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Ombre

finale di Marco Simion

Una porta si apre all’improvviso con un cigolio, e ne esce una bella ragazza, con dei lunghi capelli castani e vestita con un maglione a fiori così simile a quello che mi sembrava di essermi appena sognata. Tiene per il manico una grande pentola fumante, con dentro un mestolo, e nell’altra due piatti. Nella stanza si diffonde un buon odore di funghi, e la pancia emette un sonoro brontolio, mettendomi in imbarazzo. In fondo mi ero messa in cammino nel bel mezzo della preparazione della cena.

“A quanto pare abbiamo ospiti. Tu devi essere Giulia, Luigi mi ha parlato molto di te” mentì lei. “Spero tu ti sia un po’ asciugata. E che tu abbia fame. Vieni, ho fatto una zuppa di funghi, dovrebbe scaldarti”. Il suo sguardo si addolcisce e si posa su Luigi. “Lascialo pure dormire vicino al fuoco, credo non si sveglierà per un bel po’, era veramente distrutto”.

Non so per quale motivo, ma non me la sento di contraddirla. Sposto delicatamente la testa di Luigi dal mio grembo e gli metto la mia giacca sotto la testa. “Ma ce l’abbiamo un cuscino, aspetta”. La ragazza appoggia il pentolone sul tavolo e si dirige verso il letto, prende un cuscino e lo appoggia sotto il capo di Luigi, che non sembra accorgersi di nulla. È solo una mia impressione che nel farlo lei gli accarezzi i capelli? 

La seguo poi al tavolo, dove mi versa una porzione abbondante di zuppa nel piatto. “Aspetta, prendo il pane e qualcosa da bere”. Si affaccia di nuovo nell’altra stanza e ne esce con una grande pagnotta, un fiasco di vino e due calici. Sembra portare tutto con naturalezza, come se tutto non pesasse nulla. “Spero tu gradisca un po’ di vino. Di acqua ne abbiamo presa abbastanza”.

“Quindi ti sei messa in viaggio con questo tempaccio. Molto coraggioso da parte tua. Anche un po’ stupido però”. Non so per quale ragione ma non riesco a replicare. Di solito sarei saltata su per molto meno. Da una sconosciuta poi. “In fondo Luigi qui era al sicuro. E domattina con calma sarebbe sceso a valle. È stato strano rivederlo sai?” Al mio sguardo di stupore mi riempie il bicchiere di vino. “Non credo mi abbia riconosciuta, ma io e lui c’eravamo già visti, quando eravamo appena adolescenti. Io ho sempre abitato in queste valli, e lui era venuto in vacanza coi suoi.

Un giorno mi sono presa una storta nel bosco, e non riuscivo a camminare. Lui era rimasto un po’ indietro in una camminata e ha sentito i miei lamenti. Mi ha portato a spalla fino a casa mia. Un paio di km e, nonostante fossi leggera, credo di essergli pesata un bel po’. Non si era mai lamentato. E poi il giorno dopo era passato a trovarmi. E il giorno dopo ancora. Ed è stato in uno di quei giorni che gli ho dato il suo primo bacio. L’ho capito subito che era il suo primo, da quant’era impacciato. E da quant’era arrossito.

Abbiamo passato le due settimane successive così, sempre insieme. Fantasticavamo di grandi progetti, quando saremmo diventati adulti. Ma in realtà nonostante ci abbia sperato tanto una volta tornato in città non l’ho più rivisto.” Guarda il mio anello. “Tu sei stata più brava, l’hai trovato e sei riuscita a tenertelo. Io credo che neanche si ricordi di me. Cosa sono in fondo, quindici giorni d’estate?”.

“Avevo pensato di dirglielo domattina, e sono sicura che stanotte sarei riuscita a convincerlo a rimanere qui con me. Non sono più una ragazzina ingenua, e ora ho affinato i miei mezzi”. Nel dirlo si passa una mano tra i capelli in modo languido e mi lancia uno sguardo intenso. È ancora più bella di quanto non mi fosse sembrata la prima volta che si era affacciata sulla porta. Nonostante la fiducia che ho in Luigi non dubito nemmeno per un momento che ci sarebbe riuscita. “Ma sei arrivata tu. E ho capito che non potevo essere così egoista da prendermi ciò che non era più mio, e forse non lo era mai stato. Per cui ho deciso di lasciarvi in pace. Potete passare la notte qui, al caldo. Domattina prendete il sentiero che parte a destra della radura, dovreste arrivare al paese in un’oretta. E se ti chiede qualcosa digli che l’hai trovato qui, da solo, in questa capanna e che te l’ha indicata un vecchio cacciatore. Non gli parlare di me, è meglio così, sarà il nostro segreto”.

E nel dirlo mi si avvicina e io mi ritraggo istintivamente, ma lei mi prende il viso tra le mani, e mi dà un delicato bacio in fronte. Poi si china su di Luigi che dorme davanti al fuoco e dà un bacio in fronte anche a lui. “Mi sa che gli è venuta la febbre, prenditi cura di lui. È stato un piacere conoscerti Giulia, ma anche un peccato” mi dice mentre apre la porta principale per uscire nella pioggia. Dopo un attimo di smarrimento mi affaccio alla finestra. Probabilmente è già scomparsa lungo il sentiero tra gli alberi, perché non la vedo più. 

Il giorno dopo Luigi si risveglia accanto a me. Gli tocco la fronte ed è appena tiepida, ma niente di particolare. Non gli faccio nemmeno un cazziatone. Gli dico che mentre salivo per cercarlo ho visto del fumo salire in mezzo al bosco, e fradicia com’ero sono andata in quella direzione, per ripararmi. E lì ho incontrato un montanaro, che mi ha detto di averlo trovato appeso a una parete di roccia e averlo portato qui con uno sforzo notevole.

Luigi è un po’ perplesso ma dice di non ricordarsi bene della sera prima, è tutto un po’ confuso. Io gli riscaldo un po’ di zuppa e passiamo mezza giornata lì finché non mi dice che se la sente di scendere giù, ma che prima deve verificare una cosa. Camminiamo per una mezz’oretta fino al punto in cui era rimasto bloccato la sera prima e io mi preoccupo un po’. Lui mi dice solo che vuole capire che errore ha fatto. Si avvicina a una piccola croce, piantata nel terreno e la guarda per pochi secondi, come di sfuggita e poi si mette a fissare la valle in lontananza.


“Possiamo andare” mi dice. Se mi fossi avvicinata di qualche passo avrei potuto leggere cosa c’era scritto sulla croce. “Soreghina Ciastel – strappata troppo presto all’affetto delle sue montagne. 1984-2001”.

Fine

La campana tibetana

finale di Alberto Sartori 

Il suono di una campana tibetana. Il rintocco è molto forte ma poi si trasforma in un’onda melodiosa che mi fa assopire sempre di più, si avvicina e mi avvolge completamente. Le palpebre sono sempre più pesanti, chiudo gli occhi mentre solo un leggero spostamento d’aria mi culla.

Riapro gli occhi di colpo e tiro uno starnuto. Maledetta pioggia e maledetto freddo. Sono sdraiato sulla pelle di cervo, la mia nuca posata sul suo grembo. È stata così dolce ad accogliermi qui con lei ma ancora non riesco a credere che non abbia capito chi sono. Quelle lunghe estati assieme prima di conoscere Giulia sono impresse nella mia mente e posso riavvolgere il nastro dei ricordi alla perfezione. Sono ancora intorpidito e mi alzo lentamente senza svegliarla.

Il suo respiro è molto affannoso. Vado verso il fuoco che si sta ormai spegnendo ma emana ancora quel suo calore ristoratore, muove un leggero vento verso il mio viso mentre mi avvicino. Sento una ragnatela che mi si posa tra la fronte e i capelli, cerco di levarla con la mano ma oppone resistenza, si attacca con forza alle mie dita. La osservo per vedere dove si sia incastrata e vedo che non è una ragnatela ma un capello di Giulia.

Solo lei ha una ciocca di capelli azzurri tra tutte le donne del paese. Con quelli che perde sarà stato sicuramente impigliato in uno dei miei vestiti. Ripenso a lei ed un brivido mi corre lungo la schiena. L’ho sognata mentre ero assopito, era qui con me. Avevo una paura tremenda che mi scoprisse con Soreghina ma per fortuna non era reale, anche se era un sogno così vivido. “Basta fantasticare Luigi, non era qui. Guarda dietro di te chi c’è” mi dico da solo indispettito. Parlare con me stesso è sempre stata una buona abitudine.

Mi giro per guardare Soreghina e la vedo muovere gli occhi da sotto le palpebre chiuse, sintomo di un sonno molto agitato. Vado verso di lei e la accarezzo dolcemente. Un polpastrello rimane bagnato da una lacrima che sta scendendo sul suo viso. 

“Ehi, Soreghina” la chiamo sottovoce ma non si sveglia. “Devo dimenticarti, di nuovo” le dico con un sussurro ancora più flebile. “È ora di rincasare Luigi!” mi impartisco un ordine da solo. Il temporale è finito da un pezzo e posso prendere in prestito una delle sue torce. Magari penserà che sia stato soltanto un sogno l’avermi qui per una sera. In ogni caso mi ricorderà come quel ragazzo salvato sulla montagna e non di certo come il suo ex. Di sicuro non verrà a cercarmi. Questo ultimo pensiero mi rasserena.

Con passo leggero raccolgo i vestiti fradici lasciati sul pavimento, faccio un fagotto e prendo la torcia sopra alla sua credenza. Il forte rintocco di una campana tibetana mi entra nella testa, sento un liquido caldo scorrere giù per il collo ed inondarmi la schiena. La vista si offusca e tutto diventa nero.

“Ma dove diavolo sta andando Luigi?” penso animosamente. Quella maledetta Soreghina mi ha imbavagliato mentre dormivo e ha preso il mio posto sulla pelle di cervo. Possibile che non si sia accorto di niente? Ringrazio quel tarlo che ha fatto questa piccola fessura sul muro, almeno posso vedere cosa stanno combinando quei due.

“Oh mio Dio” vorrei urlare forte. “No no no no no, non colpirlo brutta stronza. Cosa vuoi fare?” Inizio a dimenarmi con tutta la forza che ho e riesco a liberare una mano. Tolgo il fazzoletto di cotone dalla bocca ed inizio a sciogliere tutti i nodi del lenzuolo che mi stringe polsi e caviglie. Torno a quel piccolo foro e vedo Luigi riverso a terra, una pozza di sangue si allarga sul pavimento. Non c’è tempo per pensare. L’istinto prende il sopravvento, il mio cuore zittisce la mia mente. Scappare o attaccare? Io attacco.

Tiro una spallata alla porta dello sgabuzzino dove ero rinchiusa. Soreghina fa in tempo solo a spalancare i suoi occhi. Colpisco forte l’interno del suo ginocchio e la faccio cadere a terra, ho portato con me il lenzuolo e glielo lego attorno al collo e stringo, stringo forte, stringo finché non vedo Luigi che si sta muovendo. È ancora vivo. Allento la mia presa e lego i suoi polsi. Mi alzo e corro verso Luigi. Inciampo. Cado vicino a lui sbattendo il viso. E di nuovo sento il suono della campana tibetana. Inizia a tintinnare e continua a trasformarsi, diventa un suono intermittente e metallico, poi un ronzio fastidioso.

Apriamo gli occhi all’unisono. Giulia è qui di fronte a me. Anche le due poltrone bianche si guardano tra loro. Fuori il sole sta scendendo. “Allora com’è andata? Oggi c’era un po’ di pepe in più nell’esperienza che vi ho innestato e potevate prendere parecchie scelte. Vi siete divertiti?”

“Sì, dottore. Sembrava così reale” sussurro tristemente. Maledetta terapia di coppia. Questa nuova tecnologia che ci fa vivere situazioni all’unisono nelle nostre menti, prendere delle scelte in modo da registrare le nostre reazioni, sperando di rinsaldare il nostro rapporto proprio non sta funzionando. 

Fine

Cadavere Squisito – 6

Un racconto scritto a sei mani. Ispirati dalla tecnica del Cadavere Squisito. Tre scrittori. Un tema comune. Tre stili diversi che si amalgamano assieme. Un racconto scritto appositamente per l’evento Wanted Stories seguendo le rispettive idee e ispirazioni! 

Ispirati dal tema della Fotografia, abbiamo dato vita a un racconto tra il mistero e la suspense, ambientato nell’ex ospedale psichiatrico di Granzette, a Rovigo. Una struttura che abbiamo visitato di persona, alla ricerca di dettagli per la nostra storia.


L’input di partenza è una frase tratta dal film “Shutter Island” di Martin Scorsese e con Leonardo di Caprio come protagonista principale.

Il racconto è stato scritto secondo la tecnica del Cadavere Squisito. Un gioco di scrittura a più mani dove ogni autore interviene a turno per creare una storia con una trama credibile. Ogni autore scrive il suo finale e durante l’evento ne viene letto solo uno, scelto dal pubblico a inizio serata. Qui li trovate tutti!
Buona lettura!

INCIPIT – Dal film Shutter Island di Martin Scorsese – “Una volta che sei dichiarato pazzo tutto quello che fai è considerato parte di quella pazzia: le ragionevoli proteste sono negazioni, le paure giustificate, paranoia. L’istinto di sopravvivenza… meccanismi difensivi”

Turno 1 Linda

Quando varcò la soglia dell’ex ospedale psichiatrico di Granzette, Giacomo si bloccò. Fino a pochi secondi prima la sua convinzione era forte e sicura, non lo aveva mai abbandonato, ma ora che era fisicamente dentro all’edificio, un’inaspettata esitazione lo travolse, obbligandolo a dubitare persino delle sue azioni. Era l’alba di una domenica mattina. La struttura non avrebbe aperto al pubblico prima di tre ore, ma Giacomo sapeva che doveva visitare quel posto quando era ancora avvolto nel silenzio. 

Così accadeva nel sogno che faceva ripetutamente da qualche tempo. Si vedeva dentro quel luogo con la costante sensazione di dover trovare qualcosa di cui però era ancora all’oscuro. Non sapeva se avrebbe trovato pace al suo tormento, ma sapeva che doveva farlo. Non era preoccupato di essere scoperto. Se lo avessero trovato, li avrebbe ingannati presentandosi come un operatore del comune di Rovigo o meglio ancora, avrebbe detto che si era semplicemente smarrito. Chiunque avrebbe creduto a un uomo di settant’anni.

Turno 1 Alberto

La sua vita si poteva riassumere in due sole parole: zappa e badile. Della moglie defunta non portava rancore, né splendidi ricordi. Un figlio, fino al 2001, partito nel Novembre di quel maledetto anno come volontario in Afghanistan e mai ritornato. Motivazione e scuse in una semplice lettera gialla dell’Esercito Italiano. La salma non era mai tornata, solo una bara di abete non lavorato con una croce di bronzo e un drappo con i colori della bandiera italiana. All’interno solo aria, qualche granello di sabbia e la rabbia di un padre. 

Quella rabbia che non lo aveva mai abbandonato per lunghi interminabili anni. Fino a qualche mese prima era l’unico sentimento che riusciva a permearlo ogni santo giorno, fino a quella notte in cui iniziò a vivere quel sogno maledetto. Continuava a farlo, sempre lo stesso, sempre gli stessi interminabili secondi. Adesso era lì, da solo, in un corridoio che non aveva niente di ospitale, nemmeno un quadro alle pareti, l’intonaco crepato dava vita a strani disegni. 

Eppure gli sembrava di sentire qualcuno vicino a lui, o qualcosa. Sentiva quella sensazione che ti fa svegliare nella notte per andare a vedere se c’è qualcuno fuori dalla porta, per poi trovare solo l’oscurità e alzare gli occhi per essere confortato dal bagliore della luna.

Turno 1 Aldo

Adesso quel sogno lo stava vivendo per davvero. L’edificio aveva perso lo status di ospedale psichiatrico. Non ospitava più malati, solo visitatori, eppure tutt’ora emanava una forte inquietudine, un senso di disagio che entrava sotto pelle e gelava il cuore. Il corridoio che stava percorrendo sembrava in tutto e per tutto quello che più e più volte aveva percorso in sogno. Si accorse di avere paura, una paura immotivata, solida e pulsante. Si chiese cosa stesse facendo lì dentro, e sentì il desiderio di andarsene e di farlo subito. 

Stava già dirigendo i propri passi verso l’uscita, quando la sua attenzione venne catturata da un intreccio di graffi sull’intonaco, apparentemente senza senso. A ben guardare, si poteva leggere in maniera distinta una frase. “Nessuno è te”. Venne colto da un senso di vertigine, un déjà vu, l’immagine di un vecchio che sbavava e mormorava: «Nessuno è te, nessuno è te, nessuno è te». Sentì le gambe farsi di pietra e lacrime calde solcare il volto.

Turno 2 Linda

Proseguì lungo il corridoio, non voleva stare un minuto di più in quel posto, sentiva che qualcosa di brutto stava per accadere. Si diresse verso quella che una volta era la sala mensa, ma quando sentì un rumore sinistro provenire dall’ingresso lì vicino, si bloccò. Senza pensarci oltre, camminò nella direzione opposta, ma quel rumore si ripresentò, ancora più ostile, così si ritrovò a salire la rampa di scale impolverata, l’intonaco scrostato attraversato da una pianta rampicante. 

Passo dopo passo, sentì l’adrenalina salire fino al petto, il fiato corto e la paura aumentare sempre di più. Entrò in una stanza vuota e sporca, i lavandini rotti, uno specchio opaco, la tapparella logora. Socchiuse la porta e restò in ascolto. Il vento soffiava dolce tra i rami degli alberi del verde giardino. Qualche uccello annunciava il suo risveglio, la quiete era quasi spaventosa, ma poi dei passi gli fecero saltare il cuore in gola. 

Era di sicuro un addetto alla struttura, ma quel che vide dalla piccola fessura tra la porta e lo stipite, gli tolse il respiro. Una figura maschile camminava lenta, quasi per inerzia, proprio nel corridoio accanto. Vestito di un pigiama lurido, i piedi scalzi, la testa rasata solo in parte, come se avesse subìto un intervento.

Quella figura non aveva percepito la presenza di Giacomo, ma quando sparì oltrepassando letteralmente un muro, l’uomo emise un debole gemito che scemò, quasi la voce si fosse rotta dalla spettrale visione. Gli occhi erano lucidi e tremanti. E alla fine una lacrima scese lungo il viso, la paura stava lasciando spazio allo scetticismo. I fantasmi non esistevano, o quello di suo figlio forse sì? 

 

Turno 2 Alberto

Il sudore gli scendeva sulla fronte e l’adrenalina iniziò a montargli nel petto. Aprì il rubinetto dell’acqua fredda e si lavò il viso, prese l’asciugamano e si massaggiò la fronte. Sbatté le palpebre rendendosi conto all’improvviso che il rubinetto non c’era, l’acqua non sgorgava su quei lavandini da almeno vent’anni, il cotone dell’asciugamano esisteva solo nei suoi pensieri. 

La confusione guadagnava sempre più spazio dentro la sua testa. In un istante crollò e si sedette a terra, la schiena appoggiata all’intonaco che cadeva a pezzi. Lacrime amare gli solcavano il volto mentre guardava verso l’alto e pregava un Dio in cui non aveva mai creduto. «Dio, ti prego, salvami. Salva la mia anima», sussurrò, quasi in un lamento. Non riusciva più a capire ciò che era reale in quel posto, tutto si confondeva tra presente e passato, tra tangibile e immaginato. Uscì dalla stanza, i pensieri non riuscivano ad essere fluidi nella sua mente, si ritrovò in quella che al tempo doveva essere una sala operatoria. 

Un lettino era posizionato al centro e fissato al pavimento. Tutt’attorno c’erano manichini del corpo umano, semiaperti, che lasciavano vedere gli organi al loro interno. Dentro alle vetrine, decine di attrezzi chirurgici erano ancora ben ordinati. Senza saperne il perché, si ritrovò a stringere in mano un punteruolo chirurgico della lunghezza di circa venti centimetri e si sdraiò sul lettino. Era come se fosse sotto ipnosi, i movimenti robotici. Vide un uomo in camice bianco avvicinarsi. «Ciao Andrea, stai tranquillo, non sentirai nulla». 

Le telecamere di sicurezza inquadravano proprio quella stanza e il ragazzo della cooperativa che gestiva la struttura, arrivato in anticipo a lavoro, era sconvolto nel vedere cosa stesse combinando quel signore. Lo vide fare di sì con la testa fissando il vuoto, poi spalancò gli occhi e sentì un brivido spaccargli in due la schiena quando lo vide avvicinare il punteruolo chirurgico arrugginito all’arcata sopraccigliare. Giacomo iniziò a premere come se volesse eseguire una lobotomia su se stesso, poi si bloccò di colpo. Il ragazzo fissava lo schermo incredulo, prese il mouse e allargò l’immagine per vedere più nitidamente il viso di Giacomo che, proprio in quel momento, mosse tremante le labbra dicendo: «Nessuno è te», mentre allontanava il punteruolo, lasciandolo cadere a terra. 

Turno 2 Aldo

Giacomo era perplesso. Aveva visto suo figlio Andrea vagare come un fantasma tra i corridoi di quel vecchio ospedale psichiatrico, un luogo dove non era mai stato e che gli sembrava stranamente familiare. Un dottore, l’aveva chiamato con il nome di suo figlio, gli diceva  di stare tranquillo, mentre tacitamente lo invitava a spaccarsi il cervello con un punteruolo. Tutta la comprensione di sé e del mondo intero gli stava franando sotto i piedi. Non capiva più nulla: realtà, sogno e incubo si fondevano insieme in un nulla spaventoso. 

Una frase graffiata sul muro gli martellava il cervello. “Nessuno è te. Nessuno è te”. Ma lui, chi era? Sentiva freddo, tanto freddo, e mille pensieri ed emozioni lo paralizzavano. «Io sono Giacomo», disse a se stesso, «ho avuto un figlio, morto in Afghanistan». Vide una bara vuota, una lettera, un volto. Che altro ricordava di Andrea? Aveva studiato?  Quali passioni aveva ? Era fidanzato?  Si accorse con terrore di non ricordare nient’altro. Solo un volto, una lettera, una bara. Ma cosa ricordava esattamente della sua vita? Di suo padre nulla, di sua madre neppure. La moglie defunta? Una vecchia, invalida. 

La vedeva a pranzo e a cena, non parlavano mai. Non ricordava il matrimonio, di averci fatto l’amore, niente. Passava le giornate nell’orto a zappare senza che crescesse mai nulla. Viveva con altra gente. Tutti anziani. E delle persone in camice bianco si prendevano cura di loro. La spaventosa consapevolezza che tutto ciò che pensava reale non lo fosse, piano piano si impossessò di lui. 

Il lavoro nei campi, la moglie, il figlio. Tutta la vita si mostrava per quello che era davvero: illusione, bugia, delirio, vuoto, assenza, nulla. E quel luogo era casa sua. Il dottore che gli era apparso  era un emerito bastardo che lo torturava con salassi, elettroshock, farmaci e bruciature. I corridoi si popolarono all’improvviso di malati sofferenti ed ingobbiti. Risentì le urla, i silenzi, la puzza di escrementi. 

E rivide se stesso prigioniero di quelle mura, bisognoso di aria, di vita, di amore. Privato di tutto, trovava rifugio nella fantasia, nel bisogno e nel potere di creare passato, presente e futuro. Vite, persone, esperienze che poi diventavano  vere, per lui . «Io sono nessuno», disse, «Io non sono», mormorò ancora. «Nessuno è me», prese a urlare forte. Appoggiò nuovamente il punteruolo all’occhio, per infilarselo nel cranio.

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LINDA MOONALBERTO SARTORIALDO FERRARESE

Finale Linda Moon – TITOLO: Delirium
Un infermiere intervenne prima che Giacomo potesse agire, poi spinse la carrozzina su cui era seduto e lo abbandonò in un ufficio. Si guardò attorno, attonito, non riconosceva nulla di ciò che lo circondava, né comprendeva come mai fosse su una carrozzina e non più su un lettino. Davanti a lui una libreria in legno pregiato colma di libri spessi almeno sette centimetri. Tende lunghe con drappeggi su enormi finestre, una scrivania elegante, una pila di documenti e una costosa penna stilografica in bella vista. Tutto risuonava raffinato, quasi di un’altra epoca, di sicuro lontano da ciò cui era abitualmente circondato. Sentì una porta aprirsi alle sue spalle e in pochi secondi il dottore in camice bianco, l’emerito bastardo, prese posto davanti a lui, appoggiandosi alla scrivania e mostrò il punteruolo che Giacomo stava per infilare sotto la sua arcata sopraccigliare. 
«Voleva farlo davvero?», chiese il dottore.
«Dottore, la prego non mi torturi ancora… la prego, non lo faccia». Il dottore sorrise. «È buffo, sa. È la stessa cosa che le aveva chiesto mio padre ma lei non lo ha ascoltato. Lo ha torturato fino alla morte». Giacomo aggrottò la fronte. Non si riconosceva in quelle accuse. Stava ancora sognando? Stava forse delirando? Aveva appena realizzato di non avere avuto nè una moglie, nè un figlio. La vita che aveva immaginato era solo una pure illusione. «Ero tentato di lasciarla fare», disse il dottore, poi proseguì, «non aveva mai provato a ferirsi da solo. È da diverso tempo che facciamo questo gioco e vederla finalmente arrivare al punto di privarsi di ogni ragione ed emozione è stato così inaspettato che mi è venuto istintivo dare ordine di fermarla. Insomma, ciò che sto cercando di dire è che forse non sono pronto a lasciarla morire». Giacomo sgranò gli occhi. Perché gli diceva quelle cose? Nulla per lui aveva senso. «Dottore, non capisco…». L’uomo aprì un cassetto e gli mostrò una foto in bianco e nero. Giacomo si vide più giovane, vestito in tenuta militare, accerchiato da altre persone in uniforme, chiaramente dei subalterni, e davanti a loro una schiera di uomini dall’aspetto emaciato, sporco, vestiti di indumenti a righe chiare e scure. 
«Questo è lei, a Dachau, vicino a Monaco di Baviera. È qui che avete costruito il primo lager ed è qui che avete internato i vostri avversari politici. Tra questi c’era mio padre. Lui non era d’accordo con le vostre folli idee e dopo aver ucciso mia madre davanti a lui, lo avete imprigionato. Lei non si ricorda di me solo perché l’ho privata di ogni ricordo il più possibile, ma so che se si sforza può riaffiorarle alla mente il mio viso, terrorizzato a morte, mentre mi strappava dalle braccia di mio padre. Il suo errore è stato quello di essere eccessivamente ambizioso nella sua vendetta contro di lui. Mi ha fornito un’eccellente istruzione, mi ha cresciuto come uno di voi, ma non lo sono mai stato. Ho recitato tutta la vita, nella speranza di avere la mia vendetta. Sono diventato un medico rispettabile. Avrei potuto operare ovunque, ma quando ho saputo che era ancora vivo, ho avuto la sensazione che un giorno ci saremmo rivisti e così è stato. Sa è davvero buffo che da carnefice lei ora sia diventata la vittima. Lo trovo quasi ingiusto…». Si alzò e si appoggiò alla scrivania, sotto lo sguardo perplesso dell’uomo.
«Non ci credo, non può essere… io mi chiamo Giacomo e non sono chi lei dice che io sia e poi…». Si zittì da solo. I ricordi non erano nitidi ma qualcosa dentro di lui gli intimò di fermarsi. Forse l’inconscio gli suggeriva di tacere, perché la verità appena scoperta poteva essere davvero reale.
«Lei non si chiama Giacomo. Lei è stato un fedele servitore di Heinrich Himmler, di conseguenza un fedele generale per Hitler. Ha torturato e seminato morte ovunque e ha ucciso la mia famiglia. Chiunque sogna la vendetta per il proprio dolore, ma solo pochi hanno l’onore di metterla in atto». Allungò la mano e gli porse il punteruolo. «Le offrirò una possibilità che a me e alla mia famiglia è stata negata. Decida lei se morire come un uomo qualunque o se continuare a vivere con la consapevolezza di chi è e di che cosa ha fatto».

Quando bussarono alla porta, il dottore apparve sulla soglia. L’infermiere richiese la sua presenza nella sala principale e mentre si avviò nel corridoio, si voltò verso il ragazzo e disse: «Riporti il generale Von Werner nella sua camera e mi raccomando, stringa bene le cinghie al letto».

Finale Alberto Sartori – TITOLO: Lettera a me stesso
Il ragazzo della cooperativa, alla vista di quel signore con il punteruolo chirurgico in mano, aveva preso il walkie talkie e avvisato subito il neoassunto, responsabile della sicurezza, Marco Polesel. Nelle ultime settimane erano sparite troppe cose dalle stanze dell’ex manicomio, i più curiosi si erano portati a casa perfino i pappagalli per l’urina come souvenir. Marco aveva raggiunto a grandi falcate Giacomo ed era riuscito a levargli il punteruolo dalle mani prima che potesse conficcarselo nel cranio. Nonostante la convinzione estrema, le mani di Giacomo avevano tremato e non era riuscito a farsi del male. Continuava a balbettare: «Lettera, bara, nessuno è te, nessuno è me». Era completamente bloccato, un vecchio disco rotto che non riusciva a ripartire. Ancora con il fiatone e con il punteruolo al sicuro tra le sue mani, Marco cercò di calmare Giacomo: «Stia tranquillo, va tutto bene, venga con me».

«Vada via! Maledetto! Non vengo da nessuna parte! Mi tolga le mani di dosso!», iniziò a urlare con tutto il fiato che aveva in gola. Si alzò dal lettino e iniziò a togliersi la camicia strappandola, si dimenava come un animale appena catturato, sbavava e urlava frasi senza senso, e senza un apparente motivo si mise a frugare nelle tasche dei pantaloni come per cercare qualcosa, in preda all’agitazione che si stava trasformando in convulsione. Si bloccò appena sentì un fruscìo cartaceo tra i suoi polpastrelli. Gli occhi sbarrati e vuoti, non si mosse per dieci interminabili secondi. Con movimento lento, tirò fuori una lettera gialla sul cui dorso era chiaramente leggibile “Per Andrea Rigoli” e in alto a destra il simbolo dell’Esercito Italiano, disegnato malamente a matita. La porse al ragazzo della sicurezza come per invitarlo a leggergliela. Marco la prese e la aprì con cura, la distese e iniziò a leggere con voce tremante:

18 Novembre
Caro Andrea, pochi istanti di lucidità mi restano ogni giorno. La pazzia mi sta divorando vivo, come un tarlo nella mia testa di legno rimuove a poco a poco i miei pensieri.
I medici non trovano cure, il vecchio balordo in camera con me sa solo ripetere “Nessuno è te” per poi sputarmi addosso.
Mi dispiace. Non volevo farlo. Ma ho dovuto. Volevi partire per l’Afghanistan.
Eri sempre agitato, sempre arrabbiato, violento. Ma non volevo perderti.
Speravo che qualche giorno di cura ti avrebbe aiutato e invece una volta che sei dichiarato pazzo tutto quello che fai è considerato parte di quella pazzia: le ragionevoli proteste sono negazioni, le paure giustificate, paranoia. L’istinto di sopravvivenza… meccanismi difensivi.
E a dichiararti pazzo ero stato proprio io.
È colpa mia. La bara è colpa mia.
La lobotomia è colpa mia.
Una lettera è tutto quello che mi resta per provare a redimere la mia incapacità di essere padre. Per averti perduto. Per averti abbandonato.
Una bara vuota è l’unico ricordo che mi rimane, assieme alla rabbia che provo. Dentro solo polvere. Il tuo corpo sepolto nel giardino del manicomio.
Nessuno è te, Andrea, nessuno lo sarà mai. Nessuno è me e non auguro a nessuno di esserlo.
Sono un vigliacco.
Lascio questa lettera a me stesso, per provare a ricordare quello che ho fatto, sperando che la mia sofferenza mi aiuti a trovare un piccolo angolo di serenità dove morire.
Lascio questa lettera a me stesso, come fosse un cilicio che mi possa aiutare a soffrire.
Tuo padre Giacomo.

Marco finì di leggere tra le lacrime. Alzò lo sguardo e guardò con compassione quell’uomo che non si dava pace per il suo passato, dopo tutto come dargli torto. Sentì movimento alle sue spalle, si girò ma non vide nulla, eppure i passi sul pavimento impolverato erano nitidi. Sentì un colpo d’aria muovergli i capelli. Vide Giacomo fare due passi verso di lui. Gli accarezzò il viso, lo abbracciò e con voce flebile gli sussurrò all’orecchio: «Li vedi anche tu?».

Finale Aldo Ferrarese – Titolo: Requiem
Spinse forte. Sentì il metallo sfondare l’occhio e perforare il cervello. Il manico sbattere forte contro l’arcata sopraccigliare. Sangue, misto a poltiglia, scese piano lungo la guancia, ed entrò in bocca con uno schifoso sapore che sapeva di ferro. Avvertì il tonfo che fece cadendo, i passi di qualcuno che entrava e poi usciva, correndo e sbattendo la porta. Si vide per quello che era. Vecchio, celibe, solo, malato. Congedò, ringraziando tutte le illusioni e le fantasie che gli avevano tenuto compagnia. Una gran pace si fece spazio in  lui, poi il buio, il silenzio, la fine. 
Giacomo Rigoli visse nel manicomio per oltre quarant’anni. Vi era stato rinchiuso da adolescente in seguito a ripetuti atti di violenza verso se stesso e gli altri. Poi, quando questo venne chiuso negli anni ‘80, a seguito della legge Basaglia, venne trasferito in una struttura protetta. Fu sepolto nel piccolo cimitero di Granzette. Non aveva famiglia, ma la chiesa era gremita. La storia del vecchio matto evaso dall’ospizio per  suicidarsi dove aveva vissuto, aveva attirato molti curiosi. I matti si sa, se in vita danno fastidio, poi diventano interessanti, da morti. 

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Cadavere Squisito – 3

Un racconto scritto a sei mani, ispirati dalla tecnica del Cadavere Squisito. Tre scrittori. Un tema comune. Tre stili diversi che si amalgamano assieme. Un racconto scritto appositamente per l’evento Wanted Stories seguendo le rispettive idee e ispirazioni!

Turno 1: Marco
Paolo aveva 29 anni, un cane bassotto e un lavoro part-time con cui integrava il modesto rimborso spese del suo stage in un’azienda di biscotti: faceva il pagliaccio alle feste per bambini. Aveva iniziato all’università ma era un segreto che non aveva mai rivelato a nessuno, nemmeno ai suoi migliori amici.

Turno 1: Alberto
Ogni sabato mattina seguiva il suo breve rito di vestizione: naso rosso, cerone bianco, capello riccio sparato verso le stelle con i residui dei coriandoli di tutte le feste dal 2001 ad oggi. Se quella parrucca fosse stata analizzata al carbonio 14 probabilmente rivelerebbe tracce della tomba di Tutankhamon. L’aveva trovata in un vecchio mercatino dell’usato, i capelli finti color rosso vivo.

Turno 1: Linda
Quel giorno era in programma una festa di Halloween per il figlio di una facoltosa famiglia nella provincia veneta e Paolo si stava preparando per l’occasione: il compenso concordato era ottimo e non voleva combinare pasticci, ma in un attimo gli prese il panico. Il sacchetto con il nuovo materiale di scena non era in casa. L’aveva lasciato sull’autobus con cui era rincasato poco fa! Oh no!

Turno 2: Marco
Vestito e truccato di tutto punto, inforcò la biciclettina con le ruote mignon parcheggiata davanti a casa e cominciò a pedalare a perdifiato nella direzione in cui era andato il bus. Tutti i bambini che incrociò non riuscivano a staccare gli occhi da quella strana visione. Anche qualche adulto alla guida a dire il vero, e ci furono un paio di tamponamenti che ruppero la calma di quel sabato pomeriggio di provincia.

Turno 2: Alberto
I clacson dominavano l’aria e i proprietari delle auto iniziavano a scendere imprecando. Paolo se ne fregava beatamente e con il suo sorriso stampato alla perfezione sfrecciava su e giù dai marciapiedi. Si dovette fermare di fronte ad un gruppo vestito come la famiglia “Addams”, stavano occupando tutta la ciclabile. Di fronte a lui i coniugi Addams e la loro bambina, truccata proprio come Venerdì, impugnava una grossa mazza di gomma piuma. Paolo le sorrise e lei in cambio gli diede una mazzata sulla nuca. Lui fece finta che gli girasse la testa e il verso degli uccellini che girano in tondo, fischiettando, poi prese la sua mazza di spugna dal mini cestello della bici e cercò di colpire Venerdì con movimenti buffi e scherzosi ma cadde in avanti a faccia in giù, sbavando sui mocassini neri del padre.

Turno 2: Linda
In meno di un secondo si rialzò e scattò sopra alla biciclettina allontanandosi da quella scena, raggiungendo il capolinea degli autobus per reclamare il suo prezioso sacchetto. Raggiunse un ufficio di quelli prefabbricati e si ritrovò davanti una grassa donna dai corti capelli tinti di un rosso acceso, gli occhi truccati nel peggiore dei modi e un’espressione in faccia di chi non ha voglia di problemi. “Salve, ho lasciato un sacchetto sull’autobus numero 5, so che a quest’ora rientrano qui i veicoli. Potrebbe controllare?”. La donna lo guardò con aria seria, poi gli rispose senza nemmeno guardarlo in faccia. “Siamo chiusi!”. Paolo guardò l’orologio appeso al muro: mancavano ancora dieci minuti alla chiusura”. “Signora, a dire il vero avrei ancora tempo per…”. Paolo non finì la frase che la donna lo guardò in cagnesco emettendo una sorta di grugnito , così si allontanò dalla vetrata ma aveva già in mente cosa fare.

Turno 3: Marco
“Signora, le piacciono i fiori?” le disse affacciandosi sopra il bancone del servizio clienti all’altezza della feritoia nella vetrata. Lo sguardo perplesso della Wanna Marchi del trasporto locale fu cancellato da uno spruzzo d’acqua di notevole intensità. Mentre lei si premurava di sgranare il rosario evocando tutti i santi senza mancare gli anni bisesti e i devoti della tradizione orientale, Paolo fece un balzo alla Yuri Chechi, afferrò le chiavi con scritto Magazzino Oggetti Smarriti e si dileguò prima che lei potesse urlare “D’accordo???”. 

Il magazzino si trovava dietro una porta polverosa e Paolo dovette soffiarci sopra, sollevando una nube che offuscò l’aria della stanza, prima di trovare la toppa della serratura. Dietro la porta cigolante c’era una scalinata buia e Paolo la percorse facendosi luce col cellulare e cercando di non incespicare con le sue lunghissime scarpe da clown. Si trovò di fronte un’enorme stanza sotterranea con decine e decine di corsie di armadi piene di oggetti e cianfrusaglie. Paolo fece un rapido calcolo: dalla grandezza di quel posto doveva coprire non solo il capolinea degli autobus, ma il sottosuolo dell’intero centro cittadino.

Turno 3: Alberto
Il sacchetto che cercava era di colore blu simile a quello dei jeans. Il sindaco ne aveva regalato uno ad ogni cittadino per la festa annuale del Maiale di mare. Una festa insulsa a cui partecipavano tutti solo per ricevere ogni volta un gadget diverso: un walkie talkie, una candela di Sailor Moon,  una borsetta di cotone per fare la spesa. 

Aumentò la potenza della torcia del cellulare ed iniziò a sventagliarla a mò di accendino ai concerti. Poco lontano individuò un armadio pieno zeppo di sacchetti, tutti uguali a quello che cercava. “E adesso cosa faccio?” sussurrò a se stesso. Estrasse dalle tasche un pacco di palloncini e ne gonfiò parecchi intrecciandoli fino a che riuscì a ricreare una sorta di cestello portatutto.

Prese tutti i sacchetti che riuscì e ve li gettò dentro, quando l’allarme iniziò a suonare. Le sirene rosse lampeggiavano fastidiose e Paolo iniziò a correre, inciampando ogni 3×2, rischiando di schiacciare il cesto-contenitore-simil-carriola-senza-ruote ed il prezioso contenuto. Sgattaiolò fuori da una porta finestra aperta verso una via laterale ma il cesto rimbalzò sull’asfalto e lui rimbalzò con esso ritrovandosi con le scarpone da pagliaccio sopra ai suoi occhi.

Turno 3: Linda
Si rialzò intontito, ma così velocemente che non vide il limite della stradina che costeggiava lo stabile degli autobus, e ruzzolò più e più volte per circa una decina di metri cadendo poi rovinosamente ma in maniera bizzarra sul marciapiede di una via della periferia e finalmente, quando testa e cervello furono connessi nuovamente tra loro, disse a se stesso “Oh Signore, peggio di così non mi può andare!” e quelle furono le classiche ultime parole famose.

Turno 4: Marco
Ancora intontito percorse qualche metro in come riconobbe come il facoltoso quartiere Pedrolli. La zona gli era familiare, anche troppo, e in pochi secondi si rese conto di trovarsi di fronte alla casa del suo capo ufficio, Gino Casarin. Bolt, il suo labrador da competizione, vincitore di vari premi per il salvataggio in tutti i fiumi e in tutti i laghi, riconobbe subito l’odore di Paolo, che gli aveva fatto un paio di volte da dog-sitter. Il quadrupede cominciò ad abbaiare e a fargli le feste zompandogli addosso e buttandolo a terra. Casarin si affacciò dalla porta “Che c’è, Bolt?” e poi vedendo il pagliaccio, azzardò un “Meneghetti, ma è lei?”. 

“No, no, io sono il Grande Zumba, l’amico di tutti i bambini!” disse Paolo, cercando di fare la sua migliore voce da clown in falsetto.

Turno 4: Alberto
“Grande Zumba? Che fa, balla?” Incalzò Casarin ridendo di gusto e continuando: “E poi cosa porta lì su quell’ammasso di palloncini?”.
“Porto dolcetti e scherzetti, signore. Ne vuole uno?”.
“Dai dai, lanciami un sacchetto pagliaccio da quattro soldi!” rispose quasi irritato il capo ufficio. Forse non l’aveva davvero riconosciuto ma Paolo stava sudando freddo. Non voleva che nessuno sapesse di quel suo secondo lavoro anche se, dopo tutto, era un lavoro onesto e dignitoso per riuscire ad arrivare a fine mese. Prese il sacchetto più vicino e lo lanciò. Casarin fece qualche passo e lo raccolse quasi indignato; era sempre stato indecifrabile nei suoi comportamenti.

Lo aprì e la sua espressione cambiò completamente: viso di ceramica, occhi sbarrati. Con una calma ed una lentezza infinita estrasse dal sacchetto un orologio. “Pagliaccio!” Urlò squarciando l’aria. “È il mio Rolex questo!”

Turno 4: Linda
Tutto accadde in un attimo: Casarin corse fuori di casa per raggiungerlo e Paolo si diede alla fuga. Un uomo qualunque rincorreva un pagliaccio e la gente lungo la strada ammirava quella scena esilarante quanto incredibile. “Fermate quel ladro!” urlò Casarin. Paolo aumentò la velocità, ma le scarpe da pagliaccio lo limitavano. Dalla disperazione si buttò in mezzo ad un incrocio sperando di scoraggiare il capo ufficio, ma la situazione peggiorò perché attirò l’attenzione di un vigile del traffico che gli fischiò contro urlando di fermarsi e pochi istanti dopo si mise a rincorrerlo quando vide un uomo, Casarin appunto, che lo inseguiva chiamandolo ladro. Il pagliaccio in testa, vigile del traffico e cittadino subito dietro: erano un trio alquanto ridicolo! Paolo era sfinito ma, quando vide un apecar in partenza lungo un marciapiede, colse l’occasione e vi si gettò dentro, nascondendosi sotto ad un telo bianco e sporco, sfuggendo così ai suoi inseguitori. Quando fu sicuro di essere fuori dalla loro vista, scese al volo, reggendo come poteva il cesto fatto di palloncini ma ritrovandosi nuovamente nel panico più totale. 

“Oh no!” disse sconsolato quando i palloncini iniziarono a scoppiare uno alla volta. La cosa era davvero strana, ma poi Paolo si accorse che alcuni bambini li stavano prendendo di mira con sassi e fionde. “No, per favore no!” diceva cercando di recuperare quanti più sacchetti possibili. Li apriva a mano a mano per cercare il materiale per la festa e quando vide un uomo vestito in giacca e cravatta avvicinarsi incuriosito dalla scena e stringere tra le mani una strana scatola fuoriuscita da uno dei tanti sacchetti, gli intimò di non toccare nulla, ma ormai era tardi. La scatola gli esplose in faccia e un pugno attaccato ad una molla lo colpì in pieno viso facendolo cadere a terra. Paolo lo raggiunse e quando si accorse che era il padre della facoltosa famiglia di cui doveva intrattenere la prole, cercò di nascondere il volto ma nel farlo premette inavvertitamente il fiore che indossava e che spruzzò un forte getto d’acqua. “Ma che sta facendo? Si tolga da sopra di me!” diceva l’uomo. “Aspetti, lasci che l’aiuti” ma la situazione degenerò ancora…

Leggi il finale di Linda Moon “Corri, clown, corri

Leggi il finale di Alberto Sartori “Cleptomania

Leggi il finale di Marco Simion “Profiler

Cadavere Squisito – 1

Un racconto scritto a sei mani, ispirati dalla tecnica del Cadavere Squisito. Tre scrittori. Un tema comune. Tre stili diversi che si amalgamano assieme. Un racconto scritto appositamente per l’evento Wanted Stories seguendo le rispettive idee e ispirazioni!

Turno 1: Alberto

Finalmente ho trovato un appiglio. Lo tengo stretto tra le mani. Non riesco ancora a capire se sia un tronco o un’asperità della montagna. In questo buio totale non mi resta che rimanere qui. Tra poche ore la luna spunterà e illuminerà questo mio cammino improvvisato. Maledetto a me e a quell’insana voglia di incamminarmi al tramonto. Pensavo di riuscire a scalare prima della notte, ma i miei piedi non sono allenati come un tempo. “Cerca di essere felice e il tempo passerà più in fretta” dico sottovoce e il mio respiro si fa meno teso.


Turno 1: Linda

“Giuro che lo uccido!” dico visibilmente in collera. Stringo il coltello e affondo la lama nella carne cruda, lo sguardo serio e nervoso. “Ma perché è andato in montagna proprio oggi? Lo sa benissimo che mi agito dal giorno prima quando i miei ci vengono a trovare” e inizio ad affettare delle patate senza smettere di agitare il coltello mentre parlo da sola come una vera pazza. “Insomma, non mi pare molto chiedere di averlo vicino nel momento del bisogno. 

Che cosa c’è di così difficile da capire? Almeno avesse portato con sé il cellulare, no nemmeno quello è stato capace di fare!”. Per un attimo chiudo gli occhi, portando una mano sulla fronte per riprendere il respiro e riflettere, ma poi sbotto di nuovo. “No, è deciso. Questa volta lo uccido! E andrò a recuperarlo da quella stupida montagna io stessa!”.


Turno 1: Marco

Ha anche iniziato a piovere. Eppure avevo controllato accuratamente il meteo e non avevo visto nessuna nuvola all’orizzonte mentre salivo. All’inizio era una pioggia leggera che avevo facilmente tenuto a bada con il cappuccio della mia giacca tecnica e confidavo sarebbe stata una cosa passeggera. Ora però la pioggia si sta facendo più fitta, sono completamente fradicio e comincio a tremare per il freddo.

La cosa che mi preoccupa è che la mia presa si sta facendo sempre più tenue; il mio appiglio, che mi sono reso conto essere una radice che esce da un anfratto della roccia, è sempre più scivoloso e nella mia testa comincia a farsi largo, prima come una remota eventualità e col passare del tempo come probabilità sempre più concreta, il terrore di non riuscire a resistere e di cadere di sotto nello strapiombo. 

All’improvviso un fulmine squarcia il cielo e illumina per qualche secondo il fianco della parete di roccia sopra di me. Se solo riuscissi a tirarmi su fino a quella pedana e a quella rientranza nella roccia sarei salvo…

Turno 2: Alberto

Un altro fulmine esplode nell’aria, socchiudo gli occhi per non farmi abbagliare ma al tempo stesso cerco di mettere a fuoco quella cavità. Sarà a due metri da me, dovrei usare tutte le mie forze, spingere con entrambi i piedi e lanciarmi come una scimmia volante. “Non credo ai miei occhi”. 

È la mia stessa voce che mi sorprende. Tra un lampo e l’altro intravedo una figura sul ciglio della roccia. Sembra di donna, i capelli sono lunghi e le forme sinuose. “Ehi! Ehi tu! Ti lancio una cima” la sento urlare per sovrastare il rumore dei tuoni che si stanno avvicinando. Non ho nemmeno il tempo di rispondere che avverto un colpo sulla schiena. Istintivamente stacco la mano e la porto dietro di me, cerco di afferrare qualcosa nell’aria ma catturo solo il vento. Un altro colpo sulla fronte, non del tutto piacevole, mi fa intravedere la fune prima che cada troppo in basso e la afferro. 

Mi lascio cadere nell’aria tenendo stretta la corda tra le mani, sbatto sulla parete rocciosa senza subire troppe contusioni. Non riesco ad issarmi ma mi sto muovendo, sto salendo, e in un attimo mi ritrovo pancia a terra in quello che sembra un balcone di roccia. Alzo lo sguardo e di fronte a me c’è una ragazza, mi sorride. È così splendida che quasi non sembra reale. Vorrei ringraziarla ma sono senza energie e rifiatando appoggio la fronte a terra.

Turno 2: Linda

Quando arrivo ad un bivio mi pento di non aver chiesto informazioni poco prima. Tutto solo per puro orgoglio o forse inconsciamente penso sia meglio così, senza chiedere a nessuno. Ora però mi ritrovo sotto una pioggia incessante a riflettere se prendere la strada ripida a sinistra o quella che pare continui in pianura alla mia destra. Sono anni che non faccio questo percorso con lui e il buio non aiuta. 

Avrei dovuto accostare e chiedere informazioni quando ero ancora dentro al paese. Tutti quei pensieri però spariscono improvvisamente quando ripenso ad una gita in particolare e per un attimo addolcisco i tratti del viso per lasciare spazio ad un’espressione spensierata, proprio come quel giorno, quando gli tenevo stretta la mano e giocherellavo con le nostre fedi. 

Lui portava lo zaino blu che gli avevo regalato il giorno del compleanno e insisteva ad usare un bastone di legno trovato a terra per camminare ed eravamo proprio a questo bivio quando, per indicarmi la via giusta, me lo aveva quasi sbattuto in testa. Ricordo di aver riso così tanto quel giorno e per un attimo mi guardo attorno per ritrovare quell’emozione, quasi sia anch’essa laggiù con lui, ma poi scuoto il capo tornando in me. 

So quale strada dovevo scegliere e nel momento in cui proseguo, un lampo illumina il cielo, quasi squarciandolo, e stringo gli occhi in direzione della cima a poca distanza da me. Mi sembra di vedere qualcosa, ma non capisco se vedo una o due persone…

Turno 2: Marco

“Ce la fai a camminare?” mi chiede mentre mi dà la mano per rialzarmi. “È meglio che andiamo al coperto, non vorrei ci colpisse un fulmine”. E poi la sento tra sè e sè borbottare qualcosa nel dialetto della valle, che non ho mai imparato a parte qualche imprecazione dai vecchi mentre giocano al bar. La seguo senza fare tante domande, mentre batto i denti dal freddo, quasi completamente al buio, cercando di non inciampare nella boscaglia. 

Solo di una cosa mi rendo conto, ed è che pur sotto quella pioggia i suoi capelli castani non sembrano particolarmente bagnati. “Avrà camminato al riparo degli alberi” penso io, ma in realtà sono un po’ stanco per ragionare e in tutta onestà non vedo l’ora di arrivare ovunque lei mi stia portando. Raggiungiamo una piccola casetta di legno, una sorta di malga, in una piccola radura. “Entra, entra, dentro ci aspetta un fuoco caldo”. Abbasso la testa per entrare dalla porta e mi ritrovo in una casetta di montagna, molto rustica come potrebbe esserlo il capanno di un cacciatore. 

All’interno ci sono alcune sedie, un tavolo in legno massiccio, una pelle di cervo distesa di fronte a un fuoco scoppiettante, una cassapanca con sopra dei cuscini ricamati a mano e un solo letto, grande, a un’estremità della stanza. “È meglio che ti togli quei vestiti bagnati e ti asciughi se non vuoi prenderti una febbre. Nella cassapanca ci sono dei vestiti, spero ti stiano”. È alla luce del fuoco che riesco finalmente a vederla per bene: due occhi azzurri di un azzurro profondissimo, i bei capelli castani che le cadono lunghi sotto le spalle, quasi immacolati, nonostante l’acqua. La osservo di soppiatto mentre si toglie il giaccone, di una foggia un po’ desueta, che appoggia su una delle sedie di fronte al fuoco e sotto indossa un maglione chiaramente fatto a mano, con motivi floreali. 

“Temo che non ci siano molti posti per cambiarsi, ma non ti preoccupare, io mi giro e non sbircerò” dice ridendo. Per l’imbarazzo di dovermi spogliare davanti ad una donna che non sia Giulia, provo a cambiare discorso. “Non ti ho ancora ringraziato. Io mi chiamo Luigi, qual è il tuo nome?”. “Te lo dico se prometti di non riderne”. Stupito la rassicuro. “E perché dovrei?” chiedo. “Perchè è un nome che non si sente spesso. 

E va bene. Se dobbiamo passare la notte qui perlomeno è buona creanza che i nomi ce li scambiamo. Mi chiamo Soreghina. È un nome di qui, è un nome antico”. Spiazzato, rimango in silenzio. “Ti avverto! Se mi giro e vedo che stai ridendo ti rimando fuori al freddo!”.

Turno 3: Alberto

Non è di certo un sorriso quello che appare sul mio volto. Nemmeno nella mia mente prende forma un sorriso. È solo allora che i ricordi lontani riaffiorano e quel volto smette di essere quello di una sconosciuta. Per fortuna sono ancora girato dall’altra parte, altrimenti lei vedrebbe di quanto stupore siano pieni i miei occhi. 

“Luigi? Ci sei?” sento la sua voce lontana come fosse ancora nell’anfratto della montagna e io appeso alla cima che mi aveva lanciato. “Sì, Soreghina, certo sono qui. Il freddo deve avermi bloccato per qualche istante. Dicevamo?” la mia voce è senza enfasi, quasi come fosse quella di un robot che cita meccanicamente il suo vocabolario. È lei che scoppia in una gran risata e in quel momento il calore della stanza riprende vita.

 “Dicevamo solo i nostri nomi. Devo però farti i miei complimenti. Sei uno dei pochi a non esserti messo a ridere dopo aver saputo il mio. Per questo stanotte non ti ucciderò”. La sua voce è passata in un attimo dal sorriso caloroso al gelo delle ultime parole e io mi sento tremare. Mi giro di scatto preso dalla paura. Lei è lì che mi guarda. Un mestolo alzato nella mano sinistra. L’altra mano che sta già coprendo i suoi occhi. Ero ancora completamente nudo. “Sono proprio un idiota” esclamo lasciando andare quell’attimo di terrore dovuto alla sua ultima frase e poi riprendo a parlare ma sempre con un po’ di agitazione. 

“Ho visto troppi film, ho pensato che volessi davvero farmi a pezzettini e cucinarmi”. Il mio sorriso si allarga ma dentro di me sto bruciando. Come fa a non avermi riconosciuto? Sono cambiato in questi ultimi anni ma non riesco a credere che proprio lei mi abbia dimenticato. Oddio se la vedesse mia moglie che cosa penserebbe? “Ti puoi girare per favore? E smettila di guardare la televisione che poi ti vengono idee assurde come questa” è la sua voce imbarazzata che interrompe i miei pensieri. 

Mi giro e in un attimo sono già vestito, tutto mi calza alla perfezione, soprattutto la camicia a rombi grigi e neri. “Tra poco sarà pronta la cena, Luigi. Quand’è l’ultima volta che hai mangiato con una ragazza bella come me? E senti che caldo sta facendo il fuoco, io mi metto comoda…


Turno 3: Linda

Dentro di me l’ho già perdonato. La fatica di risalire la cima sotto la pioggia e il fatto di essere da diverso tempo fuori allenamento, mi sta sfinendo in una maniera inaspettata. Vedo del fumo uscire da in mezzo agli alberi. Desidero solo raggiungere quella che probabilmente è una malga e spero di trovarlo e basta. Anzi, di riposare tra le sue braccia. Detesto quando si impunta a seguire le sue idee folli, ma ricordo anche che è per questo motivo che l’ho sposato o almeno è quello che ho detto al matrimonio durante lo scambio delle promesse. 

Tanti pensieri affollano la mia mente e la tentazione di prenderlo a sberle svanisce man mano che cammino e mi avvicino al tratto in pianura. “Lo perdono, tutto pur di arrivare a destinazione” dico sottovoce, forse per convincermi di più. Quando sono a pochi passi dalla malga, mi avvicino lentamente ad una finestra. C’è luce, quindi c’è qualcuno dentro e a confermare ciò è anche una voce che sento a tratti. Il buio è così fitto che non vedo nulla e la torcia mi ha abbandonata nel momento del bisogno. 

Cerco di appoggiarmi con una mano alla parete di legno, spostando alcuni rami di un albero proprio lì a fianco e osservo dentro. “Grazie al cielo!” penso. Luigi è dentro e parla, ma sembra quasi imbarazzato o forse spaventato. Sono otto anni che lo conosco e ancora non riesco a decifrare alcune sue espressioni. Mi avvicino alla porta con incredibile lentezza, non sento più le gambe e quando busso, all’improvviso cala il silenzio. Sento dei rumori, poi ancora silenzio. Busso forte e dopo pochi istanti lo chiamo. 

“Come mai ci mette così tanto ad aprire?” penso. Sento dei passi e dopo quella che pare essere una lunga esitazione da parte sua, finalmente la porta si apre. “Giulia!” dice stupito. Mi faccio spazio, entro nella stanza e lo sommergo di parole. “Ma che diavolo ti è preso? Venire qui in una giornata come questa? E lo sai che domani vengono i miei genitori. Oddio non oso immaginare che cosa diranno quando sapranno cosa è successo e mia madre poi… ho già i brividi al pensiero!”. 

Mentre gli parlo, senza quasi degnarlo di uno sguardo, mi libero del k-way e strizzo i capelli inzuppati d’acqua. Finalmente i nostri occhi si incrociano per più di cinque secondi e lui mi guarda in silenzio, quasi non mi riconoscesse. “Luigi, stai bene?” chiedo sistemando il maglione fortunatamente intatto. Lui si guarda attorno e sussurra un debole sì. “E poi che stavi facendo? Sembravi un matto!” dico andandogli finalmente incontro, accarezzando il suo viso. “Ero davvero in pensiero”. Lui mi prende la mano. 

“Matto? Che intendi?”. Gli dò le spalle e mi avvicino al fuoco per scaldarmi. “Ma sì dai, poco fa mi sono avvicinata alla finestra e ti vedevo parlare da solo… con chi ce l’avevi?”. Presa dal fuoco che mi ridona il calore mancato, non faccio caso alla sua espressione basita e forse un po’ preoccupata e tiro indietro i capelli cercando un elastico per legarli. Lo osservo e vedo che il suo sguardo è rivolto verso la porta che da sul retro. Sembra incantato. 

Guardo anch’io nella sua prospettiva, poi lo riguardo e lo vedo fissarmi. “Luigi, che cosa c’è? Sembra quasi che tu abbia visto un fantasma” chiedo tendendo la mano verso di lui. “Vieni a sederti qui con me”. Il suo comportamento è ambiguo. I suoi occhi sembrano persi nel vuoto, ma il freddo che fa ancora da padrone al mio corpo mi fa concentrare principalmente sul fuoco. Lentamente si avvicina e si siede di fianco a me, sopra alla pelle di cervo, scrollando il capo. “Niente, niente…” dice abbracciandomi, accennando appena un sorriso.  “Credo solamente di essere molto stanco…”.


Turno 3: Marco

Il calore del fuoco è rilassante e a poco poco vedo che Luigi comincia a far fatica a tenere gli occhi aperti e questo nonostante abbia fatto uno sforzo notevole per tenersi sveglio, dandosi anche dei pizzicotti sulle braccia. Credo si senta in colpa per avermi fatto salire fin quassù e voglia farmi compagnia, eppure finisce per appoggiare la testa sul mio grembo e si addormenta di colpo, come un bimbo. Io gli accarezzo i capelli e mi fa quasi tenerezza, alla fine passare la notte lì mi sembra ora una prospettiva piacevole, e alla malora la visita dei miei, in fondo quant’è che io e lui non passiamo una notte fuori, da soli, lontano da tutto lo stress della vita di tutti i giorni?

 
Faccio passare le dita sui suoi capelli umidi di sudore e pioggia e poi lungo il collo, fino alle braccia sentendo i muscoli sotto la camicia grezza da montanaro, che non credo di avergli mai visto addosso. All’improvviso questa sensazione mi ricorda della prima volta che l’ho spogliato, in quella tenda nel campeggio al mare dove eravamo andati con gli amici, e pure quella volta mi ricordo che pioveva. Il viso mi si tinge di rosso, che cosa assurda arrossire dopo tutti questi anni, eppure sento un gran calore. 

Per un attimo i miei occhi passano dal suo viso alla legna che scoppietta nel camino e sarà la stanchezza o gli occhi appannati ma mi sembra di scorgere un’immagine fugace in mezzo alle fiamme, come una figura di ragazza, con lunghi capelli castani, che ha indosso quello stesso costume che avevo sulla spiaggia quel giorno al campeggio. Una ragazza che mi ricorda qualcuno che conoscevo molti anni fa, eppure il nome non mi arriva alle labbra, come se non volesse saperne di uscire. 

E un attimo dopo mi sembra di vedere il mio viso, con addosso un maglione a fiori che non userei mai. Le immagini si sovrappongono tra di loro davanti alle fiamme, in un momento c’è la ragazza dai capelli castani che sta facendo l’amore nella tenda con Luigi e in un altro ci sono io che con una lunga veste azzurra cammino scalza tra i boschi incidendo la corteccia di un albero con un lungo coltello dal manico d’osso. Il calore dal mio viso si propaga al collo e da lì scende sulle braccia fino al petto e poi sempre più giù, ed è una sensazione spaventosa ma anche un po’ piacevole. Ed è allora che ho sentito quel suono.

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La campana tibetana

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