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La fuga

Potrei iniziare a raccontare la mia storia partendo da quella mattina, il giorno in cui feci tardi al lavoro. Non fu colpa mia: la notte precedente il gatto fece cadere il mio cellulare, che si ruppe. Così non suonò la sveglia e mi alzai mezz’ora dopo. Mi preparai in fretta e corsi in ufficio. Avevo un appuntamento con un cliente, ma non potendo ricevere la notifica sul mio smartphone, me ne dimenticai e solo quando arrivai allo studio mi resi conto dell’errore. Come se non bastasse, fu molto complicato trovare l’indirizzo al quale dovevo recarmi e chiesi a dei passanti di darmi una mano. Le loro indicazioni, però, si rivelarono confusionarie e contrastanti. Uno di loro mi rispose pure in modo sgarbato: «Ma non puoi cercare su internet invece di disturbarmi?».

Magari! pensai, mentre ripartivo sconsolato sulla mia auto. 

L’appuntamento non andò male, ma più di una volta mi ritrovai a tastare la tasca dove di solito tenevo il cellulare: mi sembrava di sentire una vibrazione o un accenno di suoneria.

Terminato l’incontro, presi la macchina e mi diressi al negozio di elettronica per comprare un nuovo telefono ma, arrivato al parcheggio, mi resi conto di essere completamente rilassato: non ricevevo e-mail o chiamate da ore, mentre di solito ne venivo sommerso.  

L’appuntamento non andò male, ma più di una volta mi ritrovai a tastare la tasca dove di solito tenevo il cellulare: mi sembrava di sentire una vibrazione o un accenno di suoneria. Terminato l’incontro, presi la macchina e mi diressi al negozio di elettronica per comprare un nuovo telefono ma, arrivato al parcheggio, mi resi conto di essere completamente rilassato: non ricevevo e-mail o chiamate da ore, mentre di solito ne venivo sommerso.  

Invece di scendere dall’auto, rimasi seduto, godendomi quei minuti di tranquillità. Mentre mi rilassavo, gli edifici intorno a me sparirono. Immaginai me stesso partire senza una meta precisa, come un moderno Mattia Pascal: libero e irraggiungibile. Potevo stare giorni senza cellulare! Anzi, un mese intero! Avevo la sensazione che trascorsi i trenta giorni mi sarei abituato e non ne avrei avuto bisogno mai più.

Guidai per circa dieci minuti, quando mi resi conto che non avevo pensato a Romeo: chi gli avrebbe dato i croccantini? Che avrebbe fatto dopo aver terminato la sua ciotola d’acqua? Potevo però rimediare un cat sitter nel frattempo. Misi una mano nella valigetta per cercarne uno dal cellulare, ma mi resi conto di non poterlo fare, ovviamente. Beh, ma mia sorella potrà prendersene cura, entro in questo bar e chiedo di poter fare una telefonata. Raggiunsi il primo che trovai lungo la strada, ma prima di entrare realizzai di non ricordare il suo numero!

Decisi che ci avrei pensato in seguito, sarei riuscito a contattarla da qualche social, cercando di collegarmi con il computer, sempre se fossi riuscito a farlo: molte password le avevo trascritte nello smartphone.  Sapevo che era il momento di partire e questi imprevisti non mi avrebbero fermato: avrei comprato una cartina e scelto dove andare. Avrei vissuto senza dover controllare il mio conto in banca quotidianamente, avrei tenuto a mente le spese. Avrei smesso di ordinare cibo dall’applicazione e sarei andato io al supermercato, avrei scritto lettere e…

«Matteo! Matteo!» disse Andrea, il suo collega, mentre bussava innervosito al finestrino della macchina. «Scendi subito! Non ti ricordi che ci eravamo dati appuntamento venti minuti fa per comprare il tuo nuovo cellulare? Ti dimentichi ogni cosa che non scrivi nell’agenda! Sono qui che ti aspetto e tu sei seduto a guardare il vuoto! Ma che fai, a cosa stai pensando?».
«Ciao Andrea, ehm… scusami, stavo pensando a… niente di importante».
«Allora sbrigati, andiamo a scegliere il tuo nuovo telefono che alle tre abbiamo una riunione e rischiamo di fare tardi».
«Certo hai ragione, andiamo…» disse Matteo, mentre si dirigeva verso il negozio.

un racconto di Giulia Stivanin per l’evento Wanted Stories [giugno 2023] sulla base del tema:

Il potere della tecnologia – La tecnologia oramai ci ha travolto. I nostri occhi e le nostre dita sono più volte al giorno attratte da un piccolo schermo che ci catapulta in diversi mondi virtuali. Senza accorgercene, teniamo chinato il capo in giù perdendoci cose ritenute banali come un’alba, un sorriso o una lacrima sul viso di una persona, un cielo stellato. Immagina di rimanere senza cellulare per un mese intero: cosa succede?

Io, tecnologica

Aveva sempre faticato molto ad abituarsi all’avvento del cellulare. Negli anni ’90, insieme ad altre persone, faceva parte della LAT: lega anti telefonino. Per qualche anno, aveva cercato di rimanere saldamente ancorata al telefono color grigio topo, quello con la girella per comporre i numeri. Non voleva abbandonare il fascino di quella forma, il ritmo lento, il bizzarro divertimento nel comporre un numero alla volta; e la rubrica cartacea che conteneva tutti i numeri che la memoria umana non poteva ricordare. Era resistita quanto aveva potuto, ma poi era arrivata anche lei a cedere alle comodità che la tecnologia offriva, per non sentirsi emarginata come una preistorica creatura che lottava contro l’avanzamento inesorabile della tecnologia.

Questa breve storia, che rimanda un po’ alle gesta di Don Chisciotte, parla di me. Sì, avete capito bene, proprio di me: Maria Teresa. Questo argomento sulla tecnologia mi riporta al tema che ho fatto alla maturità, più di trent’anni fa, ormai. Avevo scelto la traccia della robotica e della fantascienza per descrivere il tipo di impatto che avrebbero avuto nel nostro futuro. Ora, mi trovo nel futuro immaginato in quel passato. Vogliamo parlare delle prime comodità di cui ho goduto grazie al cellulare? 

Finalmente conversazioni private senza essere costretta a parlare sottovoce in corridoio. Eh sì, perché il telefono grigio topo aveva un filo attaccato alla parete e, se lo staccavi, cadeva la linea; per non parlare poi della rubrica memorizzata nel cellulare con annessa la foto del destinatario, così ho modo di capire subito con chi sto parlando perché, sapete, i contatti sono aumentati. Certo, la tecnologia ha ridotto le distanze geografiche: grazie ai messaggi è meno invadente entrare nella vita delle persone ma è sempre la qualità che fa la differenza, non la quantità. Ormai il cellulare è diventato la mia appendice, ho praticamente tutto lì dentro, come penso anche voi: l’app della banca, il registro scolastico, le e-mail, i canali di messaggistica, i siti per cercare qualsiasi cosa e organizzare pure i viaggi; google maps che ti porta dove vuoi, le foto, i video, le piattaforme cloud che ti permettono di lavorare ovunque e con qualsiasi dispositivo anche diverso dal proprio. Quale senso di libertà! Tutto a portata di mano.

Ecco, appunto, l’importante è che la gestione della tecnologia non sfugga di mano. Come tutte le cose è sempre l’uso che se ne fa a fare la differenza. Non ha senso demonizzare la tecnologia, l’ho capito quando ho imparato a usarla a mio vantaggio senza farmi fagocitare dal suo vortice di immagini, notizie, pubblicità a ritmi serrati che, se non si sta attenti, fanno perdere il senso del tempo. Se voglio vedere un posto, un tramonto, sentire gli uccelli che cantano o lo sciabordio delle acque del mare, esco di casa e vado a riprendermi il contatto con la realtà e le persone, perché non tutto è così reale come ci mostrano i vari social: tutti belli e felici e dall’altra parte i rosiconi. Uso il telefono per lavoro e per mantenere i contatti con le persone a me care. 

Sviluppando il mio progetto online ho fatto un percorso catartico, ho imparato che usando bene questi mezzi tecnologici, oltre ad acquisire nozioni per saperli usare, si può incappare inconsapevolmente in una grande crescita e conoscenza personale. Adesso come adesso, se rimanessi senza cellulare per un mese intero, mi sentirei persa; penso al tempo e alle energie che perderei per il disbrigo delle pratiche burocratiche che ora invece gestisco comodamente online. Per il resto, se lo farò accadere, potrei anche farne a meno: me ne starei seduta su una poltrona in riva al mare sotto le fronde di un bell’albero a rimirare i colori, ad assaporare i profumi, farmi accarezzare dalla brezza e perdere lo sguardo nell’immensità del mare ritrovando la serenità di vivere con poco, ma con tutto allo stesso tempo.

un racconto di Maria Teresa Cariolato per l’evento Wanted Stories [giugno 2023] sulla base del tema:

Il potere della tecnologia – La tecnologia oramai ci ha travolto. I nostri occhi e le nostre dita sono più volte al giorno attratte da un piccolo schermo che ci catapulta in diversi mondi virtuali. Senza accorgercene, teniamo chinato il capo in giù perdendoci cose ritenute banali come un’alba, un sorriso o una lacrima sul viso di una persona, un cielo stellato. Immagina di rimanere senza cellulare per un mese intero: cosa succede?

Il potere della tecnologia

“Mi chiamo Emanuela, ho quindici anni e frequento il liceo Galileo Ferraris a Torino. Abito in questa città da cinque anni, prima vivevo a Padova, ma ci siamo trasferiti grazie a una grande offerta lavorativa che mio padre ha avuto. Padova è una bellissima città, ma non quanto Torino che offre scorci davvero instagrammabili!”. 

È così noioso.
Emanuela non ha idee, si sente senza ispirazione e creatività; i temi non sono il suo forte.
«Bene, giù le penne, è ora di consegnare i temi».
Caspita, non ho scritto quasi niente.
«Emanuela, ho detto giù le penne».
«Sì, mi scusi». È abituata a questi fallimenti, soprattutto nelle materie linguistiche. Marta, sua cara amica, si avvicina: «Ella, di nuovo?!». Emanuela ama Marta, ma non sopporta quando le sta troppo addosso: la motiva spesso a impegnarsi di più, ma non è proprio una cosa da lei; ha altre cose più importanti a cui pensare.

«Dai Marta, basta! Stavolta non c’era niente da studiare!».
«C’erano degli schemi in realtà».
«Vabbè, non me ne frega». Marta annuisce svogliatamente, poi si dirige verso la finestra della classe. Emanuela, invece, prende subito il cellulare per controllare Instagram: alla vista di tante notifiche, sorride all’istante. Quella sensazione cambia totalmente le sue giornate.

Dopo la giornata a scuola, non vede l’ora di avviare la solita routine pomeridiana: pranzare, guardare Netflix, scorrere video su Tik Tok, postare su Twitter, chattare con amiche e amici, cenare e, come al solito, prendersi indietro con lo studio. Il mondo virtuale è per lei un rifugio sicuro, sa che lì può sentirsi a casa, accettata totalmente. Impegnata a guardare un video, alza lo sguardo alla vista dei genitori sulla soglia della camera.

«Ehi, tesoro» dice la madre appena entra nella stanza. Ha un tono tranquillo ma dispiaciuto allo stesso tempo. Emanuela chiede quale sia il problema: sia sua madre che suo padre sembrano diversi dal solito. «Emanuela, io e tua madre abbiamo notato un grande cambiamento in te. A tavola parli poco, ti chiudi in camera per ore ed è da un paio di mesi che non esci in compagnia delle tue amiche; siamo molto preoccupati». 
«Dove volete arrivare?».
«Abbiamo deciso di toglierti il telefono. Ti daremo momentaneamente quello vecchio di nonna. Inoltre, per gli impegni scolastici, sarai controllata da noi». Emanuela esplode. Urla e piange istericamente: tutto ciò che riesce a buttare fuori sono solo rabbia, dolore, frustrazione. I suoi genitori hanno deciso di toglierle l’unica cosa di cui le importi veramente qualcosa e che la fa stare bene. All’improvviso, si sente vuota. E ora come farò?

Il giorno seguente, ancora incazzata per l’assurda punizione, si avvia a piedi verso scuola, completamente rassegnata. Camminando lungo la via, nota un alberello in un parco che costeggia il percorso: le foglioline, illuminate dal sole, risplendono di un verde chiaro molto intenso nonostante i rami mostrino qualche segno di debolezza, ma trova quell’immagine davvero molto carina. Ecco, poteva essere una storia Instagram perfetta. Dannazione!

Al rientro da scuola, la cosa si ripete. Nota ancora l’alberello, ma anche un signore anziano che lo innaffia. Si avvicina e gli chiede se gli appartenga. «La natura non appartiene a nessuno, siamo noi che apparteniamo a lei». Quella frase risuona nella sua testa per tutto il pomeriggio, Noi apparteniamo a lei, ma viene interrotto dal suono del campanello: è Marta.
«Ella! Tutto bene? Non hai risposto ai miei messaggi!». 
«Marta, per fortuna che ci sei tu! I miei mi hanno sequestrato il telefono!». 
«Finalmente, era ora!» dice ridendo.
«Non sei simpatica per nulla» risponde Emanuela, l’aria seccata.
«Allora andiamo in un posto». 
«Uhm, dove?». 
«È una sorpresa!». 

Sedute su un telo, all’improvviso una grande libellula passa veloce vicino a loro.
«Oddio! Che schifo!».
«Emanuela, è solo una libellula! E poi, come può farti schifo un essere così meraviglioso?».
«Mi fa schifo e basta. Cosa mi volevi mostrare?».
«Questo» dice Marta, indicando il lago. Emanuela sta per rispondere, ma l’amica la zittisce, dicendole semplicemente di osservare. Così, si guarda intorno con più attenzione: non vede nulla di speciale, ma poi viene attratta da un piccolo fiore, i cui colori brillano sotto i raggi del sole. Da lì, inizia a notare sempre più cose: i sottili rami di un grande albero mossi dal vento , un cane che corre felice con il suo padrone, il suono dell’acqua che scorre, il calore del sole sulla pelle. Tutto questo le fa provare uno strano sentimento. «Senti che pace, Ella. Questo è quello che si prova quando si è presenti nel momento» dice Marta, quasi leggendole nel pensiero. Wow!

La giornata al lago è così significativa per Emanuela, che decide di passare più tempo all’aria aperta con amici e famiglia. L’essere più presente nel momento l’ha aiutata a migliorare con la scuola, a dedicare più tempo a se stessa, modificando anche la sua tanto amata routine. È è grata per tutto, ma non ce l’avrebbe mai fatta senza la sua cara amica.

“Mi chiamo Emanuela, ho diciassette anni e frequento il liceo Galileo Ferraris a Torino. Sono una ragazza piena di passioni e di hobby, ora, e amo trascorrere il mio tempo all’aperto, in particolare con me stessa. Dopo anni, la mia vita ha preso una svolta magnifica e ne sono immensamente grata”.

«Ella!» urla Marta, felice, dall’altra parte della classe. 
«È andata bene?». 
«Sì! A te, invece?».
«Ho preso 9, Marta!» risponde, orgogliosa. 
«Cosa?! Fantastico!» esclama l’amica, sorpresa di quel voto. «Sono contenta che ti sei risvegliata!» e la avvolge in un grande abbraccio. «Anch’io Marta, anch’io».

un racconto di Emma Noardo per l’evento Wanted Stories [giugno 2023] sulla base del tema:

Il potere della tecnologia – La tecnologia oramai ci ha travolto. I nostri occhi e le nostre dita sono più volte al giorno attratte da un piccolo schermo che ci catapulta in diversi mondi virtuali. Senza accorgercene, teniamo chinato il capo in giù perdendoci cose ritenute banali come un’alba, un sorriso o una lacrima sul viso di una persona, un cielo stellato. Immagina di rimanere senza cellulare per un mese intero: cosa succede?

A memoria

C’è stato un tempo in cui ero molto legato alle cose, in modo quasi maniacale, ad ogni oggetto apparentemente banale che, per me, diventava speciale in quanto legato a un ricordo, a un posto, a un attimo che non sarebbe tornato più. Così conservavo gelosamente un sasso, il biglietto di un concerto, un gufo di terracotta, una t-shirt e chissà quante altre cianfrusaglie, perché ero convinto che trattenessero un ricordo che altrimenti sarebbe stato smarrito per sempre. Poi, un giorno, non sono più riuscito a trovare una foto a cui tenevo molto. Era lo scatto di un amore.


Eravamo a casa sua poco prima di Natale, sul divano. Ho ancora negli occhi quel momento: aveva i capelli sciolti, il maglione rosso e teneva in mano la sua tazza preferita. Il vinile girava nel piatto suonando Blue Valentine di Tom Waits e fuori dalla finestra iniziava a fioccare l’illusione di una nevicata. Quando non l’ho più trovata mi sentivo perso. Pensavo che la memoria di quella donna, senza quella foto, sarebbe andata irrimediabilmente persa fino a non riuscire più a ricordarne i tratti e avrei finito per dimenticarla. Non sapevo cosa fare. Ho rovistato ovunque in preda a una cieca frenesia. Ho sfogliato libri, scatole e cassetti. Ho messo sottosopra ogni angolo. Poi, al culmine della disperazione, ho preso un foglio e una matita e ho provato a disegnarla. L’ho dipinta a memoria, quasi a occhi chiusi, nella luce soffusa dell’atelier dell’anima. E lo sguardo che compariva era proprio il suo: sue le labbra curve in un lieve accenno di sorriso, suo il collo sinuoso e la ciocca di capelli scomposta appoggiata alla guancia. Sembrava perfino più bella. 

Quando ho messo giù la matita, quello che c’era su quel foglio era quasi migliore della foto smarrita. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quel disegno. Un brivido improvviso mi ha scosso mentre sfioravo con le dita quel viso anche solo sulla carta, sui tratti precisi del mio ricordo. Allora ho capito che, se qualcosa è stato davvero importante, è impossibile dimenticarlo. Che il cuore è un setaccio di echi e immagini intrecciate su un telaio di robusta trasparenza per filtrare tutto ciò che è stato e, nella fitta trama, rimane solo quello che conta mentre il resto gocciola a valle, lungo il ruscello che scorre lentamente verso l’oblio. Ѐ stato in quel momento, forse, che ho realizzato che non è dentro un oggetto che si nascondono i ricordi ma che, quell’oggetto, potrebbe essere solo una semplice scusa per farli tornare a galla dalle buie profondità del ieri, fino alle increspature d’onda che riflettono il sole odierno.

Non ho smesso del tutto di conservare qualcosa che mi riaccompagni per mano in un posto che ho amato o a un momento particolare. Ma ora so che ciò che conta veramente rimane per sempre dentro di me, nei tortuosi corridoi tra mente e cuore. Ѐ solo per le banalità che serve una nota nell’agenda o un nodo al fazzoletto, come per la spesa può tornare utile scrivere una frettolosa lista, ma quello, in fondo, non può certo chiamarsi scrivere.

un racconto di Massimo Donà per l’evento Wanted Stories [maggio 2023] sulla base del tema:

L’arte di perdere – La bellissima poesia di Elizabeth Bishop recita “[…] L’arte di perdere non è difficile da imparare; così tante cose sembrano pervase dall’intenzione di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro. Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta il turbamento delle chiavi perdute, dell’ora sprecata. L’arte di perdere non è difficile da imparare […]”. Come può essere vissuta questa “arte della perdita” quando ciò che si è perduto aveva un forte valore affettivo? La lettera di un amante, il ricordo di un viaggio di gioventù, il maglione ereditato da un nonno affettuoso. Possiamo perdere questi oggetti e accettarlo con serenità?

I portaoggetti

«Sai nonno, ho comprato dei portaoggetti, dei dischi bianchi concavi. Vieni a vederli, ti piaceranno!». Il nonno seguì Luca ed entrò nel salotto. Sparsi per tutta la stanza, sui mobili, vide i dischi bianchi che contenevano le cose più disparate: auricolari, tablet e quattro contenenti due paia di scarpe nuove, una calzatura per recipiente. Nel vedere la scena, ebbe un sussulto. Poi rimase immobile per qualche secondo, e scoppiò a ridere. Era nato nel 2001, e vedere quegli oggetti che da ragazzino usava quotidianamente gli aveva fatto fare un tuffo nel passato.  

«Luca, se mia madre ti avesse visto usare i piatti in quel modo si sarebbe sentita male» disse al nipote. «Davvero li conosci? E per cosa li usavi?». 
«Per il cibo!» esclamò «Non li vedo da molto tempo e non ti posso certo biasimare per averli usati così. Penso di aver buttato gli ultimi verso la metà degli anni 50». 
«Quindi come si faceva, si comprava il cibo al supermercato e si metteva lì?».
«Esatto. Spesso cucinavamo noi a casa e li usavamo come contenitori». Notando lo sguardo perplesso del nipote, continuò la spiegazione: «È stato il risultato della politica economica degli anni 30, da allora il cibo viene cucinato quasi solo in grandi pentoloni e poi venduto nei supermercati».

Mentre parlava, prese in mano un piatto, e cominciò a osservarlo, rigirandolo tra le mani.
«Si voleva evitare di sprecare il gas nelle singole abitazioni, quindi i politici avevano caldamente consigliato di smettere di cucinare. E sai come sono questi consigli… In fin dei conti rimane solo lo spreco di plastica degli imballaggi, ma poi si riciclano!». Terminato di dire questo, si zittì, e iniziò a pensare alla sua adolescenza: ricordò l’odore del ragù che bolliva, il piatto pronto in tavola… Ma il pensiero fu presto interrotto dal commento stupefatto di Luca.

«Ogni giorno a cucinare, che incubo! Certo che ci potevate pensare prima, non è un’idea così difficile!».
«Non si trattava di questo» rispose il nonno stizzito «il cibo lo potevamo comprare anche noi già pronto. Ma era più costoso e inoltre era divertente cucinare».
«Divertente? Non penso proprio! Preparare il cibo e dover pensare a cosa fare ogni giorno? È molto meglio quando tutto è già pronto e pensato per te!» rispose Luca.
«Non è solo quello» esclamò suo nonno alzando la voce e cominciando a parlare più velocemente «era una questione di poter scegliere da soli, invece di seguire i programmi del governo».
«Ti lamenti sempre di quei programmi, ma poi li segui! Alla fine ora è tutto molto più comodo» gli rispose Luca con tono pacato, mentre dava un’occhiata ai social sul telefono.
«Nonno, ma sono già le due, devo proprio scappare! Che peccato però, mi piace sempre sentirti raccontare queste stranezze del passato. Ci manca solo che la prossima volta tu mi dica che sprecavate l’acqua e il sapone per lavare i vestiti, invece di riciclarli e comprarne di nuovi!» gli disse ridendo, mentre rispondeva a un messaggio dal cellulare e usciva dalla porta.

Rimasto solo, il nonno osservò il piatto che teneva ancora tra le mani. Guardò il forno, che usava esclusivamente per riscaldare il cibo pronto. Potrei cucinare!, pensò: Mi piaceva fare le torte! Oppure anche la carne arrosto, posso ordinare tutto e prepararla. Iniziò a cercare le ricette online e aprì il sito per ordinare gli ingredienti, ma si imbatté nella lista di pietanze pronte, che gli sarebbero state consegnate in dieci minuti. Però è già ora di pranzare, ci vorrebbe troppo tempo. Ma sì, oggi compro tutto già pronto, casomai ci provo domani a cucinare, se ne ho voglia! 

un racconto di Giulia Stivanin per l’evento Wanted Stories [aprile 2023] sulla base del tema:
Fuori il vecchio, dentro il nuovo – L’armadio straripa di indumenti. La credenza accoglie una serie infinita di tazzine. La libreria è impolverata di libri che vogliamo leggere da un anno. Il consumismo regna sovrano! Ce la farà qualcuno a salvarsi?

Benvenutə al mondo!

Un ragazzo in bicicletta sfreccia lungo le strade trafficate. Pedala a ritmo di musica, supera gli ostacoli con agilità; la bici è quasi un’estensione del corpo. La rotatoria che sta per raggiungere pare un girone infernale: è tutta una questione di secondi. Cambia marcia, pedala veloce quasi volesse librarsi nell’aria, entra nel cerchio dannato fatto di automobilisti incazzati, clacson fuori controllo, bestemmie. Taglia la strada a un’ambulanza e d’istinto porta una mano alla schiena: il pacco è al sicuro. Suona il campanello, consegna le pizze e attende con ansia l’esito: cinque stelle! Ѐ così felice da non fare caso al mezzo che ha mandato fuori strada poco prima. I lampeggianti girano ancora, ma il suono è assente. Una gomma è bucata e all’interno qualcuno preme forte sul petto di una persona.

Un trentenne è in procinto di affrontare un colloquio di lavoro. Completo, camicia, cravatta, orologio nuovo. “Oh no, è tardi!”. Si affretta a salire in auto, ma il motore non dà segni di vita. “Merda!”. Corre al tabacchino, acquista un biglietto dell’autobus, poi decifra gli orari appesi alla fermata; il latino, in quel momento, pare una passeggiata. L’autobus arriva: più che un mezzo pubblico sembra un flusso temporale connesso a un paese straniero. Scende alla sesta fermata, con foga, ma svoltato l’angolo di un palazzo si scontra con una ragazza che gli rovescia addosso un bicchiere di caffè. L’ustione di primo grado cede il posto al nervoso. La giacca è fradicia. Se ne libera, rimarrà solo in camicia. Affretta il passo, raggiunge l’entrata, ma un lembo della camicia si impiglia al pomello; una ferita da coltello farebbe meno male. Rimane in t-shirt e pantaloni eleganti. Non importa il suo aspetto, ciò che conta è la motivazione. Si presenta alla segreteria, gli dicono di attendere. Pochi istanti dopo, gli comunicano che il posto è già stato assegnato, ma si chiede perché un ragazzo, in giacca e cravatta, venga fatto accomodare subito dopo di lui.

Arriva sempre alla stessa ora. Lo accoglie in vestaglia, truccata, anche se lui non ci baderà. Lo fa accomodare e lo osserva fare sempre le stesse cose da un anno: china il capo con rispetto, toglie le scarpe, allunga un pacchetto. Prende posto a sedere sulla poltrona, lei siede di fronte e versa il tè, scarta la sorpresa: una millefoglie. Le chiede come sta, le racconta del tempo, delle ultime news dal mondo, del traffico. Inizia sempre così, come fossero amici che non si vedono da tempo. Dedica solo gli ultimi minuti alla moglie e quando lo fa, ne parla come fosse una malattia. Non si smentisce mai: se ne esce sempre dicendo che mentire e ignorare il tradimento altrui è più facile ed economico. Paga e se ne va.

A quel punto, lo schermo si spegne. L’operatore volge lo sguardo alla persona di fronte a lui. Sfoggia un sorriso che stona con quanto appena visto e parla come se avesse mostrato un film esilarante.

«Dunque, signor Mattei, in linea di massima questa è la vita sulla terra. C’è molto altro da scoprire, ma l’amministrazione non concede troppi spoiler! Ѐ previsto che lei nasca tra nove mesi, ma oggi possiamo offrirle una promozione: potrà venire al mondo una settimana prima. Che altro dire?». L’uomo osserva con attenzione un fascicolo. «Ah, sì: sua madre è vegana quindi non si aspetti di mangiare carne molto presto. A volte fuma, quindi non si allarmi per l’odore di bruciato: il pancione non sta andando a fuoco. Non soffrirà di gravi malattie, sarà allergico alle noci e… oh, ma guardi, camperà fino a novant’anni. Perbacco! Allora, quando è pronto, barri la casella per scegliere il momento della nascita».

«Mi scusi» chiede esitante il signor Mattei, rigirando più volte il foglio tra le mani «non trovo la casella con scritto Mai!».

un racconto di Linda Moon per l’evento Wanted Stories [aprile 2023] sulla base del tema:
Le nuove priorità – Benvenuti nel 21°secolo! Dove il sesso è gratis e l’amore costoso. Dove la pizza arriva più velocemente di un’ambulanza. Dove perdere il telefono è più doloroso che perdere la verginità. Dove i vestiti determinano il valore di una persona. Dove la lealtà è un lusso, la menzogna una moda e il tradimento intelligente. Oh, e l’onestà un difetto!

Scosse

Una violenta scossa di terremoto, alle 7.02 del mattino, svegliò la piccola comunità di collina e fece correre in strada tutti gli abitanti della via dove abitava la moglie del meccanico del paese; la signora Maria.

Era un personaggio insolito, diverso. Non era nativa del posto. Era arrivata lì solo dopo aver sposato Luigi, che l’aveva lasciata vedova già da diversi anni. Dopo la morte del marito, si era allontanata sempre più dal resto della comunità. Trascorreva il suo tempo nella casa dove era rimasta sola e dove non era entrato più nessuno.

In tanti avevano notato che i volantini della sagra del paese restavano per giorni interi sotto al portico di quella casa, fino a quando il vento non li portava altrove, così come succedeva spesso a tutta la posta che riceveva. Le tende alle finestre, un tempo sempre aperte, ora erano spesso tirate e lasciavano al buio l’interno dell’abitazione.

 

Ogni abitante rispettava il suo dolore, assistendo a tutto questo senza intervenire. Eccetto per le poche volte in cui la si incontrava rientrare dalla spesa, carica di borse stracolme, ci si era abituati alla sua assenza; a tal punto che anche la mattina della scossa di terremoto, passato lo spavento, tutti rientrarono nelle proprie case senza accorgersi della sua mancanza. Solo la dirimpettaia, guardando la casa di Maria dalla finestra, venne assalita dal timore che fosse successo qualcosa, decidendo poi di andare a suonare il campanello. 

Al terzo tentativo senza risposta, la donna allertò gli altri vicini che ben presto si ritrovarono di nuovo in strada, questa volta tutti davanti alla casa di Maria. Tutti insieme, spaventati, e forse anche un po’ consapevoli di averla dimenticata. In quel silenzio totale, davanti a una porta che non si apriva e alle finestre serrate, capirono che forse avevano aspettato troppo a lungo.

Non fu facile nemmeno per i vigili del fuoco entrare all’interno di quella casa. Gli accessi erano ostruiti, così come tutte le finestre. Servirono attrezzature speciali per aprire un varco. Lo scenario che si presentò all’interno lasciò tutti ammutoliti. La signora Maria aveva cercato di riempire con qualunque oggetto tutti gli spazi vuoti delle stanze.

 

Libri. Riviste. Scatole. Vestiti. Scarpe. Pentole. Vasi. Quadri. Stoviglie. Coperte. Ogni cosa era stata minuziosamente conservata e aveva trovato, in qualche modo, posto in casa. Infiniti strati di abiti sopra a stoviglie ammucchiate. Bottiglie impilate tra loro, bloccate precariamente da pile di giornali. I mobili avevano perso la loro funzione primaria. Non era chiaro dove terminasse il pavimento e iniziassero le pareti. Quello scenario avrebbe procurato un immediato senso di soffocamento a chiunque. A Maria, forse, serviva per non soccombere. 

La scossa di terremoto aveva fatto crollare tutto e non si trovava traccia del corpo di Maria. Tutti si diedero da fare a spostare gli oggetti caduti a terra nella speranza di trovarla viva sotto le macerie di quella solitudine. La speranza di ritrovarla viva era per tutti anche la speranza di recuperare il senso di vita della comunità; e la solidarietà che li aveva sempre contraddistinti.

E lì, tra quella montagna di cose confuse, accumulate senza un senso, Maria c’era. Viva, protetta dalla scossa proprio da quello strato di materia che finalmente la stava liberando dalla sua solitudine.

un racconto di Ugo Domeniconi per Wanted Stories [aprile 2023] sulla base del tema: 
Fuori il vecchio, dentro il nuovo – L’armadio straripa di indumenti. La credenza accoglie una serie infinita di tazzine. La libreria è impolverata di libri che vogliamo leggere da un anno. Il consumismo regna sovrano! Ce la farà qualcuno a salvarsi?

 

La felicità nella sostenibilità

La casa è silenziosa da quando ha divorziato. La sorella le ha consigliato di trovare un hobby, ma nulla sembra fare al suo caso. Fino a quando una giovane coppia non si trasferisce nella villetta a schiera di fianco alla sua.
I nuovi dirimpettai, all’apparenza affabili, si rivelano un concentrato di ignoranza. Il primo incontro è scioccante.
Pensando di agevolarli con il trasloco, si offre di buttare la loro spazzatura. Il sacchetto che regge pare contenere della carta, ma l’inaspettata pesantezza e un tintinnio fanno pensare ad altro. Nascosta dai bidoni, apre il sacchetto. Oh santissima pazienza! Carta, vetro, la buccia di una banana: tutto insieme!

 

Con un falso sorriso, si presenta alla loro porta. «Ho notato che avete buttato carta, vetro e umido insieme. Posso darvi dei sacchetti per gestire il riciclaggio».
«Riciclaggio? Oh, non perdiamo tempo con sciocchezze simili» dice lui. Un brivido le attraversa la schiena e le corde vocali si spezzano. «Chi ci garantisce che ciò che dividiamo rimane tale?» aggiunge. «Per noi la sostenibilità è vivere ogni giorno al massimo!».

 

Rientrata in casa, fissa la bottiglia di vino che la sorella le ha regalato per una futura occasione da celebrare: in quel momento la romperebbe volentieri in testa ai vicini; solo che prima dovrebbe berne il contenuto e poi lasciarla in ammollo per staccare l’etichetta con facilità. Ripreso il lume della ragione, ha un’idea: riempie la loro posta con depliant sulle buone regole del riciclaggio, poi li osserva per tutta la settimana, ma quando si approcciano ai bidoni, il suono che percepisce sa di plastica che struscia contro vetro; praticamente unghie su una lavagna.

 

Inizia così un ridicolo scontro tra titani. Ogni qualvolta li incontra, impartisce una lezione sulla sostenibilità. Quando nota l’acquisto di un ammorbidente, elenca i danni da inquinamento. Quando nota i cartoni della pizza insieme alla carta, spiega che il materiale sporco va nel secco. Quando nota rotoli di pellicola e alluminio, suggerisce un involucro di cera d’api come alternativa.

 

Per quasi un mese la storia si ripete, fino a quando l’uomo le intima di smetterla dicendo che spendere energie a rispettare un ambiente che viene costantemente abusato da altri, non ha senso; tanto vale godere di ciò che si ha. A quel pensiero, tace. Per la prima volta da quando ha iniziato la sua battaglia per l’ambiente, riflette sul suo operato. E se quel mentecatto avesse ragione? Si avvicina a un bidone e con un gesto rapido, come se il sacchetto scottasse, lo getta dentro. Carta e plastica insieme, oddio! Ѐ più che sicura di aver appena fatto bestemmiare Dio.

 

Cammina veloce, la testa incassata nelle spalle, come un ladro in fuga. La passeggiata dopo il lavoro quel giorno pare più una Via Crucis. Forse sta davvero sprecando energie per una cosa che importa a pochi. Forse tutto ciò che viene diviso, viene poi riunito. Forse sarebbe ancora sposata se non avesse dedicato infiniti minuti al riciclaggio. Poi si blocca. No! Credo in quello che faccio! 

 

Recupera il sacchetto, lo strappa con fare impetuoso. La carta esplode in aria, poi, pezzo per pezzo, butta tutto correttamente. Una sensazione di serenità pervade il suo corpo, ma non fa in tempo a goderne. Si nasconde dietro a un bidone. Il vicino fischietta allegro, come se qualcosa di appagante gli avesse cambiato l’umore. Regge in mano uno scatolone con bottiglie di vetro, involucri di plastica e cartacce. Il cuore batte forte come la pallina di un flipper. «Ricicla con consapevolezza… ricicla con consapevolezza…» dice sottovoce. Una volta a casa, si accascia sul divano, sorseggia un calice di vino e tira un gran sospiro di sollievo. Il mondo ora è un posto migliore.

 

un racconto di Linda Moon per l’evento Wanted Stories [marzo 2023] sulla base del tema: 
La sostenibilità secondo i nuovi vicini – Nel quartiere sono arrivati dei nuovi dirimpettai e con loro anche una personale visione riguardo alla sostenibilità ambientale. Chissà come avverrà l’incontro con il quartiere…

Ritorno alla natura

Mi sono svegliata con un mal di testa pazzesco.
Mi trascino in bagno.
Mi guardo allo specchio e… faccio paura!

La guancia destra è gonfia in modo sproporzionato. La sfioro con la mano: è caldissima. Riesco a fatica ad aprire la bocca, il dolore è insopportabile. Intravedo in fondo un nuovo dente. Com’è possibile sia spuntato tutto intero in una sola notte?
Devo assolutamente assumere un analgesico; l’unico “farmaco” che ho in casa è un infuso. Dopo un’ora dall’assunzione la situazione non è migliorata, ma riesco a proferire parola, decido quindi di chiamare il dentista. Per fortuna mi dà appuntamento nel primo pomeriggio, che solitamente lascia libero per le emergenze, e il mio caso lo è. 

 

Poco dopo suona il campanello e mi chiedo: «Chi sarà mai a quest’ora di mattina presto?». Esco e mi trovo di fronte un pastore che mi chiede se per caso è mia l’auto parcheggiata sul ciglio della strada. In questa stradina di campagna c’è solo la mia piccola casa e quindi la risposta è affermativa. Questa non ci voleva! Un caprone l’ha incornata più volte e l’ha buttata nel fosso che costeggia la stradina.
«Maledetta quella volta che ho deciso di vivere in campagna». E adesso come faccio ad andare dal dentista? Il pastore costernato mi offre uno dei suoi muli come mezzo di trasporto. Accetto mio malgrado e decido di partire di lì a poco, chissà quanto ci metterò a raggiungere la città con questo desueto mezzo.

 

Inizia questo calvario di su e giù sulla groppa dell’animale che cammina più lentamente di quanto non faccia io. Il dolore aumenta e decido di proseguire a piedi ma non mi va di abbandonare il mulo e quindi sono io a trascinare lui. Cerco di spostare l’attenzione dal dolore osservando il bel paesaggio campestre, mai notato passando di corsa in macchina. Immersa nella calma della natura non avverto più il dolore e come d’incanto mi ritrovo già in città; la bellezza della natura mi ha fatto fare venti chilometri a piedi senza accorgermene. Avverto però un puzzo strano, è quello delle macchine e dei cassonetti della spazzatura. 

 

Accidenti! Camminare sui marciapiedi stretti e sconnessi con un quadrupede a seguito è impegnativo. A un certo punto il mio compagno di viaggio si blocca: il traffico, il rumore e gli spazi stretti devono averlo infastidito. Improvvisamente il dolore ritorna, mi scombina così tanto la testa che non ricordo dove si trovi il dentista. Il mulo non vuole saperne di muoversi e inizia pure a ragliare. Passa un camion con un telone che raffigura una campagna e l’animale improvvisamente inizia a corrergli appresso.

 

Capisco che il richiamo della natura debba averlo risvegliato per cui gli corro dietro, temo possa venire investito, ma correndo inciampo in alcuni sacchetti della spazzatura. Penso di aver battuto la testa e perso conoscenza perché mi risveglio in una discarica a cielo aperto. Il netturbino deve aver raccolto anche me. Emergo a fatica da questo ammasso di immondizia varia, cose buttate ma ancora utilizzabili, topi che ogni tanto sbucano, uccelli in cerca di cibo. Wow, che bella vista da questa montagna dei nostri scarti: una città luccicante dai mille colori al di là del fiume.

 

Avverto un senso di ipocrisia in questa immagine e si fa forte in me la necessità di vivere secondo i ritmi e i frutti della natura dove tutto ha senso, ciclo e riciclo naturale. Quello che la terra crea, lo accoglie per trasformarlo, ma quello che l’uomo sinteticamente produce la natura vomita. In questa bolla di consapevolezza singhiozzo per l’emozione, sento qualcosa in gola che sta per soffocarmi, tossisco e mi ritrovo in mano il dente gigante. Il messaggio è arrivato a destinazione, i miei occhi sono aperti e mi sento più vicina che mai al mondo attorno a me. Ѐ ora di cambiare vita e aiutare più persone possibili a vedere con il mio sguardo perché una nuova era è possibile.

 

un racconto di Maria Teresa Cariolato per Wanted Stories [marzo 2023] sulla base del tema:
Un viaggio dalla periferia al centro – Il percorso da un punto all’altro di una città può essere un quotidiano tragitto a ostacoli, da affrontare con coraggio e determinazione. Cosa sarà d’aiuto? Cosa si frapporrà tra chi viaggia e la destinazione?

Le it be

Ore  5.00
Un colpo assonnato per spegnerla e subito dopo una carezza a quella paffuta sveglia gialla, regalo della mia gemella.

Ore 7.00 
«Treno in arrivo, allontanarsi dalla linea gialla». Abitare in periferia e lavorare in centro è un viaggio, una gita fuori porta. Esco con il sole ancora sotto le coperte  e rientro con la luna che gli fa l’occhiolino. Le scale mobili della stazione sono una tappa avventurosa del viaggio. Ci sono i viaggiatori da trincea, in fila indiana, fermi uno dietro l’altro a destra e i viaggiatori d’assalto a sinistra che salgono o scendono le scale: anche uno scalino può fare la differenza, per prendere il treno al volo o per uscire il prima possibile. 

 

Partendo dalle zone periferiche della città si trova posto a sedere e non c’è ancora quell’aria che è un misto tra alcool e saponi mai usati, ma dura poco. Andando avanti nel percorso, i vagoni diventano piccole città multietniche di diverse facce, corpi e sguardi. In treno, tuttavia, mi sento al sicuro. Parcheggio nella parte più isolata del cervello ansie e preoccupazioni e leggo nei volti dei viaggiatori un’emorragia di sensazioni. Sembra che ognuno di loro abbia un problema, ma forse sono i miei occhi a non vedere altro.

 

Viaggiano con me Stephen King, Calvino, Virginia Woolf o Jane Austen. Dipende se voglio essere salvata, se voglio ridere, piangere o attraversare sentieri inesplorati. Prendo i mezzi pubblici dal 12 dicembre di tre anni fa. Quel giorno io e mia sorella andiamo al lavoro in macchina. Tocca a me guidare, ci alterniamo un giorno io, un giorno lei, e cantiamo per non dire le parolacce a chi attraversa le strisce pedonali stile Beatles e ai centauri che sfidano le traiettorie balistiche tra un veicolo e l’altro. Per fortuna ci sono i semafori che mantengono l’ordine nella grande babele di gente e veicoli. Finché non decidono di spegnersi, lampeggiare o bloccarsi sui colori. E un giorno, di rosso, a quell’incrocio maledetto non c’è solo il semaforo. Caos sulla strada, nella mia vita, mentre la radio suona  “Let it be”. Da quel giorno il ritornello è nella mia mente come una stazione radio fissa sempre sulla stessa frequenza. 

 

Oggi,  il treno sembra un alveare e leggere risulta difficile. Chiudo il libro. 
«Il finale la sorprenderà».
«L’ho già letto, e ammesso che lo abbia letto anche lei, non ho bisogno di romantici pseudo-letterati che vogliono attaccare bottone. Per niente originale».
«Il suo nome è Sibilla? Il mio è Edward Rochester».
«Pure spiritoso. Ok, ha letto il libro, ma pure se mi chiamassi Jane non parlo con gli sconosciuti».
«Scendiamo a due diverse fermate, Sibilla».
«E che ne sa lei? Il suo vero nome è Merlino?».

 

I miei occhi tradiscono il tentativo di camuffare un sorriso. Lo sconosciuto invece sorride, a viso aperto. Ci incontriamo tutti i giorni in treno e per dieci minuti parliamo, senza sapere i nostri veri nomi. Il giovedì che lui non c’è sono dispiaciuta e anche se siamo solo conoscenti, mi manca. Da quando lo conosco, il viaggio in treno è un battito d’ali, breve come mai lo ricordo e piacevole di una sensazione che mi riscalda il cuore. La gente all’improvviso mi appare sorridente e l’aria più respirabile. Ho il ricordo improvviso di me e mia sorella in macchina, due felici e matte Thelma e Louise alla conquista del mondo. 

 

«Venerdì,  c’è lo sciopero dei mezzi». A quella notizia mi si raggela il sangue, nessuno può darmi un passaggio e non posso chiedere un giorno di ferie: devo prendere la macchina.
«Ehi Sibilla tutto bene? Sei sbiancata all’improvviso».
«No maledizione, no e ancora no!». Gli rovescio addosso il mio dramma e i suoi occhi non tradiscono il tentativo di camuffare le lacrime. Inizia a balbettare ma le parole, in una sfilata di dolore, vengono poi fuori una dietro l’altra. «Vado a degli incontri, c’è chi ha perso il figlio in un incidente stradale, chi un fratello per una malattia. C’è un lutto che ancora oggi attraversa la mia vita. La perdita di una persona cara, come tu sai, è un dolore che lacera senza interruzioni. Vuoi venire con me?».
«Sì». 
«Passo a prenderti giovedì, se mi dici dove abiti. Come se fossimo in treno, solo un po’ più lento, avremo tempo per parlare anche di noi». E mentre nella mia mente vagano le note di  “Let it be” mi sussurra all’orecchio: «Il mio nome è Alberto, il tuo?».

 

un racconto di Michelina Montalto per Wanted Stories [marzo 2023] sulla base del tema:
Un viaggio dalla periferia al centro – Il percorso da un punto all’altro di una città può essere un quotidiano tragitto a ostacoli, da affrontare con coraggio e determinazione. Cosa sarà d’aiuto? Cosa si frapporrà tra chi viaggia e la destinazione?

One Day

Un litigio. Proprio in mezzo alla strada. Giulia e Leonardo non trovano un punto d’incontro. Lei è irremovibile. Lui ancora di più. Parole che feriscono. Uno schiaffo. E poi quello che sembra un addio. Riusciranno a ritrovarsi?

Wanted Stories 2.0 ha richiesto al pubblico di scegliere un film d’amore tra quelli proposti.

A quel punto abbiamo selezionato una frase del film vincente e richiesto di svilupparla per avere una “base” iniziale da cui partire per scrivere. L’incipit seguente è preso dal film One Day del 2011 diretto da Lone Scherfig e interpretato da Anne Hathaway e Jim Sturgess, tratto dal romanzo Un giorno di David Nicholls.

“Casa mia non è lontana, andiamo? Quanto pensi di fermarti?”

Gli incipit scritti sono stati diversi e quello che più ci ha colpito è stato quello di Anna Rossetto (@vegetal_books) – “Fermarmi? Sto pensando a tutto fuorché a fermarmi. Fuggire, andare avanti, tornare indietro, spostarmi di lato, nascondermi. Tutto ciò che è vita, movimento, azione, emozione. Fermarmi. No. Non più. A meno che non trovi qualcosa che vada oltre: oltre le solite cose, oltre le convenzioni e le convinzioni, oltre il conformismo e il già visto. Pensi di essere tu, ciò che va oltre? Dimostramelo.”

Turno 1 – Alberto
Giulia si tolse i guanti e li lasciò cadere a terra. Si guardò il palmo di una mano, poi l’altro. Alzò lo sguardo e sorrise, quel sorriso che ricorda una stella cadente ad agosto, cerchi di catturarla con gli occhi, fare uno screenshot al firmamento, dimenticandoti di esprimere un desiderio e rischiando di perdere quell’occasione, quell’ennesima occasione che se ne sta andando, lasciandoti solo, ancora. Appoggiò una mano sul cuore di Leonardo, si avvicinò e gli sussurrò all’orecchio: «Vattene».

Turno 1 – Linda
«Ecco la dimostrazione di cui avevo bisogno!». Leonardo si scostò da Giulia e la fissò con aria compiaciuta e allo stesso tempo delusa, come se avesse saputo la sua risposta ancora prima che lei la pronunciasse; in cuor suo ne soffriva, aveva tanto sperato in un’altra reazione. Finalmente l’aveva messa con le spalle al muro come mai prima era riuscito a fare. Lei lo fissava come si fissa un’insegnante noioso durante l’ultima ora di lezione, con il suo sguardo dolce e ambiguo, come fosse incapace di commettere errore; una bambina che ottiene quello che vuole perché sa di poterlo avere, che gioca con i sentimenti altrui come fossero dei pezzi di lego da assemblare a proprio piacimento, a seconda dell’umore. Leonardo avrebbe voluto davvero andarsene, ma se lo avesse fatto, lei avrebbe vinto. Un’altra volta.

Turno 2 – Alberto
Rimase in silenzio, gli occhi che cercavano di aprire una breccia in quelli di Giulia, avrebbe voluto vedere i suoi pensieri, le immagini nella sua mente, i sussurri tra cuore e anima. La sua sicurezza fece nuovamente spazio a una totale insicurezza, quel tratto caratteriale che lo aveva sempre contraddistinto nel loro rapporto. E poi la domanda esagerata gli martellava ancora in testa “Pensi di essere tu, ciò che va oltre?” non se la perdonava. Come se Giulia dovesse diventare una nuova persona per stare con lui; da carnefice a preda senza passare dal via. Non era mai stato così deciso in passato, non l’aveva mai affrontata. Nemmeno quando lei se n’era andata di casa il mese prima, per vivere in un’altra città. Nella mente i brandelli di quella serata. 

Non riusciva nemmeno a riviverla pienamente, solo scene annebbiate, parole sfumate. Lui che misurava sempre le parole, non capiva perché quella sera Giulia si fosse incazzata così tanto, continuava a ripetersi che non era stata colpa sua, se lo ripeteva più volte al giorno e poi cosa c’era di male nel parlare di avere un figlio? Leonardo per un attimo socchiuse le palpebre, gli occhi spenti. Senza più esitare, la prese per un polso e la tirò a sé con forza. La strinse in vita e la baciò con una passione tale che il lampione sopra di loro si spense. Forse fu soltanto una coincidenza, o forse no. Lei non resistette a quel suo bacio fruttato. 

Leonardo riaccese lo sguardo e tornò al presente, analizzando questa sua fantasia di baciarla. Era soltanto una possibile azione da compiere. Risultato: avrebbe vinto lei. E allora qual era la mossa giusta da fare? Andarsene? Fare finta di nulla? Dirle quanto era innamorato e che non gli importava che lei fosse andata via? Avrebbe sempre vinto lei. Più che due amanti sembravano due alfieri di una scacchiera senza re e senza regina. Si muovevano in diagonale e scappavano l’uno dall’altro, rincorrendosi, aspettando quello scacco matto che non sarebbe mai arrivato se avessero continuato a giocare una partita d’amore. 

L’amore non è un gioco da tavolo, è aria calda che si scontra con aria fredda dando vita a un temporale di emozioni. È fiamma e ossigeno che si alimentano e che si infuocano. È tempo da dedicare l’uno all’altra. L’amore è vita senza compromessi, è abbracciarsi sotto la pioggia sentendo soltanto i respiri che si fondono. Una lacrima scese sul suo viso mentre ancora la guardava, nel petto una nuvola di dolore. «Me ne andrò da te e da tutto quello che ti circonda. Giulia, io non posso continuare a inseguirti, rimarrò da solo, un’altra volta, ma forse tu non sei qui per meritarmi». 

Proferì quelle parole singhiozzando, vere come il catrame appena steso sulla strada. Si girò e si incamminò verso le scale della metropolitana. Passarono diversi secondi, il tempo si era dilatato, poi in lontananza sentì la sua voce: «Leonardo, aspetta!», la scala mobile lo stava già inghiottendo e si sentiva nell’aria l’odore pungente dei sotterranei. 

 

Turno 2 – Linda
Giulia lo raggiunse e lo prese per un braccio. Leonardo si voltò e un dolore improvviso emerse sulla sua guancia sinistra. Lo schiaffo era stato forte, quanto inaspettato. Fissò Giulia interdetto, come se si trovasse di fronte a uno sconosciuto che lo aveva aggredito senza alcun motivo.

«Credi di essere superiore a me? Davvero pensi di avere ragione e potermi trattare come non valessi nulla?». I suoi occhi lo penetravano mentre parlava, come se le parole dovessero aggrapparsi alla pelle, ai muscoli, alle ossa, per essere comprese. Leonardo schiuse le labbra, ma lei lo anticipò. «Non me ne frega se siamo pronti ad avere un figlio o meno, non ha importanza se non c’è un legame serio tra noi. La cosa a cui tengo è che tu voglia stare con me. Sei stanco di inseguirmi? E allora perché non mi hai fermato quando me ne sono andata? Non voglio più dovermi impegnare in una relazione per tutti e due. Sarò dura e pretenziosa, ma sono presente, io so cosa voglio. E tu? Tu lo sai che cosa vuoi da noi due?».

Rimise i guanti che aveva recuperato poco prima da terra e quel gesto sollevò Leonardo, il quale intuì che non sarebbe stato preso a schiaffi di nuovo. L’aria fredda non aveva alcun effetto su di loro, era come fossero avvolti in una bolla; nemmeno i passanti sembravano interessati alla loro discussione. Era davvero così poco importante?
«Tu mi hai detto di andarmene e…».
«Facile dare la colpa a me. Leonardo, siamo in due in una relazione ed entrambi abbiamo colpe. Come fai a non capirlo? Comunque stiamo solo perdendo tempo, il motivo per cui ho deciso di vederti questa sera è per dirti che…». 

Il suono di una melodia a pianoforte li interruppe. Giulia serrò le labbra, come se sapesse chi la stava chiamando, poi prese il cellulare e rispose, gli occhi fissi su Leonardo che pendeva letteralmente dalle sue labbra, cercando di non darlo a vedere. «Ciao amore, sì è tutto a posto. Tra poco sarò a casa». Lui mise le mani sui fianchi e la fissò incredulo, ma una sicurezza mai conosciuta prima lo travolse e gli fece scappare una risata di compiacimento. «Dovevo aspettarmelo da te, parli di relazione e tieni il culo su due sedie, invece!».


«È vero, ti ho chiesto di venire a casa mia, ma ti stavo solo mettendo alla prova, Leonardo. Tra i due, quella delusa sono io», e senza aggiungere altro, gli diede le spalle e attraversò la strada. Cosa stava facendo? Cosa stava pensando? L’avrebbe inseguita oppure sarebbe sparito oltre la scalinata per salire nella metro senza più voltarsi? Il cuore di Giulia batteva forte, gli occhi sembravano due linee scure che si sforzavano di trattenere le lacrime. Non c’era nessun nuovo amore che l’aspettava a casa, solo il gioco di un’amica complice. Solo per mettere alla prova il loro amore.

Turno 3 – Alberto
Leonardo rimase immobile, le persone passavano vicino a lui immerse in quel moto perpetuo tipico dell’orario post-lavoro, qualcuno a testa bassa per rincasare in fretta, altri camminavano con il naso in su per ammirare le nuove luminarie di Natale che si erano accese nei corridoi della metro. Non sentiva il rumore dei treni sulle rotaie, non vedeva oltre le sue pupille. Guardava dentro sé stesso per cercare di non implodere, rifletteva per decidere cosa fare, i muscoli delle gambe gelati, ma non dal freddo. Aveva bisogno di un secondo di infinità, doveva decidere in fretta ma pensare lentamente. Si rivide a tavola con Giulia, cercò di vedere la scena da fuori, osservarsi, pensare a quello che aveva provato lei nel sentire le sue parole. 

«Mamma mia Giulia, che giornata, non ne posso più di questo lavoro!».
«Puoi sempre cambiare, rimetterti in gioco, non ti sei mica sposato il titolare», disse lei con quel suo sorriso luminoso. «Sì, vabbè, la fai facile tu che provieni da una famiglia ricca». Giulia era rimasta in silenzio. Era evidente che avesse accusato il colpo ma decise di cambiare argomento. Era una donna molto forte e decisa, lo era sempre stata.
«Leo, ti ricordi di quel viaggio che volevamo fare alle Filippine? Che ne dici se lo prenotiamo per l’estate prossima?».
«Ok, possiamo pensarci, dipende da come andrà il mio inverno. Lo sai che le mie parcelle sono in netto calo e poi sarebbe anche ora di avere un figlio». 

Ritornò al presente: che risposte le aveva dato? Non dimostravano per nulla il suo amore per lei, era stato irritante. Diventò consapevole di come si era comportato. Credeva di essere quello dolce e premuroso, l’amante perfetto. Siamo spesso convinti di essere dalla parte della ragione, finché non ci mettiamo nei panni di chi ci sta vicino. Ed era proprio quello che aveva appena provato. Non aveva chiesto a Giulia di avere un bambino, le aveva servito quella frase oscena su un piatto pieno di superficialità. Mosse un passo titubante verso il convoglio che stava per partire, ma cambiò subito direzione e iniziò a correre. La velocità delle scale mobili non era sufficiente, continuò a correre e riemerse sulla strada. 

Si guardò attorno ma non c’era traccia di Giulia. Nel suo sterno lame affilate ballavano e si contorcevano, danzando attorno a quell’ennesima occasione sprecata. Decise di prendere una boccata d’aria e si incamminò verso una via laterale, seguendo le luci dei lampioni e un profumo di Winter Jack Daniels. La strada brulicava di persone e tutto si fondeva in un vociare sommesso, non si distinguevano le risate degli adulti, né le urla giocose dei bambini, sembrava tutto ovattato. Attraversò un ponticello, dall’altra parte della strada le vetrine illuminavano a giorno il volto dei passanti. Proseguì verso un grazioso mercatino, la piazza era circondata da abeti rossi adornati da giganti omini di marzapane e si fermò davanti a una casetta di legno, era da lì che proveniva quel buonissimo profumo di whiskey bollente. Sulla lavagna, un messaggio scritto con un gessetto bianco recitava “Giorno dell’amore: se rinunci non ci credi, se scappi non lo vivi, se resti è un percorso che vale la pena di essere vissuto”.


«Desidera qualcosa?». L’uomo barbuto oltre il piccolo bancone interruppe le riflessioni di Leonardo.
«Sì, un Winter Jack, doppio, per favore».
«Certo, subito», rispose il signore, mentre stava già riempiendo la tazza. Leonardo la scolò senza tanti complimenti. «Un altro, triplo, grazie», e anche questo andò giù in un secondo. Rimase seduto sullo sgabello di legno, fissava la tazza vuota senza sbattere le palpebre.
«Brutta giornata, eh?».
«Pessima direi…», tagliò corto Leonardo e ordinò un altro whiskey. «Ma non è l’unico, stia tranquillo. Chi per un motivo e chi per un altro, sono in molti che si fermano qui. Ne ho viste oggi di persone con il suo sguardo, mi piace osservare».
«Beato lei», esclamò Leonardo solo per interrompere la conversazione, ma l’altro riattaccò subito. «Si guardi intorno. Vede quel signore? Dev’essere un avvocato, è appena stato qui e ha comprato una bottiglia. Il caso ha voluto che si sedesse proprio accanto a quella ragazza, anche lei passata per bere un paio di bicchierini e diceva di essere astemia», concluse scoppiando in una gran risata.
«Sì, sì, va bene, grazie, interessante, tenga il resto», e si alzò dallo sgabello lasciando cinquanta euro. Senza rendersene conto, passò di fianco alle due persone di cui gli aveva parlato il barista, ma non li guardò nemmeno, finché non sentì la voce di Giulia che lo fece girare di scatto. 

 

Turno 3 – Linda
Lei gli dava le spalle, seduta a un tavolino poco distante dal bancone con una tazza di whiskey fumante stretta in una mano. Era al telefono, ma Leonardo non riusciva a sentire la conversazione. Chiunque ci fosse stato dall’altra parte, però, non aveva importanza: in un attimo gli fu chiaro cosa dovesse fare, o meglio, dire. Lentamente, come se il pavimento fosse fatto di un sottile strato di ghiaccio già crepato, una perfetta analogia del loro rapporto, si avvicinò e si sporse il giusto perché lei alzasse lo sguardo. 

Nei suoi occhi non vedeva più le piccole sfumature verdi che tanto amava di lei, ma anzi, ora intravedeva una luce diversa, come se un manto scuro li avesse completamente avvolti. Non capiva cosa gli stessero dicendo, ma una cosa era certa: non lo stava respingendo. Si sedette davanti a lei, senza dire nulla. La guardava come si guarda la neve cadere dolcemente a terra in un giorno che non ti aspetti o come quando si scarta un regalo che ti riporta a un ricordo del passato, nascosto in un angolo della mente e che riscalda il cuore tutto a un tratto. 

Si scostò dallo schienale pronto a parlare, le parole stampate chiaramente nella sua testa, non poteva concedersi errori, ma poi quel gesto rovinò la fantasia che aveva elaborato: si era immaginato mentre diceva ciò che Giulia avrebbe voluto sentirsi dire, ma lei lo aveva anticipato e con la mano lo intimava a restare in silenzio. Si era poi alzata e muovendo appena la testa a destra e a sinistra, in segno di disapprovazione, era indietreggiata di qualche passo e in pochi istanti era sparita oltre la casetta di legno sotto lo sguardo confuso di Leonardo che si accorse solo in quel momento della neve che aveva iniziato a cadere a terra. In un momento davvero inaspettato.

Finale LINDA MOON

«Giulia!». Leonardo chiamava il suo nome tra la folla. «Giulia!». La intravedeva camminare senza accennare a fermarsi, se non solo per evitare di scontrarsi con qualcuno, e mentre fissava un cappotto blu immerso tra tanti altri dai colori banali, immaginava il suo viso costretto in una smorfia per trattenere le lacrime; lo faceva sempre, detestava piangere. Chiamò il suo nome altre tre o quattro volte, ma era come se nel farlo perdesse terreno, così a quel punto si fermò, indeciso su quale fosse la giusta mossa. 

I secondi scivolavano come fossero acqua che non si riesce a trattenere per quanto strette si tengano le mani, il petto sembrava troppo piccolo per contenere un cuore che pareva gonfiarsi sempre di più e il fiato stava lentamente venendo a meno. Per un istante sorrise e alzò il viso al cielo, lasciandosi accarezzare dai piccoli fiocchi di neve che cadevano con fare delicato sul suo viso. Era follemente innamorato di Giulia. Come aveva fatto a non capirlo prima? Forse i tanti pensieri lo avevano allontanato da quello più importante o forse non erano solo preziosi secondi a scivolare via, ma anche l’insicurezza che lo aveva sempre accompagnato in ogni sua azione. E in quel momento gli fu chiaro cosa dovesse fare. Si guardò attorno come se si trovasse per la prima volta in quella piazza, poi corse verso degli enormi addobbi natalizi a forma di pacco regalo, oltre gli abeti rossi, e una volta in piedi su di essi, gridò con tutta la voce che aveva.


«Fermate la donna con il cappotto blu. Mi ha rubato il portafoglio!». Con una mano indicava un punto preciso e continuò a ripetere la frase fino a quando qualcuno non gli diede retta e reagì. Non era in grado di sentire cosa Giulia stesse dicendo a un paio di persone che l’avevano fermata, indispettite, ma poi la situazione gli sfuggì di mano quando un uomo richiamò l’attenzione di due agenti di polizia. Leonardo fissava la scena stupito e sconvolto allo stesso tempo, non sapendo cosa fare: era troppo distante per far sentire la sua voce e spiegare il malinteso, la piazza ora brulicava di gente e come se non bastasse, un coro natalizio aveva intonato una canzone di natale proprio in quel momento. Non ne aveva la certezza, ma gli pareva di aver visto lo sguardo di Giulia inferocito che lo puntava da lontano.


«Hei, amico, penso ti serva questo». L’uomo barbuto del bar gli passò un megafono e gli diede una pacca sulla spalla. Leonardo gli sorrise e senza perdere un secondo in più, iniziò a parlare.
«Aspettate! Quella donna non mi ha rubato il portafoglio. L’ho detto solo perché qualcuno la fermasse. Chiedo scusa a tutti e Giulia…». S’interruppe per mandare giù un nodo alla gola che gli si era formato nel frattempo. Chiunque poteva sentire cosa stava dicendo, ma soprattutto erano in molti a fissarlo curiosi.
«Vedi, io…». Le parole impresse nella mente fino a poco prima parevano essere svanite come i fiocchi di neve si perdono in un unico manto bianco quando toccano terra.
«Non avrei dovuto dirti le cose che ho detto. Non avrei dovuto dirti che dobbiamo avere un figlio solo perché è ora di farlo. Non avrei dovuto sbatterti la mia superficialità in faccia. Ho accumulato così tanti non avrei dovuto che forse non merito nemmeno questa occasione per parlarti. Ho fatto un casino, lo ammetto. Ma Giulia, non andare via, non lasciamoci così. Io non posso cambiare all’improvviso, anzi, credo proprio che non cambierò mai, ma posso diventare migliore accanto a te, se ti permetto di farlo ed è ciò che voglio». 

Raggiunse il terreno per avviarsi verso di lei.
«Non voglio che ti illudi, avremo momenti in cui discuteremo, forse mi farai dormire sul divano perché lo sappiamo entrambi che toccherà a me farlo, ma ti posso promettere che mi sforzerò di ascoltare il tuo punto di vista e farò del mio meglio per non sparare cazzate. Non scuocerò più la pasta, smetterò di bere dal cartone del succo e tirerò sempre giù la tavoletta del water». Alcune persone si lasciarono scappare una piccola risata a quelle parole mentre Leonardo era ormai a pochi passi da Giulia, il megafono abbassato.

 
«So che ti sembra troppo bello per essere vero, ma sono pronto a rischiare tutto pur di avere un’altra possibilità con te, anche avere tante testimonianze a provarlo», e alzò le braccia a indicare le svariate persone attorno a loro, poi riprese a parlare, «E so che starai pensando che mi comporto così solo per via dell’atmosfera natalizia o per i tanti whiskey bevuti prima, ma ti giuro che non sono mai stato così convinto delle mie parole come lo sono ora. Certo, ogni tanto mi prenderò la libertà di alzare gli occhi al cielo perché lo sai bene che sei una gran rompipalle quando vuoi, ma sarò con te Giulia, ti amo da impazzire, e se ora vuoi andartene puoi farlo, non ti fermerò, ma sappi che ogni volta che vedrò qualcuno camminarmi accanto con un cappotto blu, quel maledetto cappotto che indossi anche le sere d’estate perché sei tremendamente freddolosa, spererò sempre che sia tu».


Nessuno parlava, la gente era rapita da quel momento, curiosa di sapere come sarebbe finita. E tutto attorno era come se il mondo si fosse arrestato per assistere a quel momento in cui il cuore di Leonardo batteva normalmente dopo un lungo arrancare. Giulia si guardò attorno, spostando lo sguardo altrove, poi lo fissò, e sorrise. «Finalmente! Ci hai messo una vita a capirlo…», e lo abbracciò forte. Un abbraccio che Leonardo ricambiò con profondo affetto, come fosse il primo ricevuto e sapendo che non sarebbe stato l’ultimo.

Finale ALBERTO SARTORI

Erano passati quasi tre anni, Giulia seduta in terrazzo stava fumando l’ultima sigaretta prima di andare a dormire. L’estate era alle porte e un vento tiepido le scompigliava i capelli. Una folata più forte fece volare in aria la cenere e rovesciare il calice di gin tonic sul giornale. Il liquido si allargò velocemente sulla carta umida, lei lo tirò via in fretta ma un lembo dell’ultima pagina rimase appiccicato al tavolino. Fece per rimuoverlo ma si bloccò di colpo, il cuore in gola, le tempie sembravano esplodere, le mani tremavano. In quell’apparentemente insignificante pezzetto di carta era stampato in corsivo: “Leonardo Scali. Amici e parenti si stringono attorno a Dio per salutare la scomparsa del caro Leonardo”.


Fu come un colpo di pistola in bocca, lo stomaco iniziò a contrarsi e Giulia si accasciò a terra, piangendo disperata. Non riusciva a respirare, boccheggiava come un pesce saltato fuori dalla boccia. Com’era possibile? Cos’era successo? Ogni risposta veniva soddisfatta da un’altra domanda e l’elenco era interminabile. Non lo aveva più visto dopo quella sera d’inverno, non lo aveva più sentito. Quell’amore litigioso che li aveva uniti per lungo tempo si era sciolto nelle tazze di whiskey caldo come una zolletta di zucchero. Giulia non era più riuscita a costruirsi una vita di coppia, era tornata a vivere nella stessa città in cui aveva convissuto con lui, aveva cambiato mille lavori, era uscita con qualche ragazzo, ma l’amore vero non aveva più bussato alla sua porta. E su quel terrazzo, riversa a terra per i crampi, stava comprendendo che i suoi insuccessi amorosi avevano una sola ragione: non aveva mai smesso di amare Leonardo. 

I giorni passarono lenti, ognuno percepito come fosse una settimana, finché sul calendario comparve lo stesso numero che era scritto nel trafiletto sul giornale. Giulia bevve la sua terza vodka prima di uscire di casa, erano soltanto le due del pomeriggio. L’abito scuro faceva pendant con l’espressione buia del suo viso. La messa sarebbe iniziata di lì a un’ora. Non aveva trovato il coraggio di chiamare nessuno per le condoglianze, tanto era sconvolta dalla notizia quanto non voleva darlo a vedere. Gli amori non dimenticati fanno uno strano effetto, vibrano a frequenze che non riusciamo mai a comprendere del tutto. Camminava a passo svelto verso la chiesa di San Marco, ripensando al primo appuntamento con Leonardo, in quell’istante gli sembrò di riaverlo al suo fianco e una lacrima solcò il viso scendendo al rallentatore.


Arrivò davanti alla porta principale, fece dei respiri profondi per calmarsi e riuscire a fare quei pochi scalini che la separavano dal portico. Iniziò a cercare con lo sguardo i suoi ex suoceri, i cugini, gli amici di Leonardo, tutte persone che pensava non avrebbe più rivisto. Gli ultimi banchi erano vuoti, proseguì facendosi il segno della croce e una rapida genuflessione, poi si voltò a destra e a sinistra ma non riconobbe nessuno. Avanzò ancora con il cuore in gola, senza più voltarsi, guardando solo il marmo rosso del pavimento e arrivò davanti alla bara posta ai piedi dell’altare. Un giaciglio semplice in legno di faggio, adornato con dei rametti d’ulivo. Si tolse i guanti di seta nera e alzò lo sguardo. All’interno della bara un uomo, sulla settantina, barba bianca, carnagione scura, non aveva nulla a che vedere con il “suo” Leonardo. Sorrise, vergognandosi di farlo nel bel mezzo di un funerale, sorrideva in viso e nel petto. Sgattaiolò fuori dalla chiesa mentre lo stomaco si rilassava e il cuore riprendeva a pulsare regolarmente. Sorrise ancora pensando a quanto fosse stata stupida per non aver fatto nemmeno una telefonata, per aver dato per scontato che al mondo ci fosse soltanto un Leonardo Scali.


Nella passeggiata verso casa continuava a ripensare ai bei momenti passati con lui, a quanto forte l’avesse stretta ogni volta in cui lei ne aveva bisogno e si chiese se fosse troppo tardi per sentirlo dopo tutto quel tempo. I suoi piedi avanzavano uno davanti all’altro senza che la mente desse comandi precisi, le sembrava di vagare casualmente finché non si ritrovò davanti al palazzo dove avevano convissuto. Al terzo piano le luci erano accese nonostante il bel sole proveniente dall’esterno. Era stato proprio quello il loro appartamento. Abbassò lo sguardo. Sul campanello tre nomi scritti in grassetto: Leonardo Scali, Stefania Grilli, Giulia Scali.
«Giulia Scali», sussurrò Giulia, «Ha chiamato sua figlia proprio come me». Allungò una mano per suonare, ma la ritirò subito. C’era già una Giulia nella vita di Leonardo. E forse era davvero arrivato il momento di dimenticarlo per sempre.

Fine

Uno speciale ringraziamento va anche a tutti coloro che hanno partecipato alla nostra iniziativa di scrittura e proposto il loro input: Gianluca Santomaso – Giulio Perozzo – Greta Bergamin – Cecilia Mariani – Filippo Romani – Ilaria Marangoni – Giovanni Lembo – giulilai35 – gali4music – farkikka – Andriko_Hajni – @attimidiprosablog

S come Solitudine

Due racconti: uno racconto surreale e uno bizzarro. Unico punto in comune: un quadro di Edward Hopper.

Gli scrittori hanno sguinzagliato la loro ispirazione e scritto due brevi racconti, ispirati da un quadro molto particolare del “pittore della solitudine”.

STORIA INTERATTIVA
Mi è stato proposto da Alberto Sartori di elaborare un racconto ispirato al pittore americano Edward Hopper. Esponente del realismo, è famoso in particolare per i ritratti della solitudine, cosa molto affine a questo periodo di “arresti domiciliari”. E come faccio sempre, ho chiesto al pubblico due input, ovvero: qual è il vostro pensiero ricorrente? Qual è la cosa più strana in cui vi siete cimentati?
Ecco i nostri racconti singoli e gli input che ci hanno ispirato! Buona lettura!

Racconto di Linda Moon

(Input di Ugo Domeniconi) – Il mio pensiero ricorrente è “Stavo facendo veramente la vita che avrei voluto fare o con gli anni mi sono adattato agli eventi?”. In altre parole “Che vita vorrei che mi aspettasse fuori?”. La cosa più strana in cui mi sono cimentato? Ho simulato di avere ospiti a cena apparecchiando la tavola per loro senza che ci fossero veramente! E abbiamo anche chiacchierato un po’, ma non lo dire a nessuno! 
Leggi il racconto di Linda Moon a questo link: Pilar e i 12 ospiti improbabili

Racconto di Alberto Sartori

(Input di Ugo Domeniconi) – Il mio pensiero ricorrente è: “Stavo facendo veramente la vita che avrei voluto fare o con gli anni mi sono adattato agli eventi?”. In altre parole: “Che vita vorrei che mi aspettasse fuori?”.
(Input di Cecilia Mariani) – La cosa più strana in cui mi sono cimentata? In questa quarantena ho… letto ad alta voce!

Seduto sopra a questo letto di nuvole e cotone, la finestra sembra rimpicciolirsi sempre di più. Ricordo ancora la prima volta in cui vidi questo appartamento, entrai in camera e… meraviglia! La vetrata che si parava di fronte a me era grande come tutta la parete. Ed i pensieri volarono al di là di quello schermo trasparente, alle miriadi di balconi che avrei potuto osservare, ai passanti che piccoli come formiche potevo veder operare ogni giorno, perfino immaginando i loro dialoghi. Ed invece qui, ora, stringendo le ginocchia al petto, quella finestra non mi sembra molto più grande del mirino di una fotocamera.

E di nuovo mi perdo a riflettere sul mutare della percezione delle cose.
E di nuovo mi perdo a meditare sul cambiamento della percezione della vita.
E le domande si adagiano dentro la mia testa come grossi fiocchi di neve cullati dal vento, si depositano colmando ed opprimendo la mia lucidità.
Sto davvero facendo la vita che avrei voluto fare? O con il passare degli anni mi sono adattato agli eventi? Che vita vorrei che mi aspettasse fuori? Le risposte non tardarono ad arrivare, come lame poco taglienti che premono sul costato facendomi mancare l’aria. Tento di alzare le mani ed allungare le ginocchia ma è come se fossi incollato a me stesso. Ed i polmoni sono ormai saturi di anidride carbonica che brama di liberarsi ed uscire dall’interno della mia prigionia.
Sono in apnea.

“Rispondi alle domande, Sergio. Muoviti!” è la mia mente che impartisce gli ordini a me stesso. Lei sa che l’ossigeno inizia a scarseggiare nelle mie arterie.
“No! Non sto facendo la vita che avrei voluto fare!” inizio ad urlare e qualche schizzo di saliva mi esce dalla bocca, prima di riprendere: “Perché me lo chiedi? Ma che cazzo vuoi? Lo sai il perché. Vuoi sentirtelo dire di nuovo? Va bene! Perché mi sono adattato a quello che le persone hanno voluto che io fossi. Perché per avere l’approvazione di chi mi stava attorno sono sempre stato gentile, rispettoso, amorevole ed invece… invece… avrei voluto prendere la macchina e sparire nel nulla.

Andare a sopravvivere, che ne so, in Provenza a raccogliere la lavanda ed a mantenermi con lavori saltuari. Avrei voluto tornare ad amare invece di chiudermi dentro ad un bozzolo di seta senza mai rinascere farfalla. Ed invece piedi sempre bene a terra, lavorare per uno stipendio fisso dimenticando cosa siano davvero le passioni, le emozioni, tentando di far tacere ogni giorno quell’anima creativa che mi esplodeva dentro.”
Sono ancora in apnea.
Sono passati 45 secondi.
“Che vita vorrei che mi aspettasse fuori? Ma te l’ho appena detto! Casomai potrei dirti che vitavorrei che mi aspettasse qui dentro. E sai qual è la risposta? Nessuna! Rinchiuso in questa gabbia che mi sono creato da solo, ferito da una tagliola per orsi mentre io sono soltanto un coniglio, ammaestrato da questa infedele e rabbiosa società.”
Non sono più in apnea.
Sto di nuovo respirando.
L’agitazione contrae spasmodicamente i miei muscoli.
Guardo a destra.
Guardo a sinistra.
Muovo la testa a scatti, come frame di un vecchio cartone animato. Guardo il soffitto, poi il comodino, la scrivania. Fermo lo sguardo. Un solo libro sulla mia scrivania. “Suicidio, istruzioni per l’uso”. Riesco a scollarmi da me stesso e corro a prenderlo, apro una pagina casualmente, mettendomi a leggere a voce alta. Sono davvero impazzito. Quando mai io, Sergio, con questa voce di merda, ho letto a voce alta? Nemmeno a scuola, nemmeno in chiesa, nemmeno al funerale di mia sorella. Ed invece stavolta inizio a leggere ad alta voce. 
“Pagina 258. Materiale necessario: sacchetto di plastica almeno cinque volte le dimensioni del cranio. Elastico.
Istruzioni: mettere la testa all’interno del sacchetto di plastica, sigillare con l’elastico all’altezza del collo. Attendere. Respirare con calma.”
Vado in cucina, apro il secondo cassetto e prendo quel maledetto sacchetto di plastica che avevo preparato proprio per questa occasione. All’interno c’è già un elastico color verde acceso.
Torno in camera e prendo la lettera d’addio che ho scritto qualche mese fa, non ricordo nemmeno il giorno preciso, fatico perfino a ricordarne il contenuto. 
Chiudo gli occhi e faccio dei bei respiri profondi.
I secondi non scorrono.
Le mani tremano.
Le pareti si allargano alle mie espirazioni e si stringono con le mie inspirazioni.
Chiudo gli occhi.
Bestemmio.
Riapro gli occhi.
Bestemmio.
Delle ganasce immaginarie stringono forte i miei bronchi.
Un ultimo respiro e…
…mi decido ad agire.
Prendo la lettera e la infilo dentro al sacchetto di plastica, sigillo con l’elastico, apro la finestra e

lancio tutto verso la strada sottostante. Da quassù osservo quella donna che vede cadere ad un metro da lei quel pacchetto schifoso. Lo scarta. E’ evidentemente attratta dalla lettera su cui ho impresso: “Con amore. Sergio”. E dopo qualche secondo la sta già leggendo.
“Non basterà il tuo sguardo a togliermi quella malinconia che mi brucia dentro. Non basteranno nemmeno le tue mani mentre accarezzeranno il mio viso, le mie braccia. Non basteranno le parole lontane, sussurrate a malapena da corde vocali impaurite, incapaci di sopravvivere all’amore. Non basteranno i sussurri, le vecchie ragioni, le nuove opinioni, i tuoi sorrisi riflessi nella mia anima. Non basterà il tempo, avvizzito da troppe stagioni, eroso dal passaggio di troppi serpenti sempre sullo stesso cammino. Non basterà la morte a farmi temere un’emozione, assopita, affranta, lacrimata sulle gote. Niente basterà a togliermi da questa tormenta, a far calare il vento che spinge  via la mia nave da cuori troppo ammaestrati per esser conquistati. Niente basterà per cullare le mie ore notturne. Niente basterà. Sergio”.
La donna rimane immobile con quel pezzo di carta tra le mani. Sono qui da ben sette eterni minuti, ho contato i secondi uno ad uno. La mia mente è diventata un singhiozzante orologio che dilata le ore a piacimento. La vedo ripiegare con cura la mia lettera e metterla in tasca. Senza togliere lo sguardo frugo, allungandomi, all’interno del cassetto della scrivania e tiro fuori il vecchio binocolo di mio padre. Devo vedere la scena in ogni dettaglio, non so cosa mi stia spingendo a farlo. Lascio che il mio sguardo passi attraverso le lenti di ingrandimento. Ha gli occhi chiusi.

Dal taschino dei jeans esce un pacchetto di Marlboro. I capelli sono raccolti in una lunga e bionda treccia che termina con un spruzzata di colore rosa. Le sue mani sono aperte ai lati del corpo senza appoggiarsi sui fianchi. La vedo riaprire gli occhi e con una lentezza infinita alzare lo sguardo e poi la testa. Sembra stia cercando qualcosa. Continua a guardare in tutte le direzioni possibili e poi si ferma all’improvviso. I suoi occhi penetrano dentro ai miei, mi accecano, le mie iridi iniziano a bruciare, la mia mente va in completo blackout.

Non so come sia possibile.
Non riesco a credere che sia possibile.
Non ho preso pastiglie e non ho inventato nessun nuovo cocktail di psicofarmaci.
Eppure il suo pensiero sta entrando nella mia mente: “Sergio, io ti amo”.
Ed i pensieri iniziano a roteare come in una spirale, il cuore accelera i battiti fino a 180.
Le tempie iniziano a pulsare.
Sorrido e non smetto di guardarla.
Ed in un attimo la vedo scomparire.
Ed in un secondo mi sveglio con quella serenità che avevo ormai perduto da settimane.
La sensazione d’amore pervade tutto il mio corpo.
Mi giro e trovo lei di fianco a me. E’ la donna che nel sogno non avevo riconosciuto.
E’ la donna che non lascerà mai che io cada nell’oblio e nella solitudine.
E’ la donna che non mi farà mai vivere bramando un sacchetto di plastica.
E’ la donna che amo.
E’ la donna che…
…le coperte si sgonfiano e calano lievi sul materasso.
Sul cuscino scompare l’impronta della sua testa.
Il letto è di nuovo vuoto.
Il letto è di nuovo freddo.
Le allucinazioni sulla vita che vorrei lasciano nuovamente spazio a questa mia eterna solitudine.

Fine

Traffic

Rebecca è una giornalista, ma prima di tutto un’idealista. Vuole giustizia, sempre! E quando le capita una buona storia, non si tira indietro. È pronta a tutto. E lo sa bene che ci saranno conseguenze, perché c’è sempre un prezzo da pagare. Solo, a volte, il rischio è fin troppo alto.

STORIA INTERATTIVA

Ho sperimentato un Cadavere Squisito, il racconto scritto a più mani, con una nuova recluta: Aldo Ferrarese. Un ragazzo con una storia di vita molto interessante che si è divertito in questo gioco di scrittura! E come primo debutto assieme, piuttosto soddisfacente ho lanciato come input una breve frase. In seguito, poco prima della stesura del finale, abbiamo chiesto al pubblico come dovesse proseguire la storia e ha vinto l’opzione “Svolta inquietante con omicidio”. E ognuno di noi ha scritto il suo finale!

Buona lettura!

“Ci scusi tanto signorina, c’è stato un errore nel database. Questo successo non è suo, lo deve restituire. Ci scusi sa, a volte capita anche a noi di sbagliare”.

(Input di Linda Moon)

Turno 1 Linda

Rebecca fissava l’ambiente davanti a sè che pareva aver perso ogni colore. Teneva gli occhi incollati sullo schermo del cellulare, incredula di ciò che aveva appena letto. In un lampo sentì una strana sensazione al petto che raggiunse la gola e le fece quasi mancare il respiro. Aveva lentamente smesso di camminare e si era fermata al centro del marciapiede, noncurante delle persone che dovevano deviare il percorso per non urtarla. I suoi occhi erano sgranati e allibiti. Il corpo rigido come un tronco d’albero. Solo i lunghi capelli castano chiaro si muovevano seguendo il leggero vento che aveva da poco spazzato via le nuvole per lasciar spazio ad una bellissima giornata di sole. Ma le condizioni atmosferiche erano l’ultimo dei suoi problemi. Si trovava a pochi passi dalla destinazione che a breve l’avrebbe vista al centro di in un’intervista in diretta nazionale. 

Ce l’aveva fatta! Questo le era stato comunicato tramite email appena una settimana prima quando aveva ricevuto l’esito del concorso letterario cui aveva partecipato inviando il suo romanzo. Ora però asserivano il contrario e anzi, reclamavano indietro quel successo che, a quanto pare, non era meritato.


Turno 1 Aldo

Come cavalli imbizzarriti, pensieri ed emozioni litigavano per ottenere la sua attenzione. «Pazzesco! Mi hanno preso in giro! Era troppo bello per essere vero! E ora vogliono pure distruggere la mia credibilità. Troppo strano che la mia denuncia e le mie indagini  fossero state accolte con tanto interesse. Maledetta critica! Fasulla e legata ad interessi e poteri che non tollerano la verità». Rebecca era furibonda. Se prima volevano premiarla per il suo lavoro, ora di sicuro qualcuno voleva ridicolizzarla in diretta nazionale.

Chiuse gli occhi fino a che una luce bianca e potente fece piazza pulita di ogni pensiero e paura. Ora sapeva cosa doveva fare. Si asciugò le lacrime e percorse velocemente i pochi passi che la dividevano dalla redazione. Varcò la soglia, indossando il sorriso più radioso. Strinse mani, scambiò saluti ed esibì la propria femminilità ed il suo essere donna. Sentiva crescere forza e determinazione dentro di sé e quando, dopo i soliti convenevoli, prese finalmente la parola, esordì decisa. «Signori, vi ringrazio, ma non posso accettare questo premio, e non farò nessuna intervista».

Turno 2 Linda

Lo staff della redazione la guardò allibita. Chiesero subito spiegazioni, ma Rebecca lì interruppe e raggiunse l’uscita più veloce della luce per fuggire a domande che voleva evitare. Non sapeva se aveva fatto la cosa giusta. Sapeva solo di essere incazzata come mai lo era stata in tutta la sua vita ed era decisa a capire come mai la situazione si era capovolta. Aveva scritto un buon libro, ne era certa, ma ora tutto sembrava crollare come un castello di sabbia che si sgretola per il forte vento. Si affrettò a rientrare a casa e, portatile alla mano, iniziò a cercare delle risposte.

Passò in rassegna ogni suo contatto del settore del giornalismo, ma ben presto capí che non avrebbe concluso nulla. Internet o le email scambiate con gli organizzatori del concorso non avrebbero dato le risposte che cercava. Eppure doveva scoprire che cosa fosse successo. Si strinse nelle spalle, mostrando un amaro sorriso all’appartamento che non vedeva l’ombra di straccio e scopa da almeno una settimana, poi l’illuminazione. C’era ancora una persona che non aveva contattato.


Turno 2 Aldo

Si affrettò a cercare il numero di Riccardo, un vecchio contatto dell’editoria, e fissò un appuntamento per il pomeriggio. Si conoscevano poco ma la stima era tanta e reciproca. Riccardo apprezzava gli articoli che lei pubblicava e  il suo cercare sempre la verità, anche quella più scomoda. Rebecca, dal canto suo, lo riteneva una persona unica e speciale. A cinquant’anni suonati, Riccardo aveva scelto di dedicarsi ai più bisognosi e da dieci continuava a farlo senza sosta. Gestiva un giornale intitolato Sulla strada di cui era direttore, redattore e giornalista. Il settimanale veniva distribuito in esclusiva sui marciapiedi dai barboni al costo di un euro che a volte diventava qualcosa di più, a seconda della bontà delle persone. Lo scopo era fare beneficenza, ma ne godevano anche il contenuto che trattava svariati argomenti: attualità, politica, interviste a persone che volevano far sentire la loro voce.

Arrivata in redazione, Riccardo accolse Rebecca in una stanza occupata per la maggior parte da libri e riviste accumulati in ogni angolo e tutto era impregnato di fumo. Riccardo si presentò alla ragazza in jeans e maglione, con i capelli spettinati  di un castano ormai sbiadito. Si sposava in maniera perfetta con il disordine che dominava l’ambiente. Rebecca invece, con il suo elegante tailleur e fresca di acconciatura, appariva fuori luogo ma non esitò a prendere posto sulla traballante sedia di legno. “Ho scritto un libro, Riccardo, un buon libro, che avrebbe dovuto vincere il premio Bancarella. Quando già mi aspettavano i giornalisti per l’intervista, mi è stato comunicato che non avevo vinto. Penso che qualcuno di influente si sia messo in mezzo per ostacolarne la pubblicazione”. Lui stava in piedi davanti a lei, appoggiato alla scrivania, le braccia incrociate. 

«E dimmi, Rebecca, che cosa vuoi da me?». 

«Voglio che stampi il mio libro. Voglio che venga distribuito nelle strade. Non mi interessa il profitto, voglio solo che la gente sappia la verità. E forse questo è l’unico modo». Riccardo la fissò in silenzio. Girò attorno alla scrivania e si accese una sigaretta, poi si sedette. «L’idea mi piace e sai che ti darei il mio appoggio a occhi chiusi ma…» e buttò fuori una grande nuvola di fumo «…che cosa hai scritto di così scandaloso?».

Turno 3 Linda

In meno di cinque minuti Rebecca gli aveva spiegato tutto. Delle sue ricerche. Di ciò che aveva scoperto. Delle denunce e del marciume che girava nelle strade della loro amata città. Nel suo libro metteva in luce la gestione del traffico di esseri umani. Delle povere donne che venivano ingannate, rapite e trasportate da  paesi stranieri come semplice merce di scambio.

«Allora, Riccardo, farai girare questo libro nelle strade?» chiese con voce tremante, come se tutto ad un tratto dubitasse anche di lui. Nell’ufficio l’unico rumore era quello della carta da giornale che veniva mossa a tratti dal vento. Il puzzo di fumo era diventato quasi insopportabile e Rebecca trattenne il respiro, ma non appena vide un sorriso sul volto dell’uomo non ci fece più caso. «Sappi però che corri un grande rischio e che probabilmente ti attaccheranno e non parlo solo a livello professionale…».

Lasciò in sospeso la frase per darle il tempo di realizzare che la sua folle idea avrebbe salvato molte vite, ma compromesso la sua. Rebecca rimaneva ferma immobile, sicura di ciò che voleva fare. «Macchieranno il tuo nome, la tua reputazione e con molta probabilità ti verranno a cercare». A quel punto Riccardo appoggiò i gomiti sulla scrivania, in attesa di una sua risposta. Lei lo fissò con un velo di tristezza ma era chiaro che non fosse per timore di rischiare la vita. Dentro di sé piangeva per le povere vittime che ancora non erano state salvate. «Lascia che mi trovino, non ha alcuna importanza».


Turno 3 Aldo

Rebecca uscì dalla redazione stanca ma contenta per aver trovato in Riccardo l’aiuto di cui aveva un disperato bisogno. Era però consapevole che quell’incontro avrebbe cambiato per sempre la sua vita. Si salutarono amichevolmente sulla soglia mentre fuori si era fatto buio. Nel suo elegante completo, si avviò verso casa e mentre camminava lungo la strada, non potè non notare il degrado del quartiere. Al lato opposto, donne che arrivavano da chissà dove si esibivano con falsa allegria in attesa di clienti. Una macchina si fermò per ripartire poi in velocità dopo aver fatto salire una ragazza, probabilmente minorenne. Un uomo in bicicletta urlò oscenità mentre passava loro davanti.

Poteva vedere i volti di alcune di loro tristi e allo stesso tempo vuoti, quasi fossero prive di un’anima. Gli occhi le si fecero lucidi e una lacrima corse lungo la sua guancia. Non appena vide un taxi lo fermò e mentre saliva non potè fare a meno di immaginarsi dall’altro lato della strada, in quelle condizioni terribili. In quel preciso istante decise che non sarebbe indietreggiata di un passo. Non avrebbe avuto paura, né permesso a nessuno di metterla a tacere.

Finale di Linda Moon

Finale di Aldo Ferrarese

Chiusi in ascensore per 12h

Cosa potrebbe succedere se due persone rimanessero chiuse in ascensore per 12h? Dopo un primo e probabile spavento, potrebbero perdersi in chiacchiere e sperare assieme e di uscirne vivi. Ma se le persone in questione si odiano da morire? Ecco, questa è tutta un’altra storia…

STORIA INTERATTIVA

Il team di Wanted Stories ha chiesto tramite un sondaggio su Facebook un input per iniziare a scrivere una storia sulla base del tema “DUE PERSONE CHE SI ODIANO RIMANGONO CHIUSE IN ASCENSORE PER 12 H”. Ne abbiamo ricevuti diversi e la scelta (non facile) ci ha portato a tenerne addirittura due! 

Dopo aver scritto il primo turno, abbiamo chiesto al pubblico l’andamento della storia proponendo “botte da orbi” VS “emozione galoppante” e abbiamo scoperto che il nostro pubblico è fatto di gran teneroni: l’emozione ha stravinto!

Ecco il racconto che io, Linda Moon, ho sviluppato con Alberto Sartori. Buona lettura!

Era un martedì come tanti in una fredda mattina di Dicembre a New York. Carlo e Serena fino a quel momento erano due perfetti sconosciuti e non sapevano nemmeno che quel giorno i loro destini si sarebbero incrociati in una situazione molto particolare. (input di Ermes Basso)

Serena era emozionata ma allo stesso tempo nervosa per un importante colloquio che aveva presso la Gagosian Gallery in Madison Avenue. Era la sua grande occasione! Aveva appuntamento con l’agenzia delle risorse umane al ventesimo piano di un edificio sito nelle vicinanze della galleria. Doveva compilare alcuni moduli prima del colloquio ufficiale. Raggiunse l’ascensore a passo svelto ma titubante sul suo tacco dodici mentre reggeva un caffè ancora bollente preso al volo da Starbucks. Al decimo piano, però, le porte si aprirono e il ragazzo che le apparve davanti mutò completamente l’espressione sul viso di Serena. (input di Daniela Zanconato)

Turno 1 Alberto

“Buongiorno!” disse Carlo portando indietro i folti capelli biondi. Da parte di Serena nessun cenno di risposta. Sembrava fissare le scarpe del ragazzo firmate Louis Vuitton. Probabilmente non ne aveva mai visto un paio di così costose. Dava l’impressione di trovarsi per la prima volta nell’ascensore di un edificio prestigioso. E come dar torto al suo imbarazzo? Carlo fece leva su tutto il suo carisma e le rivolse di nuovo la parola. 
“Buongiorno, a che piano deve salire?

Turno 1: Linda

Lei non lo degnó d’uno sguardo, ma non voleva risultare sgarbata, non in quel momento almeno. “Vado al ventesimo piano” si limitó a dire e strinse i manici della borsa nella speranza che l’ascensore arrivasse presto a destinazione. Doveva concentrarsi sul colloquio e non farsi distrarre da quel pomposo e ricco ragazzo che detestava. E come non farlo? I giornali lo presentavano come un ragazzo destinato a grandi cose, ma gli scandali erano il suo forte e pareva pure vantarsene. Si sentiva osservata ma continuava ad ignorarlo, fissando i numeri dei piani che man mano si illuminavano. Non vedeva l’ora di uscire da quello spazio angusto nonostante potesse contenere almeno quaranta persone. Non sopportava i tacchi che le stavano provocando le vesciche, inoltre strizzata in quel tailleur sotto al cappotto, si sentiva soffocare e quando il tasto del diciottesimo piano si illuminò, un rumore metallico assordante la fece spaventare e le luci al neon per un attimo si spensero.
“Dio mio, che succede?” chiese a voce alta.

Turno 2: Alberto

“Cosa vuole che sia successo? Si è fermato l’ascensore” rispose Carlo. E quando una sirena iniziò a suonare, Serena urlò terrorizzata. “Aiuto! Qualcuno ci aiuti!”. Ancora al buio, iniziò ad allungare le mani per cercare un appiglio ma le muoveva nel vuoto. Improvvisamente la luce si riaccese e quando si voltò, vide Carlo a petto nudo. Giacca, camicia e cravatta erano a terra. Lei lo guardò basita. Lui era rosso in viso dalla collera. Calò il silenzio totale, nemmeno la sirena suonava più e quando Serena schiuse le labbra per parlare, si rese conto che non reggeva più il caffè bollente tra le mani. I vestiti di Carlo erano macchiati e a terra una chiazza nera si allargava lenta sul pavimento.


Turno 2: Linda

Serena rimase a bocca aperta, anche se uno sguardo compiaciuto apparve sul suo volto per sparire non appena Carlo la fissò. Era parecchio scocciato. “Aspetta, prendo qualche fazzoletto. A proposito, io sono Serena” disse mentre rovistava nella borsa senza smettere di trattenere una risata. “E che cosa me ne faccio? Guarda che hai combinato! Questo completo vale tremila dollari e ora è da buttare. Spero sarai contenta!”. Lui continuava a guardare affranto il suo vestito. “Arrangiati allora!” disse Serena lanciando ai suoi piedi il pacchetto di fazzoletti. Mise il broncio ed incrociò le braccia. In quel momento lo avrebbe preso a schiaffi. “Proviamo ad uscire da qui piuttosto!” e si avvicinò ai pulsanti cercando quello per contattare la sicurezza.

“Le faremo sapere?” disse facendo una smorfia verso Carlo. “Ma che razza di risposta è? Siamo bloccati qui ed è tutto quello che hanno da dire?”. Serena era sempre più nervosa. Si mise in un angolo e sbuffò, mentre lui si lasciò scappare un sorriso. “Ti fa ridere questa situazione?”. Carlo la fissò sicuro di sé, facendosi molto vicino a lei che arrossì imbarazzata. Per un attimo si guardarono senza dire una parola. Serena era paralizzata e pensò che fosse molto inopportuno che ci provasse con lei proprio in quel momento, ma poi Carlo premette il tasto per contattare la sicurezza.

“Pronto, qui la sicurezza”.

“Buongiorno, sono Carlo Riggi, amministratore delegato della HR Executives e sono bloccato nell’ascensore”.

“Sig. Riggi, ci scusiamo per il disagio. Mandiamo subito qualcuno a risolvere il problema”.

“Grazie!” e si mise al lato opposto di Serena, guardandola in silenzio mentre indossava la giacca sopra alla bianca canotta di cotone e piegava la camicia con cura. Aveva l’aria compiaciuta, al contrario di Serena la cui espressione era a dir poco furiosa.

Turno 3: Alberto

Più Carlo la fissava, soddisfatto di averla zittita, più quel viso gli sembrava familiare. Aveva l’aria della brava ragazza. Trucco delicato. Capelli biondi raccolti in una coda. Abbigliamento semplice ma elegante. Non era il genere di ragazza che frequentava, eppure era sicuro di averla già vista da qualche parte. E dopo qualche istante, l’illuminazione. “Oh mio Dio!” si fece sfuggire a voce alta.

“Che cosa c’è?” chiese lei con l’aria di chi si aspetta un’imminente catastrofe.

“Ah, niente. Ho un appuntamento molto importante tra poco e lo salterò di sicuro se non ci tirano fuori da qui” riuscì a dire Carlo in fretta e furia. A stento dovette trattenersi dal nervoso che gli stava suscitando Serena. Quella maledetta!

Adesso ricordava tutto. La voglia dietro al collo era inconfondibile. Ricordò di aver pensato che se ci avesse disegnato due punti e un sorriso stilizzato, sarebbe sembrata un fantasma. Era quella disgraziata che due settimane prima gli aveva rubato il taxi da sotto il naso, facendolo tardare ad una cena con una famosa modella che non solo aveva fatto una scenata epica non appena si era presentato e lasciato un conto salato da pagare, ma che lo aveva liquidato a fine serata con un “Grazie ma non penso vorrò rivederti!” umiliandolo in pubblico e creando l’ennesimo gossip, cosa di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Aveva giurato a se stesso che si sarebbe vendicato se mai l’avesse rivista e ora che era ad appena un metro da lui, pensò che il karma avesse uno strano modo di agire quel giorno.


Turno 3: Linda

Nonostante Carlo avesse avvisato della sua presenza nell’ascensore, sia lui che Serena erano ancora bloccati lì dentro ed erano passate già due ore. Carlo sedeva a terra, scrutando il cellulare mentre Serena era in piedi dall’altro lato, la schiena contro la parete, e stringeva il cappotto tra le braccia, sbuffando di tanto in tanto in maniera pesante.

“Puoi smettere di farlo?” chiese Carlo in tono seccato.

“Fare cosa?”.

“Respirare forte. E’ fastidioso”.

Serena alzò le sopracciglia, visibilmente infastidita. “Mi scusi Sig. Riggi, farò in modo di non respirare affatto!” sbottò seria e distolse lo sguardo altrove. Carlo si alzò in piedi e provò nuovamente a ricontattare la sicurezza, che rispose prontamente anche se la situazione non era affatto invariata. Sospirò forte, le mani sui fianchi, e si lasciò scappare una parolaccia. Serena scoppiò in una risata. “E sono io quella fastidiosa?” intervenne lei scuotendo il capo. 

“Ti conviene non esagerare, ladra di taxi!”.

“Scusa, come mi hai chiamato?”.

“Hai capito bene! Due settimane fa stavo salendo su un taxi e tu me l’hai letteralmente rubato da sotto il naso!”. Carlo allargò le braccia per enfatizzare il suo disappunto.

“Ora ricordo… e guarda che quel taxi l’avevo fermato io per prima. E poi hai sicuramente mille modi diversi per spostarti. Io no!”.

“Avevo una cena importante!” disse urlando. Si stava davvero innervosendo e il caldo si faceva sentire in quello spazio che ormai era stretto anche solo per due persone.

“E con chi? Con l’oca di turno? Dovresti ringraziarmi, ti ho fatto un favore!”.

Carlo fece per parlare, ma preferì mordersi la lingua. Sperava solo che la sicurezza intervenisse al più presto. 

Turno 4: Alberto

Carlo si assopì e anche Serena entrò in uno stato di dormiveglia. Passarono ben otto ore senza che i due se ne accorgessero, travolti dalla stanchezza e dal sistema nervoso in mille pezzi. Fu come passare una notte intera di sonno tutt’altro che riposante. Si svegliarono quasi di soprassalto quando sentirono un rumore metallico. Forse qualcuno li stava finalmente soccorrendo, ma persero presto le speranze quando piombò nuovamente il silenzio. Guardarono entrambi i loro cellulari, le batterie erano ormai esaurite. Non avevano più contattato la sicurezza ma Carlo, estenuato, decise di ritentare.

“Pronto, sicurezza”.

“Sono sempre il Sig. Riggi e siamo ancora chiusi in ascensore!” tuonò furibondo.

“Quale ascensore? Sono Andrea e ho appena iniziato il turno. Ah sì, eccovi lì, vi vedo dalla telecamera. Mando subito qualcuno” e riattaccò. Carlo non ebbe nemmeno la forza di arrabbiarsi e si sorprese quando si sedette accanto a Serena.

“Che situazione surreale” disse, lasciandosi scappare una piccola risata.

“Potresti stare un po’ più in là e non invadere il mio spazio vitale? Non togliermi quel poco ossigeno che mi rimane…” disse lei, ma la voce non era quella di una persona arrabbiata. Era ormai distrutta. In quel momento, spinto dall’istinto, Carlo le prese la mano. Era come se la sua mente non riuscisse più a comandare i movimenti del corpo. Fino a poche ore prima odiava quella ragazza. Ora non riusciva a capacitarsi di quel gesto. Serena non lo respinse, anzi. Se ne restarono così, in silenzio, senza dire niente e a fissare la parete opposta dell’ascensore. Le mani sempre strette l’una all’altra. Il battito di Carlo era stabile sui cento al minuto. Non riusciva a gestire la sensazione del calore del palmo di Serena contro il suo.


Turno 4 Linda

Serena sentì lo sguardo di Carlo su di lei. I loro respiri viaggiavano all’unisono. E quando si voltò era palese e al tempo stesso incredibile l’attrazione che provavano l’uno per l’altra. Si erano odiati ancor prima di conoscersi. Avevano discusso mandandosi mentalmente a quel paese. Ora invece tutto era cambiato. In quasi dodici ore erano passati da nemici a qualcosa come due anime, forse, innamorate. In quel momento un altro rumore metallico rimbombò in quello spazio, ma loro non si mossero. E quando le luci si spensero, le loro lingue si cercarono, quasi con foga. Serena pensò che quello fosse il più bel bacio mai ricevuto. Carlo pensò che per la prima volta dopo molto tempo, baciava una ragazza desiderandolo per davvero. Era un momento quasi surreale e quando le luci al neon tornarono timidamente ad illuminare la stanza, Serena si allontanò di scatto, alzandosi velocemente per chiamare la sicurezza e in meno di un minuto le porte finalmente si aprirono.

Leggi il finale scritto da Linda Moon

Leggi il finale scritto da Alberto Sartori

Fine