Una Famiglia Felice

Il secondino cammina veloce lungo l’angusto corridoio delle carceri, stringendo una busta bianca con un sigillo rosso che riporta lo stemma della patria.

Nessuno chiudeva una busta in quel modo da oltre mezzo secolo ma, tra le nuove disposizioni dettate dal governo, era stato inserito anche questo dettaglio. Per alcuni una frivolezza, per altri un gesto di onore e fedeltà. Ad ogni modo, il secondino raggiunge un cancello aperto da un altro secondino con ben quattro giri di chiave. Tante regole che sono cambiate e la più assurda di tutte, con precisione l’emendamento n.646-B41, odiato dal popolo ma adorato dai detenuti, è quello che permette di chiedere un ultimo desiderio prima di cadere nel braccio della morte.

Il secondino stringe nella mano l’ultimo desiderio di un uomo che ha commesso un crimine che gli sta costando la vita e quando la busta raggiunge la scrivania del direttore, egli la osserva con poca attenzione, preso da altre scartoffie che legge e firma quasi contemporaneamente. «Signore?» chiama il secondino con un filo di voce. L’uomo alza lo sguardo e, con un cenno della testa, gli fa capire che può lasciare la busta sulla scrivania.

La osserva curioso non tanto di sapere il desiderio ma chi sia il detenuto e a che ora sia la sua esecuzione, perché alle quattro di quel pomeriggio c’è un incontro di boxe che non vuole perdere; o almeno questo è ciò che fa credere a tutti per celare il suo rapporto con un giovane di cui si è invaghito qualche mese fa. Sbuffa, l’aria irritata, e nel momento in cui torna a concentrarsi sulle carte, il secondino è già uscito.

Quando l’orologio segna mezzogiorno, l’intero carcere si mobilita per consumare il pranzo. I detenuti nella sala al piano terra, i secondini al piano superiore. Un pugno di uomini che imbracciano fucili e pistole, i manganelli riposti nella cintura di pelle, tiene la situazione sotto controllo. Solo una persona non partecipa: il direttore.

Spalanca una porta della mensa, si avvicina ad alcuni sottoposti e li invita a seguirlo senza attendere una loro reazione. In meno di un minuto, sono tutti in corridoio a camminare come perfetti soldati e, quando la porta dell’ufficio del direttore si chiude alle loro spalle, l’uomo mostra il contenuto della lettera. Dieci occhi si guardano: le bocche spalancate o in una smorfia idiota. «E questo che razza di desiderio è?».

Senza perdere tempo, mandano a prelevare il detenuto e lo raggiungono in una grande sala dalle mura sbiadite. Al suo interno, un asettico salottino, utilizzato come spazio per il diletto dei peccatori nei loro ultimi momenti di vita; il diretto interessato siede su un divano beige, il tessuto consunto agli angoli. Quella che ora pare una congiura di pazzi, lo fissa come fosse un cane affetto da rabbia.

«Detenuto n.415, ci spieghi la sua richiesta! Comprendiamo che sia terrorizzato all’idea di morire e forse non ha ben chiaro che cosa vuole» dice il direttore. «Mi sovviene il caso del detenuto n.1095: aveva richiesto di pilotare un aereo per raggiungere Manhattan» interviene un sottoposto, subito aggredito da un altro. «Cretino che non sei altro, voleva pilotare un aereo con dei passeggeri a bordo e tentare un atterraggio sul fiume Hudson come il pilota Sully Sullenberger!».

Il collega si stringe nelle spalle, quasi a volersi nascondere per la figuraccia appena fatta. «Signori, signori calmiamoci. Ehm, detenuto n.415, la prego, ci spieghi il suo desiderio. Non è nulla d’impossibile, ma capisce che si tratta di coinvolgere altre persone e non possiamo rischiare di mettere in pericolo degli innocenti. Lei capisce, vero?». Il detenuto tace e guarda quel circo di persone davanti a lui che non smette di osservarlo come un topo oltre il vetro di una gabbia.

«Non c’è nulla da spiegare, ma non riuscirete a esaudirlo. E se non riuscite a farlo sarò un uomo libero. Questo dice la vostra legge, giusto?». La tensione è palpabile quasi fosse una sottile carta velina pronta a spezzarsi al minimo tocco. Il direttore deglutisce a fatica, all’improvviso sente la bocca secca e un disperato bisogno di acqua. Guarda l’ora: sono ormai le tre e nel suo immaginario era già pronto ad approvare desiderio ed esecuzione per correre dal suo amante. Invece, quel maledetto detenuto era riuscito a raggirare il sistema.

«E va bene, mettiamoci all’opera!» esordisce mascherando la sua perplessità. «Sia ben chiaro, però, che dovrà mantenere una distanza di sicurezza dalle persone che porteremo qui, ma potrà parlarci e trascorrere un’ora esatta con loro. Sarà un autentico momento conviviale» e nel pronunciare le ultime parole, unisce le mani e intreccia le dita, quasi a voler sigillare, o forse rafforzare, quanto appena detto.

Il detenuto ride forte e di gusto; una risata che per quella congiura suona terrificante.
«La faccio ridere, detenuto n.415?».
«Eh già, forse non ha ben chiaro quale sia il mio ultimo desiderio: voglio trascorrere un’ora del mio tempo con una famiglia felice e il fatto che sia felice è determinante. Dalle sue parole, mio caro direttore, ho già capito che il mio desiderio non sarà per voi fattibile. Scommetto la mia pena di morte che ha già in mente di chiamare degli attori. Il vostro sistema è precario ed era solo una questione di tempo prima che qualcuno ve lo facesse notare; o come diciamo noi detenuti, ve lo mettesse nel culo!». Si alza e, le mani in tasca, si avvicina alla grande finestra dal vetro rinforzato e una grata metallista esterna. «Chi dovrà attestarne la veridicità, capirà che sarà tutta una farsa e domattina farò colazione di fronte al suo giardino, direttore. Può scommetterci». I volti degli uomini, vestiti con banali completi neri e cravatte grigie, sono trasecolati.

In un attimo, si riuniscono nell’ufficio del direttore a discutere la situazione, visibilmente offesi di essersi lasciati prendere in giro con facilità. «Ecco, lo sapevo che arrivava il più furbo e ci fregava! Ma che cavolo gli è preso al nostro governo? ». Le voci nervose e stanche parlano tra di loro. Emergono parole pesanti, offese, un accenno di rissa. «Basta!» urla il direttore. «Cerchiamo di ragionare, invece. Qui bisogna trovare una soluzione e subito! Se non sarà un desiderio autentico, qui tutto andrà in malora!».

In quel momento, un sottoposto interviene facendosi largo tra gli altro. «È tutta colpa sua, direttore! Aveva anche lei voce in capitolo e poteva evitare questa sciocchezza dell’emendamento n.646-B41! Ora, invece, eccoci qua a massacrarci tra di noi. Se toppiamo stavolta, manderemo tutto il sistema in vacca! E avremo detenuti liberi di girare per tutto il paese! Il suo voto è stato quello decisivo, lo sanno tutti! Ma lei doveva correre dal suo amante, vero? Siete solo due gay del cazzo!».

D’improvviso, cala il silenzio, animato solo da espressioni stupite o disgustate. Un sottoposto si apposta di fronte al direttore, dandogli le spalle, e rivolgendosi ai suoi colleghi.
«Non esageriamo, pensiamo a come rimediare a questo problema. Il direttore ha ragione».
«Ecco, ora ti ci metti anche tu! Lo sanno tutti che non ami più tua moglie e che desideri quella dannata cameriera del ristorante qui accanto che si trascina a ogni turno sua figlia. Siete tutti degli ipocriti!” replica il solito sottoposto. Le parole taglienti lasciano spazio a un grande imbarazzo e, nel momento in cui sta per riprendere a parlare, il direttore esce di corsa, seguito dall’unico sottoposto che l’ha difeso. «Direttore» lo chiama a voce alta, per fermarlo. L’uomo gli ordina di seguirlo e, in pochi istanti, escono dalla prigione.

Il giorno dopo, all’alba, il detenuto n.415 muore per iniezione letale. Dietro al vetro, la schiera di uomini incravattati che il giorno prima era scoppiata di rabbia per l’arroganza dell’uomo che era quasi riuscito a raggirare il sistema, osserva con vago orgoglio la scena.

Il direttore, invece, siede alla scrivania. Legge documenti, compila moduli, firma l’approvazione di nuovi desideri e relative condanne, ma dopo qualche istante si ferma. Apre un cassetto e da una cartellina tira fuori una busta bianca, priva di sigillo; al suo interno una fotografia. Ritrae lui con l’amante, diventato a tutti gli effetti il suo compagno e, accanto a loro, un giovane stringe la mano di una cameriera che stringe tra le braccia una bambina che le somiglia molto. Il detenuto n.415 non è presente perché dietro l’obiettivo. Colpevole di una rapina che ha causato la morte accidentale di tre persone, voleva solo assaporare un ultimo momento sincero insieme a una famiglia felice e così era stato; e nessun emendamento era stato ritirato.

Il direttore ripensa a quel momento e al giorno in cui il suo voto ha approvato la legge più bizzarra che sia mai stata pensata. Si toglie gli occhiali e, lo sguardo assente, si pone una sola domanda: «Ho fatto la cosa giusta? Non è vero? Non è vero…? Non è vero…?».

Fine

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6 pensieri su “Una Famiglia Felice

  1. Michela

    Easter Egg Pollon 😜
    Mi viene in mente l’incipit di Anna Karenina.
    Qui c’è un condannato a morte dallo stato per un crimine commesso ed una famiglia che di felice ha solo il desiderio del condannato di viverla anche solo per un’ora.. A tratti commovente ma … finalele a sorpresa fantastico. Che brava che sei lindamoon 🥰

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    1. Linda Moon

      Bravissima! Easter Egg indovinato! Grazie per la tua recensione, ti ho colto di sorpresa ancora, visto?! Adoro questo racconto, felicissima di averti conquistato in pochi minuti!

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  2. Anastasia

    Pollon!!! Wow, solitamente non leggo questo genere, ma il tuo racconto è scritto bene, bello e ti prende…complimenti

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  3. Andrè

    In super ritardo!!! POLLON!!!

    Avvincente, fino all’ultima parola. Non riuscivo a smettere di leggere, mi chiedevo come sarebbe finito. E la domanda finale??? Nooooo così, ci uccidi Moon! Ma geniale! Fa riflettere. Brava!

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