosa del genere. Cerco di non ascoltarlo e guardo fuori dal finestrino, mancherà circa mezz’ora all’arrivo alla meta, anche se sono in anticipo di diverse ore, ma preferisco “sondare” il terreno, prepararmi, stare nei paraggi. Le nostre destinazioni sono vicine e mi chiedo dove stia andando esattamente. Mi giro appena per guardarlo. Indossa una tenuta da jogging in uno strano tessuto tecnico e i capelli castano dorato sono tenuti indietro da una fascia. Amo le donne, ma devo ammettere che è un ragazzo molto affascinante. Ora pare stia ascoltando qualcuno che dall’altra parte lo sta probabilmente tranquillizzando ed è in quel momento, quando abbassa la bandana che gli copre parte del viso, che mi si gela il sangue, il cuore batte all’impazzata e inizio a sudare nel maglione antracite dallo scollo a v. “Oh ho” penso. “È lui! Porca vacca è lui!”.

Turno 1: Alberto

“Sì, ok ok ok. Mi dò una calmata. Dai smettila non sono più un bambino. Ma come dove sono? In taxi! Qui di fianco c’è un tipo che sembra vestito dallo stilista di Sgarbi, ma deve aver disegnato quei vestiti senza occhiali, di notte e dopo aver bevuto un paio di Cognac. Hey tassista, cambia marcia che un altro po’ i pistoni vengono qui a ballare il tuca tuca con noi” lo sento dire con arroganza. Faccio finta di non ascoltarlo e, dopo tutto, mi piace questo suo modo di fare. Altri ragazzi si sarebbero arrabbiati ma io, beh io, me la devo giocare bene questa volta anche se, come al solito, apro bocca solo per dare aria e senza minimamente ragionare.

“Scusi, hey, scusi!” gli rivolgo la parola timidamente.
“Dica, Sig. Jacob Cohen” e si gira puntando i suoi occhi direttamente nei miei.
“Oh mio dio, che sorriso, ma quanti denti ha? Settantadue? E sono così brillanti!” penso inebetito ed inebriato dall’averlo qui di fianco a me.
“No, niente, sa…tra poco…io sono…” ed inizio a vedere tutto nero. Non è possibile. Succede ogni volta che la mia adrenalina inizia a scorrere. Mi spengo. È come se qualcuno premesse CTRL + ALT + CANC non appena le mie emozioni superano una determinata soglia. E anche questa volta mi risveglio in una camera d’albergo da quattro soldi e nessuna stella. La testa che vortica come il cuore dell’uragano Katrina nel 2005, il cuore che sobbalza tra il settimo e l’ottavo grado della scala Richter. Cosa ci faccio qui? E soprattutto cos’è successo? Mi sento male. Respira Simone, respira. Ohmmmmmmmm.

Turno 1: Marco

Ho sempre avuto questo problema, fin da quando ero piccolo. Non conto più le volte che questo “lievissimo” contrattempo mi ha messo in imbarazzo e mi ha sabotato. Ad esempio quando mi fecero leggere in chiesa alla mia prima comunione e mi spensi all’improvviso  sbattendo la testa prima sul microfono con un rimbombo infernale e poi sul leggio, quando Giulia Masseri mi diede il primo bacio e svenendo le diedi una testata, durante la mia prima volta con Lucia… vabbè questa è troppo imbarazzante e ve la risparmio, diciamo solo che lei pensò che avessi avuto un infarto durante, neanche fossi un ottantenne. Povera Lucia, quando mi risvegliai stava ancora urlando dal terrore, chissà se da allora è riuscita ad avere una vita sentimentale normale.

C’è però un’altra cosa strana. Ogni volta che ho avuto qualcuno dei miei “episodi” al mio risveglio c’era un dettaglio di quello che mi circondava di cui non mi ricordavo, come se la mia memoria avesse fatto cilecca e avesse cancellato un piccolo ricordo. Per quello mi ero costruito una routine ogni volta che mi risvegliavo. Controllavo il cellulare, facevo mente locale, chiamavo il mio migliore amico per chiedergli se si ricordava cosa avevamo fatto negli ultimi giorni. 

Questa volta non ce ne fu bisogno. Notai sul comodino un biglietto da visita “Patrizia de Paoli. Redazione “Pubblica con noi”. Via Condotti 18. Roma. 0659670029”. E sopra era scarabocchiato a penna un “Spero tu stia meglio. Chiamami. Luca”. Luca? Ma quale Luca? Ma non sarà mica Luca Valdis, il protagonista di “Notti senza luna” che aveva sbancato ai botteghini l’anno prima? Quel Luca Valdis che mi sono trovato ad avere seduto accanto in taxi e che per il quale avevo avuto un blackout appena mi aveva rivolto la parola? E chi aveva fatto il check-in nella stanza d’albergo? Cos’era successo tra quando mi ero accasciato e il risveglio? Mentre ci pensavo, una sirena cominciò a suonare in un angolo della mia mente, sempre più forte: l’incontro in redazione!

Infilai il biglietto da visita nel portafoglio, cercai di non pensarci più, almeno per un po’, e mi diedi una sistemata in vista del colloquio. Non capita tutti i giorni di avere una possibilità di entrare in uno dei principali quotidiani italiani, anche se probabilmente mi avrebbero al massimo offerto un ruolo molto ma molto piccolo. Ma ero pronto a farmi tutta la gavetta necessaria. Presi una pillola dalla piccola boccetta che mi portavo sempre dietro, per aiutare a calmarmi, e uscii dalla porta diretto verso l’ascensore.  

Turno 1: Linda

Quando le porte si aprirono, entrai a testa bassa e vidi una ragazza molto giovane con un’uniforme grigia dalla scollatura ambigua per quel ruolo, ma non per l’hotel. I capelli, legati in un disordinato chignon, erano neri e sottili e aveva gli occhi di un azzurro intenso, troppo intenso per essere vero, ma ciò che mi colpì di più furono i tatuaggi: intriganti ed eccessivi al tempo stesso. Avevo il vago sentore di averla già vista ma non riuscivo a ricordare. E ti pareva. Lei mi fissava, seria e divertita al tempo stesso. Riguardai il biglietto da visita, cercando di ripercorrere gli ultimi eventi. Ma quali eventi se nemmeno ero in grado di ricordarne uno? Forse dovevo chiamare il mio migliore amico. Forse Davide poteva darmi qualche spiegazione. Avevo un importante colloquio o almeno era quello che mi ero messo in testa e non volevo lasciare nulla al caso. 

Presi in mano il cellulare cercando il suo nome in rubrica, quando la ragazza mi rivolse la parola non appena le porte dell’ascensore si aprirono. “Ore fa eri un leone a letto, ora mi saluti a fatica?” e guardandomi con sguardo ambiguo, uscì dall’ascensore lasciandomi a bocca aperta. “Ho fatto sesso e nemmeno lo ricordo?” chiesi a me stesso, lo sguardo stupito e rimbambito e per qualche secondo mi tornò in mente l’espressione terrorizzata di Lucia, la mia ex e la nostra imbarazzante esperienza sessuale.

Scrollai il capo e con un braccio bloccai le porte dell’ascensore che si stavano per chiudere e camminai spedito lungo la hall, tirando su il colletto del giubbino blu per passare inosservato e raggiungendo il bancone per chiedere se dovevo ancora saldare il conto e un giovane ragazzo di colore con una targhetta che riportava il nome Kamir mi guardò stranito. 

“Mi e stato detto che il conto lo deve saldare lei, signore”. Sfoggiai tutta la mia perplessità ma Kamir si mostrò subito efficiente, presentando il foglio del check-in con la mia firma e in quel momento mi mancò il fiato. Non era la mia calligrafia! Allungai la carta di credito incredulo per ciò che avevo appena scoperto, cercando di capire chi avesse firmato al posto mio, poi mi affrettai ad allontanarmi, facendo però cadere a terra una vetrinetta con svariati depliant che Kamir si offrì di sistemare. 

Non appena mi ritrovai all’aria aperta, feci un lungo sospiro. Attorno a me la normale confusione di gente che andava e veniva da un albergo che, confermo, di stelle proprio non ne aveva e poco più in là una pattuglia della polizia che ignorai voltandomi dall’altra parte. M’incamminai verso il lato opposto della strada, finalmente libero, quando delle voci mi distrassero. Mi voltai e vidi Kamir che mi indicava un uomo robusto, che aveva tutta l’aria di essere una guardia di sicurezza o qualcosa del genere, o forse anche no, che mi veniva incontro.

Interazione con il pubblico – Il protagonista, Simone, si trova fuori dall’albergo e ha due opzioni: può scegliere di farsi avvicinare dalla “presunta” guardia di sicurezza e scoprire che cosa vuole oppure può scappare, rischiando però di ficcarsi, probabilmente, in altri guai. Alla serata dell’11 Ottobre il pubblico ha scelto l’opzione 2!

 

Interazione 2 – Mi voltai e vidi che l’uomo era ancora dietro di me e si faceva sempre più vicino. Se correvo, confermavo di nascondere qualcosa. Se mi fermavo, temevo di ficcarmi nei guai. Che cosa mi avrebbe suggerito quel pazzo di Davide? Mi bastarono tre secondi per decidere ed ecco che iniziai a correre quasi avessi un’orda di zombie ad inseguirmi. Mi buttai in strada senza nemmeno guardare, creando un ovvio scompiglio tra il traffico che rispose a tono premendo il clacson e imprecando. L’uomo era sempre più distante ma non accennava a rallentare, così mi ritrovai ad attraversare un parco, scontrandomi con qualche passante fino a quando mi fermai in una piccola via chiusa al traffico, circondato da negozi e passanti. Ripresi fiato, portando le mani alle ginocchia e dopo pochi istanti appoggiai la schiena al muro. “Ricorda, Simone, ricorda!” dissi a me stesso. Iniziai ad essere davvero preoccupato, non mi era mai capitato di avere cosi tanti pensieri confusi. Decisi di dirigermi comunque alla redazione per il colloquio, non volevo perdere l’occasione, ma non appena camminai in direzione della strada principale, il mio sguardo incrociò quello di un poliziotto che mi bloccò all’istante. Era la pattuglia appostata vicino all’hotel. “Ecco, lo sapevo. Ora sono nei guai seri” pensai. Il poliziotto mi chiese i documenti e il mio tentativo di liberarmi da quella situazione fallí quando, con tono serio e duro, mi intimò di fornirgli la mia identità. Mi arresi e portai una mano alla tasca posteriore dei jeans, quando il rumore del mio cellulare lo distrasse e a quel punto lo spinsi contro l’auto e la scavalcai, finendo a terra in maniera ridicola ma rialzandomi subito, correndo come un pazzo. Correvo cercando di resistere al dolore che sentivo nella zona addominale. Mi sentivo sfinito. Recuperai il cellulare e improvvisamente rallentai, sentendomi quasi tranquillo quando vidi un nome amico sullo schermo. Era Davide, ma quando risposi ciò che mi disse non mi piacque per nulla. 

Turno 1: Alberto

“Ma sei completamente impazzito? Cioè…voglio dire… cosa ti sei fumato stamattina? Brutto disgraziato che non sei altro. Io ti organizzo il più fico dei colloqui nella redazione più importante di tutta Roma e tu cosa fai? No davvero, dimmi che pastiglie hai preso per favore che vengo lì e ti cavo gli occhi con un cucchiaino da caffè!” Davide era davvero infuriato. Non l’avevo mai sentito usare questo tono così gracchiante. La sua voce era perfino distorta dall’altoparlante del mio telefono Huawei da quattro soldi. “Davide? Ti dai una calmata per favore? Non so nemmeno cosa ho fatto nelle ultime ore. Per cui…ecco…è sempre un gran casino quando mi sveglio…lo sai…chi meglio di te può capirmi e darmi una mano?”. La mia voce era quasi disperata questa volta. Sembravo un bambino che stava cercando di scusarsi dopo aver rovesciato un vaso di fiori con una pallonata di un vecchio “Tango”. Il silenzio di Davide mi fece continuare il discorso. “E poi cosa vuol dire che TU hai organizzato il colloquio in redazione? Se non mi sbaglio è stato il mio articolo su Notizie da zero! che me l’ha fatto ottenere. E poi che cosa avrei combinato di così eclatante? Dammi delle risposte perchè io proprio non le ho.” dissi con voce decisa. 

“Ma mi prendi per i fondelli, Simone? Ah no, è vero, il mio migliore amico soffre di disturbi di memoria anche se ultimamente mi sembra stiano peggiorando”. Davide aveva cambiato tono di voce. Ci conoscevamo da quando avevamo dodici anni: non eravamo mai stati nella stessa classe e probabilmente era stato quello a legarci ancora di più. Ogni pomeriggio sua mamma andava a lavoro e lo portava da me per fare i compiti, ma puntualmente passavamo le ore a giocare con i giochetti delle moto al computer. Era una lotta continua sulla pista più semplice del gioco solo per limare qualche millesimo sul giro. “Simone, ci sei? O ti sei spento di nuovo?”.
“Ci sono, ci sono. Cos’ho fatto questa volta? Spara”.
“Non so nemmeno da dove partire. Tra pochi minuti avresti dovuto fare un colloquio. Lasciamo stare chi e come l’ha ottenuto, ne parleremo un’altra volta. Dieci minuti fa ho ricevuto una telefonata”.

Interazione con il pubblico – Chi ha chiamato Davide per parlargli di Simone e dirgli che stavolta l’ha combinata davvero grossa? È stata Patrizia de Paoli, responsabile della redazione, oppure Luca Valdis, l’attore famoso che era nello stesso taxi di Simone? Alla serata dell’11 Ottobre il pubblico ha scelto l’opzione 2!

Interazione 2 – “Era Luca Valdis. Ti rendi conto? Era incazzato come una vipera a cui è stata pestata la coda”. Il tono di Simone era fin troppo serio.
“Ma cosa posso aver combinato? Nemmeno lo conoscevo prima di incontrarlo nel taxi.”
“Appunto Simone, come sempre hai fatto i tuoi danni dopo il blackout e prima del tuo risveglio. Mi ha chiamato per dirmi che sua moglie aveva ricevuto una videochiamata. Sai chi è sua moglie vero? È Patrizia De Paoli, quella con cui avresti dovuto fare il colloquio oggi pomeriggio. Mi ha detto che dopo la telefonata di un certo Simone Bonandi che ammiccava sullo schermo in cerca di improbabili seduzioni, Patrizia è uscita dalla redazione e non ha più fatto ritorno.”
“E quindi?” dico io solo per tagliare l’aria e far continuare Davide.
“E quindi ti sei giocato il colloquio. Valdis ha detto le testuali parole: “Dì al tuo amico che se ne può stare a casa sua. Sicuramente Patrizia non lo vorrà nemmeno vedere. Ha già lasciato l’ufficio.” ed è stato gentile.”
“Porca vacca.” non riesco a dire nient’altro.
“Simone, non è la cosa peggiore che tu abbia combinato.”

Turno 1: Marco

“Accendi la tv, lo capirai da solo”. Aggancio la chiamata ed entro in un bar, di quelli in cui di solito si guardano le partite di coppa e chiedo al barista se posso cambiare canale. “Edizione straordinaria. Si infittisce lo scalpore politico rispetto all’articolo apparso per alcune ore sul sito del Corriere. In questo articolo si accusava il Presidente della Repubblica Palladini di essere implicato in un traffico illegale internazionale di armi destinate a teatri di guerra come la Siria e lo Yemen, e di aver intascato ingenti somme di denaro per consentire, in qualità di Capo delle Forze Armate, il trasporto di queste armi su navi della Marina Militare, nascondendole all’interno di casse di aiuti umanitari. L’articolo fa il nome anche del Ministro della Difesa Gandolfi e del Capo di Stato maggiore della Marina, l’Ammiraglio Pancrazi. La società produttrice delle armi sarebbe la Inflimex, con sede a Villamassargia, nel Sulcis-Iglesiente. L’articolo sarebbe firmato da un certo Simone Bonandi di cui potete vedere ora la foto. Raggiunto dai nostri inviati il Direttore del Corriere, Carlo Amendola, afferma che non ci sia nessun Bonandi che lavora nella propria testata, e che si deve essere trattato di un attacco informatico da parte di un hacker e che il Corriere ha già sporto denuncia verso questo Simone Bonandi e verso ignoti. Amendola afferma che potremmo stare assistendo forse a un tentativo di destabilizzazione da parte di servizi segreti, come abbiamo visto recentemente durante le elezioni americane, per riportare il paese alla strategia della tensione degli anni di Piombo. Nel frattempo, l’opposizione ha richiesto chiarimenti al Capo dello stato e chiede le dimissioni dei Ministri e dei militari nominati. Nuovi aggiornamenti nella prossima edizione del telegiornale.” 
Una persona si affaccia all’interno del bar. “Simone Bonandi?”.

Interazione – Chi è il nuovo avventore? Un membro dei servizi segreti oppure un blogger complottista della controinformazione?

Interazione 1 – “Andrò subito al dunque. Chi sono io non è importante, sappia solo che ho a cuore la sicurezza del paese. Non so come lei abbia avuto queste informazioni ma la voglio avvisare che lei è finito nel radar di parecchie persone di diversi paesi e con cattive intenzioni. Chi le ha passato queste informazioni? Sono stati i Russi? Oppure sono stati i Francesi che vogliono sabotare la nostra industria bellica per fare affari con Assad? Naturalmente tutte queste accuse verranno negate e tutto si risolverà in un buco nell’acqua, ma se vuole la nostra protezione, le consiglio di dirci tutto.” Gli diede un biglietto da visita “In quel caso chiami questo numero. E si ricordi, non ci siamo mai visti”.

Interazione 2 –“Che cosa incredibile. Non so come tu abbia fatto ma nel GVV siamo tutti molto emozionati. Scusami, non mi sono presentato, sono Paolo Mitri. Scrivo nel blog “Tutto quello che ci nascondono”, ci occupiamo di controinformazione, per far venire a galla tutto il marcio che in questo paese e in tutto il mondo i poteri forti nascondono sotto il tappeto. Lo sapevi che non solo non siamo mai stati sulla Luna, ma in realtà noi italiani non siamo mai stati nemmeno in Libia? Chi è mai stato davvero in Libia? Conosci qualcuno che sia mai stato in Libia? E allora vedi? Noi di GVV, Gruppo Vere Verità, crediamo che la Libia non esista. Secondo noi Gheddafi era un attore italo-tunisino che era pagato per fare finta di essere un dittatore Nord-Africano. Una enorme campagna di disinformazione in piedi dal 1912. Il grande imbroglio del governo Giolitti. Comunque, ora che il tuo nome è stato bruciato, ti consiglio di mettere in salvo le tue informazioni e noi siamo le persone giuste. Mi diede un biglietto da visita. C’era scritto Mario Petri. “Capirai che non posso dare il mio vero nome. Probabilmente ci stanno ascoltando pure ora. Appena sarai pronto chiama questo numero. Possibilmente da un telefono pubblico se ce ne sono ancora. Li stanno smantellando per toglierci le ultime libertà di comunicare senza essere intercettati. E ricordati, non ci siamo mai visti”. 

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