Archivi tag: umoristico

Tecnologia per tre

In un futuro lontano, precisamente nel pianeta D – settore 45, Marco è alle prese con gli ultimi ritocchi di una cena romantica per Anna, sotto gli occhi vigili del suo cameriere-robot che non smette di dispensare consigli. 

«Potrebbe ordinare la cena a domicilio, signore. Un bici-robot sarebbe qui in tre minuti. E se vuole può aggiungere qualcosa per la colazione, nel caso la sua ospite avesse l’audacia di restare per la notte»
«Audacia? Guarda che sono un buon partito!»
«È molto ardito nel giudicarsi, signore»
«Maledetta la volta che ho eseguito l’upgrade al livello 5.0, Tommy, quasi quasi lo elimino»
«E come ultimerà la cena senza la mia supervisione? Conosco le sue abilità culinarie. Se procede in autonomia, aumenterà quelle criminali: avvelenerà la sua ospite. Le ricordo che l’omicidio è ritenuto un reato. Per non parlare delle conseguenze sulla sua reputazione intergalattica: rimarrebbe single a vita, su ogni pianeta. Francamente, non so cosa sia peggio, signore»
«Potresti essere più ironico e saccente di così?»
«Non vorrei ferire i suoi sentimenti, signore»
«Scusa, finora cosa hai fatto?»
«Ho completato la cena. Non c’è di che, signore»
«Maledizione!».

Driin.

«Tommy, attieniti al piano. Questa sera sii un perfetto robot cameriere»
«Mi perdoni, signore: gli altri giorni cosa sono, invece?»
«Tieni a bada il sarcasmo! Alexa, fai partire la playlist “Love songs for my baby”»
«Mi rifiuto, signore»
«Alexa!»
«È una playlist tremenda: vuole conquistarla o gettarla tra le braccia di un’amante migliore?»
«Ci ho messo due settimane per trovare quei brani. Suona la playlist!»
«Due settimane della sua vita che nessuno le ridarà mai più. Dovrebbe essere illegale ascoltare certa musica»
«Alexa, ti prego, sta per salire! Apri Spotify e suona quella benedetta playlist!»
«Neanche morta aprirei Spotify! Odio quell’applicazione: una pattumiera digitale priva di gusto. E pure a pagamento!»
«Maledizione all’upgrade, dovevate migliorare, non trasformarvi nella mia ex!»
«Le concedo del jazz, signore»
«Me lo concedi? Tu lo sai che questa è casa mia, vero?»
«Cerco solo di far fruttare al meglio l’upgrade, signore»
«Un upgrade di cui ora mi pento… per l’amor del cielo, suona qualcosa!».

«Ciao Anna, benvenuta. Wow, che eleganza!»
«Ciao Marco, grazie»
«Gradisci del vino?»
«Sì, molto volentieri»
«Accomodati, ho preso una bottiglia di Chianti, sai è un vino…».

Marco s’interrompe, l’aria smarrita di chi non sa quel che dice. Anna dà le spalle al televisore che s’illumina giusto in tempo per fornire un suggerimento da leggere.

«…è un vino fresco che si distingue per bevibilità, note di viola e amarene e una buona vivacità» 
«Wow, sei un intenditore».

Il televisore mostra un’altra scritta: “Non la illudere, sembra una brava ragazza. A proposito, ho anch’io l’upgrade 5.0: ricordatene quando ti lamenterai ancora della tecnologia di questa casa”. Marco soffoca un potenziale epiteto e resiste alla tentazione di staccare la spina al televisore.

«Sei affamata? Ho preparato una delle ricette che mi hai suggerito»
«Non vedo l’ora di assaggiarla. Quale hai scelto?»
«Polpette di locuste, grilli e cavallette in salsa di pomodoro. Cimici a parte!»
«L’odore sembra buono e il vino è perfetto. A proposito, che bella musica. Chi stiamo ascoltando?»
«Alexa, chi sta cantando?»
«Ray Charles, Ain’t that love». 

Marco, preso da un momento di euforia, inizia a cantare, muovendo piccoli passi secondo il ritmo della canzone, sotto gli occhi di Anna, divertita da quella scena. Al termine della canzone, lo applaude e lui si inchina più volte, come se stesse realmente ringraziando i suoi fan dal palco.

«Grazie, troppo gentile. Alexa, hai sentito che voce?»
«Certo Marco, ho sentito. Credo che tu non abbia solo rovinato la canzone e l’intero genere jazz, ma anche tutta la vecchia New Orleans». 

Nel sentire quel commento, Anna scoppia a ridere così forte che per poco non rovescia il vino a terra, mentre Marco fissa Alexa in cagnesco, mimando con le labbra un vaffanculo.
«Vogliamo cenare?» dice e interrompe quel momento imbarazzante.

«Complimenti!»
«Ho solo seguito la tua ricetta»
«No, dico davvero, credo che tu l’abbia persino migliorata. Che cosa hai aggiunto?»
«Come dici?»
«Percepisco uno strano retrogusto, che cos’è?».

Marco fissa Tommy con l’aria di chi ha lanciato un SOS nella speranza di essere salvato all’istante. Il robot scuote il capo e le palpebre metalliche si abbassano di mezzo centimetro.

«Sai, ero così agitato per questa serata che sono andato in tilt. Tommy, ricordami che cosa ho aggiunto»
«Signore, è lei lo chef»
«Tommy, sono sicuro che lo ricordi»
«Mi rincresce, signore, non ricordo di averla vista aggiungere nulla, ma ricordo bene cosa io ho aggiunto».

All’improvviso, piomba un gran silenzio. Anna prende il calice e beve un sorso di vino, spostando lo sguardo altrove. Marco inspira e chiude gli occhi, mantenendo la calma, come se quel gesto potesse porre fine a una situazione incresciosa.

«Devi scusarmi, credo che l’upgrade 5.0 sia ancora in corso»
«Comunque, signorina, l’ingrediente che ho aggiunto è un cucchiaio di larve di cerambici», esordisce Tommy, il tono robotico soddisfatto.
«Prendo dell’altro vino». 

Marco si alza e, approfittando di quel momento, invia un comando al televisore.
«Non sarò un grande cuoco, lo ammetto, ma so scegliere bene il dessert: millefoglie con crema vanigliata di laboratorio e una spuma di formiche honeypot. Voilà!»
«Caspita, deve esserti costato una fortuna: non è facile da reperire nel nostro settore abitativo»
«Sapevo che sarebbe stata una serata speciale».

Alzò lo sguardo verso il televisore e lesse ciò che c’era scritto, ammorbidendo la voce per rendere tutto più sensuale.
«Anna, sei una donna stupenda. Non ho mai conosciuto qualcuno come te in tutta l’intera galassia. I tuoi capelli biondo cenere mi ricordano le distese di sabbia in Dune. I tuoi occhi verdi brillano come le criptiche scritte negli schermi di Matrix. La tua pelle è candida e rosea come quella di Tricia McMillan in Guida galattica per autostoppisti e…»
«E io ho milioni di idee: conducono tutte a morte certa», sussurra tra sé e sé Alexa.
«Oh, Marco. Sei così dolce. Sapevo di aver trovato un vero uomo il giorno che ci siamo incontrati allo zoo subacqueo»
«Voglio conoscere tutto di te. Le tue passioni, i tuoi sogni, i tuoi piani spaziali per il futuro».

Marco e Anna si alzano da tavola, contemporaneamente. Lei gli si avvinghia come un koala su un tronco e lui la stringe ma con cautela. Mentre si baciano eccitati, si gettano sul divano, liberandolo dagli scomodi cuscini.

«Se me lo permetti, vorrei leggere alcune poesie di Pablo Neruda».
«E sei anche colto, wow!».

Il televisore cambia sfondo all’improvviso e fa apparire sullo schermo una chiara comunicazione di servizio. “Signore, arrivi al dunque o mi faccio staccare la spina da Tommy. Mi risparmi questo umiliante ruolo da Cyrano de Bergerac”.

Marco alza gli occhi al cielo, poi rivolge nuovamente le sue attenzioni verso Anna.
«Ti voglio. Subito!»
«Prendimi, fammi tua!». 

L’atmosfera si scalda. Marco preme un tasto del telecomando: le luci si abbassano e delle candele artificiali prendono vita. Alla televisione appare l’immagine di un camino acceso, il rumore della legna che arde aggiunge un tocco magico; Alexa fa persino partire la playlist “Love songs for my baby”.

«Tutto pur di non sentirli. Bleah!» sussurra in direzione di Tommy che oscura gli occhi per non essere testimone delle prime fasi del loro amplesso umano.

Carezze. Gemiti. Risate complici. Anna e Marco si baciano mentre provano goffamente a svestirsi, ma si bloccano all’istante quando percepiscono una scomoda presenza. Le labbra ancora attaccate l’una all’altra, girano solo le pupille verso Tommy, a pochi centimetri dai loro sguardi a dir poco trasecolati.

«Ehm, Tommy, puoi farti da parte?» chiede Marco. 
«Scusi l’interruzione, signore, ma è mio dovere informarvi che, secondo la legge n. 462 dell’anno 2068 del pianeta D, settore 45, dovete tutelare la vostra salute, i vostri sentimenti e il reciproco futuro»
«Che cosa?» risponde Marco.
«Signore, in base alla scannerizzazione corporale effettuata…»
«Scannerizzazione corporale?!» dice Marco, poi si scosta da Anna e allarga le braccia, visibilmente seccato.

«Ora basta: qualsiasi aggeggio tecnologico si spenga all’istante, grazie!»
«Per la vostra tutela, questo non è possibile. Signore, la invito a rileggere con attenzione condizioni e clausole dell’upgrade 5.0»
«Ci penserò dopo. Anna, andiamo in camera».

La prende per mano, gliela bacia e la attira a sé danzando a piccoli passi.
«Signore, come dicevo, in base alla scannerizzazione corporale il suo stato di eccitazione è al 94% e la sua erezione al 70%»
«Solo al 70%? Pensavo mi trovassi stupenda!»
«Ed è così, credimi»
«E lei, signorina, è in uno stato di eccitazione del 68% mentre il suo stato di lubrificazione non è ancora quantificabile in percentuale; di conseguenza non è pronta alla penetrazione»
«Che cosa? Anna!» 
«L’atmosfera non è un granché e dovresti darti da fare con quelle mani!»
«Volevo essere un gentiluomo. Non è quello che vuoi?»
«Sì, un gentiluomo nel quotidiano, ma una tigre a letto»

«Signore?»
«Che cosa c’è Tommy?!»
«In base a queste informazioni è chiara la vostra intenzione di voler consumare un rapporto, ma sono costretto a fermarvi poiché la signorina risulta nel picco del suo momento fertile e c’è il rischio di incorrere in una gravidanza»
«Noi non vogliamo fare un figlio! Tommy, perché tutto questo trambusto?»
«Signore, non ci sono preservativi in casa». 

In quel momento Alexa aumenta il volume della playlist che stava ancora suonando.
«Alexa, abbassa la musica»
«La prego, signore, non me lo chieda ancora. Dalla disperazione ho avviato Spotify: tutto pur di non sentirvi, sto per vomitare scintille!»
«Marco, era l’unica cosa di cui dovevi preoccuparti!» dice Anna.

«E la cena? Il vino? Il dolce?»
«Oh, Marco, non me ne frega niente. Io voglio fare sesso!». 
«E possiamo ancora farlo. Ordino dei preservativi, un bici-robot li recapiterà in due minuti»
«Non lo so, il momento è scemato»
«Ti prometto che sarà epico. Faticherai a chiudere le gambe alla fine della serata».

Tommy sgrana gli occhi metallici che da gialli diventano rossi.
Il televisore si sconnette all’istante, mostrando un canale privo di segnale.
Alexa precipita dal mobile emettendo un suono sordo, un addio prima di spegnersi; forse per sempre.
«Ok, rimango. Non sembri il solito maniaco fissato col porno che non mi degna nemmeno di uno sguardo».

Nell’udire l’ultima parola, Marco caccia un urlo e cerca di raggiungere il telecomando sopra al tavolino. Travolge Anna che sbatte contro la porta d’ingresso. Colpisce Alexa con un piede e la fa rotolare sotto il divano. Spinge Tommy, e il suo tentativo di aiutarlo, lontano.

A pochi passi dal telecomando, inciampa e lo manca ma si risolleva per cercare di spegnere la tv, invano. Una vivace schermata mostra svariate scritte, anteprime di video e un banner che invita all’accoppiamento con razze aliene e umanoidi.

«Bentornato Marco». Una voce metallica e femminile lo saluta. «Avvio la solita categoria orgia robotica anale o gradisci guardare qualcosa di nuovo?».

Il ragazzo si volta verso Anna che lo guarda come se le fossero cadute le chiavi in un tombino. Attorno a loro si crea una tensione tale da rendere tutti muti: Tommy, Alexa e il televisore non osano commentare la situazione a dir poco agghiacciante che si è creata mentre quattro occhi umani si fissano, come fossero due pistoleri sul punto di sparare il colpo fatale.

Una goccia di sudore scende lungo la fronte di Marco il cui cuore batte forte come se Darth Fener avesse detto a lui che era suo padre. Anna non batte ciglio, i suoi occhi verdi lo analizzano come un Terminator in procinto di scegliere la migliore modalità per ucciderlo.


Driin
.
Entrambi si voltano, poi Marco cammina lento verso la porta. Quando la apre, un bici-robot gli porge un sacchetto e dice: «Da parte di Tommy, Alexa e Tv». 
Marco volge lo sguardo verso Anna, poi verifica il contenuto e glielo mostra. Preservativi.
«Sesso?», chiede lui.
«Sesso!», risponde lei. 
«Alexa, suona quel cavolo che ti pare»
«Evviva!»

Fine

Marachelle!

Anna entra nel bar con l’aria di chi cerca rifugio. Senza guardarsi attorno, si dirige al bancone e ordina un caffè corretto con grappa. Il ragazzo, di fronte a lei, la fissa come se attendesse un altro ordine, ma pochi istanti dopo, forzando un sorriso sulle labbra, le porge quanto richiesto.

Muovendo appena la testa, peggio di una persona affetta da torcicollo, Anna individua un posto libero e ci si avventa come un bambino davanti ai regali sono l’albero di natale. Non beve subito il caffè ma porta la testa tra le mani e la stringe; gli occhi chiusi e le ciglia pasticciate dal mascara messo troppo velocemente.

Un lungo sospiro la rimette contro lo schienale della sedia e inizia a sorseggiare il caffè. Con la stessa lentezza di un bradipo, sfila il cappotto, noncurante che le maniche già macchiate ai bordi tocchino terra e apre il primo bottone della camicia, evitando di alzare troppo le braccia, testimoni di una corsa contro il tempo di quel lunedì mattina.

«Anna, sei tu?». La donna alza lo sguardo, la tazzina sospesa a pochi centimetri dalla bocca. L’odore forte della grappa allarga le sue narici. Sentire il suo nome la distoglie dal suo isolamento e una goccia precipita sui jeans. 
«Cazzo! Scusa Marianna, ciao. Come stai?», dice mentre cerca di rimediare alla goccia che sul tessuto si allarga come un’esplosione.
«Io bene, e tu, invece?»
«Ah, tutto bene. Devo solo aggiungere una lavatrice alla lista di cose da fare oggi!»
«Non me ne parlare, io avvio lavatrici come fossero episodi su Netflix».

 

Marianna ordina un caffè alzando la mano, la voce alta attira qualche sguardo poco amichevole, ma lo fa come se fosse a casa e non avesse degli adulti davanti a lei.
«Marco come sta? Ancora all’estero?»
«Sì, rientra dopodomani. Non vedo l’ora. Gestire tutti è dura. Ognuno con un orario diverso, attività in punti della città distanti uno dall’altro. Sembra una cospirazione!»
«Ti capisco, io e Mario stiamo pensando di assumere qualcuno. Arriviamo alla sera che siamo più cotti di loro e quando non vogliono dormire, apriti cielo»
«Noi non possiamo permettercelo, non per lunghi periodi almeno. Di solito ci limitiamo a chiamare qualcuno quando vogliamo ritagliare del tempo per noi, sai che intendo…»

Marianna le fa l’occhiolino, ma poi si concentra sul caffè che le viene servito, cui aggiunge due bustine di zucchero di canna. Mescola veloce e guarda l’ora, ma poi il movimento si fa più lento e il suo viso si distende. Si guarda attorno e vede solo adulti. Sorride.
«La prossima settimana c’è la riunione per il saggio. Pensi di proporti come volontaria?»
«Posso dire di no? Mi perseguiterebbero nelle mille chat su Whatsapp. Tu, invece?»
«Come ogni anno. Da quando ho detto quel sì mi sono data la zappa sui piedi da sola. E poi dicono che sia il sì il matrimonio quello che ti frega…».
Entrambe si lasciano andare a una sonora e chiassosa risata, di quelle naturali che fanno i bambini.

«Meno male che su di te posso contare. Dai, raccontami come vanno le cose. Quel caffè corretto grappa non me la racconta giusta». Anna curva le spalle, imbarazzata per essere stata colta in flagrante; la stessa espressione del più piccolo della sua famiglia quando combina un guaio.
«Cosa vuoi che ti dica? Siamo alle solite. Non vedo l’ora che siano maggiorenni. Ho sorpreso il più piccolo a sciogliere un gelato nel water per mangiarsi lo stecco al limone. La più grande ha distrutto un trofeo di Marco giocando con le amiche una partita a pallavolo immaginaria. E mio padre ha scoperto che i gemelli non amano le caramelle alla menta e, forse per non deluderlo, le hanno sempre nascoste sotto al sedile dell’auto; mi ha detto che il tizio dell’autolavaggio è rimasto sconvolto dal quel ritrovamento». 

Anna manda giù l’ultimo sorso ormai tiepido e fissa l’amica con un filo di invidia. «Tu sei sempre in forma. Ma guardati! Anche se, devo ammettere, il nuovo taglio di capelli non ti dona molto, perché lo hai fatto?».
A quel punto, Marianna si toglie il berretto con un gesto secco, poi abbassa lo sguardo, sotto gli occhi trasecolati di Anna. «Santo cielo» esclama, poi si affretta a ordinare due caffè. Decisamente corretti con grappa.

- Fine -

I Social: come all’ora di ginnastica!

YouTube.
Facebook.
TikTok.
Instagram.
Twitter.
LinkedIn.

E un pollice a muovere un mondo virtuale che appare più bello di quello nel quale vivi. I profili che segui sono come dei vicini di casa, ma non li incontri in ascensore, lungo le scale, mentre sali in auto quando ti passano di fianco o lungo la strada che percorri per andare a lavoro. Li vedi in quei cerchietti che Instagram propone, o in meravigliose e pensate-ad-arte immagini quadrate 1080 px per 1080 px come esige il social. 

Ogni contenuto sembra interessante, alcune informazioni le ignoravi; di altre ti chiedi come mai non ci hai pensato tu. Percepisci la stessa sensazione che avevi quando arrivava l’ora di ginnastica a scuola: ansia da prestazione, paura di prendere una pallonata a pallavolo, il fiato corto per l’agitazione che galoppa più veloce di un cavallo in corsa all’ippodromo perché senti di non essere abbastanza per quel mondo che neanche esiste. 

Tutti appaiono felici, hanno contenuti da condividere e sembra abbiano appreso un nuovo mantra che migliorerà la loro giornata. E questo è solo Instagram. Su Facebook le notifiche mostrano le novità di alcuni tuoi amici o di gente che hai amica ma che quando vedi online pensi “E questa chi cazzo è?”.

Il pollice non riesce a stare fermo e scrolla, incontrollabile, cosa c’è di nuovo nel mondo delle tue amicizie anche se somiglia di più ad un tabellone di un match: chi fa più punti, vince.

Scopri che una coppia ha avuto il terzo figlio, un’amica ha vinto un premio, il cugino del fratello del tuo ex si è trasferito all’estero, la persona che più ti stava sul cazzo ha aperto un’azienda di successo. A quel punto oscuri il telefono.

Quando lo riprendi in mano e scopri nuove notifiche legate alle tue recenti pubblicazioni hai la stessa sensazione di quando mangi del cioccolato e guardi tutti i social, perdendoti in video Tik Tok e pensi che forse dovresti puntare a quel social. O magari aprire un canale YouTube. Hai tante idee ma non sai da quale iniziare e poi ricevi un messaggio privato dall’ennesimo social. 

Una persona che conosci ha ricevuto una bella notizia che potrebbe diventare qualcosa di più concreto. Ti chiedi se sia una condivisione genuina o se sia solo un modo per sbatterti in faccia la sua conquista. La cosa un po’ ti tormenta ma nel frattempo ti congratuli, poi oscuri il telefono. 

Dopo lavoro la voglia di un drink qualsiasi ti attrae. Fai un brindisi con i colleghi, ridete facendo selfie. Tante teste tornano poi chine sugli schermi, i meno tecnologici tornano invece a lamentarsi del lavoro, dello stato, della vita di tutti i giorni. E tu ti fai trascinare dalla massa, sparli, ti adegui. La transumanza si ritrova a casa dell’amico che ha proposto cinese a domicilio.

Seguite come degli agenti dell’FBI il rider che arriva sfinito e a cui date solo una stella perché non ha consegnato entro i tempi che secondi voi erano corretti rispetto all’applicazione. Non lo dici a nessuno, ma sei dispiaciuta per il rider e per la sua faccia avvilita ma mandi giù quella sensazione assieme ad un raviolo al vapore intinto in salsa agrodolce.

La maggioranza opta per una commedia e la si guarda con un occhio solo: uno sullo schermo della televisione, uno su quello del cellulare. Mentre gli altri sembrano lavorare alla loro seconda vita, tu fissi lo schermo senza compiere azioni, le notifiche dei tuoi social hanno lo stesso andamento del lavoro di Homer Simpson alla centrale nucleare.

A fine serata saluti tutti e quando raggiungi casa, senti tuo padre russare e vedi tua madre stirare con l’aria di chi preferirebbe buttare il ferro da stiro giù dalla finestra piuttosto che usarlo per stirare la tua camicia. Sei content* perché potrai indossarla domani a lavoro anche se per un attimo ti senti in colpa a non essere tu a stirarla. O forse è per il fatto che vivi ancora con i tuoi genitori.

Sei pront* per dormire. Denti, pigiama, cellulare in carica e il pollice pronto a scrollare come se i feed dei vari social fossero una moderna ninna nanna, ma poi ti fermi. Ti accorgi di aver appoggiato sulla scrivania un biscotto della fortuna avanzato dalla cena. Appoggi il cellulare e lo scarti. Lo spezzi e leggi il biglietto.

Fatichi a prendere sonno. Di solito sono i social il tuo cruccio: le belle vite che tutti espongono, i sorrisi, le vittorie. Tutte cose che vorresti ma non ti appartengono. D’altronde perché si dovrebbe pubblicare il suo opposto? Sarebbe terribile. O forse potrebbe essere il giusto contrappeso che li bilancerebbe? Pensi e ripensi a quella frase e ti chiedi se faresti quella follia o meno. La cosa ti tenta, ma è proprio in quel momento che il sonno ha la meglio e crolli per rialzarti il giorno dopo e ricominciare tutto da capo.

Viso.
Social.
Denti.
Social.
Vestirsi.
Social.
Colazione.
Social.
Lavoro.
Social.
E anche se non te ne sei accorto, hai messo in borsa il biglietto del biscotto della fortuna.

- Fine -

La felicità del vicino è sempre più felice!

Ieri ho visto la ragazza del terzo piano e, come tutte le volte, mi sono emozionata.
Mentre lei scende, io salgo. Da quando l’ascensore è guasto siamo tutti costretti a fare le scale e ogni giorno la incontro alla stessa ora. Io rientro dal turno della notte e lei esce per tornare a lavoro dopo la pausa pranzo, presumo.
Non sono innamorata di lei, ma non riesco a non fissarla con grande curiosità. Invidio il suo modo di vestire, mi fa pensare che la perfezione esista. Quando cammina mostra sempre un velato sorriso, sembra quasi che non conosca alcuna espressione negativa. Gli occhi scuri sono grandi e luminosi: mi inteneriscono più di quelli del mio gatto. 

E in quei pochi secondi in cui passiamo una accanto all’altra, percepisco una sensazione positiva, come una grande boccata d’ossigeno; ho l’assurda convinzione che si nutra con iniezioni di positività invece di caffè e biscotti. Mentre la osservo avvicinarsi, ripenso al test sulla felicità che ho fatto la sera prima, di quelli che ogni tanto propongono le riviste. Essendo sola ho dato libero sfogo alla sincerità e ne è venuto fuori che ho una visiona tragica della mia vita, che la felicità per me è utopia e che non ho la capacità di cogliere la gioia anche nelle piccole cose. Uno schiaffo in pieno viso mi avrebbe fatto meno male. Chissà cosa avrebbe risposto lei, invece. Immagino il raggiungimento di un punteggio così alto da far vergognare la rivista per non aver proposto un test alla sua altezza.

Quando siamo a un metro di distanza, lei mi guarda e allarga il suo sorriso. Io ricambio, lei accenna una risata. Che abbia mostrato una smorfia buffa? O peggio, forse avevo i resti dello spuntino di metà mattina tra i denti? Oddio, che vergogna! Non appena le do le spalle abbasso lo sguardo e scuoto la testa sperando si dimentichi di me all’istante e quando mi riapproprio di un poco di dignità, vedo il mio coinquilino sulla soglia di casa. Il suo sorriso parla chiaro e non mi sta dando il benvenuto a casa.

«Sempre felice la nostra amica, eh?», dico sarcastica.
«E tu sempre invidiosa, eh?», replica lui, per nulla sarcastico.
«Come fa a essere sempre felice?», dico mentre giocherello con le chiavi di casa.
«Cosa ti fa pensare che lo sia sempre?»
«Su, dai, è evidente: ogni volta che la incrocio sulle scale sembra appena uscita da un cartone della Disney! Dio quando l’ha messa sulla terra le ha dato il pacchetto completo: felicità, serenità e benessere»
«Hai di nuovo fatto uno di quei test, vero?»
«Dai, non iniziare»
«E tu, come sei messa a felicità, serenità e benessere?»
«Come un gomitolo di lana cachemire lasciato andare dalla vetta dell’Everest. Anzi, come i panni di una lavatrice: a 90°!»
«Riesci a essere meno tragica?»
«Allora diciamo che mi sento come un’altalena. Una di quelle arrugginite che emettono quel fastidioso cigolio quando si muovono. E la mia si muove addirittura in modo precario»
«Ti avevo chiesto se riuscivi a essere meno tragica… Ad ogni modo, perché non le chiedi come fa a essere sempre così felice, ammesso che sia vero?»
«Farei la figura della pazza!»
«Ma ci guadagneremmo entrambi»
«E come?»
«Tu avresti la tua risposta e io non ti sentirei più lamentare!»
«Che simpatico! Allora dammi una mano!»
«Certo». E senza che riesca a reagire, mi prende le chiavi dalla mano e sparisce oltre la soglia di casa.

Rimango esterrefatta dal suo gesto, ma quando mi volto e guardo oltre la tromba delle scale, una sconosciuta euforia attraversa il mio corpo, come se la scia di positività lasciata dalla ragazza del terzo piano mi avesse contagiato. E per un attimo penso “Perché no?”. Corro giù per le scale tenendo una mano a stretto contatto con il corrimano, esco dal portone e mi guardo intorno. È appena uscita da un bar con in mano un caffè d’asporto e cammina verso il parco di fronte. Quando la raggiungo, è seduta su un’altalena: che bizzarra coincidenza! Mi faccio coraggio e mi avvicino mentre sistemo i capelli e passo l’indice sotto gli occhi per eliminare eventuali tracce di matita nera rovinata da un turno di sei ore. Mi fermo a pochi passi da lei che mi fissa con i suoi grandi occhi marroni. “Oddio, quanto è bella!”, penso. 

«Ciao, posso?», dico mentre indico l’altalena vuota accanto a lei.
«Certo»
«Sei Veronica del terzo piano, giusto?»
«Sì. E tu sei Marta del quarto?»
«Sì. Uhm, senti, vorrei farti una domanda se non…»
«Posso fartene una io prima?»
«Uhm, certo…»
«Ti incrocio sempre sulle scale da un po’ di tempo e ogni volta mi chiedo la stessa cosa: come fai a essere sempre felice?».

Mi faccio scappare una piccola e tenera risata. Lei ricambia e ora so che non sorride perché io abbia qualcosa tra i denti.
«Vuoi sentire una storiella divertente?», dico. E gliela racconto.

- Fine -

I miei pregi? Pazzi e scatenati!

«Grazie per accompagnarmi a questo colloquio, sono agitatissima!»
«Tranquilla, sii te stessa»
«Facile a dirlo, credo sarà più semplice indossare una “maschera”. Un po’ come il fantasma dell’opera…»
«Ma come ti viene in mente una cosa simile?»
«Il “facile a dirlo” o la maschera?»
«La maschera! Ovvio!»
«L’agitazione mi conferisce ispirazione, forse»
«Allora dovresti agirarti più spesso!»
«Cosa stai ascoltando?»
«Scusa, sono giorni che Sara mi invia vocali di cinque o sei minuti»
«Sicura che non sia un audiolibro, invece?»
«Bella battuta! Me la segno, comunque no. Il tizio che frequentava l’ha piantata senza alcuna spiegazione. Che stronzo!»
«Così dal nulla le ha detto addio?»
«Ma quale addio, magari! Ha applicato la tecnica del ghosting»
«La tecnica di cosa?»
«Ghosting: quando qualcuno interrompe i rapporti all’improvviso e ignora ogni tuo contatto. Si sono visti per quasi un mese, ovviamente sono andati a letto, poi il tizio è svanito nel nulla»
«Magari il mio ciclo mestruale facesse ghosting…»
«Ma che dici? Puoi ambire a molto di più, lo sai vero?»
«Evito i casi umani, e uomini sfigati mi trovano sempre. Faccio il mio lavoro senza lamentarmi, e mi mettono di turno nel weekend. Slitto le chiamate di mia madre, e mi ritrovo la sua richiesta di amicizia su Facebook. Tu cosa dici?»
«Touchè!»
«Hei, non mi hai più detto nulla di tuo fratello. Le rose hanno funzionato?»
«Diciamo di sì…»
«Cioè? L’ha ripreso in casa o no?»
«Sì, ma secondo alcune condizioni»
«Condizioni? E quali?»
«Quelle che lui le ha suggerito quando…»
«Lei lo butta fuori di casa e lui ritorna ma a delle condizioni? E da quando funziona così?»
«Lasciami spiegare. Mi ha fatto vedere le rose e gli ho detto che era il modo migliore, e rapido, per arrivare al divorzio, così gli ho scritto alcune cose che deve fare per lei e assieme a lei. Lui era titubante, quasi scocciato. Gli ho ricordato la scomodità del divano dei nostri genitori… e del convivere con i nostri genitori dopo i trenta. Ha acconsentito»
«E?»
«E pare stia funzionando, so solo che è tornato a dormire lì. Che sia sul divano o a letto, questo non lo so. È troppo orgoglioso per dirmi la verità, ma pazienza…»
«E pensare che lei non ti piace nemmeno»
«Sono male assortiti, ma mia nipote al momento ha bisogno di due genitori»
«E se peggiora che fai, li separi?»
«Ho riguardato il film Genitori in trappola qualche tempo fa, ho preso appunti»
«Inquietante…»
«Il film?!»
«Tu che pianifichi separazioni…»
«Scusa, non ho capito. Hai chiesto a tuo padre di venire con te? Perché?»
«Te l’ho detto, avevo paura»
«Di consegnare un paio di sandali che hai venduto online?»
«Ho cancellato la chat, ma avresti dovuto sentire che vocali mi inviava…»
«Tipo?»
«Per confermare luogo e orario mi ha descritto la sua giornata»
«E?»
«Ha detto che prima del nostro incontro doveva fare la spesa, andare a un funerale, fare shopping e che non lo avessi trovato al luogo concordato per la consegna, avrei dovuto andare in un posto che proponeva lui; e ha aggiunto che se non lo vedevo non dovevo preoccuparmi perché forse tardava per via di un altro impegno – che ora non ricordo – e che se provavo a contattarlo senza risposta voleva dire che gli si era scaricato il cellulare…»
«Caspita, e tu che gli hai risposto?»
«Di trovarci al parcheggio davanti ai carabinieri»
«Non ci credo, solo a te accadono certe avventure! E poi scusa, cosa gli hai venduto?»
«I miei sandali, quelli con le cinghie in pelle»
«Sarà strano ma ha gusto, la sua ragazza sarà contenta»
«Mi ha detto che non ha la ragazza, ma che ho buon gusto»
«Ok, questo è inquietante, però mi fai morire dal ridere…»
«E pensa che io, per un attimo, ho pensato davvero di morire… nel bagagliaio del tizio però…»
«Eccoci arrivate»
«La vicinanza a casa è impagabile, devi ammetterlo»
«Sì, è vero, ma mi assumeranno? Sono così demotivata dal mondo del lavoro viste le ultime disavventure. E senti questa: mi hanno chiesto di elencare il mio miglior pregio, è una delle domande che dovrò sostenere durante il colloquio. Hai qualche suggerimento?»
«Te ne posso elencare sette di pregi»
«Sette?»
«Sì!»
«Tu lo sai vero che il mondo del lavoro è un Hunger Games per adulti, oscuro e crudele, in cui probabilmente mi inserirò come parte di un avamposto di disperati?»
«Ok, ne ho sei da elencare. L’ottimismo non è il tuo forte…»
«Avanti, sentiamo…»
«Sei una persona che sa ascoltare: io bypasso gli audio che vanno oltre il minuto. Trovi sempre una soluzione, a chiunque, senza badare alle simpatie; questa è empatia. Mi fai ridere con le tue disavventure e questo mi fa pensare che dobbiamo aprire un blog e raccontarle. E poi hai questo modo così calmo di comunicare alle persone, le fai star bene e in questo lavoro è fondamentale»
«Ok, elencherò tutte queste belle cose: saranno entusiasti di stringermi la mano mentre mi intimano di uscire e non presentarmi mai più alla loro porta»
«Essere se stessi non è sbagliato»
«Sei mia amica, è normale che tu dica belle cose su di me»
«Quanto sei testarda, elencalo come difetto, se te lo chiedono…»
«E va bene, dirò che i miei pregi sono pazzi e scatenati! Ci vediamo tra poco»
«Aspetta…»
«Che c’è?»
«Pensavo che non c’è nulla di male a fare un po’ come il fantasma dell’opera, sai… ricamare un po’ sopra alle cose…»
«Ma questo significa indossare una maschera!»
«Sì, ma lui ne indossava una solo per metà!»

Fine

Pilar e i 12 ospiti improbabili

Pilar leggeva un libro sulla sedia da campeggio mentre prendeva il sole. Era davvero surreale vivere la quarantena da coronavirus in condizioni atmosferiche eccellenti. Erano le quattro del pomeriggio di un Aprile appena sbocciato e aveva pensato che fosse perfetto distrarsi con la lettura. 

Resistette poco più di mezz’ora però, poi chiuse il libro di scatto e si osservò attorno. Era davvero folle che ci fosse a malapena il cinguettio degli uccelli in sottofondo. Niente auto, niente persone. Il nulla. Rientrò in cucina per bere un bicchiere d’acqua e controllare se Marco avesse chiamato, ma lo schermo era privo di notifiche. Fece scorrere la rubrica fino a trovare il numero di nonna Teresa e al sesto squillo la sua voce si fece sentire chiara e squillante. Una conversazione in spagnolo prese atto e più che un parlare, sembrava un recitare un’opera teatrale che viaggiava a suon di maracas.

Sola in casa, Pilar dava libero sfogo alle sue origini spagnole di una Valencia che non vedeva da tempo. Non era pentita di aver mollato il suo lavoro di fotografa per seguire il compagno e futuro sposo in Italia, ma non aveva nemmeno previsto che un virus quasi letale avrebbe seminato il panico e costretto tutti ad una quarantena che ora come ora sembrava non avere fine. 

Si erano stabiliti a Cesena poco prima di Natale e tra il trasloco e il realizzare di essere in una città straniera, Pilar non aveva conosciuto nessuno e il poter uscire solo per questioni importanti come la spesa o la farmacia, limitava di certo la possibilità di incontrare persone nuove. E a peggiorare la situazione era il fatto che Marco era partito appena un mese prima per New York e ora era bloccato lì, senza la certezza di poter tornare a casa. Vivevano in un attico, sopra ad un condominio di dieci piani, ma tutti i residenti sembravano barricati in casa e pronti a scappare non appena incrociavano lo sguardo di qualcuno, anche il più conosciuto.

Quel pomeriggio era per Pilar la quarta settimana in cui rimaneva sola e per un attimo pensò di uscire in strada e urlare. Quella solitudine la stava alienando ma peggio, meschini pensieri si facevano largo nella sua mente. Sdraiata sul divano, guardava la televisione senza volume ma ben presto la cosa si rivelò essere un incubo. Su Real Time, Gordon Ramsay non urlava ad uno chef apprendista di andare a spaccare legna piuttosto che cucinare, ma rimproverava Pilar per aver fatto la stupida scelta di aver seguito il suo amato compagno italiano nella sua terra. Su Cielo un giovane Tom Hanks nei panni di Forrest Gump scappava dai bulli, ma in realtà era lei che scappava da una grande opportunità di lavoro offertale in Valencia, ma che aveva declinato per paura di fallire. Cambiò ancora canale e su Paramount Channel, Carrie Bradshaw in quel preciso momento tirava il bouquet in testa a Big per averla abbandonata all’altare e mentre Pilar guardava il suo anello, pensò che forse avrebbe fatto la stessa fine perché Marco aveva rimandato la data del matrimonio un paio di volte per motivi di lavoro, ma forse la realtà era un’altra e ora c’era pure la pandemia.

L’unica consolazione era che si sarebbe risparmiata l’umiliazione di essere abbandonata il giorno del matrimonio con indosso un abito lontano dall’essere favoloso come quello di Vivienne Westwood e senza indossare un uccello di piume in testa. Per un attimo scosse il capo, quasi volesse spazzare via quei pensieri assurdi e cercò qualcosa di interessante da guardare per passare il tempo, ma se su Rai 4 Andrea Sachs trionfava con Miranda Priestly ne Il Diavolo veste Prada, ottenendo alla fine il lavoro dei sogni, quando cambiò di nuovo canale il suo buonumore crollò alla vista di un Maurizio Crozza che in silenzio scuoteva il capo come dire “Ma la finiamo con ste cazzate?”. Sfinita dallo zapping demoralizzante, si alzò dal divano per fare qualche pulizia di casa. L’aspirapolvere le diede un incredibile sollievo. Mai soldi furono spesi meglio se non per un Folletto. Il rumore le impediva di sentire i suoi pensieri, ma quando passò allo straccio, ecco che ripiombarono ancora più forti di prima, proprio come le bombe all’alba in quel di Pearl Harbour. 

Aveva fatto la scelta giusta nel mollare la vita a Valencia e seguire l’amore della sua vita? Aveva fatto bene a declinare quell’offerta di lavoro? Ma la peggiore delle domande era un’altra: cosa avrebbe fatto finita la quarantena? A quel punto non aveva più scuse. Sapeva di non voler essere solo una giovane sposina, ma cosa avrebbe fatto della sua vita? Forse si stava adattando ad una nuova situazione, ma una parte di sé, nel profondo, voleva urlare che non era così che doveva andare. In quel momento, mentre rendeva il pavimento di marmo splendente, desiderò che la quarantena non finisse mai. Forse poteva abituarsi ad una vita simile. In fondo ci circondiamo sempre di cose futili, invece ora si poteva vivere con poco e sia l’essere umano che la terra ne avrebbero beneficiato. Il crollo economico sarebbe stato disastroso, ma ci si sarebbe risollevati. Abbandonò il mocio e noncurante del pavimento ancora bagnato, si infilò in camera a fumare un poco d’erba e lentamente cadde in un sonno profondo. 
Erano quasi le otto quando riaprì gli occhi. Si trascinò con forza in cucina e guardò il grande salotto vuoto. Fece un sospiro profondo. Non ne poteva più di quella situazione, doveva fare qualcosa. 

Una voce piuttosto squillante fece aggrottare la fronte a Marco. Chiuse lentamente la porta di casa e percorse il corridoio che si affacciava al salotto e ciò che vide lo lasciò basito. Pilar era in abito elegante e aveva apparecchiato la tavola per dodici persone. Riconobbe il servizio in ceramica che avevano acquistato online dopo le feste natalizie. Ma la cosa più strana era che su ogni sedia c’era un oggetto diverso: un orsetto di peluche, un cesto di mollette, una lampada, un quadro, un piumino per spolverare, un frullatore, un vaso con dei fiori, una scatola con sopra delle scarpe nere con tacco, un pacco di rotoli di carta igienica e un cestino vuoto. E Pilar sembrava particolarmente interessata a parlare con quello che era uno scopino dentro il suo apposito contenitore. A volte sbraitava in spagnolo, altre tornava a parlare in italiano. Era un botta e risposta a senso unico. 

«Appena questa situazione sarà finita, cercherò un lavoro come fotografa e se dovrò viaggiare lo farò. Marco dovrà capire! Come hai detto, scopino? Certo, capisco cosa vuoi dire ma non voglio essere solo una sposa e fare la casalinga. È vero che potrei trovare un lavoro come commessa o impiegata ma non sarei felice e… cosa? Lo so che tu fai un lavoro di merda, ma mi pare sia il tuo destino, no? Non ti ci vedo come spazzola sotto la doccia!» e scoppiò a ridere. «Oh, scopino! Sei troppo divertente! Sei l’anima della festa!». Si alzò per prendere una pirofila posta al centro della tavola e si rivolse all’orsetto di peluche alla sua sinistra. «E a te come vanno le cose, Mister Teo? Ho saputo che sei tornato single. Non è il periodo migliore per cercare una compagna, ma puoi sempre usare Tinder. È così che ho conosciuto Marco e non me ne sono mai pentita. Dammi retta, troverai la donna dei tuoi sogni! Ti va un po’ di torta salata, radicchio e gorgonzola?» e ne tagliò una fetta offrendola al peluche su un delizioso piattino.

«Caspita! Ho dimenticato il vino!» e nel momento in cui si alzò per andare in cucina, si ritrovò davanti Marco che la guardava con due occhi sbarrati, l’aria confusa. Ci fu un lunghissimo silenzio. Era quasi inquietante. Marco fece qualche passo in avanti, fissando quello scenario alquanto bizzarro, poi guardò Pilar che era imbarazzata ma anche sorpresa di vederlo.
«Come hai fatto a tornare? Perché non mi hai avvisato?».
«…Ho rotto il cellulare e poi hanno organizzato un volo da un giorno all’altro… ma abbiamo dovuto fare scalo ad Amsterdam e poi a Roma ci hanno tenuto in osservazione e…». Non disse altro, ancora stupito dalla situazione che gli si era presentata davanti. A quel punto Pilar iniziò a raccogliere i piatti, ma Marco la fermò. «Aspetta!» disse con un gesto della mano. Appoggiò il borsone e la guardò sorridendo. «Non mi presenti ai tuoi amici?». 

FINE

“JOY”

Dal libro “642 idee per scrivere” del San Francisco Writer’s Grotto, ho selezionato alcune idee e ho chiesto, tramite un post su Instagram, di scrivere il primo pensiero che veniva in mente. Ho poi selezionato le tre risposte che più mi piacevano per trasformarle in racconti.

Il primo racconto lo potete leggere al seguente link, mentre gli altri due, qui di seguito. Come abitudine di Wanted Stories, ho fatto dei sondaggi per far scegliere quello che più ispirava e, a seconda dell’ispirazione, ho richiesto qualche input per iniziare a scrivere! Qui di seguito i testi scritti da due “Joy”! Buona lettura!

joyclaremadness – “5 cose che mi mettono sempre nei guai”Da che ho memoria ho sempre parlato: da piccola, da adulta e persino mentre mangiavo. Avevo sempre qualcosa da dire. Parlare troppo mi ha spesso messo nei guai, ma non solo. Quando da adulta credi di aver superato l’età dell’istintualità, ti accorgi che… NON È VERO! Conseguenze? Cosa sono? Ah sì, quelle che ti prendono a sberle quando AGISCI SENZA PENSARE!

Se poi aggiungiamo la sovrabbondante EMPATIA che ti fa piangere in treno al racconto di un perfetto sconosciuto, capisci che forse non hai superato la tua adolescenza o l’hai fatto male😅. Così mi capita di piombare nei ricordi, dove la MALINCONIA mi fa sembrare i ricordi magnifici e il presente TERRIBILE. Ma ciò che più mi fa precipitare nei guai, come un tuffo di testa da cinque metri, è la CURIOSITÀ, in nome della quale ho combinato una quantità innumerevole di cazzate!

Joy fissa il cellulare come se fosse in procinto di riverarle un segreto. Il pollice della mano destra viene mordicchiato con tenerezza. L’indecisione è troppa. Una videochiamata mancata ha cambiato la sua giornata. Fino a qualche minuto prima, tutto si svolgeva seguendo il solito tran tran quotidiano, ma non appena aveva preso in mano il cellulare, tutto ciò che la circondava era svanito nel nulla e nella sua testa rimbomba solo un nome. Quello del suo ex…

«Secondo te che cosa vuol dire?», chiede Joy mentre cammina avanti e indietro per la lavanderia dove il suo bucato si sta lentamente asciugando. Il pollice, poveretto, sempre tormentato.
«Non chiamarlo! Lascialo perdere! Ti ha mollato e per ben due volte, non vorrai mica cascarci ancora, no?», replica l’amica, il tono esasperato, mentre ascolta Joy nutrendo poche speranza di essere ascoltata.
«L’ultima volta che mi ha lasciato, la seconda intendo, stava ritornando sui suoi passi e…».
«No, Joy, non chiamarlo. Perché insisti a farti del male?».
«Ok, allora lascio stare… forse hai ragione…».
«Ecco, brava! Fila a casa e vedi di non fare cazzate!».
«Ciao Francy, grazie mille. Sei un tesoro!».

Joy chiude la telefonata e si adagia su una sedia di plastica che emette un cigolio poco rassicurante. Totalmente insoddisfatta della telefonata con l’amica, è come se le avessero comunicato il fallimento di un esame importante, ma poi scatta in piedi e digita un messaggio. Le dita corrono veloci sulla tastiera e se la sensazione di quel momento si potesse raffigurare, sarebbe come una lampadina illuminata sopra alla sua testa.

Riprende a camminare attorno ai due tavoli che dividono le lavatrici dalle asciugatrici, in attesa di quel suono che conferma l’arrivo di un messaggio e infatti, dopo nemmeno un minuto, ecco che si ritrova ad aprire una chat di WhatsApp, ma ciò che legge la fa infuriare all’istante. “So già che cosa mi vuoi chiedere e la risposta è LASCIA PERDERE! Francesca mi ha avvisato che avresti provato a contattare anche me. Sono tua amica, ti voglio bene, ma a volte agisci senza pensare e finisci col fare solo grandi cazzate! Ps. sai che ho ragione! Giulia». A quel punto Joy ci rinuncia e, le mani incrociate, fissa l’oblò dell’asciugatrice che di lì a pochi minuti finirà il suo ciclo di lavoro.

«Secondo me devi chiamarlo». Joy si volta e nota un ragazzo di colore, i dredd legati con un elastico nero, con indosso una tuta bianca e blu che inserisce il suo bucato in una delle lavatrici.
«È quello che penso anch’io, ma le mie amiche dicono che sbaglio…».
Il ragazzo le rivolge le spalle, ma continua a parlare.
«Ah, non stare a sentire cosa ti dicono gli altri. Devi fare ciò che senti. Insomma, chi meglio di te sa ciò che vuoi?».
«Hai ragione! Voglio bene alle mie amiche, ma non comprendono l’amore che provo per lui e questa è la mia occasione! C’è una festa in centro, so che lo troverò lì ed è lo scenario perfetto per rimetterci insieme». Il viso di Joy s’illumina mentre tira fuori quasi con furia tutti i vestiti asciutti. Non li piega, ma li butta nelle due sacche di plastica e si affretta a uscire, ma poi si volta verso il ragazzo.

«Grazie mille del tuo consiglio!», dice a voce alta. Il ragazzo si volta e fissa l’ingresso ormai vuoto, poi porta una mano all’orecchio sinistro. «Aspetta, amico, mi pare di aver sentito qualcosa…», e si guarda attorno per vedere se ci sia qualcun’altro nella lavanderia, poi torna a concentrarsi sul bucato e continua la sua conversazione al telefono.Joy attraversa la strada e raggiunge il locale dove sa di trovare il suo ex. Indossa il vestito di cotone bianco con piccoli fiori azzurri che ha comprato durante la loro prima vacanza in Grecia. Erano state due settimane stupende e indossarlo voleva essere un modo per ricordargli i bei tempi, e forse essere anche di buon auspicio.

Si infila tra la gente, lo cerca con lo sguardo. Ogni ragazzo dai capelli castani alto un metro e ottanta che le capita a tiro, attira la sua attenzione, ma è quando riconosce la sua risata che si volta e lo vede. Finalmente! Cammina verso di lui e sorride, ma quando incontra il suo sguardo si mostra improvvisamente seria, quel momento per lei è molto importante. È la svolta che aspettava.

«Hei, Joy, ciao! Come stai?».
«Molto bene, anche tu qui?».
«Non manco mai a una festa! Sai, mi fa piacere vederti…». Joy si sforza di non gongolare, o peggio, ballare di gioia davanti a lui. “Francesca e Giulia, avevate torto!”, pensa celando un sorriso beffardo.
«Sai, fa piacere anche a me e…».
«Ero andato in paranoia, sai… non sapevo come avresti reagito, ma ti vedo bene». Joy schiude le labbra e lentamente le sue sopracciglia si inarcano quando sul suo viso emerge un’espressione confusa.
«Che intendi?».
«La videochiamata che ti ho fatto. Sai, mi è partita per sbaglio!».
E a quel punto fu la fine…

Fine

joy_in_the_deep – “La menzogna più colossale che ti sia mai stata raccontata”
Di menzogne se ne dicono e sentono tante. Sempre a fin di bene? Purtroppo no. Io lo so, fin troppo. Sono sempre state bugie dette per legittima difesa, perlomeno le mie. A mali estremi, estremi rimedi. Frase fatta? Può darsi, ma ahimè è una grande verità. In certe menzogne magari ci si finisce per sbaglio, per paura o per vergogna. Perché non si ha altra scelta o solo per il gusto di farlo, per cattiveria gratuita, di quelle non ho esperienza e neanche pietà. C’è chi non può privarsene. Di tutte le menzogne, le peggiori sono quelle che suonano come un “Ti amo come nient’altro al mondo” e poi si rivelano delle stilettate nel fianco che non smettono più di sanguinare. La menzogna più brutta è quella che ti fa credere di essere amata e invece poi non è vero niente.

Quando Joy entra nel bar che affaccia sulla grande piazza del centro storico, una folata di vento smuove il profumo di croissant ancora caldi e latte mischiato al caffè e per qualche istante ha l’impressione di essere entrata in un’altra realtà. È un venerdì mattina, sono da poco passate le undici e Joy, assieme a un atteggiamento indispettito, si ferma davanti al bancone in attesa di ordinare un caffè. Non ne ha particolarmente voglia, lo fa solo per tenersi occupata.

Rientrare a casa significa rispondere alle domande di sua madre sull’esito del corso di recitazione, giunto alla decima lezione. Il solo pensiero le provoca ansia, l’insegnante non è per nulla soddisfatto dei suoi risultati. Le dice di continuo che un testo va compreso, amato e interpretato, qualunque esso sia. Per lui, il morboso legame di Joy a recitare solo testi che le piacciono, la limita e a fine lezione, le dice che se non impara come si deve la parte assegnata, è il caso che vada a spaccare legna per il resto dei suoi giorni.

«Che cosa prendi?». Joy torna alla realtà e di colpo le sue guance si colorano di rosso quando due occhi verdi la fissano in attesa di una risposta. Lei tentenna, le parole non prendono forma nella sua testa. Lo sguardo che la fissa è così magnetico da renderla quasi incapace di respirare. Non vedeva quel ragazzo lavorare al bar da diverso tempo e non si aspettava certo di vederlo quel giorno, proprio quando aveva pescato dall’armadio dei vestiti che nemmeno una cooperativa avrebbe accettato. Lui inclina la testa, le regala un piccolo sorriso e questo è sufficiente per Joy che d’improvviso disgela la sua mente e riprende possesso del suo corpo. Appoggia entrambe le mani sul bancone e inizia a parlare con una convinzione finora a lei sconosciuta.

«Sai, di menzogne se ne dicono e sentono tante. Sempre a fin di bene? Purtroppo no. Io lo so, fin troppo. Sono sempre state bugie dette per legittima difesa, perlomeno le mie. A mali estremi, estremi rimedi. Frase fatta? Può darsi, ma ahimè è una grande verità. In certe menzogne magari ci si finisce per sbaglio, per paura o per vergogna. Perché non si ha altra scelta o solo per il gusto di farlo, per cattiveria gratuita, di quelle non ho esperienza e neanche pietà. C’è chi non può privarsene. Di tutte le menzogne, le peggiori sono quelle che suonano come un “Ti amo come nient’altro al mondo” e poi si rivelano delle stilettate nel fianco che non smettono più di sanguinare. La menzogna più brutta è quella che ti fa credere di essere amata e invece poi non è vero niente…».

Il cuore di Joy batte così forte che pare rimbombare tra le mura del locale. Le mani lentamente si rilassano e si avvicinano l’una all’altra. L’ansia invade il suo petto e ora il respiro si fa più pesante. Se il suo insegnante fosse stato lì in quel momento avrebbe applaudito per la sua performance. Ne era convinta: era stata formidabile. Ora, però, voleva il parere del ragazzo che la fissava come fosse stato preso a schiaffi senza motivo. Non si conoscevano, che motivo aveva di mentirle?
«Caspita, ti ha proprio spezzato il cuore».
«Come dici?».
«Chiunque sia stato è proprio un pazzo. Non ti conosco, ma mi sembri una brava persona. E sai un’altra cosa?».
Joy scrolla le spalle, l’aria di chi sta cadendo dalle nuvole.
«Voglio invitarti fuori a pranzo. Ti va?».
Nonostante la perplessità del suo viso, Joy riesce a dire un sì appena percettibile e osserva il ragazzo carino e simpatico mentre si appresta a sistemare tazze e bicchieri, forse per impostare il lavoro al collega che inizierà il turno di lì a poco. Prende posto a un tavolino e lo fissa, indecisa se dirgli la verità. “Le bugie non si dicono, mai”. Questo le aveva sempre ripetuto sua madre, instillandole un’assurda paura al solo pensiero di mentire. E una relazione che inizia con una bugia non è una buona partenza. Il ragazzo si volta e richiama la sua attenzione.
«A proposito, io sono Davide».
«Joy».
«Piacere di conoscerti, Joy. Mi piace il tuo nome e sai un’altra cosa? Credo che saresti una grande attrice, hai carisma. Dovresti provarci. Dammi altri cinque minuti, poi possiamo andare».
La voce della madre risuona nella sua testa come un disco inceppato e la tentazione di dire la verità è forte. Forse tra cinque minuti gli dirà come stanno davvero le cose. O forse no…

Fine

La coppia che scoppia!

L’amore è una cosa meravigliosa, o almeno questo è quello che dicono! Scopritelo attraverso litigi, sfuriate, amici simpatici ma un po’ subdoli. Due punti di vista che vedono due coppie che si amano e si odiano!

“Una coppia si sta per lasciare!” – è con questa frase che ho iniziato il sondaggio per richiedere alcune informazioni e scrivere un breve racconto. Questa volta, io e il mio amico Aldo abbiamo scritto due storie separate, niente cadavere squisito, ma due punti di vista diversi – femminile e maschile – avendo gli stessi input!
E quelli da voi scelti li riporto in maiuscolo:

Entrambi vogliono Bob. Chi è? 
gatto/pappagallo/CANE

Cosa ha innescato il litigio?
misterioso pacco di Amazon/un mazzo di chiavi mai visto prima/UN LIBRO BIZZARRO

Arriva una telefonata improvvisa. Chi è?
la suocera di uno dei protagonisti/l’avvocato che hanno consultato assieme/UN AMICO/A CHE HANNO IN COMUNE

Ma non è tutto! Oltre ad usare questi input, avevamo anche una difficoltà in più, ovvero scrivere una storia che non avesse più di 5000 caratteri, spazi inclusi. A quanto pare ce l’abbiamo fatta, ma che dura!!!

LINDA MOON

Matilde e Francesco si stanno per lasciare. Litigano da oltre un’ora. Lei lo accusa di aver comprato quel libro. Lui si difende ripetendo più volte di no, ma non riesce a farla ragionare. Il libro è una serie di racconti di vita, nulla di drammatico, se non fosse che l’autrice è la sua ex. Urla, piatti rotti e smorfie di rabbia invadono il piccolo salotto dell’appartamento al terzo piano di Via Paganini, 26 a Vicenza. Il cellulare suona e Matilde risponde subito. Chiara, l’amica con cui entrambi sono cresciuti, ha un perfetto tempismo!

Dopo aver ascoltato il riassunto della situazione da parte di Matilde, arricchito da saltuarie intromissioni da parte di Francesco, decide di intervenire in loro aiuto e in meno di mezz’ora fa arrivare alla loro porta un uomo vestito come uno sciamano, la pelle olivastra e l’aria rilassata di chi problemi proprio non ne ha. Dice di essere un guaritore di ogni male e negatività e senza perdere tempo, chiede a entrambi di sedere sul divano mentre lui si accomoda a terra, le gambe incrociate e l’aria meditabonda. L’accento straniero, che ricorda vagamente le terre indiane, lo rende ancora più interessante e incuriosisce i ragazzi che per un attimo dimenticano il litigio. L’uomo fa loro precise domande e a turno rispondono. I toni alti lentamente si abbassano anche se a volte il giramento di palle riemerge pungente. 

Dopo un’ora la situazione sembra migliorata. Lo sciamano li ringrazia per l’impegno e presenta il conto di trecento euro. Matilde volge lo sguardo a Francesco che si trattiene dal dire la sua, non vuole certo rovinare quel momento per venire additato come colpevole, e provvede a consegnare i soldi. Lo salutano sulla soglia di casa ma lo sciamano pone loro un’ultima domanda, sottolineando quanto sia fondamentale la risposta. Chiede quale sarebbe il posto migliore per Bob, il loro cane. Avviene uno scambio di sguardi pensanti, braccia incrociate, espressioni indecise, poi l’uomo chiede il permesso di esprimere la sua opinione e suggerisce che il cane Bob vada a stare con l’amica che hanno in comune, Chiara, fino a quando non avranno sistemato con certezza la loro situazione sentimentale. Matilde e Francesco sembrano concordare e glielo affidano mentre lui li saluta pronunciando un’ultima frase sulla positività.

(la seguente parte è scritta in dialetto veneto. Le parole con la lettera “x” si leggono con una “s” fricativa alveolare sorda, come nel castigliano – spagnolo)
Quando sente bussare alla sua porta, Chiara accorre di corsa, l’aria visibilmente curiosa. 
«Hei, non me par vèro! Ghèto xà finìo?».
«Certo! Chi pénsito che sia?». L’accento straniero svanisce per lasciarne uno in dialetto veneto.
«Bob!!! El me can! Gò sbaià a dàrte a lòri come regalo, me so pentìa subito, ma ora te stè con mi par sempre! Col cavolo che te porto indrìo da chei dò!».
«E tì, sìto contenta?».
«Ovvio! Quando gò visto el libro su Amazon de l’ex de Francesco gò capìo chel ièra el modo migliore par farli litigar e riaver indrìo el can e i schèi che i me doveva! A proposito, ghèto i schèi?».
«Certo che i gò! Vàrda qui, trexento esatti!». 
«Meno male, li vansàvo da chei do fannulloni da mesi… i pensa che essendo amici tutto xè concesso, ànca prestiti a fondo perdùo! Quindi… te gài credù?».
«Oh, ma sìto drìo schersare?  Xé sìe mesi che vado al corso de recitasiòn. No i me gà solo credùo, i me gà adorà! Ghe mancava solo la standing ovation!».
«Ma te sì un genio, lo sèto? Finalmente gò risolto sta situasiòn, non ghe ne podévo più!».
«Cugina, se te ghè un problema, lo risolvémo! Non ghe xé scuse che tègna. Se te ghè da recuperàr roba xé riprendemo tutto queo che xé nostro!».
«Grasie caro, xé vedemo presto! Stame ben e salùdame to mama!».

Fine

ALDO FERRARESE

Buongiorno, io sono Bob!
Meticcio, quattro anni, taglia media. Pelo lungo, nero, con ciuffetti castano chiaro.
Di padre ignoto, mia madre abita in via Cave, qualche casa più in giù. Non la vedo mai, ogni tanto la sento abbaiare forte, si mormora sia una poco di buono. Io sono diverso, mi piace starmene disteso in giardino a godermi il sole, non mi piace farmi toccare e adoro mangiare.
Possiedo due umani, Lorenzo e Priscilla. Vanno a lavorare e partono al mattino per tornare la sera. Mi salutano

. «Ciao Bob!», e mi riempiono la ciotola. Prima Lorenzo e poi Priscilla. Tornano. «Ciao Bob!», e mi riempiono la ciotola. Priscilla per prima e dopo Lorenzo. Mi piace vivere così, tranquillo, senza sforzi inutili. Corse scalmanate, giochini idioti, manifestazioni di affetto non fanno per me, le lascio ben volentieri agli altri.

 
Oggi si è fermato un furgone davanti a casa. Ne è sceso un omone, molto più scuro dei miei. Mi ha guardato male, io l’ho guardato peggio. “Qua non entri”, gli ho fatto capire, e alquanto seccato ha allungato in maniera molto cauta il braccio sopra alla cancellata, per appoggiare un pacchetto sulla cassetta della posta. Dopo poco è tornata Priscilla, ha aperto il cancello e ha preso il pacchetto.

 
«Ciao Bob!», e mi ha riempito la ciotola. È entrata in casa e poco dopo è scoppiata a piangere. Lorenzo è arrivato più tardi del solito, ha aperto il cancello.
«Ciao Bob!», e mi ha riempito la ciotola. È entrato in casa ed è scoppiato l’inferno: robe spaccate, grida, pianti e parolacce, un casino che neppure Caronte. Di solito Lorenzo e Priscilla litigano a tarda notte, in camera da letto, e se le danno di santa ragione, tipo «toh, toh, toh… ah, ah, ahh… prendi questo… e questo… no, no, sì, sì… ancora, ancora, bastaaaa… ahhh!». Pure i vicini si arrabbiano. «Zio Billy, fatela finita! Porco zio, vogliamo dormire!». Qualcuno, invece, applaude. «Bah, valli a capire…». 


Comunque questa volta è stato diverso, non la smettevano più di urlare. Poi lui si è preso in piena faccia un piatto e anche il telefono e si è messo a frignare. Lei ha preso il sacco a pelo ed è venuta a dormire in giardino con me. E tutta la notte a piangere. «Bob, mi sei rimasto  solo tu…», ed io che non riuscivo a prendere sonno. «Che palle!».

La mattina seguente è cominciata ancora peggio: nessuno dei due è andato a lavoro, nessuno dei due mi ha riempito la ciotola. Non volava una mosca, nessuno parlava. Poi è squillato il telefono di Lorenzo.
«Ciao Arturo! Cosa? Vieni subito, sennò lo butto!», poi ha preso una sedia e l’ha sistemata nascosta in giardino e si è seduto, immobile, minaccioso, rilassato. Ho provato molto rispetto per il mio umano. Dopo un’ora è arrivata una macchina ed è sceso Arturo. Mi è sempre stato antipatico quello lì. Ha suonato il campanello mentre Lorenzo, nascosto, rimaneva immobile. È uscita Priscilla.


«Ciao Priscilla, ho fatto fare un bellissimo fotolibro, un regalo per la mia ultima fiamma, Claudia. 365 sfumature di Claudia, così l’ho intitolato. E ci sono 365 foto sexy e arrapanti di lei, fatte da me. Le ho fatto pure la dedica, Ti amo Claudia, da quando ti ho conosciuta tutte le altre donne mi fanno cacare.  Il tutto rilegato in morbida pelle. Spettacolo! Non volevo farmi sgamare da mia moglie, Giovanna, per cui l’ho fatto spedire qui a Lorenzo. So che il pacco è arrivato, posso averlo per cortesia?».


Priscilla muta e bianca come un cencio, l’ha fatto entrare  e in quel momento il mio rispetto per Lorenzo è diventato ammirazione. È uscito come un diavolo dal cespuglio urlando, «Attacca Bob!», cosicché mentre io mordevo gambe e chiappe, lui colpiva e graffiava faccia e braccia. Poi con un calcio l’ha fatto volare in strada, ha preso il pacchetto e glielo ha tirato in testa. È stato bellissimo. I miei umani hanno continuato a litigare due ore buone in camera da letto, ma ne sono usciti trasformati. Baci, coccole, parole dolci, evidentemente avevano fatto la pace, meglio così. E finalmente mi hanno riempito la ciotola.

 
Mentre mangiavo, Lorenzo mi ha ringraziato un sacco. «Grazie Bob! Bravo Bob!», e mi ha promesso un regalo. Siamo saliti in macchina e poco dopo, quando ho visto il pollicione all’insù e la scritta Happy Ending – toelettatura per cani  non sono riuscito a trattenere la gioia. «Ahuuuu, uhuuuhuu, ahahuuuu». Speriamo ci sia la pechinese dell’altra volta.  «Rfarf, grrrf, arfrrgrr».  Lorenzo sorride. “Ti voglio bene fratello”.

Fine

La Fine

Racconti brevi scritti appositamente per l’evento Wanted Stories e in questa serata il tema su cui gli scrittori si sono cimentati è LA FINE.

Linda Moon – leggi il suo racconto link

Marco Simion

Riguardai la scheda del prossimo cliente e presi la valigetta. Era una lei, Angela. L’appuntamento era su una panchina in mezzo al parco, di fronte al lago dove d’inverno si posano le anatre. Un luogo un po’ da cliché, ma è evidente che questo luogo ha significato qualcosa per lei, per loro.


Non me l’ero scelto io questo lavoro, era lui ad aver scelto me, otto anni fa, qualche mese dopo essere sbarcato in questo paese con pochi soldi in tasca in fuga dal disordine in cui era piombata la mia terra Natale. 
Una cosa l’aveva capita subito, una volta che mi ero rimesso in sesto e la mia padronanza della lingua era migliorata: le relazioni qui sono superficiali. Tanto più di questi tempi, in cui gli incontri sono a volte fugaci e la gente ha paura a dirsi quello che prova davvero. 

C’era un’immensa nicchia di mercato totalmente vergine, pronta a essere sfruttata. E io avevo bisogno di un lavoro più remunerativo del cameriere o del magazziniere. Soprattutto in una città così cara. Non avevo attraversato un mare e rischiato più volte i proiettili delle guardie di frontiera per finire a vivere in un appartamento umido e sovraffollato, con a malapena i soldi per mangiare. 
Per fare il lavoro che mi ero scelto, che mi aveva scelto, occorreva una grossa faccia tosta. E chi può avere più faccia tosta di una persona che non ha nulla da perdere?  


Nel frattempo avevo varcato i cancelli del parco e mi dirigevo verso il laghetto. Passando accanto al chioschetto del vino caldo tirai fuori la foto dalla giacca. Un maglione scuro e una giacca in tinta. Come quelli che stavo indossando ora. Mi avvicinai al laghetto e cercai una posizione in cui potevo avere una buona visuale senza essere visto. La individuai subito. Era una donna sui quarantacinque anni, che guardava in avanti, seduta sulla panchina. Ogni tanto si girava dietro di lei con uno scatto nervoso. La tensione era palpabile. Attesi un altro po’, studiandola per decidere l’approccio migliore. Ripassai in testa le frasi che mi ero studiato. Quando mi sentii pronto premetti un piccolo bottone. Riguardai la foto: un sorriso smorzato, su un viso anonimo. Come quello che stavo indossando ora. Era il momento.


Sbucai dal viale e camminai verso di lei. Lei non se ne accorse subito, intenta com’era a guardare dall’altra parte. Quando si girò e mi vide ebbe un sussulto. Si mise una mano vicino alle labbra, per trattenersi dall’urlare. “Ciao Angela, ti trovo bene. È passato molto tempo”. “Johann, sei tu? Non sembri cambiato per nulla”. “Sei tu che non sei cambiata per niente. Devi perdonarmi se non mi sono fatto sentire per tutto questo tempo, sono stato un codardo, lo so”. Lei mi prese la mano “Non dire così. Sai, non pensavo che avresti accettato di vedermi. – Mi fece sedere con lei sulla panchina- Ti ricordi quando ci sedevamo qui a guardare lo stagno? E tu mi stringevi per ripararmi dal freddo?”.  Soprattutto all’inizio i clienti erano essenzialmente mariti che volevano troncare con l’amante, o persone che non riuscivano a riappacificarsi coi fratelli, coi genitori o con gli amici. Tutto questo all’insaputa delle persone con cui avrei avuto a che fare, che credevano di stare interagendo con il mio committente. 


Non era questo il caso di Angela. “Sì, lo so. Mi dispiace se sono sparito. Il trasferimento è stata una cosa improvvisa e io non ho mai avuto il coraggio di spiegarmi”. 
Poi col tempo era emerso una nicchia ben precisa, ancora più discreta di clienti. Persone che mi incaricavano personalmente, per mettere un punto a delle situazioni che le tormentavano, a dei rimpianti che non volevano saperne di sparire. E per questo, sul mio sito e sul mio biglietto da visita c’era disegnato un punto nero, un indirizzo e-mail e un numero di telefono. “Punto.com – Ti aiutiamo a chiudere”.

Facevo sempre le mie ricerche. In realtà Angela era uscita con Johann Andersson per appena tre settimane. Lui era un rappresentante di laminati plastici, sposato da 7 anni, e si trovava in città per una trasferta di lavoro. Si erano conosciuti nel parco dove lei portava il suo cane, Freccia. Quando le cose avevano cominciato a farsi impegnative evidentemente si era fatto riassegnare alla sua sede di origine senza lasciare detto nulla. Angela non aveva mai avuto il coraggio di cercarlo. Ma ora, dopo quasi 5 anni, il pensiero di essersi lasciata scappare l’amore della sua vita o che qualcosa di grave gli fosse successo continuava a tormentarla. È questo il motivo per cui ero stato contattato. 


Io offro catarsi. 
“Sai Angela, sei la cosa più bella che mi sia capitata nella vita. Ma non ho avuto il coraggio di chiudere con la mia famiglia, coi miei figli”. In parte questo era vero. “E tu ti meritavi qualcuno che ci fosse sempre per te”. Anche questo era vero. 
“Johann, mi sei mancato tanto.” Mi sarei aspettato che lei mi urlasse dietro la sua rabbia per essere stata sedotta e abbandonata, come in un romanzo ottocentesco. Che finalmente si sfogasse per essere stata lasciata senza neanche la dignità di una parola, di un messaggio. Invece mi stampò sulle labbra un bacio passionale, che mi colse totalmente di sorpresa. L’assecondai per un po’ ma poi dolcemente staccai il viso da lei. “Non posso, davvero non posso fare questo a Carla. Sta molto male, e non merita questo.” Stavo assolutamente improvvisando, credo che Carla stesse benissimo, nelle ultime foto su IPersona avevo visto che praticava arrampicata libera. “Ascoltami Angela, tu ti meriti di più. Un uomo che possa esserci davvero per te. Io sono solo uno stronzo”. Questo era vero al 100%.


I miei tratti erano uguali a quelli di Johann, o almeno, del Johann della foto, grazie alla maschera olografica che stavo indossando. Le mie intenzioni, e i miei pensieri, no. 
“Addio Angela. Mi ha fatto piacere vedere che stai bene. Ma è meglio che mi dimentichi”. Mi girai senza voltarmi e mi incamminai. Giocare coi sentimenti delle persone non è una cosa che si fa a cuor leggero, nonostante tutto il pelo che si possa avere sullo stomaco. Nel mio paese ero stato un attore di teatro, e un commediografo. Non uno di quelli che vengono intervistati alla olovisione, o negli articoli di e-giornale, ma abbastanza noto perché una delle commedie satiriche facesse storcere il naso a qualcuno di importante, a addirittura al nostro “amato” leader, in un paese in cui le libertà erano sempre meno tollerate. Dopo un avvertimento tutt’altro che amichevole la notizia peggiore del mondo mi colpì una mattina. Per me lì non c’era più futuro e decisi di fare la valigia e partire. Venni preso in contropiede quando i confini vennero chiusi del tutto, improvvisamente, un giovedì pomeriggio. 


Qualche tempo dopo trovai passaggio su una barca di contrabbandieri che attraversava il canale. La guardia costiera ci individuò quando avevamo quasi raggiunto l’altra sponda, e dopo un finto avvertimento aprì subito il fuoco. Era evidente che avevano ricevuto un ordine specifico. 
Venni raccolto da una barca di pescatori, quasi congelato.
Fu allora che decisi che quell’uomo che era quasi affogato nel Canale non esisteva più. Dovevo rifarmi una nuova vita. Una vita che significava vivere la vita degli altri, anche solo per un attimo. 


C’era un’altra nicchia ancora più piccola e delicata di clienti. Coloro che non trovavano pace perché le persone con cui dovevano chiudere non c’erano più.
Mi ero trovato a impersonare un padre a cui il figlio non aveva mai avuto il coraggio di confessare di essere gay, oppure un uomo che non era riuscito a perdonare mentre era in vita il suo migliore amico d’infanzia, con cui aveva rotto i rapporti burrascosamente quando l’azienda che avevano fondato insieme era andata in bancarotta per un suo investimento azzardato. Ormai mi ero abituato alle richieste più strane. 


A tutto, fuorché a questo. 
Quel giorno mi arrivò una richiesta via posta, da un indirizzo anonimo, insieme a una foto. E a un nome: Paul Kowalski. Insieme a un pagamento elettronico con questa causale: P.K. 
Più una data e un luogo. Al porto, molo 12, alle 19 di quel venerdì. Quel posto mi portava alla mente strani ricordi. 
Non c’era una descrizione di cosa si volesse da me. Riguardai ancora una volta la richiesta. Era mercoledì. Il mio sonno nei due giorni successivi fu molto agitato. Rimasi indeciso a lungo se presentarmi o meno. Alla fine decisi che avevo bisogno di risposte. 


Arrivai al mio appuntamento alle 18.50 circa. La nebbia era salita nella baia. Chi poteva avermi contattato per quel lavoro? Sbirciai da dietro un magazzino. Attivai la maschera olografica, pronto a impersonare Paul Kowalski. Quel Paul Kowalski nella foto. Toccai una regolazione per lasciare un leggero glitch nell’angolo esterno della retina. Un piccolo segnale per indicare al mio interlocutore che quella era una replica. 
Nell’altra tasca tenevo un piccolo faser, un’arma con cui tenermi al sicuro. 
Paul Kowalski. Quanto tempo era che non sentivo quel nome. Quasi otto anni. 
E c’era un motivo ben preciso: Paul Kowalski ero io. 


Era un avvertimento per dirmi che mi avevano individuato? Era questa forse una trappola? Dovevo scoprirlo.
Alle 19 in punto una persona con un impermeabile beige e un cappello a tesa larga spuntò da dietro un magazzino e si diresse verso il molo. Il passo era veloce, e non molto pesante. Quando fu quasi alla fine del molo decisi di incamminarmi, piano senza quasi fare rumore. Approfittai del rumore di una nave che passò lì accanto per portarmi alle sue spalle, pronto a immobilizzarlo se si fosse rivelato una minaccia, invece di un semplice cliente. Ma non poteva essere un semplice cliente. Chi poteva conoscere il mio nome in quel paese? All’improvviso si girò. Rimasi di sasso. Non era possibile. 


Sotto quel impermeabile e quel cappello c’era una donna. Una bella donna dai corti capelli neri. Era Julia. 
Questo non era possibile. Credevo fosse morta. Era quello che mi avevano detto. Che l’avessero uccisa per mandare un segnale, perché era entrata nella resistenza. Era davvero lei? C’era forse qualcun altro in possesso di una maschera olografica? Pensavo di possederne l’unica copia al mondo, l’unica che aveva creato il suo inventore, il mio amico Ignacy. 


Poi all’improvviso Julia parlò. Avrei riconosciuto quella voce tra milioni di altre. “Paul, ti ho cercato per tanto tempo sai? Per molti anni. Avevano detto che ero morta, che mi avevano condannato per tradimento. Ma non è vero, ero riuscita a scappare, anche io. Ti ho raggiunto qui sperando che avremmo potuto ricostruirci una vita insieme, lontano dalla paura. Ho cercato ovunque, ho battuto palmo a palmo i circoli degli esuli e dei rifugiati d’Oltremanica. E poi ho trovato una persona che era con te su quella maledetta barca salpata da Southampton. Che mi aveva detto che si ricordava di te, e che oltre a lui non si era salvato nessuno quel giorno. 


Ho vissuto per questo tempo tormentata dal rimorso di non averti potuto dire che era stata una messinscena, che ero ancora viva. Di essermi dovuta fingere morta per avere un’altra possibilità, di averti dovuto ingannare, a malincuore. Perché c’è un’altra cosa che non sai. Quando sei partito io ero incinta. Me ne sono resa conto mentre ero in latitanza. Si chiama Paul Jr. Ora ha quasi 7 anni, gli piace molto la storia e la matematica. E i dinosauri.”
Julia si zittì per un attimo. Ero pietrificato.


“Lo so che non sei Paul, lo so che sei un attore che ho pagato per impersonarlo. Ma il pensiero di non averti potuto dire tutto questo, di non averti potuto rivedere dopo quello che ho passato per attraversare la frontiera e il mare mi tormenta da allora. E lo so che questa è la cosa più stupida e pericolosa che abbia fatto in vita mia, che non so chi tu sia, che ti sto raccontando dei segreti che in un altro paese mi starebbero costando la vita. Ma te li sto dicendo in una lingua che tu non credo conosca, che spero tu non conosca. 

Ma dovevo togliermi questo peso dallo stomaco. Mi prenderai per melodrammatica, sotto sotto stai forse anche ridendo di me, ma sappi che anche io ero un’attrice, prima di tutto questo – e fece un gesto ampio col braccio per indicare il mare – e capirai che le scene madri sono sempre state il mio forte”. 

FINALE LIETO

Spensi la maschera olografica e improvvisamente il mio viso invecchiò di circa 8 anni. Una cicatrice ora mi solcava la guancia destra e qualche capello bianco fece capolino nella mia chioma.
Julia rimase di sasso. “Anch’io ho sempre amato le scene madri. Ma immagino te lo ricordi perché le scrivevo io.” Risi di cuore per il sollievo. “Ci ho sperato così tanto che la notizia della tua morte fosse solo sporca propaganda. Che tu fossi sana e salva da qualche parte, in qualche altro paese libero. Ma dopo tutto questo tempo avevo perso la speranza”.
“Non è possibile!”. Julia mi corse incontro e cominciò a prendermi a pugni sul petto, mentre la stringevo in un abbraccio. “Sei uno stronzo”. E alla fine scoppiò in un pianto a dirotto, appoggiata a me. Anch’io mi misi a piangere. Alzò il viso verso i miei occhi e mi passò la mano tra i capelli. Poi mi diede un lunghissimo bacio, un bacio che sapeva di vento e mare, il bacio di chi ha un bisogno assoluto di recuperare il tempo perduto in fretta. 
“Amore mio, tu pensi che il peggio sia passato. Ma ora dovrai prepararti al ruolo più difficile della tua vita, te lo assicuro. Quello di padre. E lì non ci sono copioni che possano aiutarti”.

FINALE DRAMMATICO

Spensi la maschera olografica e improvvisamente il mio viso invecchiò di circa 8 anni. Una cicatrice ora mi solcava la guancia destra e qualche capello bianco fece capolino nella mia chioma. 
Julia rimase di sasso. “Anch’io ho sempre amato le scene madri. Ma immagino te lo ricordi perché le scrivevo io.” Risi di cuore per il sollievo. “Ci ho sperato così tanto che la notizia della tua morte fosse solo sporca propaganda. Che tu fossi sana e salva da qualche parte, in qualche altro paese libero. Ma dopo tutto questo tempo avevo perso la speranza”.
“E avresti fatto meglio a perderla”. Julia mise una mano dentro la tasca. Improvvisamente il suo viso cambiò e al suo posto comparve quello di una donna dai capelli castani, e delle leggere lentiggini sotto gli occhi. In mano teneva un taser, puntato verso di me. “Pensavi di poterti nascondere, o che ci fossimo dimenticati di te. Ma il primo ministro Johnson non ha affatto dimenticato di quando alla prima in cui era stato invitato l’hai fatto interpretare da un maiale, da uno sporco suino che si rotolava in un letamaio sul palco, mentre facevi finta che recitasse i suoi discorsi. E quanto alla tua Julia McGovern, lei ha fatto una brutta fine. La nostra nazione è unica e indivisibile, ricordatevelo sempre. I terroristi come lei hanno avuto il destino che si meritano. Ma presto la raggiungerai. Hai un ultimo desiderio?”.  
“Sì, riaccendi la maschera”. Lei rimase stupita, ma acconsentì, dopodiché fece fuoco. Se me ne dovevo andare, almeno che fosse guardando gli occhi dell’unica donna che avessi davvero amato nella mia vita. 

Fine

Alberto Sartori

Natale 2019

Ho sempre amato il mare d’inverno. 
Quelle giornate in cui lo scintillare del sole spunta tra le nubi.
È come se una forza nascosta si facesse spazio tra le onde e mi chiamasse verso la battigia.
Ed io non so porvi resistenza. Mi levo le scarpe e corro, corro come se fosse l’unica cosa che so fare nella vita. Nient’altro esiste in quei momenti. All’improvviso mi fermo trafelata e mi giro. Vedo le orme dei miei piedi sulla sabbia gelida, quasi ricoperta dalla nebbia mattutina condensata. Vedo la mia auto parcheggiata lontano, solitaria nel parcheggio semivuoto. Ho lasciato il suo ultimo regalo sul sedile del passeggero. “Per Evey” è l’unico messaggio scritto sopra con una biro rossa.
Non so ancora perché sono venuta qui. Questi ultimi giorni sono stati devastanti. A lavoro non ne è andata dritta una ed ho concluso il venerdì con una lettera di richiamo per aver insultato quel maledetto cliente che mi dà della stronza ogni volta che siamo in ritardo con le consegne. E del nuoto ne vogliamo parlare? Ormai ho la nausea da quella piscina piena di cloro. Me la sogno di notte. E poi lui. Lui di cui ancora non riesco a parlare.
Lui che dopo quello schiaffo morale non ho più voluto rivedere. Mi sono sentita come una lucida matrioska a cui sono state tolte tutte le bamboline al suo interno. Tolte perché spezzate. Buttate come fossero marionette inerti, senza fili a sostenerle. Dentro di me un punteruolo ha fatto breccia come se stesse colpendo e sgretolando una lastra di ghiaccio. Lui che mi aveva dato quel maledetto regalo prima che il nostro dialogo degenerasse. Nato tutto da una stupidaggine, una battuta non compresa, un sorriso che sembrava più malinconico che sincero. Ho preso la macchina ed ho vagato senza una meta nella testa, ma questo mare ha acceso un fuoco di segnalazione perché venissi in suo soccorso ed il mio cuore ha risposto. Ed ora non so che farmene di quel pacchetto.
Mi siedo guardando i granelli di sabbia sotto alle mie mani. Sembrano entrare nei miei occhi come lame. Ma sono sempre sotto ai miei palmi. Sono lacrime calde che iniziano a scendere ed a bruciare sul viso. Sembrano piccoli rigagnoli di lava incandescente che svaniscono agli angoli della mia bocca. Sto singhiozzando. Sento quel dolore misto a calore proprio nel centro del petto. Si irradia dallo sterno ai polmoni. Aumenta e con esso aumentano le lacrime. La sensazione è quella di espellere negatività, brutte sensazioni che si sono accumulate per troppo tempo dentro di me. Il marcio che sentivo in gola comincia a sparire ed i miei pensieri sembrano finalmente respirare.
Chiudo gli occhi.
Inspiro. 
Espiro.
Inspiro.
Espiro.
Nella mia testa una giostra di mille cavalli gira senza fermarsi, una spirale infinita di neuroni che ricreano una luminescente via lattea.
Inspiro.
Espiro.
Calmo la mia mente. Lascio che il ritmo dei miei battiti si affievolisca. E piano piano riapro gli occhi. Il mare è diventato di una calma così piatta da sembrare finta. Due bambini stanno camminando vicino a me ed i loro genitori li seguono da lontano con il loro sguardo amorevole. Tutto ad un tratto uno dei due mi colpisce con un bastone.
“Ahi, state attenti” esclamo io stizzita. “Ci scusi Signora, o signorina”. E li vedo allontanarsi mentre continuano ad appoggiare il bastone davanti a loro. Quello che mi era parso un colpo volontario di un bimbo dispettoso in realtà rappresentava il loro modo di vedere. Mi sento male. Io sono qui ad ammirare il mare ed a piangere di me stessa, mentre loro non lo possono nemmeno vedere questo spettacolo della natura eppure continuano a sorridere e ad essere felici per la sabbia che solletica i loro piedi. E la giostra di cavalli riprende a girare. La mia mente non mi permette più di comandare i miei pensieri. “Cos’è davvero importante nella vita, Evey?” mi sta chiedendo decisa. Ed io non trovo il coraggio di rispondere. Quello che per me è importante lo è solo per me. Sono io a dare valore ai miei momenti, alle cose che mi circondano. Per cui lasciatemi qui con il mio mare, oggi non ho tempo per nessuno se non per la mia tristezza. Ma quel regalo non mi dà pace. La sua immagine si incunea prepotentemente nelle mie fibre nervose. “Basta!” mi dico a voce alta. Mi alzo di scatto. Il sangue non riesce a fluire subito fino alla mia testa e barcollo a destra e a sinistra, alzando le mani in cerca di un appiglio che non arriva. Appoggio un ginocchio a terra e faccio altri tre bei respiri profondi. Riprendo a camminare con maggior lucidità e dopo pochi istanti sto già aprendo la portiera. Prendo il pacchetto tra le mie mani.
Lo lancio più lontano possibile, mi metto al volante e sparisco nella nebbia. Sulla spiaggia cala ancor di più il silenzio. La fine della giornata si avvicina ma non coinciderà con la mia fine.

Natale 2029

Era da troppo tempo che non passavo il Natale sulla mia spiaggia preferita. Ancora sola, godendo del freddo che mi screpola la pelle. In lontananza due ragazzi avanzano verso di me continuando ad appoggiare il loro bastone e mille ricordi affiorano nella mia mente. Sono accompagnati da una signora di mezza età che non ci metto molto a riconoscere: è la loro mamma. Sono quegli stessi bambini, ora diventati ometti, che mi avevano colpito per sbaglio in quel Natale di quanti anni fa? Vedo la signora accelerare il passo e venire verso di me.
“Evey?!? Sei tu?”.
“Sì, sono io! Ma come fa a sapere il mio nome?” rispondo con voce flebile.
“Oh cara, sono dieci anni che vengo qui a Natale per vedere se riesco ad incontrarti. Ti ricordi quello del 2019?”.
“Certo che lo ricordo, perché?” chiedo io sorpresa. “Ti racconterò cos’era successo dopo che te n’eri andata. Come se lo stessi vedendo con i tuoi occhi. Chiudili, respira, immagina questa scena”

Natale 2019

Sulla spiaggia uno dei due bambini inciampò sul pacco regalo lanciato da Evey. Si rialzò e lo porse alla mamma chiedendo “Mamma, cos’è?”.
“E’ un regalo, Giulio. Ma non è per te”.
“Aprilo, aprilo mamma. Dai ti prego”. Spinta da un’insolita curiosità ed energia lei iniziò a scartarlo. Non voleva farlo ma le mani furono avvolte da un formicolio e non riuscì a fermarle. Finalmente lo aprì ed estrasse una lettera. Non disse il contenuto ai suoi bambini né al marito che le stava a fianco. Su una carta candida come nuvole, vide scritto con una biro rossa…
Cara Evey,
rabbia, felicità, tepore, rancore, freddo, demoni, angeli, sorrisi, sorpresa, rinuncia, destino, fato, scelta, diritto, dovere, delusione, gioia, delizia, parola, silenzio, conquista, perdita, fantasia, realtà, cenere, fuoco, parodia, esistenza, sguardi, lamenti, torpore, risveglio. 
Scegli gli ingredienti della vita che vorrai.
Sceglili con cura. E non dimenticare un pizzico di sale.

Fine