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AAA. Cercasi cadavere

Dal libro “642 idee per scrivere” del San Francisco Writer’s Grotto, ho selezionato alcune idee e ho chiesto, tramite un post su Instagram, di scrivere il primo pensiero che veniva in mente. Ho poi selezionato le tre risposte che più mi piacevano per trasformarle in racconti.

Come abitudine di Wanted Stories, ho fatto dei sondaggi per far scegliere quello che più ispirava per iniziare a scrivere e associato due domande a risposta aperta per avere a disposizione un paio di input da inserire nel racconto.

In questo caso, e in base al testo vincente, ho richiesto:
Quale segreto nascondono le due donne? Un cadavere 
Quale lavoro svolge Michela? È un’investigatrice

Qui di seguito il testo scritto da michela_m68 e a seguire, il racconto che ho sviluppato, ispirato proprio ad esso! Buona lettura!

Una famiglia (non la tua) che viveva nella via in cui sei cresciuto”Fino all’età di 12 anni sono cresciuta al primo piano di un piccolo appartamento. Ci abitavamo noi e due sorelle che erano anche proprietarie dell’intero stabile. Erano una vedova e una signorina, molto legate tra loro in un modo un po’ inquietante, come se nascondessero un segreto. Giocavo sul pianerottolo e a volte salivo e mi fermavo davanti alla loro porta e le ascoltavo parlare. A volte bussavo e si dimostravano generose: mi offrivano sempre caramelle e dolcetti. A distanza di anni ho capito che mi hanno trasmesso quella curiosità e voglia di indagare che mi appartiene tuttora.

L’auto si addentra in una zona residenziale, e si allontana lentamente dalle vie che ospitano negozi e locali. La strada che divide Michela dalla sua destinazione è minima ormai, mentre il tempo che l’ha vista lontana dallo stabile che sta per raggiungere è di gran lunga maggiore. Il collega parcheggia l’auto e si china in avanti, l’aria incerta. Alti palazzi dalle mura grigie circondano la strada e un velo di mistero piomba all’improvviso tutto attorno; è come se la città si fosse spenta al loro arrivo. «Ma dove siamo finiti?». La domanda è retorica, anche se l’espressione che gli si stampa sul viso pare reclamare risposta. «Chiudiamo questo caso in velocità, non ho alcuna voglia di passare l’intera giornata qui». L’uomo si avvicina al portone, fissa il civico, poi abbassa lo sguardo su un foglio e si rivolge a Michela.
«È questo lo stabile, ultimo piano. Andiamo».
«Ci penso io, non preoccuparti», risponde. Lui la fissa stranito, ma dal suo sguardo percepisce che sotto quella gentilezza si nasconde un ordine. Prende un pacchetto di sigarette dal taschino interno della giacca e se ne accende una, buttando fuori una gran nuvola di fumo. È sollevato dal non dover gestire un interrogatorio che voleva proprio risparmiarsi.

Michela appoggia la mano sul ruvido legno del portone che risulta aperto e che si apre emettendo un cigolio. Sale le scale piano, quasi avesse dei pesi alle caviglie. Ogni dettaglio attira la sua attenzione. Osserva con curiosità come le cose appaiono ai suoi occhi a distanza di trent’anni. Le scale presentano qualche crepa in più lungo il bordo sporgente. La ringhiera è arrugginita ma per nulla impolverata, come se venisse pulita regolarmente. Le pareti bianche si presentano ingiallite e l’intonaco in alcuni tratti è scrostato. A ogni passo, un tassello del passato fa capolino nella mente di Michela e in un lampo si rivede dodicenne mentre corre su e giù per le scale o gioca sul pianerottolo con l’amica del palazzo di fronte.

E quasi senza rendersene conto, è davanti alla porta d’ingresso dell’appartamento dove abitano le due donne. Non suona il campanello, ma rimane in attesa, proprio come faceva da piccola, quando la sua curiosità la spingeva a tendere l’orecchio per sentire cosa accadesse al suo interno. È passata da poco l’ora di pranzo e un silenzio che non le è per nulla familiare la confonde, perché le due donne erano sempre impegnate a fare qualcosa. Michela lo trovava strano e si era chiesta più volte cosa combinassero; persino la notte, prima di addormentarsi, percepiva i passi sul pavimento. Era come se per loro stare ferme determinasse il manifestarsi di una catastrofe.

Michela scuote il capo, scrollandosi di dosso i vecchi ricordi, poi suona il campanello. Sente qualcosa che striscia sulla porta, forse qualcuno la fissa dallo spioncino, poi si ritrova faccia a faccia con una donna dai capelli neri e qualche ciocca grigia che le regala un immenso sorriso. «Salve, posso aiutarla?». Michela non risponde, è travolta dall’emozione. Non vede una sessantenne con le rughe in fronte e l’aria stanca. Ai suoi occhi, appare la trentenne che le regalava sempre qualche caramella. Le teneva raccolte nel palmo della mano come fossero qualcosa di prezioso. In assenza di risposta, la donna ripete la domanda. «Mi scusi… Buongiorno, sono Michela Berico. Sono un’investigatrice». Lo dice come se fosse lo slogan di una pubblicità di un prodotto dalle caratteristiche promettenti. La donna si stringe nello scialle e chiede spiegazioni, più incuriosita che intimidita dalla sua presenza.
«Vede, signora…».
«Mi chiami Beatrice, la prego. E comunque non sono sposata…».
«Mi scusi… Beatrice, seguo il caso della scomparsa di un uomo, Antonio Perri, cinquantuno anni, vive in questo quartiere da circa un anno. L’ultima volta è stato visto in questo stabile e da alcune testimonianze pare che frequentasse spesso questa casa. Le dispiace se entro per farle qualche domanda?».

La donna spalanca la porta senza esitare e le fa cenno di entrare quasi avesse piacere della sua compagnia.
Michela si guarda attorno e trattiene un sorriso. Per lei si è appena scoperchiato il vaso di pandora perché solo ora si ritrova a soddisfare una curiosità che ha avuto per trent’anni: visitare l’interno dell’appartamento delle due sorelle dal fare così misterioso. La casa pare un museo: carta da pareti a tema floreale, nei toni del rosa e del verde, fanno sembrare l’ambiente un caldo e luminoso giardino. Un divano e due poltrone, in tessuto damascato, occupano il centro del salotto e i mobili in legno hanno un aspetto molto più vecchio delle proprietarie. La luce che entra dalla portafinestra crea un’atmosfera rilassante, quasi surreale; è come se una volta entrati, si fosse superato un confine che porta in un altro mondo. A Michela pare quasi di sognare.
«Dunque, che cosa vuole sapere?», chiede la donna.
«Io… lei… ehm… in che rapporti era con il signor Perri?». La domanda inizia con titubanza, ma si conclude con un tono serio.
«Lo conoscevo appena, in realtà. Ci aiutava con qualche lavoretto in casa, sa… caldaia, lavatrice. Quegli aggeggi si rompono senza motivo a volte».
«Ha detto ci… vive con qualcuno?».
«Mia sorella».
«È in casa?». Beatrice fa cenno di sì col capo.
«Potrei parlare anche con lei?». La donna non risponde. È come se quella sua reazione volesse intendere un chiaro no, ma poi sparisce lungo un corridoio ed entra in una stanza, chiudendo la porta. Percepisce delle voci e quella che pare una discussione. Fa qualche passo verso il corridoio, ma si arresta di colpo quando dalla stanza escono Beatrice e un’altra donna.

«Buongiorno, sono Milena. Mia sorella mi ha detto che è qui per parlare del signor Perri». Senza rendersene conto, Michela si lascia scappare un sorriso. La donna che ha davanti pare non essere cambiata per nulla. Giunonica, i capelli castani legati nel solito chignon composto, gli occhi piccoli e marroni, la fossetta sulla guancia destra. E l’immancabile eleganza non tanto del suo abbigliamento, dettato da un vestito di cotone rosa sotto a un cardigan beige, bensì dai suoi gesti. Le braccia poggiano sul ventre arrotondato, le mani unite e le dita intrecciate; la postura rigida che rimanda a quella delle ballerine di danza classica.

«Sì, vede signora, la vittima è scomparsa da quasi una settimana e alcune testimonianze portano a voi. Siete le uniche persone ad abitare qui e…». Milena la interrompe per offrirle un caffè che Michela accetta volentieri, prendendo posto sul divano, mentre le due donne siedono di fronte a lei sulle poltrone. Ora che Milena è entrata in scena, pare che Beatrice sia solo un oggetto in più ad arredare il salotto.
«Il signor Perri è stato qui un paio di settimane fa. Abbiamo avuto problemi con la caldaia. Ha cenato da noi. Raramente accettava di essere pagato e ogni tanto lo invitavamo a fermarsi a cena. Non possiamo dire di conoscerlo bene, era una persona di poche parole. In ogni caso, per quel che ne so, se ne è andato da qui con le sue gambe e respirava ancora!».

Lo dice sporgendosi in avanti e spalanca gli occhi come affermazione di ciò che ha appena detto mentre sorseggia il suo caffè. Regge il piattino con una mano, mentre con l’altra accompagna la tazza alla bocca con una invidiabile compostezza. «A suo avviso, poteva essere turbato per qualcosa? Ha notato nulla di strano in lui, quella sera?». Beatrice beve il caffè in silenzio, ha occhi solo per Milena. Stringe la tazza con entrambe le mani e beve come se fosse l’unica cosa che sappia fare. «Direi di no. Abbiamo cenato e chiacchierato del tempo, ma nulla fuori dall’ordinario».

Michela chiede qualche dettaglio in più sulla serata e Milena risponde con una prontezza incredibile ma lentamente le parole si disperdono quando nota un oggetto su una mensola. Un vaso in vetro lavorato, largo quanto un piatto da dessert e lungo una ventina di centimetri. Sembra contenere piccole pietre preziose, ma Michela sa bene che quelle palline colorate sono caramelle. Le stesse di trent’anni fa che le due donne le rifilavano quando capitava alla loro porta o le incrociava sulle scale mentre giocava. Qualcuna la mangiava subito mentre le altre le nascondeva per soddisfare momenti di golosità improvvisa. Milena continua a parlare, ma Michela finge di ascoltare, travolta dal passato cui non pensava di essere così tanto legata.

Ricorda i sorrisi di Beatrice e la mano a coppa piena di caramelle, l’aria fragile ma affettuosa, che la incoraggiava a giocare fuori di casa. “In questo modo si rimane giovani sempre!”, diceva. E Milena, con il suo fare regale e composto, la salutava con un cenno dello sguardo e le rare volte in cui le rivolgeva la parola era per chiederle cosa studiasse a scuola e aggiungeva sempre qualche titolo di un libro o citazione di qualche personaggio importante di cui però, all’epoca, Michela ignorava l’esistenza. Era grazie a quei brevi incontro che si era fatta la tessera per la biblioteca. Da lì era nato il suo amore per i libri e aveva sviluppato una curiosità a dir poco insaziabile. E questo l’aveva portata a fare l’investigatrice. Il rumore della tazza che sbatte sul tavolino la riporta alla realtà.

«Questo è quanto posso dirle, né io né mia sorella lo abbiamo più visto». A quel punto Milena si alza e d’istinto lo fa anche Michela, seguendola in silenzio quando con un gesto la invita all’ingresso. «Mi dispiace di non esserle di aiuto». I loro sguardi si incrociano per qualche istante e la mente di Michela cede di nuovo perché si vede una bambina sulla soglia dell’appartamento delle due sorelle, curiosa di sapere la loro storia. Qualunque cosa, ma niente che abbia a che fare con il signor Perri.
«Buona giornata», dice Milena e prima che Michela possa rispondere, Beatrice la raggiunge e le porge una mano. Il palmo pieno di caramelle.
«Tenga, ma non le mangi tutte in una volta». Il sorriso della donna è una stretta al cuore e mentre Michela stringe il dono prezioso, la porta si chiude e un silenzio improvviso pervade il pianerottolo.

«Un’altra giornata buttata al vento. Te lo dico io che è successo. Quel tizio si è ubriacato ed è finito in qualche fosso. Dicono che a volte ci desse dentro col bere. Ecco che fine ha fatto il nostro caro Perri… Che caso noioso, non capisco perché hai voluto prenderlo in considerazione…», dice il collega mentre guida, l’aria scocciata e la sigaretta stretta tra le labbra. Michela lo guarda e si limita a sorridergli. Non dice nulla in merito al polso arrossato di Beatrice, dei segni sul pavimento come se qualcosa di pesante fosse stato trascinato, del forte odore di candeggina che invadeva il pianerottolo. Rigira una caramella tra le mani e pensa che è da molto tempo che non visita una biblioteca.

Fine

Traffic

Rebecca è una giornalista, ma prima di tutto un’idealista. Vuole giustizia, sempre! E quando le capita una buona storia, non si tira indietro. È pronta a tutto. E lo sa bene che ci saranno conseguenze, perché c’è sempre un prezzo da pagare. Solo, a volte, il rischio è fin troppo alto.

STORIA INTERATTIVA

Ho sperimentato un Cadavere Squisito, il racconto scritto a più mani, con una nuova recluta: Aldo Ferrarese. Un ragazzo con una storia di vita molto interessante che si è divertito in questo gioco di scrittura! E come primo debutto assieme, piuttosto soddisfacente ho lanciato come input una breve frase. In seguito, poco prima della stesura del finale, abbiamo chiesto al pubblico come dovesse proseguire la storia e ha vinto l’opzione “Svolta inquietante con omicidio”. E ognuno di noi ha scritto il suo finale!

Buona lettura!

“Ci scusi tanto signorina, c’è stato un errore nel database. Questo successo non è suo, lo deve restituire. Ci scusi sa, a volte capita anche a noi di sbagliare”.

(Input di Linda Moon)

Turno 1 Linda

Rebecca fissava l’ambiente davanti a sè che pareva aver perso ogni colore. Teneva gli occhi incollati sullo schermo del cellulare, incredula di ciò che aveva appena letto. In un lampo sentì una strana sensazione al petto che raggiunse la gola e le fece quasi mancare il respiro. Aveva lentamente smesso di camminare e si era fermata al centro del marciapiede, noncurante delle persone che dovevano deviare il percorso per non urtarla. I suoi occhi erano sgranati e allibiti. Il corpo rigido come un tronco d’albero. Solo i lunghi capelli castano chiaro si muovevano seguendo il leggero vento che aveva da poco spazzato via le nuvole per lasciar spazio ad una bellissima giornata di sole. Ma le condizioni atmosferiche erano l’ultimo dei suoi problemi. Si trovava a pochi passi dalla destinazione che a breve l’avrebbe vista al centro di in un’intervista in diretta nazionale. 

Ce l’aveva fatta! Questo le era stato comunicato tramite email appena una settimana prima quando aveva ricevuto l’esito del concorso letterario cui aveva partecipato inviando il suo romanzo. Ora però asserivano il contrario e anzi, reclamavano indietro quel successo che, a quanto pare, non era meritato.


Turno 1 Aldo

Come cavalli imbizzarriti, pensieri ed emozioni litigavano per ottenere la sua attenzione. «Pazzesco! Mi hanno preso in giro! Era troppo bello per essere vero! E ora vogliono pure distruggere la mia credibilità. Troppo strano che la mia denuncia e le mie indagini  fossero state accolte con tanto interesse. Maledetta critica! Fasulla e legata ad interessi e poteri che non tollerano la verità». Rebecca era furibonda. Se prima volevano premiarla per il suo lavoro, ora di sicuro qualcuno voleva ridicolizzarla in diretta nazionale.

Chiuse gli occhi fino a che una luce bianca e potente fece piazza pulita di ogni pensiero e paura. Ora sapeva cosa doveva fare. Si asciugò le lacrime e percorse velocemente i pochi passi che la dividevano dalla redazione. Varcò la soglia, indossando il sorriso più radioso. Strinse mani, scambiò saluti ed esibì la propria femminilità ed il suo essere donna. Sentiva crescere forza e determinazione dentro di sé e quando, dopo i soliti convenevoli, prese finalmente la parola, esordì decisa. «Signori, vi ringrazio, ma non posso accettare questo premio, e non farò nessuna intervista».

Turno 2 Linda

Lo staff della redazione la guardò allibita. Chiesero subito spiegazioni, ma Rebecca lì interruppe e raggiunse l’uscita più veloce della luce per fuggire a domande che voleva evitare. Non sapeva se aveva fatto la cosa giusta. Sapeva solo di essere incazzata come mai lo era stata in tutta la sua vita ed era decisa a capire come mai la situazione si era capovolta. Aveva scritto un buon libro, ne era certa, ma ora tutto sembrava crollare come un castello di sabbia che si sgretola per il forte vento. Si affrettò a rientrare a casa e, portatile alla mano, iniziò a cercare delle risposte.

Passò in rassegna ogni suo contatto del settore del giornalismo, ma ben presto capí che non avrebbe concluso nulla. Internet o le email scambiate con gli organizzatori del concorso non avrebbero dato le risposte che cercava. Eppure doveva scoprire che cosa fosse successo. Si strinse nelle spalle, mostrando un amaro sorriso all’appartamento che non vedeva l’ombra di straccio e scopa da almeno una settimana, poi l’illuminazione. C’era ancora una persona che non aveva contattato.


Turno 2 Aldo

Si affrettò a cercare il numero di Riccardo, un vecchio contatto dell’editoria, e fissò un appuntamento per il pomeriggio. Si conoscevano poco ma la stima era tanta e reciproca. Riccardo apprezzava gli articoli che lei pubblicava e  il suo cercare sempre la verità, anche quella più scomoda. Rebecca, dal canto suo, lo riteneva una persona unica e speciale. A cinquant’anni suonati, Riccardo aveva scelto di dedicarsi ai più bisognosi e da dieci continuava a farlo senza sosta. Gestiva un giornale intitolato Sulla strada di cui era direttore, redattore e giornalista. Il settimanale veniva distribuito in esclusiva sui marciapiedi dai barboni al costo di un euro che a volte diventava qualcosa di più, a seconda della bontà delle persone. Lo scopo era fare beneficenza, ma ne godevano anche il contenuto che trattava svariati argomenti: attualità, politica, interviste a persone che volevano far sentire la loro voce.

Arrivata in redazione, Riccardo accolse Rebecca in una stanza occupata per la maggior parte da libri e riviste accumulati in ogni angolo e tutto era impregnato di fumo. Riccardo si presentò alla ragazza in jeans e maglione, con i capelli spettinati  di un castano ormai sbiadito. Si sposava in maniera perfetta con il disordine che dominava l’ambiente. Rebecca invece, con il suo elegante tailleur e fresca di acconciatura, appariva fuori luogo ma non esitò a prendere posto sulla traballante sedia di legno. “Ho scritto un libro, Riccardo, un buon libro, che avrebbe dovuto vincere il premio Bancarella. Quando già mi aspettavano i giornalisti per l’intervista, mi è stato comunicato che non avevo vinto. Penso che qualcuno di influente si sia messo in mezzo per ostacolarne la pubblicazione”. Lui stava in piedi davanti a lei, appoggiato alla scrivania, le braccia incrociate. 

«E dimmi, Rebecca, che cosa vuoi da me?». 

«Voglio che stampi il mio libro. Voglio che venga distribuito nelle strade. Non mi interessa il profitto, voglio solo che la gente sappia la verità. E forse questo è l’unico modo». Riccardo la fissò in silenzio. Girò attorno alla scrivania e si accese una sigaretta, poi si sedette. «L’idea mi piace e sai che ti darei il mio appoggio a occhi chiusi ma…» e buttò fuori una grande nuvola di fumo «…che cosa hai scritto di così scandaloso?».

Turno 3 Linda

In meno di cinque minuti Rebecca gli aveva spiegato tutto. Delle sue ricerche. Di ciò che aveva scoperto. Delle denunce e del marciume che girava nelle strade della loro amata città. Nel suo libro metteva in luce la gestione del traffico di esseri umani. Delle povere donne che venivano ingannate, rapite e trasportate da  paesi stranieri come semplice merce di scambio.

«Allora, Riccardo, farai girare questo libro nelle strade?» chiese con voce tremante, come se tutto ad un tratto dubitasse anche di lui. Nell’ufficio l’unico rumore era quello della carta da giornale che veniva mossa a tratti dal vento. Il puzzo di fumo era diventato quasi insopportabile e Rebecca trattenne il respiro, ma non appena vide un sorriso sul volto dell’uomo non ci fece più caso. «Sappi però che corri un grande rischio e che probabilmente ti attaccheranno e non parlo solo a livello professionale…».

Lasciò in sospeso la frase per darle il tempo di realizzare che la sua folle idea avrebbe salvato molte vite, ma compromesso la sua. Rebecca rimaneva ferma immobile, sicura di ciò che voleva fare. «Macchieranno il tuo nome, la tua reputazione e con molta probabilità ti verranno a cercare». A quel punto Riccardo appoggiò i gomiti sulla scrivania, in attesa di una sua risposta. Lei lo fissò con un velo di tristezza ma era chiaro che non fosse per timore di rischiare la vita. Dentro di sé piangeva per le povere vittime che ancora non erano state salvate. «Lascia che mi trovino, non ha alcuna importanza».


Turno 3 Aldo

Rebecca uscì dalla redazione stanca ma contenta per aver trovato in Riccardo l’aiuto di cui aveva un disperato bisogno. Era però consapevole che quell’incontro avrebbe cambiato per sempre la sua vita. Si salutarono amichevolmente sulla soglia mentre fuori si era fatto buio. Nel suo elegante completo, si avviò verso casa e mentre camminava lungo la strada, non potè non notare il degrado del quartiere. Al lato opposto, donne che arrivavano da chissà dove si esibivano con falsa allegria in attesa di clienti. Una macchina si fermò per ripartire poi in velocità dopo aver fatto salire una ragazza, probabilmente minorenne. Un uomo in bicicletta urlò oscenità mentre passava loro davanti.

Poteva vedere i volti di alcune di loro tristi e allo stesso tempo vuoti, quasi fossero prive di un’anima. Gli occhi le si fecero lucidi e una lacrima corse lungo la sua guancia. Non appena vide un taxi lo fermò e mentre saliva non potè fare a meno di immaginarsi dall’altro lato della strada, in quelle condizioni terribili. In quel preciso istante decise che non sarebbe indietreggiata di un passo. Non avrebbe avuto paura, né permesso a nessuno di metterla a tacere.

Finale di Linda Moon

Finale di Aldo Ferrarese

Doppelgänger

Quando apro gli occhi noto un foglio di carta sulla scrivania.
Anche se è ancora notte, la debole luce che passa dalla tapparella rotta mi permette di vedere l’altro lato della stanza.

Mi sollevo a forza, nonostante l’eccitazione per scoprire cosa ci sia scritto sopra a quel foglio. Cammino scalza trascinandomi a fatica. Le gambe sembrano pesanti come se avessi dei pesi legati alle caviglie. Indosso solo una t-shirt bianca dal collo slabbrato con la scritta ormai scolorita, ma è pur sempre una maglietta dei Nine Inch Nails. Cazzo che gruppo! Ricordo come fosse ieri l’emozione che mi hanno regalato al loro ultimo concerto. Ma quando ci sono stata? Anzi, da quanto sto dormendo?

Mentre cerco risposta alla domanda, stringo tra le mani il foglio. Porca vacca! Ho superato l’esame di storia dell’arte contemporanea. Dopo due anni e tredici tentativi, improvvisamente sono riuscita a superarlo. Strabuzzo gli occhi incredula. Provo una sensazione di immensa gioia ad aver raggiunto una meta che mi sembrava ormai irraggiungibile. Ricordo di averci rinunciato e ora invece “boom”… mi ritrovo a stringere un foglio che elogia la mia eccellenza nella materia. Porto una mano alla bocca, l’emozione è forte, ma in un istante piango e straccio il foglio, riducendolo a brandelli. Urlo. Urlo forte. Mi sentiranno i vicini? Anzi, dovrebbero sentirmi? Non lo so. Mi sento confusa, agitata. L’ansia torna a farmi visita e con la stessa struggente lentezza di poco fa, torno a sdraiarmi a letto, improvvisamente rassegnata.

La luce del giorno che passa dalla porta della camera mi sveglia non appena mi giro verso di essa. Come mai la porta è aperta? Ero sicura che fosse chiusa. Non mi preoccupo più di tanto. Forse si è aperta da sola, è sempre stata difettosa. Stupido appartamento economico, scomodo da ogni angolo della città e dalle mura sbiadite e la cucina inabitabile tanto è piccina e poco funzionale. Nemmeno il colore si salva. Unire il marrone al rosso dovrebbe essere considerato illegale. Credo di aver avuto la febbre, forse anche solo per qualche ora, ma provo quella sensazione che si ha dopo aver superato un periodo di malattia. I muscoli prima tesi ora sono rilassati e la camminata è tornata quella di sempre, forse un poco incerta per via di quella porta. Ma perché cazzo è aperta?

Sorseggio dell’acqua con tanto ghiaccio e una fetta di limone. Trovo gentile quel gesto di avermi fatto trovare qualcosa di rinfrescante e per un attimo mi sento innamorata anche se quando lo penso le dita tremano appena e le labbra smettono per un attimo di sorseggiare. Sfoglio un album di fotografie. Un centinaio di immagini mi ritraggono in svariate situazioni. Caspita quanto sono felice! Non sto più con quel ragazzo che faceva il cameriere al King’s Pub. Non so il perché.

Un’altra foto mi vede abbracciata a quella stronza di Alice che ora pare apprezzarmi. Mi piace l’idea di aver fatto questa svolta. Ricordo che ne parlavo con la mia ex coinquilina Rebecca. Ricordo che le avevo detto che solo una o due volte nella vita capita di vivere una vera svolta, a volte nemmeno ce ne accorgiamo, a volte le nostre paure spariscono, a volte prevale la nostra parte più forte perché siamo stanchi di subire.

Sfoglio l’album dalla copertina di pelle con il bordo intrecciato ad arte. Ha buon gusto persino per una piccola cosa come questa. Sfoglio pagina dopo pagina e ammiro me stessa felice, piena di energia, diversa. Amo questa mia nuova versione e il discorso fatto a Rebecca mi dà una strana carica. Mi rimetto in piedi quasi in un lampo. Indosso la lunga gonna plissettata e cerco disperatamente la t-shirt con la scritta stampata dei Nine Inch Nails. Ve l’ho già detto che è un gran bel gruppo? E che gruppo! L’ho scoperto dal tipo che mi sedeva davanti una sera in cui mi ero unita ad un gruppo di ragazzi per scrivere e da lì ho iniziato ad amarlo più che mai. Ma sapete una cosa? Nell’album, di quella maglia, la t-shirt ormai logora e scolorita, non c’è traccia.

Devo aver dormito almeno tutto il pomeriggio, ancora, perché a giudicare dalla luce, è ormai il tramonto. La durata della mia gioia è al massimo di tre minuti. Il tempo di vestirmi e avevo già ripensamenti su cosa fare. Non ho davvero parole, ha più durata il primo Nokia che mi hanno regalato i miei genitori. Faccio un sospiro. Raccolgo il coraggio, ancora una volta, e faccio qualche passo verso la porta. È chiusa. Cazzo! Proprio quando avrei voluto che fosse aperta. Porto una mano alla maniglia e come se stessi disinnescando una bomba, la apro lentamente. Digrigno i denti incazzata quando il sento il solito cigolio secco, assordante e, nel suo piccolo, fastidioso. Ma prima di tutto rumoroso. Rimango in sospeso, la mano ha quasi un crampo, poi quando non percepisco rumori, giro completamente la maniglia e socchiudo la porta giusto quei due, forse tre centimetri, per vedere all’esterno.

La mia nuova coinquilina non c’è. Ora che ci penso aveva detto che andava a trovare i suoi per tutta la settimana. Ma come ho fatto a scordarmi? È come se avessi perso la testa ultimamente. Apro la porta, rivelando metà del mio corpo al corridoio esterno. Pulito, silenzioso, austero per via dell’antica, e alquanto discutibile in fatto di stile, libreria inclusa insieme all’affitto di quel buco. È davvero inquietante ma prima di tutto fuori luogo. Non colgo nessun rumore e così parte la mia falcata lungo la moquette rosa pallido. Una passerella silenziosa che mi vede camminare quasi giustificando ogni mio movimento mentre i miei occhi osservano qualcosa di nuovo.

Due quadri, alcuni libri lasciati a terra di fianco alla terrificante libreria. L’acqua con un piattino e, sdraiate in maniera consecutiva, tre fette di limone. La ciotola con l’acqua mi fa pensare che prima ci fosse del ghiaccio. Ma allora non ho dormito così tanto…

Raggiungo la scala e guardo sotto. Sì, sono sola in casa. Ma perché diavolo avevo dubbi? La mente mi gioca brutti scherzi. Porto le mani alla testa e sposto la chioma marrone all’indietro, scuotendo il capo. Ma che problemi ho? Penso dandomi per un attimo della pazza. Scendo con fare sicuro gli scalini, mentre osservo un quadro dalla cornice vintage e dal contenuto sintetico alquanto ambiguo. Il caos è ordine non ancora decifrato.

Rifletto sul perché io abbia appeso una simile frase. Ultimamente ho dei vuoti, non c’è altra spiegazione. Ma che vuoti? Lo scricchiolio del pavimento mi distrae. I miei occhi tremano e, con perfetta sincronia, trema anche il resto del corpo. Mi manca la voce e mentre lo spazio tra di noi diminuisce, io indietreggio e non riesco a provare vergogna quando sento l’urina correre lungo le mie gambe che si muovono con grande fatica, tremanti, come avessero nuovamente quei pesi immaginari. Risalgo le scale per tenere una distanza di sicurezza. Sarà sufficiente? Non lo so. Quello che so è che l’unica cosa da fare è camminare indietro lentamente verso la stanza in cui sono chiusa da non so quanto tempo. Con la coda dell’occhio vedo che la stanza della mia coinquilina è spoglia.

Ora ricordo. È andata via. L’ho mandata via. Anzi, no. Lei l’ha mandata via. Quando sono al centro della stanza, lei si ferma sulla soglia e mi osserva in silenzio. Gli occhi fissi su di me non battono ciglio. Ma come fa a non chiuderli? Come fa ad avere la meglio su di me? Non lo capisco e lascio che la figura che mi sta di fronte, la mia gemella, la mia sosia, la parte che ha prevalso su di me, porti una mano alla maniglia e mentre con un dito posato sulle labbra identiche alle mie, mi invita a fare silenzio, io ricordo con terrore e stupore quel tragico giorno, quell’incontro inaspettato.

Lentamente la porta si chiude e prima di vederla sparire oltre di essa, noto che indossa la t-shirt dei Nine Inch Nails e in quel preciso istante un’altra piccola parte di me, un bellissimo ricordo, muore. Mi sento svenire. Chissà se, quando mi sveglierò, riuscirò ancora a ricordarmene.

Fine

Rompendo il Silenzio

Era l’alba quando Asia si svegliò. Rimase a fissare il soffitto a lungo, come faceva ormai da tempo ogni mattina, poi si alzò per andare a lavoro. Uscita di casa raggiunse a piedi il centro giovanile dove lavorava da ormai dieci anni. Quel giorno, però, non si limitò a sedersi alla sua postazione ma proseguì sino all’ufficio del direttore. 

La porta era aperta, ma dentro non c’era nessuno. Senza preoccuparsi di cercarlo, Asia posò una busta indirizzata a lui sulla scrivania, poi tornò all’entrata principale. Si girò, diede un ultimo sguardo ed uscì. 

“Nessuna novità?” chiese Fiona agitata guardando il suo migliore amico e detective che sedeva davanti a lei. “Purtroppo no. L’auto di Asia è sotto casa e sembra che non abbia portato via niente dal suo appartamento, proprio come mi hai confermato. Prima di avviare un’indagine dovremo aspettare almeno quarantotto ore. È la prassi purtroppo e la conosci bene”. Fiona si coprì gli occhi con una mano per trattenere le lacrime. Non appena il direttore del centro giovanile era rientrato nel suo ufficio, aveva letto la lettera ed era subito corso da Fiona, anche lei dipendente presso lo stabile, per chiederle dove fosse Asia. Nessuno era riuscito a rintracciarla. Fiona allora era corsa a casa sua. Aveva una copia delle chiavi, ma quando entrò le sembrò che tutto fosse al suo posto. Aveva quindi chiamato il suo amico alla centrale di polizia, mostrando la lettera, ma la risposta che ricevette fu che bisognava attendere per capire se Asia fosse realmente scomparsa.

“Vedi, Fiona, la lettera che Asia ha lasciato è una semplice comunicazione delle sue dimissioni. Posso capire che per te fosse una cosa inaspettata, ma non possiamo aprire un’indagine che si basa su delle supposizioni. Abbiamo già fatto troppo controllando il suo appartamento. Mi dispiace, ma devi aspettare ancora”. Fiona si alzò di scatto, facendo cadere la sedia all’indietro. “Asia non sta lasciando semplicemente il lavoro. Asia ci sta lasciando per sempre ed è a causa di questa ragazza, Frankie. Sta per fare qualcosa di terribile, me lo sento!” disse buttando sul tavolo un articolo di giornale, poi uscì sbattendo la porta. Frankie sospirò a fondo. Comprendeva molto bene il dolore che stava provando la sua amica, ma aveva le mani legate e non poteva agire in altro modo. Prese in mano l’articolo e iniziò a leggerlo.

Il bicchiere era mezzo pieno, ma nonostante ciò Asia chiese per l’ennesima volta al barista di riempirlo con altro whiskey. Si trovava in quel bar da almeno tre ore e per tutto il tempo non aveva fatto altro che bere. Non voleva farsi trovare da nessuno, voleva sparire e per questo aveva gettato il cellulare lungo la strada. Non sapeva quanto avesse camminato, ma di sicuro si trovava molto lontano da casa e dal centro giovanile. Purtroppo però, per quanto bevesse, non riusciva a dimenticare quello che era successo. Il viso di quella ragazza continuava a tornare a galla nella sua mente. Gli occhi spaventati, i capelli scompigliati, i piedi scalzi sporchi di terra. Per un attimo chiuse gli occhi e ripensò a quel terribile giorno…

Era un giorno come tutti gli altri al centro giovanile. I ragazzi stavano giocando nel parco. Asia e Fiona si trovavano in ufficio e stavano discutendo in merito ad un nuovo progetto da introdurre ai ragazzi, quando d’improvviso sentirono delle grida. Uscite dal centro raggiunsero il parco. Tutti i ragazzi si erano radunati e osservavano il tetto dell’edificio. Non appena Asia alzò lo sguardo, spalancò la bocca, tremando. Gli occhi terrorizzati. Sul tetto, le braccia distese lungo i fianchi e i capelli sciolti, c’era una ragazza. Senza perdere un secondo, Asia corse all’interno dell’edificio per raggiungere il tetto. Quando si ritrovò davanti alla porta che portava al tetto, esitò qualche secondo, poi la aprì lentamente. Senza fare rumore, raggiunse la ragazza, fermandosi a un paio di metri da lei. “Julia” la chiamò quasi in un sussurro. “Se ne vada! Se ne vada!” disse la ragazza agitata, senza nemmeno voltarsi, continuando a fissare il vuoto sotto di sé e gli sguardi spaventati dei suoi coetanei. “Julia, non farlo. Prendi la mia mano, ti aiuto a scendere dal tetto”. Asia fece un paio di passi in avanti, ma Julia le intimò subito di fermarsi, minacciando di buttarsi.

“Julia, non farlo! Vieni con me e parliamo!”. Julia tornò a guardare il vuoto sotto di sé, stringendo gli occhi per trattenere le lacrime. “Julia, prendi la mia mano. Ti prego. Vieni con me. Vedrai, si risolverà tutto!”. Julia in quel momento la fissò dritto negli occhi, rivelando un viso visibilmente distrutto. “Non c’è nulla che lei può fare per me. Alcune persone sono destinate ad essere infelici. Non so più che cosa fare. Non so più a che cosa credere” disse stringendo i pugni, cercando di trattenere le lacrime. Fissò Asia rivolgendole uno sguardo di profondo dolore. Era chiaro quanto fosse spezzata dalla sofferenza. “Lei mi sa dare anche solo un motivo per cui non dovrei mollare tutto? Me lo sa dire?” chiese facendo un piccolo cenno col viso. Julia guardava attentamente Asia, aspettandosi una sua reazione, parole di conforto, una speranza, ma in quel momento Asia rimase inspiegabilmente in silenzio e quel suo silenzio fu fatale per Julia, perché il suo sguardo si fece improvvisamente tranquillo, sereno, un sorriso appena accennato e in un attimo scomparve, lanciandosi nel vuoto.

Il rumore del bicchiere che cadeva sul bancone distrasse Asia, che ritornò alla realtà. Era rimasta tutto il tempo a pensare a quel terribile ricordo, tenendo il bicchiere in sospeso e poi, senza accorgersene, lo aveva lasciato cadere. Lentamente e barcollando, si trascinò fino all’uscita, incamminandosi lungo il marciapiede, senza mai alzare lo sguardo. Non aveva la minima idea di che ora fosse, ma non le importava. Camminò senza mai fermarsi, fino a che non raggiunse un piccolo ponte e lì si fermò, i gomiti appoggiati al muretto, guardando l’acqua fredda sotto di sé. Non riusciva a capire il perché stesse così male. La morte di Julia l’aveva devastata inaspettatamente. E il non riuscire a trovare una risposta la rendeva molto irrequieta.

“Detective Mason” rispose Frankie con voce stanca. “No, sono fuori ufficio ora, ma mandami i documenti via fax entro domattina e poi… “. In quel momento la voce del detective si interruppe. Il suo sguardo fu catturato da una figura oltre il ponte. Rapidamente accostò l’auto e scese raggiungendo l’altro lato della strada. “Dio mio, non può essere…” pensò. Camminava a passo svelto in direzione di quella figura, facendosi spazio tra le auto che correvano lungo le corsie. Allora le sensazioni di Fiona erano giuste. Lentamente si fermò ad un paio di metri da quella persona ormai pronta a gettarsi nel vuoto. Frankie si muoveva piano, senza fare rumore per non spaventarla. Asia tremava, piangeva a tratti. Era evidente che fosse in uno stato di confusione. Frankie era a pochi passi da lei che non aveva percepito la sua presenza. Gli bastava fare qualche altro passo e l’avrebbe afferrata. Solo qualche passo, poi d’improvviso Asia si lasciò andare, lanciandosi nel vuoto. “No!” urlò Frankie raggiungendola in tempo e afferrandola per il collo della giacca. Asia urlò per lo spavento o forse per la delusione di non essere riuscita nel suo intento. “Mi lasci andare! Mi lasci andare!” continuava a urlare disperata, ma l’uomo non mollò la presa, riuscendo a portarla al lato opposto del ponte.

“Asia!” urlò Fiona varcando la soglia della camera d’ospedale. Asia alzò lo sguardo. Era sdraiata su un lettino e vicino a lei un’infermiera sembrava controllare la pressione. “Oh, Asia, mi hai fatto prendere spaventare a morte!”. Fiona era in lacrime. “Tranquilla, sto bene” si limitò a rispondere stringendole la mano. “Fiona, posso parlarti?”. In quel momento Frankie era entrato nella stanza. “Certo, Asia torno subito” disse abbracciandola forte, uscendo con calma dalla stanza. “Fiona, ho trovato Asia su un ponte. L’ho salvata prima che potesse gettarsi nel vuoto. L’ho salvata in tempo altrimenti a quest’ora sarebbe…”. Non finì la frase, lasciando intendere che sarebbe morta se non l’avesse tratta in salvo. Fiona sgranò gli occhi, incredula. Non riusciva a credere che la sua più cara amica avesse potuto fare una cosa simile. “Credo abbia bisogno di tutto l’aiuto possibile in questo momento”.

Fiona si lasciò scappare una lacrima, appoggiandosi alla parete del corridoio, gli occhi chiusi e le labbra tremanti. Era ancora molto scossa dall’accaduto. Passarono diversi secondi in cui Frankie la guardava e lei sembrava riflettere. Era come persa nei suoi pensieri. “Fiona?” la chiamò, facendola tornare alla realtà. La donna sembrava paralizzata. Ciò che era successo l’aveva letteralmente sconvolta. “Fiona, tutto bene?”. Frankie le mise una mano sulla spalla. “Certo!” rispose improvvisamente con un debole tono di voce. “Penso che…”. Si interruppe quasi volesse cambiare discorso. Frankie la fissava perplesso. “Certo, Frankie, farò il possibile perché si riprenda! Non ti preoccupare” e senza dargli il tempo di dire altro, gli voltò le spalle tornando da Asia.

Anais

«Quale fragranza vuoi che metta?», chiese lei con voce seducente. «Niente fragranze. Voglio sentire l’odore della tua pelle», rispose una voce maschile, con un tono quasi impaziente. «Niente fragranza, niente sesso, sono le regole». Lui rimase in silenzio, sdraiato con le mani legate ai bordi del letto e una benda nera che copriva metà viso. La ragazza, invece, stava in piedi davanti a un mobile e ammirava diversi barattoli di vetro etichettati in ordine alfabetico, poi fissò l’uomo; per pochi secondi pensò di slegarlo e di dirgli di andarsene, era molto tentata di farlo, ma poi lui rispose. «Lavanda! Voglio che odori di lavanda».

Gli occhi tristi della ragazza cambiarono in pochi istanti e il suo sguardo si fece cupo, come se volesse cancellare quell’attimo di debolezza di cui si vergognava. Prese in mano un’ampolla con la scritta Lavanda, tolse il tappo e respirò a fondo l’essenza: era molto forte e per poco non svenne dalle sensazioni che l’attraversarono, come quando attendi un’onda in mezzo al mare e non vedi l’ora di farti travolgere dalla sua dolce forza. Poi un devastante déjà-vu iniziò a ripetersi con insistenza e un insieme di immagini iniziarono a scorrere veloci nella sua mente. Se avesse visto i suoi occhi, in quel preciso momento avrebbe notato il cambiamento avvenire all’istante: le pupille erano dilatate e lo sguardo quasi ipnotizzato, come fosse sotto il potere di un incantesimo. Un calore si fece largo nel suo stomaco e lentamente raggiunse la gola. Si girò verso l’uomo e si sedette sopra di lui, versando sul suo corpo piccole gocce di lavanda che massaggiò con tocco delicato lungo la sua morbida pelle. L’uomo ansimava e godeva di quel momento e quando lei si mise sopra alla sua zona calda e dura e spinse a fondo, non riuscì a trattenere un forte gemito di piacere.

Senza smettere di muoversi su di lui, la ragazza allungò le mani verso il cuscino e strinse un foulard di seta blu, poi scoprì molto lentamente il viso dell’uomo che l’ammirò come fosse un angelo venuto direttamente dal paradiso. «Sei davvero bellissima!». Lei sorrise, poi appoggiò il foulard sulla sua bocca e lo baciò intensamente. Le lingue si cercavano tra la stoffa, divertite nel percepirsi senza un diretto contatto. Nonostante fosse legato, l’uomo si muoveva sotto di lei con un incredibile forza, tanto era eccitato da quel momento. Le mani della ragazza non smettevano di stringere il foulard che ora si ritrovava avvolto attorno al collo dell’uomo e che usava per domarlo quando tentava di avere la meglio su di lei. Un susseguirsi di gemiti si fece strada e quando si sentì vicina all’orgasmo, tirò le due estremità della stoffa, chiuse gli occhi e buttò indietro la testa, la bocca spalancata ma la voce soffocata dall’immenso piacere e non si fermò quando sentì la voce prima balbettante e poi spezzata dell’uomo che dopo pochi secondi era fermo immobile sotto di lei.

Quando si ricompose, lo fissò compiaciuta e si sfilò la parrucca a caschetto color castano scuro. Un terrificante silenzio piombò nella stanza, ma poi la porta della camera si aprì all’improvviso e una donna vestita con un pantalone e maglioncino color cammello, i capelli legati in una morbida coda bassa, e avvolta da una mantella che dava l’impressione di essere di seconda mano, lasciò ai piedi del letto un enorme sacco di plastica nero. «La prossima volta non lasciamo passare troppo tempo, lo sai che abbiamo delle scadenze da rispettare». Mise a posto l’ampolla di lavanda, poi fissò la ragazza e in un attimo il suo sguardo si addolcì e si fece vicina per osservare il suo viso.
«Allora, come ti senti?».
«Sto bene, anzi, mi sento benissimo…».

Tre settimane dopo…

Mentre era seduta al bancone del bar, uno dei tanti baristi le porse un bicchiere di vino rosso e le sorrise. «Ordini sempre un calice di vino rosso, ho pensato di servirtelo subito senza farti aspettare». Anais lo fissò perplessa. Per quanto fosse una bella ragazza, non era abituata a gesti simili e non sapeva cosa dire. L’unica cosa a cui pensò fu un banale ringraziamento, ma non fece in tempo a dirlo perché il ragazzo fu chiamato a servire un altro tavolo. Era di poche parole, ma più che altro le piaceva osservare e non poté fare a meno di notare il suo fisico atletico, i capelli biondi e ben pettinati con il gel, gli occhi color nocciola grandi e sorridenti come la sua bocca dalle labbra invitanti. Era una preda perfetta, ma poi si alzò e se ne andò senza cercare il suo sguardo per salutarlo. Era meglio così.

La sera sembrava non passare mai e la voglia di dormire era ben distante dal farsi trovare. Anais sembrava una povera anima condannata a vagare in eterno nel suo appartamento e nemmeno la canna che fumò fuori in terrazzo, respirando aria fresca, sembrò darle sollievo. Era visibilmente nervosa, come se stesse aspettando un importante risultato di un esame o una di quelle chiamate che possono cambiarti la vita, poi prese il cellulare e digitò nervosamente un messaggio. Raccolse alcuni indumenti e un beauty case e uscì di casa senza nemmeno chiudere a chiave. Aveva troppa fretta. Camminava a passo svelto, il cappuccio del giaccone che copriva il viso. Non appena fu certa di essere abbastanza lontano da casa, prese un taxi e si fece portare in un quartiere a circa dieci chilometri da casa sua, poi si fece lasciare a un incrocio e camminò per diversi minuti fino a ritrovarsi in un quartiere composto da diverse villette con giardino. Si fermò davanti a una porta di legno scuro dall’ampia veranda e bussò forte più volte. Sapeva di essere attesa, ma aveva esaurito la pazienza.

«Questa improvvisata non me l’aspettavo proprio. Ti senti pronta? Se sei strafatta ti rimando a casa!». Davanti a lei, la donna dai capelli rossi raccolti in uno chignon la fissava con aria di rimprovero. I pochi capelli bianchi lungo le tempie erano fermati ai lati da delle forcine dorate, gli occhi sembravano truccati e questa volta indossava un abito scuro dal collo alto e arricchito da una collana di perle e per un attimo Anais ebbe l’impressione che fosse rientrata a casa apposta per lei. “Sì, ne sono sicura. È il mio corpo a chiederlo. E poi se qualcosa va male, sai cosa fare». La donna la fece accomodare e chiuse a chiave la porta. «Lo sai che non esito mai», e le indicò la scala, ma Anais già sapeva dove andare. 

Dopo un paio d’ore, la donna apparve nel salotto, stupita di trovare Anais ancora lì. Rannicchiata sul divano, guardava la televisione a volume basso. «Come mai sei ancora qui? Ero convinta che fossi già andata a casa», e si sedette sul divano accanto a lei, accarezzandole i piedi. Erano bizzarre assieme, ma potevano benissimo sembrare una madre e una figlia. «Non ho ancora voglia di andare a casa, tutto qui». Tutto era andato come doveva andare, proprio come aveva previsto nella sua testa, eppure quella sera si sentiva malinconica, sola, quasi insofferente. Quel suo modo di vivere era duro da accettare, ma non aveva scelta se non conviverci.

«Hai fame? Vuoi che ti prepari qualcosa da mangiare?».
«Eva, qualcosa sta cambiando in me. Sento che fatico a controllarmi ultimamente e non credo sia un buon segno». La donna si fece più vicina e fece sedere Anais, prendendo il suo viso tra le mani.
«È il tuo corpo che sta mutando. Nonostante tutto, continui a crescere e lo stesso i tuoi istinti. Non ti devi preoccupare, ci penso io a te. Vedrai che andrà tutto bene», e le stampò un bacio sulla fronte. «Ti preparo qualcosa da mangiare, vedrai che ti sentirai meglio».

Quella notte Anais faticò ad addormentarsi. Il ricordo dell’episodio vissuto poco prima le tornò alla mente milioni di volte e più lo faceva, più si eccitava. Si rigirava nel letto, sperando di sentire quella familiare sensazione di stanchezza, ma niente. I suoi occhi erano spalancati e le pupille parevano minuscole, come fossero due punti scuri fuori posto e così, arresa alla sua anima tormentata, lasciò scivolare una mano dentro alle mutandine, eccitandosi per ciò che era accaduto e immaginando di essere lì, ancora.

JOHN WICK – In Omnia Paratus

Una fan-fiction sulla vita criminale del personaggio John Wick che si intreccia alla trama del secondo capitolo, dal momento in cui viene ufficialmente scomunicato, diventando a tutti gli effetti una preda.

Qui puoi leggere il primo capitolo della nuova storia e, alla fine del testo, puoi scaricare gratuitamente tutta l’opera in formato tre diversi formati.

I. Serafina

La ragazza camminava tra la folla, lentamente. Si confondeva tra le persone comuni e nessuno pareva notare John, solamente lei. Lo guardava camminare a fatica. La ferita al fianco destro lo aveva colpito a fondo. Lo osservava, curiosa di sapere quale sarebbe stata la sua prossima mossa, o meglio, la mossa del prossimo assassino pronto ad ucciderlo per incassare la succosa e invitante taglia di sette milioni. Così diceva il messaggio ricevuto al cellulare. Lo aveva letto da un cellulare non suo, ma rubato ad un uomo vestito in jeans e camicia, con indosso solamente un cappotto nero. Quell’uomo aveva preso di mira John, mentre camminava per scappare ai suoi numerosi nemici, ma lei lo aveva visto e come fosse una cosa normale, gli aveva conficcato un coltello sotto al braccio, stringendolo a sé per evitare una rovinosa caduta che l’avrebbe messo in mostra di fronte a tutte quelle persone. “Non ucciderai John Wick!” gli aveva sussurrato lei con tono sprezzante, abbandonando il suo corpo su una panchina, dopo avergli assestato altri sei colpi sul fianco. 

 

Ora si trovava a venti passi dietro a John. “Chissà se mi riconosce… chissà se intuisce che ho una pistola proprio dietro la schiena… chissà…”. Serafina, questo il suo nome, si stava ponendo diverse domande, ma si interruppe improvvisamente quando vide John fermarsi di fianco alla fontana. I getti d’acqua avevano creato il loro gioco magico, ma non appena si erano ritirati, John aveva incontrato gli occhi di Cassian. Serafina si bloccò all’istante, guardando la scena e trattenendo il respiro. John estrasse la pistola con fare sicuro e spontaneo, quasi calmo. Cassian non si mosse. La pistola fiera e già in posizione. Forse riteneva fosse giusto uno scontro alla pari. Si guardarono senza batter ciglio, pronti a scatenare una pioggia di proiettili in quella grande piazza, sotto le luci della stazione metro poco distante. I getti partirono all’improvviso, come anche i proiettili che John e Cassian spararono l’uno contro l’altro. La folla iniziò ad agitarsi e disperdersi. Serafina cercò di non perdere di vista John, ma faceva fatica a seguirlo. Andava contro la folla e le grida la distraevano. Dopo pochi secondi, riuscì a crearsi un varco ed entrare nella stazione metro. Si guardò attorno, ma come temeva, li aveva persi di vista.

 

Correndo lungo i grandi corridoi della stazione, Serafina si guardava attorno cercando i loro visi, o cercando almeno di sentire rumori fuori luogo. Mani che lottano. Pugni che colpiscono guance. E l’inconfondibile rumore dei proiettili. La vista di due corpi stesi a terra poco distante da lei le fece capire che John non era lontano e di scatto si infilò nella metro, pochi secondi prima che le porte si chiudessero. Si guardò attorno. La metro era piena di gente. Chi leggeva il giornale, chi guardava qualche video al cellulare. Chi chiacchierava. Chi aspettava con ansia di tornare a casa, vista l’espressione cupa e inquieta. Serafina camminò per raggiungere il vagone successivo. Ancora nessuna traccia di John e Cassian. Continuò a muoversi da un vagone all’altro, fino a che non si fermò quando li vide in piedi nel vagone successivo. Era evidente che fossero pronti a darsele di santa ragione. Cassian prese il suo coltello e in un istante si scagliarono l’uno contro l’altro. John strinse i denti cercando di non gridare quando Cassian gli infilò il coltello nella gamba. Nonostante la ferita al fianco, nonostante il dolore alla gamba, si poteva vedere nei suoi occhi la rabbia che aleggiava dentro di lui. 

 

Era un continuo botta e risposta, ma John non ci mise molto a mettere fuori combattimento Cassian, che più volte fu buttato a terra e colpito all’addome, lasciandosi sfuggire brevi gemiti di dolore. Lottarono ancora. John sembrava aver improvvisamente ripreso le forze, perché riuscì a mettere in difficoltà il suo avversario, bloccandolo e puntandogli il suo stesso coltello contro il petto. Pochi secondi in cui lo guardò negli occhi, poi con un colpo secco fece penetrare la lama nel suo petto. Un altro colpo e Cassian cambiò completamente espressione, lasciandosi sorreggere da John che lo fece sedere delicatamente, quasi volesse evitargli altro dolore. Serafina nel frattempo era entrata nel vagone e li osservava, confondendosi nuovamente tra le poche persone presenti e spaventate. Strinse gli occhi e tese l’orecchio per cercare di capire ciò che John stava dicendo a Cassian e poco dopo la metro si fermò e John sparì oltre le porte scorrevoli.

 

Cassian aveva un pessimo aspetto. Non c’era tempo da perdere. Serafina gli si avvicinò, osservandolo attentamente. Cassian alzò appena il viso, ma Serafina si spostò davanti a lui, accucciandosi per evitargli lo sforzo di dover sostenere il suo sguardo. Aveva lunghi capelli nero corvino, in parte intrecciati e legati in una morbida coda che raggiungeva metà schiena. Gli occhi erano castano scuro, ma in quel momento brillavano di una rara luce e le labbra rosa e carnose sembravano avere un’aria curiosa e soddisfatta. La pelle olivastra era coperta da un filo di trucco che accentuava uno sguardo che sapeva vagamente di rancore. Serafina lo guardò e accennò un sorriso. “Ciao Cassian, io mi chiamo Serafina e sono qui per aiutarti” disse senza muoversi. “Ti posso salvare la vita e ho solo una piccola e semplice condizione che devi rispettare”. Cassian respirava a fatica, ma si sforzò di parlare. “…che cosa vuoi?” chiese con un filo di voce. “Io ti salverò la vita… se tu mi prometti di aiutarmi a proteggere John Wick”. Cassian chiuse gli occhi, facendo una smorfia col viso. Era evidente che la sua risposta fosse no. 

 

“Cassian…” disse Serafina alzandosi in piedi, avvicinando il viso al suo. “Stai morendo, non ti rimane molto tempo. È bene che decidi in fretta. Ho un piano e ho bisogno del tuo aiuto”. Mise una mano sul coltello. “Se vuoi che ti salvi, devi promettermi che mi aiuterai a portare a termine il mio piano, altrimenti sarò più che felice di porre fine alle tue sofferenze in questo istante”. Cassian si fece serio, quasi avesse ripreso i sensi e a respirare normalmente. “Mi aiuterai a proteggere John Wick oppure vuoi morire?” chiese accennando quel suo quasi impercettibile sorriso inquietante. L’uomo sembrò trattenere il respiro. Sembrava aver perso nuovamente i sensi. Gli occhi si fecero stranamente gonfi, ma poi schiuse le labbra. “Ok, proteggerò John Wick”.

 

Un insieme di voci confuse svegliarono improvvisamente Cassian. La vista era ancora annebbiata, ma poteva vedere le sagome di due persone e una di quelle era sicuramente Serafina. Cercò di migliorare la vista, sbattendo più volte le palpebre, ma non ci riuscì. Allora tese le orecchie, per cercare di capire che cosa stessero dicendo. I suoni sembravano ovattati, quasi avesse le orecchie tappate da qualcosa simile a del cotone, ma in realtà era solo la normale reazione ad un’operazione, quella che Serafina gli aveva concesso dopo aver stretto il loro accordo. Girò il volto verso destra. La vista stava migliorando e capì che quella davanti a lui era una porta. Ora stava mettendo a fuoco i dettagli della stanza. Una luce al neon, scaffali metallici, un vassoio con arnesi da medico, ma la stanza non sembrava appropriata. Non gli sembrava di essere in un ospedale. No, non era possibile. Se Serafina era un’assassina come lui credeva, non lo avrebbe mai portato all’ospedale. 

 

Si voltò e in quel momento sentì il respiro della ragazza su di lui e un leggero profumo di gelsomino. “Bentornato tra di noi, Cassian!” disse. Gli sembrò che mostrasse un sorriso di gioia nel vedere che stava bene, ma forse era l’effetto dell’anestesia. “…dove… dove sono?” chiese intontito e con un filo di voce. Serafina lo zittì dolcemente, sollevandosi. “Sei in un posto sicuro” e sistemò la sua pistola, caricandola e rimettendola dietro la schiena. “Ora pensa solamente a riposare. Se provi solo a muoverti comprometterai l’operazione che il gentile dottore qui presente ha fatto per salvarti” disse guardando il dottore con aria piatta, quasi fossero solo lei e Cassian in quella stanza. “Inoltre, se provi a tradirmi, ti assicuro che morirai all’istante”. Cassian riuscì finalmente a vedere gli oggetti e l’ambiente attorno a sé in modo chiaro e nitido e la vide indossare un giubbino di pelle nera, sistemandosi il colletto. “Tornerò tra qualche ora, poi parleremo” e sparì, lasciandolo col suo dolore, sotto una fastidiosa luce al neon.

JOHN WICK: In Omnia Paratus

Copertina di John Wick: in omnia paratus

Dal momento della scomunica, John Wick inizia una corsa disperata per sfuggire ai nemici che si contendono l’invitante taglia sulla sua testa.
Mentre in “Parabellum” gli eventi seguono le idee di Derek Kolstad e del regista Chad Stahelski, in questa fanfiction, sequel diretto di John Wick: Chapter 2, Linda Moon scrive la sua personale visione degli eventi.
Attraversando una New York pronta ad ucciderlo, John Wick, l’assassino leggendario conosciuto come “Baba Yaga”, l’Uomo Nero, incrocia il suo destino con nuovi personaggi e vecchie conoscenze in un turbine avvincente di azione, suspense e mistero.Chi è Serafina? Come mai, a differenza di tutti, vuole John vivo? Qual’è il vero legame tra lei e l’uomo più conteso del mondo?

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Àlima

Lo sto guardando. Non smetto di guardarlo nemmeno per un secondo. Non batto quasi le palpebre. Sono tre giorni che lo osservo dalla finestra. Alle sette e trenta del mattino entra nella caffetteria. Esce quasi sempre otto minuti dopo, ancora con il bicchiere di caffè in mano. È primavera.

Ogni giorno lo guardo e mentalmente annoto ogni suo movimento, ogni suo sguardo. Ogni singola cosa. Mi sembra quasi di conoscerlo. Sei, cinque, quattro, tre, due, uno. È entrato nell’edificio. Mi lascio cadere sul letto, chiudo gli occhi e per un tempo indescrivibile non faccio altro che respirare e concentrarmi sul battito del mio cuore, sulla velocità dei miei respiri e libero la mente.


Sono passati tre giorni. Continuo a osservarlo dalla mia finestra. Oggi sembra prospettarsi una bella giornata di sole, almeno così ha fatto intendere il meteo. Sono agitata. Anche se so che tra meno di due minuti lo vedrò apparire oltre quell’albero che mi copre la visuale al lato sinistro, il mio cuore accelera il battito. Scosto appena la tenda e per pochi secondi trattengo il respiro. Eccolo!

Oggi è ancora più affascinante del solito. Forse ha una riunione importante. Indossa un completo grigio, una cravatta a righe, scarpe nere e lucide. E sopra, un impermeabile nero con eleganti fibbie ai polsi. Nella mano destra stringe il manico della ventiquattrore mentre sotto il braccio sinistro stringe il giornale. Entra nella caffetteria. Guardo l’orologio e inizio a contare.

Sette minuti e quarantadue secondi dopo esce. Oggi sembra andare di fretta. È evidente che abbia qualcosa di urgente da fare in ufficio. Lo seguo con lo sguardo. Ha i capelli corti, castano chiaro. Occhi verdi. E una piccola cicatrice sul lato destro della fronte. Forse causato dai duri allenamenti di football durante la sua adolescenza. So che era uno sportivo, ho trovato l’informazione online. È alto, atletico e ha un’aria romantica e dolce, anche se la sua espressione è sempre seria, come se dovesse analizzare tutto e tutti per riuscire ad affrontare la sua vita.

Cammina a passo svelto verso il grattacielo e in pochi secondi sparisce oltre la porta scorrevole. Mi allontano dalla tenda e rifletto. Trovo assurdo stare chiusa in una stanza a osservare un uomo. A volte ho pensato di raggiungere la caffetteria per guardarlo da vicino, incontrare i suoi occhi, parlarci, ma so bene che è un’idea folle. E di nuovo mi abbandono sul letto. Elimino tutti i rumori di sottofondo e mi concentro sul mio respiro. Il corpo si rilassa, rallenta, e si distacca dalla realtà.


Oggi è il settimo giorno. Sette. Un numero qualsiasi, ma con un significato importante. Sembra che Dio abbia creato il mondo e l’uomo in sette giorni. Per quanto sia considerato onnipotente, ha impiegato sette giorni per fare tutto ciò. Senza fretta, insomma. E così io ho preso tutto questo tempo per quest’uomo. Per osservarlo. Capirlo. Vederlo muoversi nella sua quotidianità. Trovo la cosa quasi piacevole. Sono le sette e cinque minuti. È ancora presto e ho tempo per prepararmi. Mi libero della t-shirt bianca e mi infilo dei jeans e una felpa. Tutto nero. Bevo del caffè istantaneo e mi sforzo di non aggiungere lo zucchero. È pessimo e renderlo dolce sarebbe inutile ma quel pensiero vola via non appena mi apposto davanti alla finestra.

Guardo l’orologio. Sono le sette e venti. I dieci minuti seguenti sono interminabili. Temo che non lo vedrò. Inizio a pensare che forse proprio oggi non si presenterà. Ho aspettato tanto quel momento e ora ho paura che sia stato tutto tempo perso inutilmente. Mi agito e maledico me stessa per il mio modo di agire, ma quando lo vedo camminare lungo il marciapiede, torno serena.

Cammina con la ventiquattrore stretta nella mano destra e il giornale sotto il braccio sinistro. Oggi indossa un completo nero e una cravatta a fantasia azzurra. Sopra, il solito impermeabile nero. I capelli corti sono perfettamente al loro posto. Sembra felice. Forse ha ricevuto buone notizie. È davvero affascinante. Come vorrei potermi avvicinare a lui senza alcun timore fingendo di inciampare per attirare la sua attenzione.

Immagino che mi chiederebbe se sto bene e inizieremmo a parlare. Poi m’inviterebbe a cena in un ristorante di gran lusso, so che lo farebbe perché è un gentiluomo ed io so di essere attraente, e mi offrirebbe una cena accompagnata da bottiglie di costosissimo champagne, concludendo la serata a casa sua.

Non appena varcata la soglia, mi offrirebbe un drink dal ricco bancone bar situato nel suo immenso salotto, poi farebbe partire della musica lenta e sensuale. Mi travolgerebbe in un abbraccio e mi porterebbe in camera e lì so che mi farebbe impazzire, più volte, possedendomi come fossi stata sua da tutta una vita. La tentazione è forte, ma s’interrompe non appena mi accorgo che l’uomo che affolla da giorni i miei pensieri si avvicina ed entra nella caffetteria.


Posso farcela, è arrivato il momento giusto. Ne sono sicura. Sono le sette e trenta precise e otto minuti dopo esce con il bicchiere di caffè in mano. Per qualche secondo il battito del mio cuore accelera ma cerco di dominarlo. Mi concentro sui miei respiri, sempre più lunghi e lenti. Socchiudo gli occhi senza smettere di seguirlo mentre si dirige al grattacielo. Cammina lungo il marciapiede in mezzo a una folla di persone, proprio come fa tutti i giorni. Mancano circa sessanta passi prima che sparisca oltre l’ufficio.

Elimino tutti i pensieri dalla testa. Elimino tutti i rumori di sottofondo. È come se esistessimo solo io e lui. Inizio a respirare piano, molto piano, quasi da non percepire nemmeno quel rumore e rimango ferma davanti alla finestra, sospesa nei miei respiri. Mi metto in posizione e conto mentalmente fino a tre mentre il mio dito raggiunge il grilletto. E sparo.

Un colpo solo e l’uomo finisce a terra. I miei occhi sorridono per la mia bocca e i miei respiri tornano normali. Smonto rapidamente il fucile ed esco dalla stanza dell’hotel, correndo verso il retro.

Mi chiamo Àlima Dante e sono un killer professionista.

FINE