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Leucemia’s got talent!

Quando ho conosciuto per la prima volta la paura? Esattamente il 9 maggio 2019. Ne avrei fatto davvero a meno, ma lei si è presentata con insistenza e in una maniera del tutto inaspettata…

Non mi ha lasciato senza fiato perché mi avevano rubato l’auto o la borsa in un mio banale momento di distrazione. La paura che ho conosciuto io era perfetta quanto letale, perché mi si è piazzata davanti e si è presentata con una frase dalla musicalità impeccabile: «Anastasia Montebello, tu hai la leucemia».

Come ho reagito io? In quell’istante sono morta. Dentro. Una parte di me è svenuta ai piedi del tavolo, sotto gli occhi del medico dallo sguardo inespressivo, abituato a fare questi annunci come fosse Giuliacci che ci avvisa del maltempo.

Quando però ho ripreso possesso del mio corpo – o almeno di una parte di esso visto che per la maggiore era già nelle mani della “malattia del sangue” – non ho più visto nulla attorno a me. Sentivo solo me stessa parlare con lei.

«Leucemia, ma sei seria?» – Anastasia
«Ti sembro una che scherza?» – Leucemia
«No, no… è solo che mi pare strano. Insomma, ho solo trent’anni!» – Anastasia
«Cioè mi stai dicendo che non sono degna di prendere posto nel tuo corpo? Dovrei trovare residenza in una vecchia mummia del reparto geriatrico? Così mi offendi!» – Leucemia
«Scusa, cara mia, ma qui l’offesa sono io! Ma che ti ho fatto di male?» – Anastasia
«Tesoro, sinceramente nulla. Sei una brava persona, ma non puoi prendertela con me. Non decido io dove abitare. Penso che l’unica cosa da fare sia quella di convivere assieme. Che ne pensi?» – Leucemia
«Non mi pare di avere molte alternative…» – Anastasia
«Ti sembrerà strano detto da me, ma un’opzione ce l’hai» – Leucemia
«Quale sarebbe?» – Anastasia
«Non arrenderti a me. Sono fetente, cattiva, mi odierai con tutta te stessa, ma non smettere di credere nella vita. Fidati…» – Leucemia

…e così ho fatto. E sono ancora qui. Quella stronza aveva ragione…

Questa storia è composta da 8 brevi aneddoti trasformati in racconti. E seguono la storia vera, e il percorso, di Anastasia: dalla scoperta della malattia fino alla ricerca di un donatore per il trapianto di midollo osseo.

Leggi l’episodio 1 – “Pronti.Partenza.Respira

Papà, dove sei?

“La morte è l’unica certezza della vita”.
Molte volte si scherza su questa affermazione, ma è vera al 100%.

E fa male quando hai un incontro faccia a faccia con lei.
È immune alle tue emozioni, se ne sbatte senza alcun riguardo. Puoi supplicare quanto vuoi, ma lei non cambia idea; almeno non è ipocrita, questo è certo! Quando leggiamo in un giornale una tragedia o ci comunicano la morte di qualcuno, proviamo dispiacere, lo troviamo ingiusto ma poi tutto torna come prima, bene o male. E quando è una persona accanto a noi a scomparire all’improvviso, la prima reazione non è il pianto, ma l’incredulità. Lo stupore ha la meglio per pochissimi secondi e solo nel momento in cui ci crediamo per davvero, allora tutto diventa realtà. L’unica differenza è che non aspetti con ansia la morte per spacchettarla e giocarci assieme sotto un albero di Natale.

Perdere qualcuno è difficile e impossibile da evitare. Nonostante tutte le scoperte ed evoluzioni che l’uomo ha raggiunto, non ha mai avuto la meglio su di essa. E forse è meglio così perché viste le produzioni cinematografiche ci ritroveremmo in scenari pieni di zombie, atmosfere apocalittiche e un’umanità molto ostile. L’unica cosa da fare è affrontare la situazione perché la vita, quella gran simpaticona, se ne infischia di cosa abbiamo perso, sia esso un mazzo di chiavi, un amore, un’amicizia. Vita e morte tirano dritto senza guardarsi indietro come il peggiore dei criminali, pestando sull’acceleratore e gridando un bel “Ciaone” mentre ignorano lo specchietto retrovisore. Di proposito.

Atto I
Ottenuto il diploma, come il più stanco dei guerrieri, Frankie depone le sue armi, corrispondenti a zaino e libri, in un baule che non intende riaprire mai più. Una guerra durata oltre cinque anni a casa di due sconfitte, ovvero bocciature che ha causato lui stesso per la poca voglia di interagire con insegnanti e studio, l’hanno tenuto lontano dal traguardo, ma finalmente può definirsi concluso questo percorso obbligatorio previsto dalla legge. Ora può iniziare la ricerca di se stesso e di un lavoro; e al diavolo la matematica, la letteratura e le lezioni di ginnastica. 

Nonostante i tanti divertimenti, passare sei giorni alla settimana in un’aula contro la sua volontà sentendosi dire “…è per il tuo futuro, figliolo…” lo aveva portato al limite, ma aveva pagato il prezzo per la sua libertà e ora si godeva ciò che rimaneva dell’estate dopo aver superato gli esami, pensando a come iniziare la sua nuova vita. Si sentiva come Morgan Freeman nel film Le ali della libertà, ma non aveva nessun amico da raggiungere, eppure aveva il desiderio di iniziare tante cose.

Ispirato dai vari disegni che faceva su carta ma soprattutto al computer, capì presto che l’idea di diventare un grafico gli piaceva molto. Iniziò con lavori in settori completamente diversi, ma a tempo perso realizzava qualche progetto di grafica per qualche azienda fino a ritrovarsi, ironia della sorte, anche dietro a una cattedra come insegnante. Il sapore dell’indipendenza, però, era più appetitoso di una pizza appena sfornata e il piano dell’appartamento in cui viveva con il padre e la sorella era diventato col tempo il suo piccolo studio. Sapeva che era solo all’inizio della sua carriera, ma era una buona base; quello era il suo piccolo angolo di felicità.

Atto II
Una sera di novembre il telefono di casa squillò. Frankie e la sorella non si stupirono nel ricevere una chiamata ad un’ora tarda; con molta probabilità era il padre che li chiamava dall’estero dove si trovava per un periodo di vacanza. Dopo la pensione, aveva continuato a fare qualche lavoretto, ma ogni tanto si concedeva il classico periodo di stacco per godere del tempo libero che aveva.


Frankie raggiunse la sorella, pronto per il suo turno di saluti e soliti convenevoli, ma l’espressione della ragazza era diverso. La fronte aggrottata faceva pensare a una connessione poco stabile, ma i suoi occhi parevano essere sotto il potere di un sortilegio. Frankie si avvicinò per prendere possesso del telefono, ma la sorella gli diede le spalle. Una mano copriva la bocca e l’espressione prima basita ora appariva irrequieta, come se un rumore l’avesse svegliata di soprassalto. Frankie prese con forza il telefono.


«Chi parla?», chiese. Il tono di voce alto rimbombò in tutta la stanza. Quella che udì non era la voce del padre, bensì di uno sconosciuto che all’improvviso tentennò, come se avesse esaurito le parole con la sorella.
«…mi dispiace molto, ma vostro padre è…». Ci fu un momento in cui Frankie non capì se l’uomo avesse riattaccato o se la connessione fosse caduta. Sospirò forte come un bufalo pronto all’attacco, ma poi lo sconosciuto riprese a parlare. 
«Mi dispiace dare questa brutta notizia, ma vostro padre è morto». 

La morte è una farabutta che nessuno vorrebbe incontrare. Mai. Ma se sei tu a cercarla… bè, questa è tutta un’altra storia…
Un uomo, un padre, un grande lavoratore, si era appena tolto la vita.

Atto III
Quando muore qualcuno a te vicino, piangi e ripensi ai bei momenti passati assieme. Consoli e ti fai consolare. Prendi parte al funerale che hai organizzato e mentre i giorni passano, cerchi di andare avanti perché, si sa, la vita ovviamente continua, senza alcuna riserva.

Quando una persona si toglie la vita, però, non smetti di chiederti il perché l’abbia fatto. La domanda risuona nella tua testa di continuo, come un loop da cui non riesci a uscire. Ed era ciò che si era innescato nella testa di Frankie. Dopo la telefonata, la sorella piangeva di continuo, ma il viso di Frankie non era affatto distrutto dal dolore.

Era come se fosse in attesa di ricevere la reale versione della morte del padre: un furto, un incidente, qualsiasi altra cosa ma non un omicidio premeditato verso se stesso; non sapeva cosa pensare. Era come se avesse appena letto una news online che aveva tutta l’aria di essere solo una grande bufala. Abbracciò la sorella e con molto calma, la mise a letto, poi prese una birra, si accese una sigaretta e salì al piano superiore, nel suo studio, e si mise in terrazzo. Immerso nel silenzio e l’oscurità della notte, fissò il cielo provando inutilmente a spegnere il cervello.
“E ora che cosa facciamo?”, pensò. Nessuna risposta. Nemmeno la vita aveva voglia di rispondere…

Non guardò l’ora, non aveva nessun modo di capire quanto tardi fosse. Lasciò la bottiglia vuota a terra e spense la sigaretta premendola nella terra fredda dentro il vaso di una delle tante piante del terrazzo, poi si sdraiò a letto.
“È morto per davvero?”, pensava.
“E ora cosa dobbiamo fare?”, pensava ancora. 
“Dovrei disperarmi? Preparare la colazione a mia sorella? Scrivere ad un amico?”. Era così sopraffatto che non ricordava nemmeno se avessero avvisato la madre. Immaginò tutta la scena dall’inizio, da quando avevano ricevuto la chiamata, ma era come se alcuni momenti si fossero azzerati. Tutto era confuso e non aveva un senso.

Come una reazione a catena, si ritrovò a pensare agli ultimi momenti passati assieme al padre poco prima della sua partenza. Non era contento del divorzio, non l’aveva mai pienamente accettato, ma ciò che lo opprimeva di più era essere irrequieto, come se gli mancassero delle cose da fare e non avesse più né tempo, né occasione per realizzarle. Frankie ricordava i suoi sfoghi, ma non li aveva mai visti come preliminari per un suicidio. Il padre si annoiava spesso, sentiva di voler fare qualcosa di nuovo ma niente di ciò che faceva era sufficiente.

Percepiva una gran voglia di ricominciare, come di una rinascita e un viaggio forse poteva essere il primo mattoncino per iniziare una nuova avventura, ma qualcosa evidentemente era andato storto nella sua testa e aveva chiamato a sé la più stronza degli stronzi. I dettagli non si potevano conoscere. Quanto tempo aveva trascorso su quel terrazzo? Cosa aveva fatto per tutto il giorno? E il giorno prima? Aveva cenato? Aveva scavalcato la ringhiera o aveva fatto leva sul suo peso e la forza di gravità aveva fatto il resto? Il suo ultimo pensiero lo aveva dedicato ai figli?

Atto IV
Per Frankie iniziò un periodo di discesa verso il nulla. L’angolo di felicità era diventato la dimora della tristezza perché tutto in quella casa ricordava il padre e il terribile atto che aveva compiuto. La morte di una persona arreca dolore, il suicidio forse ancora di più, ma la questione più sconcertante è che non puoi concederti il lusso di piangerla in santa pace perché la burocrazia bussa alla tua porta, ti cerca al telefono, ti contatta via email. Ogni portale online e ogni contatto telefonico sono presi di mira perché all’improvviso non sei più un figlio che ha perso un padre, ma sei il nuovo punto di riferimento a cui scaricare eventuali debiti o eredità e a cui inviare fatture per pagare il funerale e portare a termine altre faccende di cui non avresti mai pensato di occuparti.
E non puoi tirarti indietro.

Frankie si sentiva il peso del mondo sulle spalle perché era lui l’uomo di casa ora. Aveva preso in mano la situazione per contenere il dolore della madre, ed ex moglie, oltre a quello della sorella. Aveva convinto quest’ultima a proseguire i suoi studi e a viaggiare come aveva stabilito di fare da mesi. Aveva detto alla madre di non preoccuparsi ed era volato all’estero a nome di entrambe per gestire le questioni familiari. Aveva tante domande in cerca di risposta, ma lo sconosciuto del telefono, rivelatosi il portiere dell’edificio, e i vicini non furono di alcun aiuto. Un uomo, a loro avviso senza alcuna ragione, si era ucciso. Punto.

Anche se ciò che lo assillava di più era la reazione della madre a cui non aveva mai chiesto spiegazioni. Perché non aveva pianto nemmeno una lacrima quando aveva appreso la notizia della morte dell’ex marito? Perché aveva consolato i figli e ascoltato il resoconto della telefonata come fosse un riassunto di una telenovela? Pareva una donna sopravvissuta alla guerra, immune a qualsiasi emozione o dolore. Avrebbe voluto chiedere spiegazioni, ma scelse di non farlo.

Se da un lato temeva le risposte, dall’altra non aveva tempo di investigare al riguardo. Il futuro lavorativo che si stava creando, la voglia di realizzarsi e la ricerca di se stesso erano stati appartati per gestire questioni più grandi di lui. Era segretamente geloso della sorella che studiava e trovava la sua dimensione nel mondo mentre lui era rimasto fermo nello stesso punto. Sentiva un forte senso di responsabilità che gli impediva di prendere altri impegni e di farsi una vita sua appieno, altrove, con qualcun’altro.

Senza rendersene conto, il tempo passava e lui portava avanti la sua vita a grandi falcate, come se fosse obbligato a bypassare alcuni momenti della gioventù per assenza di tempo.

Un’eredità può essere una vera fortuna, ma il altri casi può rivelarsi un totale caos e se Frankie si era immaginato per un attimo come Simba, diventando il re della giungla, ora poteva dirsi fortunato se l’agenzia delle entrate non lo tartassava di raccomandate. Nei momenti in cui i pensieri avevano la meglio, parlava al padre ma le sue parole erano puro astio.

“Perché ti sei ucciso? Perché hai rovinato la mia vita? Stavo creando il mio futuro, ero felice: era proprio necessario uccidersi?”. A volte si sentiva meschino, ma non riusciva a non odiarlo…

Atto V – finale
L’estate era nel pieno della sua esplosione. Faceva troppo caldo per uscire, ma ne valeva la pena piuttosto di rimanere confinati tra divano e televisione. Le giornate si erano allungate, come in ogni stagione estiva, e c’erano molte più distrazioni: feste, sagre, eventi. Ogni motivo era buono per uscire di casa e pensare ad altro. Frankie aveva risolto la maggior parte delle faccende in seguito alla dipartita del padre, ma non aveva ancora ripreso il pieno controllo della sua vita.

Era come se l’uomo che lo aveva cresciuto, e che gli aveva trasmesso la passione per le piante e la cucina, gli avesse ceduto un testimone corrispondente a un carico di responsabilità nei confronti della famiglia. Non era solo un fratello maggiore, ma anche un riferimento per la sorella in ogni sua scelta, mentre con la madre, ad ogni sua telefonata, sentiva l’impellente bisogno di essere utile e finiva per aiutarla anche solo per cambiare una lampadina quando in realtà poteva farlo da sola. 

Un pomeriggio, mentre cercava il gatto, si ritrovò a fissare la camera del padre dalla soglia e rimase basito da ciò che vide. Le lenzuola erano state cambiate, i libri che aveva letto o che forse doveva terminare erano ancora sul comodino, la finestra era aperta a ribalta e le tende tirate in parte per far entrare luce, ma soprattutto non c’era un filo di polvere. Per Frankie era come se nulla, in fondo, fosse mai cambiato. Dentro si sé pensava che il padre prima o poi sarebbe tornato e quel pensiero lo rattristò e infuriò al tempo stesso. Doveva uscire di casa. Subito.

Mentre si aggirava tra uno stand e l’altro del grande festival di musica, alla ricerca dei suoi amici, Frankie si sentiva irrequieto. Non erano i pensieri ad assillarlo, bensì la sete. Era una giornata molto calda: la maggior parte dei ragazzi giravano in canottiera o a petto nudo, alcuni erano persino scalzi. Le ragazze che si muovevano agitate lo ipnotizzavano: quasi nessuna indossava il reggiseno e non ricordava di aver mai visto così tante gambe scoperte; sembrava la sagra del piacere e non un concerto di Goa Gil. 

I suoi occhi cercavano qualche volto amico, fino a quando non si arrese e si recò alla tenda dove aveva pranzato qualche ora prima, alla ricerca di acqua fresca. Si guardò attorno più volte, poi all’improvviso, come fosse Alice che s’imbatte in una boccetta con scritto “Bevimi”, notò una bottiglia su un tavolo. Non si chiese come mai una bottiglia fresca, nonostante il caldo soffocante,  fosse in bella vista: aveva dannatamente sete. Mandò giù diverse sorsate, gli sembrava di inghiottire una cascata, ma poi un urlo lo interruppe e si spaventò come se gli avessero appena puntato un’arma alla testa. Un ragazzo con dei lunghi rasta ed enormi aloni di sudore su collo e ascelle gliel’aveva strappata di mano. «Porca puttana, ora si che sono cazzi amari…».

Il prato era immenso e la musica del dj Goa Gil vibrava persino nelle vene di Frankie da quanto era forte e magistrale. Gli sembrava di ballare in obliquo, sorretto dalle braccia delle persone accanto a lui. Era come se stesse lentamente ruotando indietro per compiere un giro a 360 gradi; forse era davvero così. Pensò che quella giornata fosse spettacolare e iniziò a saltare in alto, incapace di fermarsi. I volti che incontrava gli sorridevano e tutti lo imitavano, come se fosse il punto di riferimento per migliaia di persone accorse lì solo per ballare con lui; a ritmo di musica trance. Non appena chiuse gli occhi, tutto si amplificò all’istante, come se l’assenza di vista permettesse di saltare ancora più in alto e quando riaprì gli occhi, vide che toccava le nuvole e che un’immensa luce bruciava dolcemente la sua pelle.


“Non stavo così bene da tempo… mi sento così felice”, pensò. “Ti ho odiato così tanto, papà… tanto davvero…”. All’improvviso non saltava più, ma fluttuava nell’aria e fissava la folla che lo incitava a tornare indietro, a ballare ancora tutti assieme. Frankie fissò il cielo un’ultima volta, attratto dalla sua disarmante bellezza: non aveva mai visto un’immagine così pacifica, ma sentiva allo stesso tempo una forte attrazione verso il terreno e ancor prima di decidere quale direzione seguire, si sentì di nuovo tirare, ma quando i suoi piedi toccarono terra, non c’era più nessuno attorno a lui.
Dove erano finiti tutti quanti?

«Come sta?», chiese un ragazzo.
«Dorme. L’abbiamo scosso fino a farlo vomitare il più possibile», rispose il ragazzo con i rasta.
«Meno male… che storia, ragazzi! E poi chi ha lasciato una bottiglia d’acqua piena di acidi sul tavolo alla portata di tutti?», chiese allargando le braccia a enfatizzare la serietà della sua domanda. «Era praticamente a cento e passa acidi dall’aldilà!», continuò poi.
«Non ne ho idea, so solo che Frankie è stato proprio fortunato. Qualcuno lassù deve amarlo davvero…».

Fine

Cara amica: si può fare!

“La vita è un magnifico percorso in salita”. E qui mi immagino la vita stessa, nelle sembianze di una persona piegata in due dal ridere, le lacrime agli occhi e un principio di singhiozzo in arrivo.

E come darle torto? Alcuni dicono questa frase con un tono tale da far pensare che, di lì a poco, un sottofondo musicale fatto di archi e violini emerga a volume sempre più alto, ma lo sappiamo bene che è una stupidaggine e che è evidente che queste persone vivano su un altro pianeta o facciano uso di sostanze davvero, davvero molto buone; e sarebbe interessante conoscere il nome del loro pusher. Un classico!

La vita è tutto fuorché una magnifica salita.
È ribelle come Angelina Jolie in Ragazze interrotte.
È romantica come Leonardo DiCaprio in Romeo & Giulietta.
È pazza come Michael Douglas nel film Un giorno di ordinaria follia.
È determinata come Erin Brockovich nell’omonimo film.
È divertente come tutti i film American Pie e ironica come i capolavori di Woody Allen.
Ed è spaventosa come il film Non aprite quella porta o peggio, come tutti i film sugli esorcismi!

Insomma, è tutto fuorché una magnifica linea retta che punta verso l’alto. È una versione elevata al quadrato – moltiplicata per tipo un miliardo – delle montagne russe piazzate nel luna park più assurdo che conosciamo con il nome di terra.
Quando è in vena ci coccola e ci vizia, quando le girano i cinque minuti sono cazzi amari!

Atto I
«Ecco dov’eri sparita!», disse Veronica mostrando un gran sorriso. Sorrideva sempre, come se alla nascita le avessero inserito una precisa impostazione. Giulia la invidiava per questo: a differenza dell’amica, il suo sorriso pareva sempre più simile a una smorfia.
«Stavi scrivendo? Ora?».
«Non c’è un momento giusto per scrivere. Ecco perché ho sempre con me carta e penna».
«E cosa stavi scrivendo?».
«Le mie solite e bellissime cazzate!».
«Ma quali cazzate, tu scrivi proprio bene Giulia e prima o poi qualcuno se ne accorgerà!».
«Ci sono giorni in cui non ci spero più, eppure mi ritrovo sempre a scrivere. Come ora, nel giardino esterno di una discoteca. A proposito, mi sto annoiando da morire!». 

Veronica accentuò il suo sorriso. Le pareva strano che Giulia non si fosse ancora lamentata, anche se aveva tenuto botta più del solito rispetto ad altre volte.
«McDonald’s?», propose Veronica.
«Pensavo non me l’avresti più chiesto!», rispose l’amica, «Scappiamo via da questo asilo, mi sento la madre di ogni bamboccio che vedo».
Erano quasi le tre del mattino quando si avviarono a piedi verso il fast food più famoso del mondo. Avvolte nei loro piumini a buon mercato, affrontavano un vento freddo pur di non trascorrere un minuto di più nel locale alle loro spalle.
«Che serata, eh! Ancora non capisco come mi hai convinto ad andare a ballare».
«Dai, ogni tanto ci sta una serata diversa dal solito».
«Diversa dal solito? Non abbiamo resistito nemmeno due ore in discoteca che siamo già in un fast-food. Tesoro, questo non ti dice niente su come siamo messe? O meglio, su quanto siamo cambiate? Credo che questo sia il nostro addio ufficiale alla vita da discoteca e la conferma che siamo ormai vicine ai quaranta, fidati».
«E da quando siamo così noiose?».

«Forse volevi dire da quando siamo così sagge, non è vero?».
Veronica scoppiò a ridere e per poco non rovesciò il cappuccino sulla brioche al cioccolato di Giulia che cercò di proteggerla con le mani come Smigol faceva con il suo tesssoro. Era diventata molto golosa e Veronica l’aveva ben capito quando un giorno, un orsetto gommoso al gusto fragola era caduto tra il sedile e il cambio manuale, e l’amica aveva accostato lungo una tangenziale pur di recuperarlo; e poi lo aveva pure mangiato!

Ad ogni modo, era una serata come un’altra: chiacchiere, cocktail e cappuccini con brioche, risate davanti a video o post esilaranti. Solo una cosa era all’improvviso cambiata e Giulia la aveva notato subito. Le labbra leggermente serrate, i muscoli del viso tesi come fossero tenuti fermi da invisibili elastici, gli occhi abbassati per evitare di incrociare quelli dell’amica. Il sorriso di Veronica, in quel preciso momento, non era lo stesso di sempre.

Atto II
«Che succede?», chiese Giulia.
«Niente…».
«Uhm, lo sai che se dici niente a un’amica confermi che c’è qualcosa che non va. Un uomo non lo capisce, ma una donna, invece, sì. Avanti, sputa il rospo!». Veronica iniziò a giocherellare con il bastoncino di legno, mescolando il poco cappuccino che rimaneva nel bicchiere di carta.
«Pensavo a quello che hai detto poco prima… Al fatto che siamo ormai quarantenni…». Veronica lasciò la frase incompiuta sotto lo sguardo curioso di Giulia che la fissò scrollando le spalle come fosse un normale cenno a proseguire. Veronica sapeva che l’amica non si sarebbe arresa facilmente. Aveva rischiato di ustionarsi le mani pur di proteggere una brioche e quasi inchiodato l’auto mentre andava ai cento all’ora per salvare una caramella; e non avrebbe di certo lasciato tornare a casa l’amica senza il suo solito sorriso.

«Guardami, che cosa ho combinato di speciale nella vita fino ad ora?». Giulia non rispose, il suo sguardo pareva intento ad analizzare la domanda che aveva appena sentito.
«Dai, Giulia, sii onesta con me: cosa ho concluso di decente nella mia vita finora? Controllo fatture, bilanci e conti bancari da quindici anni e non so fare nient’altro! Arrivo a casa sempre stanca, non ho né tempo, né energie per dedicarmi ad altro. Sono il perfetto esempio dell’inconcludenza! Guarda qui: non ho più voglia di questo cappuccino e ne è rimasto appena un dito. Visto? Non riesco nemmeno a concludere una cosa così semplice. Sono destinata a morire come una vecchia contabile con la gobba e gli occhiali da vista spessi!». Giulia finì l’ultimo boccone della sua brioche senza reagire alle parole dell’amica. Era come se avesse appena ascoltato le ultime notizie del telegiornale e fosse pronta per sparecchiare la tavola. Ora era Veronica quella che scrollava le spalle, irrequieta come un toro alla vista del colore rosso.

«Quindi? Non dici nulla? Sono così patetica?».
«Veronica, calmati! E quale patetica? Si può sapere perché dici una cosa del genere? Non capisco».
«Me lo dicono tutti che sono inconcludente! Inizio una cosa ma poi non la porto a termine. Corso di fotografia. Corso di massaggi. Corso di degustazione dei vini. Corso di pittura. Corso per la gestione dell’ansia. Faccio tanti corsi, ma poi tutto finisce con l’ultima lezione. È come se ricominciassi da capo ogni volta e inizia ad essere frustrante…».
«Frustrante per te o per chi ti sta attorno?», chiese Giulia.
«Scusa, che cosa intendi?».
«Chi sono queste persone la cui opinione pare assolutamente fondamentale?».
«Persone che conosco, amici…».
«Amici…? Senti, Veronica, non capisco perché dai così peso alle opinioni altrui. Ci conosciamo da quasi dieci anni e non ho mai pensato che tu fossi inconcludente o patetica. Sono anni che fai corsi ma dove sta scritto che al termine devi portarli avanti in altro modo? Se non lo fai non succede nulla e comunque non sei inconcludente. Se sono indecisa su quale vino scegliere, ci sei tu. Se ho bisogno di una foto decente, ci sei tu. Se voglio comprare un quadro, ci sei tu. Se mi fa male la schiena, diavolo se so che ci sei tu per alleviare le mie pene e se vado in panico, corso o non corso, ci sei tu. Devo aggiungere altro?». L’amica la fissò inclinando la testa, ancora poco convinta delle parole di Giulia che invece le aveva dette in maniera perentoria, quasi fosse un generale incaricato di dettar legge. 
«È che le loro parole mi hanno colpito e ferita al tempo stesso. E poi come spieghi questa mia sensazione di incompletezza? Io credo che abbiano ragione. Mi è stato detto che se avessi risparmiato soldi invece di fare tutti quei corsi, a quest’ora avrei una Ferrari parcheggiata in garage».

Atto III
Veronica fissò Giulia senza dire nulla. Se da una parte alcune persone giudicavano la sua continua indecisione, dall’altra rifletteva su quanto aveva appena sentito; una parvenza di verità ci stava tutta, in effetti. Fissò il cappuccino ormai tiepido, ma non diceva ancora nulla. Nella sua testa una coda di pensieri peggio di quella della Salerno Reggio Calabria. 
«A che cosa pensi?», chiese Giulia.
«Penso che la vita sia assurda, a volte non so proprio che cosa fare!», rispose Veronica.
«La vita è un treno che non si ferma mai, a volte rallenta, ed è in quei momenti che bisogna cogliere le occasioni».
«Bè, allora io le ho mancate tutte!».
«Sei troppo severa con te stessa, ma cosa te lo dico a fare, sono severa pure io con me stessa. Troppo…». Veronica appoggiò il bicchiere e si sporse in avanti, l’aria di chi sta per ascoltare un succulento gossip.
«Era per dire che non sei l’unica ad avere pensieri per la testa, Veronica! Non cambiamo argomento, stiamo parlando di te e delle paranoie che ti affliggono».
«Giulia, non so che cosa fare».
«Io so che cosa devi fare ed è molto semplice!». Veronica alzò lo sguardo così velocemente che Giulia per poco non sobbalzò sulla sedia. Non si sentiva più la contabile affranta, ma un’avventuriera che stava per ricevere in dono una mappa con l’esatta posizione di un prezioso tesoro, anche se più che un Indiana Jones si vedeva come Dora l’esploratrice! Trattenne l’entusiasmo e si rivolse all’amica con un tono apparentemente annoiato.
«Dimmi pure…».
«Devi fare altri corsi».
«Scusa, mi stai prendendo in giro?».
«Certo che no! Ti pare?».
«Ancora corsi?».
Se vuoi capire cosa ti appassiona per davvero è un’ottima strada».

Veronica alzò gli occhi al cielo, lo sguardo perso nel vuoto. La mappa del tesoro ora aveva la parvenza di un inutile straccio con una spennellata di rosso a forma di “X” in un punto qualunque.
«Insomma, come puoi sapere cosa ti piace o in cos’altro sei brava se non fai nulla per capirlo? E poi chi sono queste persone che ti dicono che sei inconcludente? Tesla? Richard Branson? J.K.Rowling? Forse visti i loro traguardi, la loro opinione richiederebbe una certa attenzione, ma in ogni caso nessun giudizio deve minare la tua fiducia. E poi hai mai pensato che forse non hai ancora trovato la cosa che ti piace per davvero? Non tutti la trovano al primo colpo e se non fai più tentativi, non la scoprirai mai. Questo è poco ma sicuro!».
«Il punto è che dicono…».
«Il punto è che devono stare zitti! C’è qualcosa che ti piace fare? Tra tutte le cose che hai provato, intendo».
Veronica guardò Giulia come se ne avesse davanti una dozzina, gli sguardi intimidatori in attesa di risposta, e non sapesse quale fosse quella a cui rivolgersi.
«Mi piace dipingere, ma…».
«Bene, allora fammi un quadro!».
«Come scusa?».
«Hai fatto un corso di pittura! A quanto pare ti piace, quindi… fammi un quadro. Hai un mese di tempo».

Atto IV
[Giulia]
Mentre rientrava a casa, Giulia era felice di aver sollevato il morale dell’amica. Il solito sorriso era tornato al suo posto: missione compiuta! Eppure, un sottile velo di tristezza l’avvolgeva dalla testa ai piedi e, ironia della sorte, si sentiva col morale a terra che Veronica, in confronto, era un’esplosione di energia.

Quando si trattava di motivare gli altri, trovava sempre le parole giuste, ma quando pensava a se stessa, l’unica voce che rimbombava nella sua testa era quella che le diceva che poteva fare di più. Pensava che alcune buone occasioni le fossero capitate – il famoso treno che rallenta ad un certo punto della vita – ma riteneva di non aver fatto abbastanza per godere appieno di quelle chance e anche se non lo aveva ammesso a Veronica, anche per lei raggiungere i quaranta era un traguardo che incuteva una certa ansia. Aveva un lavoro discreto. Un grazioso monolocale. Un conto bancario non male, eppure percepiva che mancava un tassello per sentirsi completa.

E a quel punto emerse un dubbio: forse le sue parole non avevano avuto alcun effetto. Forse Veronica non avrebbe dipinto nessun quadro.

[Veronica]
La prima cosa che fece Veronica non appena arrivò a casa, fu di appoggiare borsa e giacca sul divano ed entrare nella camera che fungeva da studio/magazzino dove buttava tutto ciò che non ci stava altrove. I suoi occhi si muovevano come quelli di un gatto attratto da una luce in continuo movimento. Prese in mano alcuni barattoli di colore, poi cercò i pennelli e dispose tutto davanti a sé su un tavolo bianco.

Si voltò di nuovo ed esaminò quante tele avesse: il risultato fu zero. Non si sorprese più di tanto. Quelle che aveva acquistato le aveva usate durante il corso e poi, giunta l’ultima lezione, come da tradizione, aveva smesso di acquistare materiale. Prese il cellulare per confermare gli orari di apertura del negozio dove si era rifornita e decise che l’indomani sarebbe andata ad acquistare una tela.

Le parole di Giulia l’avevano risvegliata da uno stato rem in cui ignorava di essere finita e mentre fissava il soffitto debolmente illuminato dalle luci dei lampioni, la coda di pensieri in stile Salerno Reggio Calabria sparì per lasciare spazio a una sola domanda. “E ora che cosa dipingo?”.

Atto V – finale
«Pronto!», rispose Giulia con un tono particolarmente felice.
«Ciao Giulia, come va?».
«Bene, dai, sono in centro. Serata di scrittura».
«E cosa scrivi di bello?».
«Le mie solite e bellissime cazzate, dovresti saperlo».
Veronica rise e in quel momento Giulia immaginò il suo sorriso, doveva essere proprio luminoso, ma qualcosa la fece voltare alle sue spalle. Era come se la telefonata avesse uno strano richiamo o forse era solo la connessione ad essere pessima: colpa dell’imponente Basilica Palladiana?
«Dove sei?», chiese Veronica.
«Al solito locale in Piazzetta delle Erbe».
«Ah, sì, ora ti vedo», e in quel momento riattaccò, senza distogliere lo sguardo da Giulia che, invece, continuava a guardarsi attorno curiosa, come se di lì a poco dovesse correre per urlare “Tana per Veronica” dopo averla individuata nel suo nascondiglio.

Avvolta nel suo piumino nero, camminava verso il locale con la stessa spavalderia che probabilmente aveva mostrato Alessandro Magno durante le sue molteplici conquiste e non appena si fermò davanti a Giulia, le porse un oggetto incartato con vecchie pagine di giornali dalla forma rettangolare e una dimensione che oscillava tra i trenta o quaranta centimetri per lato.

«E questo che cos’è?».
«Il tuo quadro».
«Stai scherzando?», chiese Giulia.
«Niente affatto. Tu mi hai dato un mese di tempo per dipingere qualcosa. E l’ho fatto!».
Veronica non ci poteva credere. Non era mancanza di fiducia nell’amica, solo non pensava che l’avrebbe presa sul serio. Sentì il petto scaldarsi e una bellissima sensazione salire fino alla gola. Era commossa.
«Aprilo quando sei a casa, da sola. Sappi solo che è così che io ti vedo». Si salutarono con un forte abbraccio, poi Giulia rientrò nel locale per la serata di scrittura e Veronica sparì oltre la scalinata della basilica.

Poco prima di mezzanotte, Giulia si ritrovò seduta sul letto a stringere il pacchetto che conteneva il quadro che Veronica aveva dipinto per lei. Era molto curiosa ma voleva godere ancora qualche secondo di quella bellissima agitazione che si crea quando stai per ammirare la concretezza di un piccolo sogno.

Cercò una qualsiasi piccola apertura tra i vari pezzi di giornale e, lentamente, ruppe la carta facendo attenzione a non toccare il quadro. Si accorse di averlo aperto dal lato rovescio e la cosa la intrigò ancora di più perché aspettò di liberarlo del tutto dall’involucro, poi lo strinse forse tra le mani e dopo pochi istanti, lo girò.

“Questo è di gran lunga migliore di una Ferrari…”, pensò.

Fine

Uno sclero di troppo!

Chi ci fa ridere e piangere più di tutti, a volte allo stesso tempo?
Chi ci stupisce all’improvviso, stravolgendo i nostri piani?
Chi ci fa scherzi di continuo, uscendone sempre impunito?
La risposta, se ci pensate, la conoscete bene: la VITA.

Mentre siamo nel posto più sicuro al mondo, ci sfrattano lasciandoci nudi e tra le braccia sconosciute di una persona vestita con un camice monouso che ci passa da una postazione all’altra fino a quando, ormai esausti di urlare la nostra indignazione, veniamo cullati da una persona più sconvolta e distrutta di noi. E a quel punto capiamo di non essere soli al mondo.


Gli occhi di quella persona ci guarderanno per il resto della nostra vita. Alcuni perderanno la loro magia, ci abbandoneranno. Altri, invece, ci osserveranno sempre, per proteggerci.
A volte, però, nonostante tutte le cure e le attenzioni, gli occhi non possono percepire il dolore di una persona. Non perché non se ne accorgano, ma perché a volte il dolore si manifesta così lentamente che solo una paralisi a metà del corpo conferma che qualcosa non va e che la vita, amata e controversa quale è, ha davvero un subdolo modo per dirti che oggi le cose cambieranno…

Atto I
A un mese dalla scadenza del contratto di lavoro in una ditta di autonoleggio, le cose cambiarono radicalmente. Giulia aveva uno strano presentimento e nonostante le avessero confermato il rinnovo del posto di lavoro, a voce, qualcosa nella sua testa continuava a farla dubitare. Le risposte semplici ma evasive, il capo che la cercava meno del solito, il sorriso spezzato di alcuni colleghi con cui di solito scherzava davanti alla macchinetta del caffè. Era come se fosse tornata al suo primo giorno di lavoro, con la differenza che la conoscevano molto bene. E, ironia della sorte, a far venire a galla la verità, fu una giovane ragazza che si presentò in un normale giorno di lavoro per fare un colloquio. E nella testa di Giulia, partiva il primo vaffanculo di quella giornata.

Una lite scoppiata inizialmente al telefono, proseguì in maniera drammatica dal vivo. Giulia discuteva con il suo capo che non pareva preoccupato per l’ambigua situazione che si era creata. Era come se tutti stessero recitando un ruolo e lei fosse l’unica ignara di quale fosse il copione.

Ad ogni modo, non si riuscì a raggiungere alcun accordo e la discussione rimase in sospeso. A quanto pare il capo non aveva nulla da dire, per lui era il destino a essere ingiusto, non lui. Il secondo vaffanculo era scoppiato nella testa di Giulia che prese le sue cose e se ne andò, delusa e amareggiata. E la sera, dopo aver gridato nella sua testa un terzo vaffanculo perché il semaforo era diventato rosso a mezzo metro da un incrocio, ne arrivò un altro quando era chiusa nella sua stanza.

Questa volta, però, non era pieno di rancore e non lo disse finalmente a voce alta come un chiaro e forte sfogo liberatorio; lo pensò come si pensa che manca il latte in frigorifero. I genitori al piano di sotto guardavano la televisione. In casa si percepivano pochi rumori, ma se si ascoltava attentamente, si poteva sentire il respiro di Giulia: pesante e agitato come se qualcosa la stesse soffocando. Non era un vaffanculo che non aveva il coraggio di gridare. Era il suo corpo che chiamava aiuto. La parte sinistra non rispondeva ai comandi del cervello e dalla faccia al piede, tutto pareva caduto in un sonno profondo.

Atto II 
Abbracciare il proprio compagno e sapere che una nuova vita iniziava era un sogno che diventava realtà. La ditta di autonoleggio era diventata una delle tante informazioni nel curriculum. La lite con il capo un brutto ricordo. Il dolore provato quel giorno solo un terribile episodio di stress. Questo era stato diagnosticato dal medico che le aveva dato il via libera per realizzare qualsiasi cosa volesse, perché in realtà per lui era in buona salute. E così aveva fatto Giulia, nonostante i dubbi della madre i cui occhi percepivano altro. Non voleva, però, spaventare la figlia con le sue supposizioni e l’aveva lasciata partire per consolidare un rapporto a distanza con l’uomo che amava.

E mentre il tempo passava, Giulia non capiva come mai la vita non andasse come aveva immaginato. I cinque anni di distanza l’avevano unita a un ragazzo che le aveva promesso tante cose, ma era come se la sua presenza in casa fosse un impedimento. Il compagno rincasava tardi, era spesso stanco, si rivolgeva a lei come se avesse un numero limitato di parole al giorno. Se prima lo scambio di messaggi e le chiamate erano un modo per compensare la distanza, ora parevano comunicazioni di guerra.

Ed era solo una questione di tempo prima che la situazione scoppiasse in una dura lite che portò la parte sinistra del suo corpo a bloccarsi ancora, ma questa volta in maniera più aggressiva. Giulia aveva la sensazione di essere bloccata dalle braccia di dieci uomini. E questa volta non servirono gli occhi di sua madre per farle capire quanto la situazione fosse drammatica. Prese le sue cose e scappò nel posto più sicuro al mondo: la casa in cui era cresciuta. 

Atto III
Pochi giorni dopo, una donna di mezza età accolse nel suo studio Giulia e la madre. Aprì loro la porta e la chiuse alle sue spalle senza smorzare nemmeno per un secondo il suo sorriso. Indicò loro dove sedersi e si accomodò solo quando entrambe erano comodamente sedute. Prese in mano una cartella e consultò alcuni dati al computer. Giulia non voleva essere lì.

Aveva confermato da poco le ferie nel sud Italia ed era il suo unico pensiero, nella speranza di dimenticare gli ultimi mesi orribili che aveva vissuto. Sedeva composta come una brava alunna solo per compiacere la madre e fissava di continuo l’orologio appeso al muro alla sua destra. Mentre ipotizzava quanto tempo avrebbe trascorso lì dentro, la dottoressa si rivolse a lei, il solito sorriso accompagnava ogni sua parola. 

«Come stai oggi, Giulia?».
«Molto bene, grazie dottoressa».
«E dimmi, come ti sei sentita ultimamente?».
«Ho passato dei mesi difficili. Ho perso il lavoro e ho rotto con il mio fidanzato. Non ho preso bene queste notizie e credo che lo stress mi abbia letteralmente travolto».


La dottoressa la ascoltava e ogni tanto annotava qualche informazione su un piccolo blocco dalle pagine color crema. Giulia non aveva notato nulla in quella donna, ma la madre invece sì. Il sorriso, i gesti cordiali, il fare molto affabile: tutto emanava energia positiva, ma se la si guardava bene, i suoi occhi dicevano tutt’altro.

«Ora, Giulia, ti farò tre domande. Potranno sembrarti strane, ma tu pensa solo a rispondere, va bene?». Gesticolava molto, le sue mani si muovevano come se stesse eseguendo un incantesimo.
«Dunque: dopo aver fatto la doccia, hai la sensazione di aver fatto una lunga corsa?».
«…sì».
«E a volte ti capita di farti la pipì addosso?». Silenzio, o meglio, imbarazzo.
«Non sentirti a disagio, sono domande di routine per noi medici». Era impossibile sentirsi fuori luogo di fronte a quella donna; avrebbe potuto anche parlare di diarrea e farlo suonare come il migliore dei simposi.
«In questo caso, allora, sì…».
«E durante i rapporti sessuali, hai mai notato se eri poco lubrificata?».
«Dottoressa, io credo che dipenda da…». La dottoressa fissò Giulia inarcando le sopracciglia, per rassicurarla nuovamente.
«…allora la risposta è sì, di nuovo».

La donna la ringraziò e annotò le ultime informazioni sul blocco, poi emise un verdetto inaspettato. Giulia non riusciva a crederci. Le erano state accordate le ferie e aveva aggiunto che al suo rientro avrebbero fatto alcuni esami, ma non doveva assolutamente preoccuparsi. Ora doveva solo pensare a rilassarsi e godersi sole e mare.
Questo a volte fanno i dottori. Rassicurano una persona mentre con gli occhi parlano a una madre e le fanno capire che c’è qualcosa che non va. Decisamente. Purtroppo. Senza alcun dubbio…

Atto IV
L’estate ha davvero qualcosa di magico, perché riesce ad allineare ogni cosa. Il sole scalda la pelle, la brucia quasi, ma allo stesso tempo regala una sensazione di benessere. Mentre illumina ogni cosa, è come se ricostruisse ciò che si era crepato dentro di noi. E il vento fresco della sera conclude ciò che il giorno non ha finito e ci cura meglio di qualsiasi medicinale. Cammini in mezzo a una folla, mangi un gelato al limone e zenzero, ascolti la musica mentre guardi la gente ballare e ti sembra tutto deliziosamente perfetto. Persino i messaggi del tuo ex suonano diversi: l’amore è riemerso e forse la storia può ricominciare, più forte di prima. E tu ci credi davvero. Perché il sole ti ha rincuorato ogni giorno. Il vento ti ha accarezzato mentre alleviava le tue ferite. E tu hai deciso che una seconda possibilità la meritano tutti.

La magia, però, è destinata a vivere a breve. Ti concede tutta se stessa quando ti incontra, ma poi ti saluta e non appena chiudi alle tue spalle la porta di casa, la sensazione di una brutta notizia in arrivo ti avvolge in un abbraccio che tu ignori, proprio come quello di un uomo che hai capito, non ami più. I dubbi si insinuano nella tua testa, ti sembra di essere in bilico su una fune. Conosci ogni singolo aspetto della tua vita, o quasi, da lì sopra, ma se cadi di sotto non sai cosa potrà accadere.


C’è un vuoto infinito? Un terreno su cui ti schianterai? O al contrario, qualcosa di meraviglioso? Forse Giulia non avrebbe mai fatto quel salto, ma non sapeva che c’era qualcosa che stava per farlo al posto suo. La dottoressa la chiamò per un secondo incontro dopo aver visto i risultati degli esami. Giulia si ritrovò assieme alla madre in una saletta dalla luce rarefatta. Il silenzio che le circondava era quasi spaventoso, come se si trovassero in un’area dell’ospedale abbandonata. Era assurdo come fossero entrate accompagnate da un sole accecante mentre ora una pila sarebbe tornata utile per fare più luce. Il verde scuro di porta e pareti, inoltre, non migliorava lo scenario attorno a loro e Giulia iniziò a percepire una strana sensazione. Era come se quella saletta fosse stata allestita in base alle notizie che a breve avrebbe ricevuto e quando si ritrovarono di fronte alla dottoressa, non c’era bisogno di dire nulla.

In quel momento sembrava la cosa peggiore da sentire, ma non fu nulla in confronto a ciò che accadde quando lo disse al suo compagno; un ex che tale avrebbe dovuto rimanere.
Gli aveva riassunto ciò che la dottoressa le aveva riferito, degli esami, delle cure che avrebbe dovuto seguire da ora in poi; insomma, gli aveva detto che la sua vita stava per cambiare e aveva bisogno del suo sostegno. E come se l’avesse appena condannato a una punizione ingiusta, lui diventò una figura sempre più assente e la frase “Non so come aiutarti e starti vicino” fece più male di una paralisi perché si sa, un cuore spezzato ferisce più di ogni altro dolore.

Ritrovarsi con le valigie, una seconda volta, davanti alla casa dei genitori, era come essere arrivati a due caselle dalla vittoria e aver pescato una carta che riportava alla partenza. Giulia passò giorni a piangere, non sapeva che altro fare. Era sola, senza un lavoro, con il cuore spezzato e una malattia che forse non le avrebbe concesso il lusso di soffrire al buio per espiare il dolore e rimettersi in piedi. Si sentiva in bilico, di nuovo, su quella fune che pareva non volerla lasciare andare per nulla al mondo…

Atto V – finale
L’interferone diventò per Giulia lo zucchero della sua vita. Era ciò che le serviva per compensare alla guaina mielinica che mancava nel suo corpo e che, di conseguenza, non rispondeva ai comandi del cervello. Il giorno della prima iniezione sembrava un ritrovo per assistere a uno spettacolo teatrale. L’intera famiglia si era riunita per supportare Giulia e, con suo incredibile stupore, c’era anche il compagno; un probabile senso di colpa doveva averlo spinto a partecipare. Lei non ci diede tanta importanza, tutta la sua preoccupazione era riversata sull’operazione che stava per eseguire su se stessa mentre la dottoressa, come un bravo maestro Miyagi, le spiegava la procedura; e la noiosa scena del “Metti la cera, togli la cera” sembrava a tutti gli effetti una migliore alternativa a quel momento.

Le iniezioni non le avrebbe eseguite un medico esperto, ma sarebbe stata lei a provvedere alla sua salute: trattandosi di un farmaco auto-iniettabile, e quindi sicuro, così andava fatto e senza grandi riserve. I parenti stavano in piedi da un lato, mentre Giulia e la dottoressa al centro della stanza si preparavano per la dimostrazione. Per un attimo sorrise tra sé e sé: stava praticando una sorta di harakiri alla sua gamba e le sembrava tutto dannatamente assurdo. L’ago era ormai vicino alla pelle quando un rumore improvviso interruppe quel drammatico momento: il suo compagno era svenuto a terra e l’harakiri fu rimandato per rianimare un povero deficiente.

Quell’episodio sarebbe diventato un aneddoto molto apprezzato in futuro, ma Giulia ancora non lo sapeva. Aveva capito che non esisteva alcun futuro con lui, questo era certo, ma forse poteva essercene uno per lei. Avrebbe eseguito un’iniezione ogni quattordici giorni e avrebbe sopportato qualsiasi dolore perché non era nulla in confronto al rapporto che si era risparmiata di vivere con il suo ex. Un uomo che si rivelò essere solo un narcisista e che la chiamò dopo diverso tempo per farsi consolare dai dolori di un’operazione al naso che lo faceva soffrire tanto. Giulia aveva agganciato il telefono come se avesse risposto l’ennesimo operatore telefonico pronto a offrirle un grande affare.

Il sospetto che la malattia si fosse realmente manifestata a causa di un rapporto malato, di un finto innamoramento, del sentirsi completamente assuefatta da un’altra persona la tormentava, ma era andata come era andata, ora doveva solo pensare a sé stessa. Aveva iniziato ad interessarsi alla malattia per capire come affrontarla nel più sereno dei modi. Se doveva conviverci, voleva vederla come un errore temporaneo cui poter rimediare col tempo: un taglio di capelli sbagliato, un inutile abbonamento annuale alla palestra, un libro dalla copertina intrigante ma dal contenuto banale di cui dover scrivere un dettagliato resoconto. In questo modo, la malattia perdeva potere e di conseguenza diminuivano le paure.

La famiglia, per sua fortuna, fu la migliore ancora di salvezza perché ognuno di loro si faceva in quattro per supportarla. Nonostante i battibecchi e le giornate storte, ognuno di loro, a suo modo, era presente. Giulia continuava a documentarsi e prese parte persino ad un summit. La malattia era il suo principale interesse d era diventata una sorta di sua stalker; vederla in questo modo quasi la divertiva. Sfogliando pagine online e cartacee, acquisiva di volta in volta qualche informazione nuova e la lavagna appena sopra alla scrivania riportava tutti i sintomi legati alla malattia e la cosa era diventata quasi esilarante perché con un pennarello segnava da un lato quelli di cui soffriva  e quelli che forse avrebbero potuto presentarsi; praticamente un sadico gioco tipo “Celo-Manca”!

La cosa che più la colpì fu il fatto che la sclerosi multipla, nonostante ogni tanto la isolasse dalla realtà, per una strana ironia della sorte, le aveva fatto fare quel salto dalla fune che non si era affatto rivelato una rovinosa caduta a terra. Aveva visto la sua vita amorosa da un altro punto di vista e aveva compreso che non coesistevano più due dolori, perché se la sua parte sinistra ogni tanto non rispondeva al cervello, i battiti del suo cuore erano stabili e finalmente liberi di battere al ritmo che volevano. 

Fine

Un padre all’improvviso

A 21 anni, a distanza di circa cinquant’anni dall’anno 2000 in poi, non lavori già da cinque anni in un’azienda. Non stacchi alle sei per tornare a casa, togliere il cappello, allentare la cravatta e annunciare il tuo arrivo.

E tua moglie non ha appena sfornato lo stufato e dato da mangiare al figlio mentre si lamenta dei dolori alla schiena per l’attesa del secondogenito.

A 21 anni, a distanza di circa cinquant’anni dall’anno 2000 in poi, hai un diploma e quasi nessuno che ti prenda sul serio. Devi avere esperienza appena uscito dalle superiori perché altrimenti il tuo curriculum diventa carta straccia. Vivi con i genitori, esci con gli amici, sogni un futuro diverso dalla realtà; e una piccola parte di te invidia l’uomo col cappello e la cravatta, almeno lui un lavoro ce l’aveva.

A quell’età hai l’illusione di avere un tempo infinito davanti a te. E nonostante la frustrazione professionale, il pensiero di non essere abbastanza o di non aver concluso ancora nulla di concreto, sai che almeno ti puoi godere la vita.

Ma lei, lo sappiamo tutti bene, è dotata della più sadica tra le ironie e quando meno te lo aspetti, in un pomeriggio dove godi dell’amore della tua compagna, è già lì, tra le lenzuola, le dita intrecciate, i gemiti. E come una goccia d’acqua tra le crepe di un muro, trova sempre una via d’uscita; spesso nel più improbabile dei modi.
Ed è qui che inizia la storia di Christopher.

Atto I
La prova di lavoro nella fabbrica di compressori ad aria non era andata bene, ma Christopher non era dispiaciuto. Aveva l’aria, anzi, di chi apprende una bella notizia e rilascia un sospiro di sollievo tanto atteso. Dai primi giorni aveva capito che quel lavoro non faceva per lui. Tutto gridava “C’è qualcosa che non va” e alla fine la voce nella sua testa aveva avuto ragione. Nonostante tutto, Christopher era fiducioso che una buona opportunità di lavoro sarebbe arrivata. Consultava gli annunci, chiedeva ad amici, insomma: si adoperava per migliorare la situazione.

L’appartamento in cui viveva con la compagna e i due cani era piccolo e confortevole, ma ogni mese il proprietario batteva cassa e un solo stipendio da commessa non era sufficiente a coprire ulteriori spese, oltre a quella dell’affitto. Mantenere alto l’umore non era facile, ma questo non impediva al nostro protagonista di nutrire speranze. La svolta sarebbe arrivata, doveva essere così, prima o poi, ma la goccia tra le crepe della sua vita aveva appena concluso il suo percorso e Christopher intuì presto come si sarebbe manifestata.

Se prima consumava i pasti con regolarità, ora quest’azione era molto variabile. A volte una forchettata di pasta o un boccone di carne innescavano una smorfia sul suo viso alquanto discutibile. Fare quei pochi metri dall’auto all’appartamento per portare la spesa la stancava al punto di drenare una bottiglia di Gatorade in meno di un minuto e l’essere accusato di non aver messo nel verso giusto il rotolo di carta igienica erano tutti chiari segni che non solo si era liberato il Kraken, ma che qualcosa di meraviglioso e allo stesso tempo decisamente inaspettato, era accaduto. Una gravidanza era in corso…

Atto II
“Niente panico!”, aveva pensato Christopher. Dentro di sé urlava come fosse inseguito da uno sciame di api. All’esterno, era premuroso e più disponibile di un concierge per agevolare la compagna nella gestazione. Tutto proseguiva in maniera piuttosto lineare, ma solo perché le rispettive famiglie non sapevano ancora nulla. Come avrebbero preso l’annuncio di un bimbo in arrivo? I film mentali che immaginava non avevano fine, ma la più probabile era un’equa divisione alla Montecchi-Capuleti. E questa versione fu la realtà, perché se da un lato vigevano euforia e calici di champagne, dall’altra tensioni e preoccupazioni facevano da sfondo a un futuro incerto.

Per Christopher, però, la speranza era sempre, e in assoluto, l’ultima a morire. Un credo che ripeteva a sé stesso ogni giorno, come una medicina da prendere a stomaco vuoto e con costanza, per mantenere lucida la mente e raggiungere una situazione migliore, in tutti i sensi. La parte tragica di vivere di speranza è che non la puoi usare per pagare i conti e dopo pochi mesi la realtà batteva cassa più del proprietario di casa. Christopher fu costretto a dare via i due cani, a liberarsi di oggetti di cui poteva fare a meno e infine, dovette sgomberare l’appartamento per non rischiare lo sfratto. E ancora una volta, la vita si faceva beffa di lui, con un gran sorriso ironico, di quelli che ti fanno venir voglia di prendere a pugni persino il sole.

L’inguaribile ottimismo, ancora integro e sufficiente per lui, la compagna e il bimbo in arrivo, li costrinsero a trovare rifugio a casa dei genitori di lei. Christopher vedeva con occhio positivo questo trasferimento: era un’opportunità per rimettersi in gioco e dormire con un tetto sopra alla testa. Non aveva avuto molte alternative a quella scelta, ma non si sentiva un fallito, assolutamente. Doveva solo trovare un lavoro e nel giro di pochi mesi avrebbe ribaltato la precaria situazione. Era felice: desiderava farsi una famiglia e solo perché quanto voleva non era accaduto secondo i suoi tempi, questo non conferiva meno valore a ciò che aveva. Tutto si sarebbe raddrizzato a suo favore; impegno e pazienza sarebbero stati presto ripagati. “Si, certo… come no…”, e questa è la vita che parla…

Atto III
L’impatto. Lo spavento. Il fiato spezzato. I battiti del cuore che picchiavano contro il petto. E un probabile cadavere. Dal parabrezza deformato, Christopher non riusciva a vedere la scena davanti a sé, ma era chiaro che qualcosa di grave fosse accaduto. Stringeva le mani al volante così forte da sentirle doloranti. La gola pareva occlusa, come se qualcosa si fosse incastrato al suo interno e anche se non ne era certo, forse stava tremando. Per qualche istante rimase paralizzato da ciò che pensava fosse successo. Non era ancora sceso dall’auto, la paura era troppa. Cosa c’era in mezzo alla strada? Perché diverse persone fissavano tutte lo stesso punto e alcune portavano la mano alla bocca? Perché c’era così tanto silenzio? 

«Christopher?». Il suo nome risuonava come un eco lontano. Nonostante il vetro crepato, sembrava che una luce stesse illuminando l’ambiente circostante.
«Christopher?». La voce sembrava più vicina e ora una mano gli toccava la spalla. Un angelo? Gesù? O direttamente Lucifero? Qualcuno lo scrollò sempre più forte e in un battito di ciglia, l’abbagliante luce scomparve, la voce che pareva un eco diventò familiare come anche la mano che cercava di farlo tornare in sé.

Christopher si voltò alla sua destra e vide la compagna fissarlo preoccupata. Il panico che aveva trattenuto con la scoperta della gravidanza ora esplodeva feroce. La speranza non era lì con lui, se ne era andata subito dopo l’impatto; forse anche prima. Le sue mani stringevano il pancione della compagna alla ricerca di un calcio, di un battito, un qualsiasi segno che il bimbo stava bene. Ci vollero diversi minuti per calmarlo, lei gli dovette ripetere più volte che stava bene e che non riportava ferite, poi lentamente lo convinse a scendere dall’auto. La folla attorno a loro era sempre più numerosa.

Davanti all’auto, a qualche metro di distanza, il corpo di un uomo era disteso a terra; non si muoveva. Christopher si sentì prendere per mano e con forza fu trascinato fino al centro di un incrocio. Osservava i vetri sparsi sulla strada, una bici a terra, la persona che aveva investito e forse ucciso. Nessuno però parlava con lui, alcuni nemmeno lo fissavano. Gli sembra di essere come Bruce Willis nel film Il Sesto Senso: lui era lì ma non lo potevano vedere. Lentamente riprese possesso del suo corpo e venne nuovamente calmato dalla compagna. Chiamò i soccorsi, la polizia, cercò aiuto.

E dentro di sé rideva isterico. Solo qualche giorno prima era piovuta dal cielo un’opportunità di lavoro che richiedeva la sua presenza l’indomani per un colloquio. Portò le mani alla testa e per la prima volta percepì l’amaro gusto del fallimento. Mesi fa, la vita lo aveva privato dei cani, dell’appartamento, di un po’ di dignità. Ora continuava il suo diabolico disegno e gli toglieva l’auto, la patente, uno sbocco professionale, ma soprattutto la speranza. Tutta quanta. Non ne lasciava nemmeno una briciola. Era qualcosa di intangibile ma per lui significava tutto… 

Atto IV
Il 12 febbraio 2012 la famiglia che Christopher aveva desiderato stava prendendo forma. Negli ultimi mesi aveva stretto i denti, tirato la cinghia e ricostruito la speranza perduta impegnandosi più duramente di prima. La compagna incinta lo portava al lavoro che aveva – miracolosamente – ottenuto; forse un risarcimento da parte della vita visti le ultime “sorprese” che gli aveva riservato. Era consulente per le vendite all’interno di una palestra e il ruolo gli piaceva, lo trovava piuttosto stimolante, però la convivenza forzata con i suoceri, il tetris di impegni da incastrare alla perfezione e la voglia di indipendenza erano tanti elementi da gestire, ma tra alti e bassi Christopher era riuscito a destreggiarsi nonostante notti insonni e momenti in cui pensava di non farcela.

A volte si sentiva sopraffatto dal peso che doveva affrontare ogni giorno, ma da un lato gli sembrava che il muro apparso d’improvviso il giorno dell’incidente stesse lentamente svanendo. L’uomo che aveva investito era vivo e non aveva riportato gravi fratture, la gravidanza era progredita con i più classici dei sintomi come nausea, piedi gonfi e pipì ogni mezz’ora. Insomma, la quiete dopo la tempesta. 

Diventare padre era una cosa del tutto nuova che prendeva forma di giorno in giorno e con essa cresceva anche il timore di non essere in grado di occuparsi di un bambino, di scaldare il latte alla giusta temperatura o anche solo di capire di che cosa aveva bisogno quando piangeva; tutti dicevano che si distingue il tipo di pianto, ma Christopher pensava che sarebbe stato più facile scoprire una nuova teoria sulla relatività! Il corso pre-parto fu come frequentare un doposcuola punitivo: costretto su una sedia ad ascoltare un’ostetrica parlare di tanta teoria che per lui non aveva senso.

L’unica costante che gli teneva compagnia era l’ansia nel dover sborsare i soldi per le visite e il suo mantra personale era sempre lo stesso: “È per il bambino, è per il bambino, è per il bambino… che ansia, Dio mio che ansia… è per il bambino!”. E come tutte le cose programmate, quando arriva il fatidico momento, non sei mai pronto ad incontrare tuo figlio, o meglio, figlia. Christopher lo aveva scoperto alla seconda ecografia. Inizialmente pareva dovesse essere un maschio e si era già immaginato con lui allo stadio, durante una partita dell’Inter mentre ora la sua immagine si era distorta e lo vedeva seduto a prendere il tè mentre tentava disperatamente di spiegare il fuorigioco alla figlia usando barbie e peluche. 

Quando raggiunse l’ospedale dove la compagna era già stata accompagnata dai genitori, non aveva idea che avrebbe trascorso lì dentro le diciotto ore più lunghe di tutta la sua vita. Si sentiva come dentro a un circo, dove tutti avevano un ruolo preciso tranne lui. Non aveva un bambino da partorire, non aveva strumenti da sterilizzare o un ginecologo da assistere e non aveva le competenze per seguire un parto.

Osservava cosa succedeva attorno a sé e ascoltava ogni singolo termine tecnico come fosse un tirocinante in procinto di dare un esame. “Maledetto corso pre-parto! Non ricordo un ca**o!”, urlava nella sua mente. Stava in piedi di fianco alla compagna e ogni volta che schiudeva le labbra per parlare, lui era pronto a esaudire ogni desiderio pregando di non svenire dall’agitazione; sarebbe stato un brutto scherzo da parte della vita che difficilmente le avrebbe perdonato.

Massaggiava la schiena della compagna sino a perdere sensibilità alle dita. La rinfrescava con un panno umido per calmare le caldane, stringeva la mano quando le contrazioni si facevano più forti. Insomma, sembrava il momento giusto, ma ancora niente bimba. Si era immaginato un parto disperato, dove magari un dottor House appariva brontolando su una diagnosi poco promettente e invece nulla, a tratti provava persino noia, ma più di tutti si sentiva… inutile.

Atto V – finale
Urla di dolore. Momenti di incertezza. Un cambio di tre ostetriche. Un parto che pareva non avere fine. E l’insostenibile sensazione di essere solo un passante perché la tua compagna rispondeva solo ai dottori e ormai stringeva la tua mano come fosse un palo di un autobus. Christopher non capiva più nulla. I termini tecnici giravano nella sua testa senza un senso. Epidurale. Poca dilatazione. Cesareo. “Ma che cosa sta succedendo?”, pensò quasi stizzito. “Perché non fate nascere la mia bambina?”.

Nella sua testa era vestito in tenuta militare e teneva in bocca un sigaro come Arnold Schwarzenegger, pronto a mitragliare tutto lo staff alla minima incertezza, poi si sentì tirare per un braccio. La compagna lo stava attirando a sé. «È tutto a posto. Sta succedendo che stiamo per avere una bellissima bambina. Stai qui con me: meglio un parto doloroso con te che senza di te». Christopher non si era accorto di aver parlato a voce alta e in un attimo gli si strinse il cuore, la sua presenza era fondamentale. Bastava solo esserci…

Fu deciso di procedere eseguendo un piccolo un taglio per agevolare il parto. La compagna sgranò gli occhi e le smorfie di dolore per qualche secondo scomparvero dal suo viso, ma Christopher la tranquillizzò subito accarezzandole la fronte. «Andrà tutto bene, io sono qui», e fece cenno col capo a un’ostetrica che si avvicinò subito. «La prego, mi dica cosa devo dire alla mia compagna per aiutarla. Voglio essere io a farlo. Mi dica cosa devo dire, la prego… non voglio assistere e basta», disse sottovoce. Nonostante la mascherina e la cuffia, era evidente che la donna stessa sorridendo e si avvicinò al suo orecchio. «È proprio un bravo padre. La tranquillizzi e quando le faccio un cenno le dica che deve spingere come se stesse facendo la cacca».

Christopher rimase trasecolato. Si era immaginato qualche frase di grande forza motivazionale, come in un film di Hollywood, e invece il suo copione prevedeva una frase adatta a una pubblicità per i dolori intestinali. Si fece coraggio e con tutto il fiato che aveva in corpo pronunciò la frase con lo stesso entusiasmo di Leonardo di Caprio quando sulla prua del Titanic urla di essere il re del mondo. L’unica consolazione era non trovarsi faccia a faccia con la sua compagna, anche se ancora oggi, dopo dieci anni, ha ancora il dubbio che il morso non fosse per il dolore ma una punizione per aver pronunciato una frase davvero imbarazzante.

Alle ore 18 del 12 febbraio 2012 era accorso in ospedale e alle ore 14,30 del 13 febbraio 2012 una bellissima bambina era nata e un aneddoto divertente stava già prendendo posto nella sua testa perché poter raccontare di come un primario aveva tirato fuori la testa della bimba con una ventosa che somigliava molto a uno sturalavandino era davvero spassoso e magari un deterrente per i potenziali e futuri corteggiatori. La cosa più disarmante era che Christopher si sentiva felice per la prima volta nella sua vita.

Nonostante l’incidente, i sacrifici, i fallimenti e le sorprese che la vita gli aveva riservato, stringere tra le braccia la sua bambina era come avere tra le mani pura bellezza, gioia e gratitudine. La sua compagna riposava, i capelli sudati sulla fronte. E lui fissava quei 3,200 kg di dolcezza che erano parte di lui. Per pochi secondi gli sembrò di essere padrone del tempo e della vita, perché nulla poteva destare maggiore interesse. E si ritrovò a ridere da solo, una piccola risata di cuore, perché se prima si era sentito inutile, ora lo sarebbe stato ancora di più.

Insomma, si sa che chiunque accorra dopo una nascita si concentra sulla madre e in questo caso sulla sua piccola principessa, ma andava bene così. Lui sarebbe stato presente alla prima poppata, al primo cambio di pannolino (perché spettava a lui l’onore), alla prima pappa rigurgitata. E poi ai primi passi, ai pianti isterici per la scomparsa dell’ennesimo ciuccio, ai primi giorni di asilo, di scuola e a discutere con un agente di polizia per le pesanti minacce al primo ragazzo che aveva osato invitarla fuori per una pizza e un cinema. Ora c’erano due donne nella sua vita e avrebbe spesso sbagliato a dire la cosa giusta nel momento sbagliato, ma come aveva capito il giorno del parto, l’importante a volte è esserci.

Fine