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Come nasce la passione per la scrittura?

Da disoccupata a stagista nella moda

Nel 2006, sogno di lavorare nella moda, ma non trovo lavoro. Poi, mi iscrivo a un corso di sei mesi su come creare accessori moda. Il corso mi porta a fare uno stage in un atelier del vicentino che produce marchi di lusso.

Lavoro duro e imparo tanto. Alla fine, ottengo il mio primo contratto nel mondo della moda. Sono una stagista felice e realizzata.

Cambio regione per crescere

Per amore e ambizione, mi trasferisco in un’altra regione. Voglio fare di più nella moda. Imparo a cucire da una prototipista esperta che mi guida per anni. Apro la mia attività di intermediaria tra brand e laboratori di abbigliamento donna e bambino.

Mi dedico anche a capi su misura e da cerimonia e partecipo a eventi come vestire le candidate di Miss Motosprint all’EICMA.

Dal successo al fallimento

Sono la mia capa e il lavoro mi dà soddisfazioni e soldi. Collaboro con altre persone per creare nuove opportunità di lavoro. Ma faccio degli errori gravi e non me ne rendo conto.

Il mio piccolo successo si trasforma in un grande fallimento. Chiudo l’attività e perdo anche l’amore. Torno a casa dei miei genitori.

Depressione, promozione e delusione

Passo mesi in depressione. Mi sento incapace, ma voglio la mia rivincita. Cerco nuove opportunità nel settore, ma le cose sono lente e scarse. Nel 2019, trovo lavoro come tecnico di laboratorio.

Dopo un anno, mi promuovono. Mi sento realizzata. Ma il 2020 rovina tutto: l’azienda mi fa retrocedere. Il mio sogno si infrange di nuovo.

La scrittura mi chiama e io la seguo

Sento che l’universo mi spinge a scrivere. Così studio scrittura, creo eventi letterari, pubblico un libro in self-publishing; e mi diverto a scrivere per il web e i social, aiutando un amico web designer.

Mi attira l’idea di diventare anche una UX writer: mi piace usare la scrittura per creare esperienze digitali. Scrittura creativa e digitale si uniscono nel mio percorso. E a piccoli passi mi avvicino a vivere di scrittura.

Fine

Finale di Aldo Ferrarese

Il taxi puzzava di fumo e di sporco, si accomodò dietro e diede all’autista il proprio indirizzo. Appoggiò la testa al sedile e chiuse gli occhi.  Quelle ragazze venivano reclutate con l’inganno nel loro paese di origine per poi essere introdotte illegalmente in Italia. Ridotte in schiavitù, venivano sfruttate e spremute, poi il più delle volte sparivano. Carne fresca sostituiva quella vecchia. 

Aveva  fatto nomi e descritto nei dettagli quel sordido mercato. Si vide come un eroina che armata di carta e penna poneva fine a quello schifo. Riccardo era una garanzia, aveva il manoscritto. Avevano deciso e pianificato tutto. Firmato documenti e liberatorie. Il libro sarebbe andato in stampa e tutti lo avrebbero letto. Sorrise. Si augurò per davvero di poter cambiare le cose.

Ripensò alle notti insonni, ai volti, alle persone che si erano fidate di lei e le avevano raccontato la loro vita. Di figli tenuti in ostaggio, di debiti che sempre aumentavano, di violenze, torture e degrado. Si era illusa di diventare famosa e di vincere premi ma glielo avevano impedito, senza però riuscire a fermarla.  Era stanca, ma soddisfatta di sé. Ora l’aspettavano un bel bagno caldo, un calice di vino e buona musica, poi l’indomani si sarebbe eclissata per un poco.

Un odore acre la distrasse dal suo torpore, marijuana, senza ombra di dubbio. Quello stupido autista si era acceso una canna e  l’odore aveva invaso l’abitacolo. “Assurdo” pensò mentre sentiva salire la rabbia.

«Che cavolo sta facendo? Le ha dato di volta il cervello?» imprecò.
«Ho letto il suo libro, Rebecca, e non mi è piaciuto per niente…».

Due settimane dopo, a inizio Aprile, le prime copie di Rosso Carne fecero la loro comparsa sulla strada. I barboni, in abbinata al giornale, vendevano il libro che subito divenne un caso e non solo letterario. Venne ripreso da giornali e notiziari. Suscitò lo sdegno della gente. Indagini di polizia portarono a numerosi arresti. Tutti ne parlavano e tutti lo volevano. Riccardo prestò fede alla parola data. I ricavati andarono ad un’associazione che dava aiuto e sostegno alle donne vittime di abusi e violenze. I barboni vissero una vera età dell’oro e coi soldi guadagnati ebbero tutti una seconda opportunità. Qualcuno la seppe sfruttare, qualcun altro no.

Il cadavere di Rebecca Bolognesi venne trovato a Tor Bella Monaca dentro un vecchio taxi. Prima di morire strangolata, subì sevizie di ogni tipo. I responsabili del delitto non furono mai trovati.

Fine

Finale di Linda Moon

Il libro fu un successo e l’essere distribuito lungo le strade gli conferì un valore che andò oltre le aspettative di Rebecca. Non solo apportò un miglioramento nella vita della gente di strada che lo distribuiva, ma ottenne anche l’appoggio di persone influenti che si adoperarono per rompere la catena del traffico di donne. Le strade erano più controllate e ora vedevano una minore presenza di quelle povere ragazze sfruttate e maltrattate. Come le aveva predetto Riccardo, aveva ricevuto minacce e la sua reputazione aveva rischiato di essere compromessa, ma le sue parole si erano fatte sentire come un tuono nella notte durante una tempesta. E aveva vinto.

Ad un mese dalla pubblicazione del libro, si trovava in redazione con Riccardo mentre sorseggiavano del whiskey, in sottofondo la radio gracchiava una debole melodia. 

«Dannazione, Riccardo, dobbiamo sistemare questo posto, i miei vestiti sono impregnati di fumo!» e mentre rideva si diresse al bagno, continuando a parlargli. «Dovresti rifare l’ufficio o addirittura cambiare locale, che ne pensi?». Nessuna risposta. «Riccardo?» lo chiamò di nuovo, rimproverandolo per il suo silenzio ma quando raggiunse la soglia dell’ufficio, cacciò un urlo. 

Riccardo era steso sulla scrivania su una pozza di sangue con la gola tagliata. Rebecca si diresse subito all’uscita, ma qualcuno la tirò per i capelli e la sbatté a terra. Fu colpita alla schiena più volte e poi sollevata con forza e messa con la faccia contro il muro. Un odore pungente le arrivò alle narici. Poteva sentire il respiro di quello che era sicuramente un uomo, vicino al suo viso. Le labbra sfioravano il suo orecchio. Nell’intravedere una lama che graffiava lenta la parete, tremò dal terrore.

«Ogni successo è una responsabilità. E ogni successo ha le sue conseguenze. Quante vittime sei disposta a sacrificare per la tua causa, Rebecca?». L’uomo si scostò appena, facendo scorrere la lama lungo la sua schiena. Uno strappo secco rimbombò nel corridoio buio, poi un altro ancora fino a che non la spogliò del tutto. L’uomo le coprì il viso con la camicia e la fece voltare in modo brusco. La lama ora le pungeva la pelle mentre scorreva dal collo fino all’interno delle sue gambe. 

«…non è finita qui…» disse posando la lama sul lato piatto contro il suo pube. Rebecca respirava a fatica, era completamente paralizzata poi sentì quell’uomo farsi sempre più lontano e infine sentì una porta chiudersi con violenza. A quel punto chiamò la polizia, ma per Riccardo non c’era più nulla da fare.

A distanza di un anno, il traffico di donne che Rebecca aveva denunciato nel suo libro fu smantellato quasi del tutto e in una giornata di primavera, una parata in suo onore stava avendo luogo. Il suo nome veniva urlato e ovunque c’erano cartelli che onoravano la sua forza e il suo coraggio. Molti erano tristi per la sua assenza, ma la polizia non aveva ancora risolto il caso.

Rebecca era scomparsa alle prime luci dell’alba dopo tre mesi dalla morte di Riccardo mentre si recava ad un incontro con alcuni attivisti e il corpo non era mai stato trovato. Per molti era morta da tempo. Per alcuni era ancora là fuori e si nutriva la speranza che un giorno sarebbe tornata a casa.

Fine

Finale di Alberto Sartori

“State tutti bene?” chiese il tecnico che era appena riuscito ad aprire le porte. Non ci fu risposta. Serena si fece largo ed uscì dall’ascensore. Si mise a correre ma i tacchi la infastidivano parecchio così se li tolse, lanciandoli sul lato del corridoio che si apriva davanti a lei. I pensieri vorticavano nella sua mente e non le davano tregua. Stava reagendo come aveva sempre fatto nella vita: scappando dall’amore. Forse è quella sensazione iniziale che un po’ tutti proviamo. 

Quando sentiamo qualcosa di vero per una persona, subentra quasi una piccola paura. La paura che sia un errore, che non tutto possa andare per il verso giusto, la paura di non sapere se sia davvero qualcosa di buono. A volte questo ci blocca, a volte invece ci lasciamo andare e viviamo il presente senza pensare tanto a quello che sarà.

“Serena è ora di smetterla di fare la bambina” disse a se stessa. Si voltò e vide Carlo poco distante da lei mentre le andava incontro. Sentì una lacrima scendere sul viso fino al bordo delle labbra, la assaporò e sentì che era dolce di passione. Conteneva la stessa dolcezza dello sguardo di Carlo in quel preciso istante. Lui la raggiunse e si fermò di fronte a lei, naso contro naso. Le accarezzò il viso e spinse una piccola ciocca di capelli dietro all’orecchio. I respiri si fondevano tra loro.

Serena si allontanò di qualche centimetro per poter vedere meglio i suoi occhi. Brillavano di quella luce flebile simile ad una stella lontana che vibrante si annega nelle nostre iridi. Serena chiuse gli occhi. Le labbra di Carlo rimasero lontane, sentiva le sue che stavano fremendo in attesa di un altro bacio che non arrivò. Riaprì gli occhi e lo guardò di nuovo. L’amore che scorreva tra loro era così evidente. Tutta la chimica dei loro corpi era sintonizzata sulla stessa frequenza. Finalmente Carlo si mosse, mise una mano in tasca e…

“Tieni Serena, questo è il mio biglietto da visita. Chiamami stasera” e se ne andò.

Fine

Finale di Linda Moon

Davanti a loro quattro uomini della sicurezza e due che sembravano essere i manutentori dell’ascensore. Serena li guardò in modo bizzarro, come se fosse stupita nel vederli e senza dare attenzione alle parole di uno di loro, che probabilmente le stava chiedendo se stesse bene, proseguì a camminare senza voltarsi. 

“Serena”. La ragazza non si voltò, ma sapeva che Carlo le stava dietro. “Serena, aspetta!” disse prendendola per un braccio. “Aspetta!”. Finalmente la ragazza si voltò ma teneva la testa bassa. All’improvviso era tornata la timida e impacciata ragazza che barcollava su un tacco dodici. “Che cosa c’è?”. Evitava di proposito il suo sguardo. Carlo non disse nulla, ma la baciò ancora. A quel punto Serena si scostò, allontanandolo. Lui la fissò sgomento.

“Quello che c’è stato prima in ascensore…”. Lei lo interruppe.
“Non era niente di importante. Eravamo stanchi… siamo stanchi”.
“Io non credo. Ho provato qualcosa di travolgente e so che lo hai provato anche tu!”.
“Sì, forse. Ma ora che siamo fuori da quell’ascensore tutto torna come prima. E tu lo sai meglio di me!”.
“Sai cosa, io credo che tu abbia paura ad ammettere che è nato qualcosa tra di noi. Sento che c’è qualcosa…”.

Serena gli si piazzò a pochi centimetri dalla faccia, lo sguardo non più timido ma aggressivo. “Non potrei mai stare con uno come te. Oggi mi ameresti e domani ameresti un’altra donna. Non sei affidabile!”. Carlo si ritrovò a stringere la camicia macchiata di caffè mentre vedeva Serena allontanarsi, quando lei si voltò di scatto. “Non siamo più prigionieri tra quattro mura e a meno che non accada di nuovo, non sapremo mai che cosa proviamo l’una per l’altra” e sparì oltre una porta di sicurezza, i tacchi in mano, mentre scendeva le scale fino al piano terra.

Raggiunto l’ingresso dell’edificio, Serena rimase a bocca aperta. Non solo si stupì di vedere che il sole era tramontato da ore e aveva lasciato spazio alle migliaia di luci artificiali che illuminavano Madison Avenue, ma vide anche Carlo, al centro di un piazzale, in manette. “Carlo ma che cosa è successo?” chiese letteralmente sconvolta. “Ho insultato questo agente”. Lei sgranò gli occhi, dandogli del pazzo. “Sig.Riggi, la prego mi segua” disse l’uomo in divisa. Serena li fermò, voleva altre spiegazioni. “Che cosa stai combinando? È una tua trovata questa, non è vero?” disse sbuffando. 

Lui rise. “Lo sapevo. Sei proprio un cretino! E questo agente? Scommetto che è tutta una messinscena!” e gli buttò a terra il cappello, invitandolo in maniera elegante ad andare a quel paese. In pochi istanti, Serena fu arrestata per aggressione e portata assieme a Carlo al distretto n.24 di New York. La ragazza aveva provato a ribellarsi, ma le era stato caldamente consigliato di non dire altro e di contattare un avvocato. A quel punto aveva taciuto ma il suo io interiore aveva già commesso diversi reati nei confronti di Carlo che, a quanto pare, era l’unico ad essere tranquillo.

Neanche a farlo apposta, furono messi in due celle separate ma una parete, o meglio un lato con le sbarre, era in comune. Lei lo guardò alzando le braccia, in attesa di spiegazioni. Lui sorrise, le mani in tasca. Aveva uno sguardo vittorioso, ma dolce. “Allora?” disse lei avvicinandosi alle sbarre. “Vuoi dirmi che cosa succede?”. Lui fece un paio di passi in avanti. “Siamo prigionieri tra quattro mura, o meglio, sbarre. Ora possiamo sapere cosa proviamo l’uno per l’altra. Penso che abbiamo tutto il tempo del mondo…”.

Lei non disse niente. Era la rabbia in persona. Aspirò forte dalle narici, proprio come i tori nei cartoni animati, poi il suo sguardo si distese.

“Appena usciamo di qui ti faccio a pezzi”.
“Provaci, ladra di taxi”.
“Casanova dei miei stivali”.
“Imbranata sui tacchi”.
“Stupido ragazzino viziato”.
“Imbranata con caffè”. 

A mano a mano che si insultavano si avvicinavano sempre di più, come se il volume delle loro voci aumentasse passo dopo passo.

“Sei ridicolo nel tuo completo da tremila dollari”.
“E tu non hai buoni riflessi”. A quella frase Serena aggrottò la fronte, e fu a quel punto che lui la sorprese, afferrandola per gli avambracci e attirandola a sé. I loro visi, nonostante le sbarre, distavano di pochissimi centimetri. Ci fu un breve gioco di sguardi, poi lui la baciò e lei non si oppose e allungò le braccia per stringersi a lui. Una ridicola guardia con i capelli a spazzola e un peso che superava i cento chili li intimò di allontanarsi, ma loro la ignorarono, senza smettere di baciarsi. “Ora hai tempo di capire se provi qualcosa per me” disse lui scostandosi appena. Lei lo fissò sorridendo. “Tu che dici…?”. 

Fine

Un Grinch in famiglia!

finale di Linda Moon

La cena di Natale era stata discreta. Melania aveva alzato gli occhi al cielo quando Giorgio era apparso con quel misero garofano bianco, sfoggiando il suo orribile tatuaggio, ma non le importava più di tanto; Giorgio era facile da gestire nonostante le apparenze. Era Simone quello più problematico perché testardo ma anche intelligente. Melania però aveva pensato a tutto. Era stanca di dover sopportare due fannulloni come i suoi fratelli ma ancora di più di essere imparentata con un disgraziato come Simone che non credeva più in Dio. 

Che orrore! Che blasfemia! Era lei la figlia maggiore, la migliore, la più intelligente e spettava a lei la fetta più grande delle ricchezze di famiglia, ma perché limitarsi a questo? I cocchi di famiglia erano sempre stati quei due imbranati con cui sentiva di condividere solamente il dna. Ed era stata dura imparare l’arte della pittura di nascosto ma quando aveva scoperto che Don Pinetto aveva dato l’incarico al fratello Simone di eseguire un affresco non ci aveva più visto e aveva decido di intervenire, ma sapeva anche che non appena avessero visto cosa aveva dipinto, ovviamente da lei modificato diabolicamente per inorridire anche il più lontano dei credenti, tutti avrebbero odiato quel cretino di Simone e sicuramente Giorgio si sarebbe dato la zappa sui piedi con i suoi stupidi interventi. 

Due piccioni con un proiettile. Aveva ribattezzato così il suo piano meschino. E sarebbe stata lì, pronta ad accaparrarsi la gloria difendendo la famiglia e ancora meglio, assicurando per sé tutta l’eredità che i genitori volevano concedere ai figli come regalo di Natale. Un’eresia in pittura a olio impressa nella chiesa preferita di mamma non sarebbe stata perdonata e lo sapeva benissimo come sapeva benissimo che la vendetta è un piatto che va servito freddo. Molto freddo!

Fine

San Giovanni Decollato

finale di Marco Simion 

La sera della cena fu come uno spaghetti western alla Sergio Leone. Più precisamente Il buono, il brutto e il cattivo. Nella famosa scena dello stallo alla messicana. I tre fratelli si disposero a triangolo attorno al grande tavolo circolare della sala. Tra Melania e Simone c’era papà Guido. Simone aveva invitato Don Pinetto a sedersi accanto a lui, con un sorriso stampato in viso che non prometteva niente di buono a chi lo conosceva bene. Accanto a Don Pinetto mamma Silvia, che indossava dei vistosi orecchini preziosi e un crocifisso al collo che sarà pesato un chilo e mezzo e costato la vita di almeno 10 minatori africani. 

Melania guardava con apprensione Simone dall’altra parte del tavolo, mordendosi le labbra per non lasciarsi scappare una reazione scomposta se il fratello avesse fatto qualcosa di strano. Tra Melania e Giorgio c’era nonno Paolo, che aveva fatto la guerra, come amava ricordare. Ma non si capiva quale, visto che era nato nel 1935 e allo scoppio della seconda guerra mondiale aveva tipo 4 anni. La guerra del pisciarsi addosso, probabilmente. Che stava ancora combattendo coraggiosamente pure adesso.

“E dunque sei stato nel Sud-est asiatico”, chiese Don Pinetto a Simone. “Sì, è stata un’esperienza molto spirituale, glielo assicuro. Vedere il mondo ti apre gli occhi”. Melania lo fulminò con lo sguardo e si intromise nella conversazione “Però la popolazione locale non è esattamente di sani principi morali”. “Cara sorella, mi permetto di contraddirti. Le civiltà asiatiche hanno una storia ancora più antica della nostra e sono state uno straordinario crocevia di culture. Ad esempio, Don Pinetto, ho conosciuto questa ragazza vietnamita che si era da poco convertita al cattolicesimo e mi sono permesso di regalarle un rosario per aiutarla nella preghiera”. 

Don Pinetto approvò calorosamente “Che bel gesto cristiano. Hai fatto molto bene”. Simone guardò Melania con aria di sfottò: “Visto? Che bel gesto cristiano”. Nonno Paolo si intromise: “Mi ricordò quando ero in Vietnam. Eravamo nelle maledette risaie e i vietcong ci avevano accerchiati…”. Papà lo riprese: “Babbo, quello era Rambo, tu non ci sei mai stato in Vietnam…”. Melania cercò di recuperare “Però è bene astenersi dal fraternizzare troppo”. Mamma capì il sottotesto e le scattò l’embolo razzista che faceva fatica a trattenere “Non dirmi che avrò un nipote dagli occhi a mandorla”. “Tranquilla mamma, ho solo fornito assistenza spirituale. E poi prendo tutte le precauzioni”. Adesso era Don Pinetto ad essere imbarazzato. 

Guido non poté trattenere un occhiolino compiaciuto al fratello. E anche papà non poté fare a meno di sorridere, cercando di non farsi vedere dalla moglie. “Ad ogni modo Don Pinetto, volevo cogliere l’occasione per farle vedere una riproduzione in scala dell’affresco che ho già fatto nella chiesetta e che lei inaugurerà domattina di fronte alle autorità.” Simone si alzò e si avvicinò a un treppiede dove stava un quadro coperto da un panno. “Allora, ho cercato di pensare a come rendere moderno questo santo che, ricordiamolo, ha sofferto il martirio per decapitazione. Da qui l’espressione decollato, che potrebbe risultare un po’ ostica ai giovani moderni. 

Per questo ho cercato di effettuare una variazione che contenesse dei riferimenti maggiormente decifrabili”. Don Pinetto lo guardava con attenzione. Mamma e papà anche. Melania era in apprensione, cercando di prevedere cosa avesse preparato quella bestia di suo fratello. Il nonno aveva lo sguardo perso nel vuoto di quando un ricordo lontano gli riaffiora alla mente. O di quando non riesce a trattenere la vescica. Giorgio guardava il cellulare. 

Con un gesto plateale Simone alzò il panno: “Voilà”. L’iconografia classica di San Giovanni Battista, vestito di semplici panni e pelli, era stata attualizzata con un cappellino in testa con la scritta Ryanair. Il santo era rappresentato alla cloche di un aereo che volava giusto giusto in direzione del campanile di San Marco. Simone aveva il sorriso compiaciuto di chi ha portato a termine uno scherzo particolarmente riuscito.

Quello che successe dopo fu un delirio completo. Melania e la mamma cominciarono a urlare improperi assai poco cristiani in direzione di Simone. Per fortuna il cuore di mamma resse all’emozione e anzi era particolarmente carica. Guido e papà, che sotto sotto aveva sempre nascosto di essere un anticlericale convinto, per paura della moglie, scoppiarono a ridere fragorosamente mentre il nonno si guardava attorno con aria basita. Don Pinetto ebbe un malore e svenne. 

Quella fu la più memorabile cena di Natale che la famiglia Gobetti avesse mai passato.

Fine

Don Pinetto

finale di Alberto Sartori

E così per Giorgio, Simone e Melania arrivò finalmente il Natale. Non si videro per qualche giorno e si ritrovarono direttamente seduti a tavola. La domestica Matilde aveva già iniziato a riempire i calici con dell’ottimo vino bianco. Era tutto perfetto. Giorgio indossava un dolcevita nero con il colletto più alto del solito. Melania in tasca aveva un rosario identico a quello che era rimasto alla bella Lihn. 

Simone vagava da una sedia all’altra per intrattenere tutti i parenti, parlando dei suoi viaggi ed avventure e del suo cuore da artista. La loro mamma esponeva la nuova dentiera in una sorta di paresi sardonica. Il garofano bianco di fimo era finito nel cestino da parecchie ore ed ora sul tavolo trovava posto un bel vaso di ciclamini. Che giornata speciale.

“Fratelli e sorelle”. Esordì improvvisamente Don Pinetto, poi continuò “In questo Natale meraviglioso sono qui per raccontarvi la lieta novella”. E tutti in coro “Prego Don Pinetto”. 

“O mie pecorelle smarrite. Il vostro buon pastore ha perso la clessidra. Il tempo di parabole e vangeli è ormai per me finito”. Calò un silenzio tenebroso, apocalisse in casa Valeri. Nessuno trovò il coraggio di aprire bocca. 

Don Pinetto con gesti fulminei balzò sul tavolo. “Vi ho osservato per giorni e settimane, forse mesi ed anni. Ed ho deciso di prendere una parte di ognuno di voi per portarla con me”. Si tolse camicia e maglietta della salute ed esibì un tatuaggio osceno, fatto di troppe cose mescolate tra loro: la scritta Guns attorniata da un garofano bianco faceva capolino tra altre parole alla rinfusa che sembravano recitare La vita è nelle mani di coloro che hanno un’anima Rock

Sotto a tutto questo un rosario Vietnamita fatto di perle color marrone ed una mappa del Burkina Faso che proprio non c’entrava niente. “Simone, Giorgio, Melania, grazie per l’ispirazione. Sarò il vostro figliol prodigo, le vostre sette piaghe… ah no queste no. Insomma, pace, amore e gioia infinita come dicevano i Negrita” e si dileguò dalla porta principale lasciandola aperta.

Nessun commento si fece strada nell’aria. Tutti rimasero immobili ad ammirare questa scena epocale. Fino a che Giorgio non decise di togliersi il dolce vita. E alla loro povera mamma non rimase altro che esclamare “Figli del demonio”.

Fine

Corri, clown, corri

finale di Linda Moon

“Che disastro!” pensò Paolo scostandosi dall’uomo. Vista la situazione non aveva scampo e così si allontanò di fretta da quello scenario, lasciando il povero uomo facoltoso a maledirlo in un italiano insolitamente grezzo. Consapevole di aver perso una buona occasione di lavoro e sfinito dalla bizzarra avventura appena vissuta, decise che ne aveva abbastanza e si diresse verso casa: l’unica cosa che voleva era togliersi il costume e affogare il dispiacere in una birra e quella realtà non era né distante dall’avverarsi, né impossibile da raggiungere… o quasi, perché di punto in bianco si ritrovò faccia a faccia con la grassa donna dai capelli rossi del deposito degli autobus. 

Ci fu uno scambio di sguardi ambigui e feroci da parte di lei, sbigottiti e intimoriti da parte di lui, poi la grande fuga! La donna gli correva dietro come una pazza nonostante la sua scomoda massa e imprecava come uno scaricatore di porto mentre Paolo scappava a gambe levate quasi avesse il fuoco ai piedi. Svoltò alla sua sinistra, prendendo distanza ma poi si bloccò di nuovo quando vide il vigile del traffico e Casarin discutere lungo un marciapiede e li avrebbe evitati se quella polpetta parlante non avesse attirato l’attenzione con le sue urla e così Paolo dovette prendere un’altra direzione per scappare dal quel piccolo esercito che bramava il suo scalpo. 

Era una scena esilarante quando assurda quella che stava accadendo e nel momento in cui tirò al massimo vedendo finalmente la sua chance di uscirne vincente, una mazza di gomma piuma lo colpì alla gamba destra facendogli perdere l’equilibrio, finendo a terra. Intontito alzò lo sguardo, cercando di riprendere conoscenza e di fianco a lui vide una bimba che rideva mentre le voci dei suoi inseguitori erano sempre più vicine. Era la bimba vestita a tema Famiglia Addams. “Ciao clown buffo! Lo sai che giorno è oggi?” e Paolo, ormai arreso ad un destino ostile con probabile arresto e accusa di furto, sbuffò dicendo “…maledetto Venerdì…

Fine

Cleptomania

finale di Alberto Sartori

I bambini ripresero a lanciare sassi con le loro fionde fiammanti. Gli elastici erano tesi e 3, 2, 1, un sasso colpì in testa l’uomo che era ancora sotto a Paolo.

Svenì all’istante. Per lui fu “Game Over”.

Paolo si rialzò ed indietreggiò preoccupato. Fissava quel signore con aria incredula. Ma che piega aveva preso quella giornata?

Non ebbe neanche il tempo di riflettere che delle mani possenti lo presero per le spalle: “Non ti muovere pagliaccio!” era la voce di Casarin, quante volte l’aveva sentito sul posto di lavoro dire: “Paolo, sveglia, i biscotti non crescono sotto ai carciofi.” che poi, che razza di detto era?

Paolo rimase immobile. Non sapeva davvero che fare.

Il silenzio fu interrotto da uno squittio. Proprio in quell’istante un topo enorme uscì da uno dei sacchetti.

“Ossignor, varda che brutta pantegana!” urlò Casarin nel suo miglior dialetto veneto.

Paolo sentì solo due cose:

  • i passi svelti del capo ufficio che se la dava a gambe;
  • un’altra voce, che però non riconobbe subito, esclamare: ”Altolà pagliaccio!”

Si voltò di scatto e davanti a lui trovò il vigile del traffico, che prima lo stava inseguendo, mentre teneva alto il suo manganello.

Un’unica speranza balenò nella mente di Paolo: il fiore spruzzacqua.

In un nanosecondo premette il pulsante che aveva in tasca e…niente.

Acqua finita. Flop totale.

Attaccare o fuggire?

Dalla confusione che aveva in testa gli uscirono dalla bocca delle parole confuse: “Buonasera Siore e Siori, il Grande Zumba, visto? Qui? Dov’è? Farfalla, unicorno, si ride!”

Il vigile rimase basito, forse si stava chiedendo: “Ma questo, è normale?”

Tutto giocò a favore di Paolo che iniziò di nuovo a correre così veloce che perse la parrucca per strada, la saliva gli uscì dalla bocca togliendo un po’ del cerone bianco dal volto. Le scarpe si staccarono dai piedi quasi da sole e così poté aumentare il ritmo dei suoi passi.

Fece più di cinque chilometri senza la minima pausa.

Si fermò trafelato davanti all’uscio di casa.

Passò le dita davanti al lettore di impronte digitali e si fiondò nel suo appartamento.

Era salvo. Finalmente.

Ci mise qualche minuto a ripigliarsi, le mani appoggiate alle ginocchia.

Con passo pesante andò a prendere una birra dal frigo e si accasciò sul divano.

Sul tavolino davanti a lui una lunga lista riportava i giorni del mese e scarabocchiati a matita c’erano un’infinità di appunti.

Sotto al 31 Ottobre 2019 era scritto in stampatello:

“Finta perdita di materiale per la festa. Rapina al centro autobus.”

Fine

Profiler

Finale di Marco Simion

Mentre Casarin e il suo committente erano avviluppati in mezzo al prato si sentì un grande rumore di pale rotanti e del forte vento cominciò a spostare l’erba attorno a loro. Il rumore di sirene della polizia si diffuse tutto intorno.

Da un megafono si sentì distintamente: “Paolo Meneghetti, Polizia di Baraldi! Metta le mani sopra la testa e si allontani immediatamente! Siamo sulle tracce di un pericoloso serial killer chiamato Il Pagliaccio del Maiale di Mare o Maiale del Pagliaccio di Mare. Non siamo ancora convinti del nome”.  Paolo si girò verso il grande faro puntato su di lui. 

“Nei sacchetti che ti sei lasciato dietro sono stati trovati oggetti appartenuti a varie vittime delle morti per avvelenamento che sono accadute negli ultimi mesi in città. E in tutti i casi il giorno della morte c’era stata una festa per bambini nel quartiere. Mannaggia quanti dettagli top secret stiamo dando al megafono” continuò la polizia. 

“Ora cammina lentamente con le mani in alto e senza movimenti strani.” 

“Non c’entro nulla, deve esserci un errore. Io lavoro in una fabbrica di biscotti, faccio il clown per arrivare a fine mese”. Paolo fece un passo in avanti in direzione della polizia con le mani bene in vista. Arrivò molto vicino a un agente e continuò a ripetere “Mi dovete credere. Non sono stato io!”. In quel momento si mise una mano in tasca e uno spruzzo di liquido partì dall’altro fiore che aveva sul colletto della giacca. 

Il negoziatore si scartò di lato e in quel momento un colpo di bazooka partito dall’elicottero centrò in pieno Paolo. Quando il fumo si diradò al centro del cratere rimasero solo delle scarpe e una parrucca. Le ultime parole di Paolo furono “Non sono stato io”. E invece, il famigerato Maiale di Mare alla Pagliaccia era proprio lui. 

Fine

Sala d’attesa

finale di Marco Simion

Ma come potevo aver fatto così tanti casini in una giornata sola? Altro che grande occasione, avevo l’impressione che tutto il mondo ce l’avesse con me. E anche persone molto pericolose, a quanto pare. Se mi andava bene mi prendevo un pugno in faccia da un attore di chiara fama (o da un tizio pagato per pestarmi) ma se mi andava male mi pigliavo una pallottola in fronte. Decisi di cambiare aria per un po’, magari sarei andato a trovare per un paio di giorni il mio caro amico Carlo, a Copenaghen, finché le acque si sarebbero calmate. 

Comprai un biglietto per quella sera stessa, anche se pagai un po’ uno sproposito. Filai a casa cercando di non farmi notare e mi guardai in giro per vedere se c’era qualcuno di sospetto. Via libera, filai dentro e salii al 4° piano. Io stavo al 6°, quindi mi feci a piedi le ultime due rampe di scale, col cuore in gola. Stavo diventando paraonico? Non c’era nessuno sul mio pianerottolo. Aprii la porta e preparai subito una valigia con quattro cose. Meglio metterci un maglione, in Danimarca faceva freddo. 

Presi l’auto e mi diressi all’aeroporto, con largo anticipo. Passai i controlli e andai con calma verso il Gate D7, Volo Easyjet U2 3322. Comprai un giornale all’edicola e mi sedetti nella sala d’attesa vicino al gate cercando di non dare nell’occhio. Un signore si sedette a un paio di posti da me. “Mi scusi, mi saprebbe dire che ore sono?”. Quant’è che non sentivo una domanda del genere. “Sa, il cellulare mi si è scaricato”. “Non si preoccupi – dissi io tirando fuori il mio – Sono le 19:15, manca ancora un’ora all’imbarco”. “Ah, se è così allora vado a fare due passi. Grazie mille”.

Passai così il tempo che rimaneva leggendo e vedendo le persone che mano a mano riempivano i divanetti del Gate. Quando annunciarono il nostro volo mi misi in coda tra i primi per salire. Il signore dell’ora era subito dietro di me. Arrivato davanti all’hostess tirai fuori il passaporto e lei lo passò sullo scanner. Rosso. “Mi scusi, ci sono problemi?”. “Sì, temo che ci sia qualcosa che non va. Se può cortesemente seguire il collega.” E sottovoce: “Però non ti agitare troppo, ci servi sveglio”. 

A quelle parole guardai il nome sulla targhetta. Lucia. E poi la guardai meglio in viso. Divenni rosso. Era la mia prima ragazza del liceo. Quella della più grossa figura di palta col gentil sesso. Stavo per svenire dall’imbarazzo, quando sentii un pizzico sulla spalla, come una puntura di insetto. Il signore dietro di me si era avvicinato e aveva detto all’hostess “Mi scusi signorina può per cortesia far scorrere la fila?”. Nel farlo sentii che qualcosa premeva contro la mia schiena. E a me all’orecchio disse le ultime parole che ricordo di aver mai sentito: “A quanto pare c’è davvero del marcio in Danimarca”.

Fine

Calibro 9

finale di Alberto Sartori

Rimango lì bloccato. Sullo schermo del televisore c’è ancora la mia foto che per fortuna scorre via senza destare preoccupazione. E poi dove l’hanno tirata fuori quella foto? La utilizzavo sul mio primo profilo MSN 15 anni fa e sono praticamente irriconoscibile. Buon per me.

Esco dal bar senza voltarmi e mi siedo su una panchina a bordo strada.

Non riesco a ragionare.

Svuoto le mie tasche e mi concentro sul biglietto da visita che si trovava sopra al comodino dell’albergo. “Spero tu stia meglio. Chiamami. Luca” poche parole scritte così chiaramente che sembrano stampate e non buttate giù a penna.

Ma a che numero lo devo chiamare?

Mi lascio guidare dall’intuito, dopo tutto mi ha sempre dato una mano nella vita.

Prendo in mano il cellulare ed inizio a scorrere la rubrica.

Luca Gimondi.

Luca Lavoro.

Luca Palestra.

Luca Taxi.

Il cuore fa un battito irregolare. Non mi ricordo di aver mai memorizzato questo numero ma, d’altronde, quante cose ho dimenticato?

E soprattutto perché l’ho memorizzato come “Luca Taxi” invece che come “Luca Valdis”? Avevo riconosciuto il mio compagno di sedile, questo me lo ricordo fin troppo bene.

Non mi resta che premere il tasto verde.

Uno…due…tre…quattro…cinque squilli ed ecco che finalmente sento qualcuno dall’altra parte: “Simone, sei tu?”

“Sì ma…con chi parlo?” rispondo io perplesso.

“Sono Luca, l’autista del taxi.”

“L’autista? Quando mi hai dato il tuo numero? E cosa vuoi?” chiedo io sempre più basito.

“Lascia perdere. Ascoltami bene. Dove ti trovi? Mi avevi detto le testuali parole: “Se ti chiamo vuol dire che sono nei guai.” per cui…

Tu tu tu tu tu. La chiamata si chiude all’improvviso.

Guardo lo schermo del telefono e vedo che non c’è campo, nemmeno una tacca.

Comincio a premere tutti i tasti possibili ma niente.

Poi all’improvviso il telefono si spegne e si riaccende quasi istantaneamente.

L’unico segnale che sembra funzionare è quello del GPS ma di quello non me ne faccio proprio niente.

Il 3G riprende a lampeggiare e sul display compare un messaggio di Davide: “Non ti muovere. Sto arrivando.”

“Finalmente.” esclamo in modo flebile, alzo lo sguardo e chiudo gli occhi facendo un respiro profondo.

Mentre li riapro, noto subito in fondo alla via una Lexus nera che sta venendo verso la mia direzione.

Davide accelera e riesco quasi a sentire il rumore del motore.

Alzo la mano per richiamare la sua attenzione e cammino fino al ciglio del marciapiede.

Lo vedo alzare il pollice all’insù e poi dare ancora più gas.

La gioia di vederlo è incontenibile. Il mio battito accelera. Il respiro si fa più corto. La pressione sale alle stelle.

Le ruote stridono sull’asfalto mentre lo vedo tirare il freno a mano ed improvvisare un parcheggio alla Bo e Luke. 

Il finestrino si abbassa di scatto ed io mi avvicino alla maniglia della portiera. Ma non si apre.

Incrocio lo sguardo di Davide mentre una lacrima scende sul suo zigomo. La canna di una pistola calibro 9 è l’ultima cosa che ricordo.

Blackout.

Fine

Quando meno te lo aspetti…boom!

finale di Linda Moon

Simone è sconvolto. Non crede a quello che sente e, quasi avesse perso del tutto le forze, si siede al bancone e non appena un uomo barbuto e con una pancia enorme che sa di alti livelli di colesterolo lo fissa, lui ordina un whiskey doppio e liscio, portando le mani alla testa e chiudendo gli occhi. “Non e possibile. Non ci credo… non può essere vero” dice a bassa voce. 

Stranamente non sente l’adrenalina salire, ma nemmeno ansia o agitazione. E come se avesse raggiunto lo stato delta in un lampo e stesse per cadere in un sonno profondo. La camminata successiva all’uscita del bar e più lunga di quel che gli sembrava, ma non si ferma un attimo e quando raggiunge la porta del civico 48 di Via Concati entra in casa. Con il passo pesante e trascinato e gli occhi stanchi e vuoti, si siede al computer e lo accende, cercando una certezza che fluttua nella sua testa da quando ha sentito il notiziario. E dopo pochi istanti ecco la conferma. 

“Che stupido! Come ho fatto a non capirlo?” pensa. In quel momento il telefono squilla. “Simone? Simone, dove sei?”. È Davide. Un sospiro. Un altro ancora, poi Simone risponde. “Sono a casa tua”. Davide gli chiede di raggiungerlo subito in un posto e aggancia, senza dargli il tempo di rispondere. Sembra importante. E Simone, nonostante la rabbia, esce per incontrarlo.

Un grattacielo in costruzione al tramonto. Strano come luogo, ma immagina che Davide voglia discrezione e pure lui la vuole, al momento ha troppi occhi addosso a sé. Sale fermandosi al decimo piano quando vede Davide appoggiato ad una colonna che ammira il panorama e appena lo sente si volta, regalandogli un timido sorriso. “Ciao Simone”. Il ragazzo lo snobba, accendendosi una sigaretta. “Risparmiati la sviolinata e arriva al punto”. Davide aggrotta la fronte. Simone butta fuori una nuvola di fumo e lo fissa serio. 

“So che cosa hai fatto, so che sei stato tu”. Davide lo fissa sbigottito, ma qualche istante dopo rivela il tradimento, appoggiandosi nuovamente alla colonna, le mani in tasca e lo sguardo curioso. “Era ora che ci arrivassi!”. Simone lo imita, appoggiandosi alla colonna dietro di lui. “So che hai scritto tu l’articolo apparso sul notiziario, firmandolo a nome mio. A questo punto deduco che sia stato tu a firmare anche il check-in all’hotel. Hai approfittato del mio blackout per ingannarmi e distruggermi. Avevo raggiunto il successo ormai, mi mancava poco. Perché lo hai fatto? Perché mi hai rovinato?”. Davide lo guarda con attenzione, come se lo stesse studiando, ma non replica, non subito almeno. Guarda il panorama e si scosta dalla colonna. 

“Hai ragione. Ti ho ingannato e l’ho fatto per una ragione molto ovvia”. Simone allarga le braccia per invitarlo a confessare. “Sono stanco di starti dietro. Sono stanco di farti da balia, di essere sempre a tua disposizione quando combini casini. Sono stanco di aiutarti a ricordare e di aiutarti a raggiungere i tuoi traguardi. Da quando ti conosco hai questi blackout e ti sono sempre stato vicino, ma ora basta. Voglio anch’io la mia fetta di gloria”. Simone è alquanto stupito. “Ma che stai dicendo?”. Davide distoglie lo sguardo sbuffando e in un attimo Simone gli è addosso che lo gonfia di botte, sfogando tutta la rabbia tenuta dentro fino a quell’istante. “Questa me la paghi. Ho salvato tutto ciò che hai fatto in una chiavetta usb e presto tutti sapranno la verità è ciò che hai fatto. È finita Davide…”. 

Simone si rialza e Davide lo segue, lentamente, a ruota, ripulendo il sangue dal viso. “Finirai all’inferno per ciò che hai fatto, vedrai come ti faranno il culo appena ti beccano e…”. Simone si interrompe di colpo, fissando ciò che Davide teneva in mano. “Scusa amico, ma ho bisogno di un tuo blackout… soffri ancora di vertigini?” e senza dargli Simone di reagire, Davide gli si fionda addosso, spingendolo nel vuoto. La corda scende veloce come l’adrenalina che sale come un fulmine e, nel momento in cui la corda è tesa e lo fa rimbalzare, ha l’ennesimo blackout come previsto.

“Dove… dove… dove mi trovo?”. Simone apre gli occhi, ma vede tutto sfuocato. Due uomini sono davanti a lui e gli parlano, ma Simone non comprende ciò che dicono. Le voci sembrano ovattate e la vista va e viene. “Dove… dove sono… non capisco…”. Lentamente lo fanno alzare e sedere su una panca di metallo e quando la vista torna nitida, si vede circondato da strani uomini che lo osservano curiosi e perplessi. Alcuni ridono, altri lo fissano incazzati, altri gli chiedono come si senta. “Caspita, ma che mi è successo?”. 

L’uomo alla sua destra ride e Simone si guarda attorno, cercando di capire dove sia, ma soprattutto cercando Davide e quando quel piccolo pubblico davanti a lui si disperde, Simone sgrana gli occhi e a scatti si muove fino all’altro lato della stanza, osservando e stringendo con aria sconvolta le sbarre di una cella. “Ma che cavolo… come ci sono finito qui?” chiede senza rivolgersi a nessuno in particolare e una risata alle sue spalle lo fa voltare.

 “Come sei finito qui? Fratello, hai scritto un articolo dove lanci accuse contro lo stato e hai quasi pestato a morte il tuo amico e sai una cosa: questo non è tutto!” e Simone ascolta ciò che l’uomo gli dice a orecchie tese e quello che sente non gli piace per nulla. 

Fine

Il Sì, lo voglio che aspettavo

Quando il giorno segnato sul calendario con una X rossa arriva, ti presenti puntuale al Day Hospital per un colloquio con il dottore che ti prospetta la fine del mondo, perché a te suona proprio così!

 
Inizia con un lungo e spaventoso elenco di situazioni che possono capitare durante il trapianto, poi prosegue con quelle che possono presentarsi dopo l’operazione e tu sei lì di fronte a lui, stringi le mani alla sedia e lo guardi come se fosse Freddy Krueger di Nightmare o peggio, un addetto dell’agenzia delle entrate, mentre cerchi di mantenere il controllo. Di incontri traumatici ne ho avuti, ma questo li batte tutti!

 
Finito il gran discorso più adatto a un girone dell’inferno di Dante che a me, mi sono immaginata mentre mi alzavo in piedi, stringevo la mano del dottore e gli dicevo: “Guardi, anche no. Arrivederci!”. Ero così terrorizzata che stavo per farmela addosso, ma poi sono emersi nella mia testa pensieri, ricordi e frasi dette da persone che amo e che non voglio deludere. 

E ho pensato che avevo solo trent’anni, che la chemio per bocca mi stava sfinendo e che se non accettavo, avevo l’80% di possibilità di non uscirne viva. Non sono mai stata un genio in matematica, ma sapevo bene la differenza che sottoponevano alla mia attenzione. Ricordo di aver pensato: “Se anche andasse male, almeno ho fatto di tutto per sconfiggere la malattia e tornare a vivere. Ho lottato e senza rimpianti”.

Nel momento in cui ho detto “Sì, lo voglio” mi è passato davanti l’ultimo mese fatto a casa, in assoluto riposo. Un riposo alternato da pianti e momenti di crisi perché avevo tanta paura. E se fossi morta? 

Se avessi lottato per niente? Tante volte ho pensato di fare la valigia di nascosto e scappare lontano, magari in Argentina oppure una di quelle isola con il faro in Slovenia o Croazia, circondata dal mare. Sarei lontana da tutti e non sentirei più parlare di piastrine, esami, cellule staminali e forse la leucemia non mi seguirebbe; forse rimarrebbe qui, a Vicenza. Vagherebbe solitaria fino a stancarsi ed esaurirsi. 

Ma è solo una bugia che recito a me stessa, semplicemente morirei altrove, sola e triste. Avevo tanta confusione in testa, ma avevo fatto tutta quella strada con l’obiettivo di guarire e dovevo farlo. Per me stessa e per le persone a cui lo avevo promesso. E alla mia mamma, di cui percepivo il respiro durante alcune notti, quando entrava in camera mia per assicurarsi che stessi bene. 

Una volta ho aperto gli occhi e le ho detto: “Sto bene, mamma. Torna a dormire”. Le avevo mentito, ora però non l’avrei più fatto. Nè a lei, nè a nessun’altro. Per cui, cara Leucemia, fatti sotto: NON MI FAI PAURA!

Fine

Il Sì, lo voglio che aspettavo

Finire nella lista d’attesa per un trapianto di midollo osseo mi ha riportato con i piedi per terra. Mi ero abituata alle continue visite, a scrivere il mio diario per registrare ogni singolo cambiamento, a ridere assieme a nuovi inquilini e sopportare i dolori che alcune volte avevano la meglio su di me. 

Mi ero abituata a vedere amici che odoravano di disinfettante, avvolti in camici verdi, cuffie e guanti di lattice e ai finti sorrisi dei miei famigliari che fingevano una chiamata o un parcheggio scaduto per non piangere davanti a me. Ma quando i dottori hanno fatto digitare il mio nome nella famosa lista, mi sono sentita morire mentre la leucemia avanzava come l’esercito di Serse contro gli Spartani. 

Ho fatto tre ricoveri prima di arrivare all’ultimo che mi ha portato a vincere il premio “Sfiga dell’anno” e durante il terzo ho atteso al varco di sapere se avevo una corrispondenza e finalmente una bella notizia è arrivata: ne avevo ben due! Insomma, come diceva Stefano Accorsi “Two is megl che one”. Ero così felice che ho saltellato per tutta la stanza euforica e mai l’avessi fatto. 

La leucemia deve aver percepito il mio umore alle stelle e, anche se non lo posso provare, credo abbia minacciato di morte uno dei donatori perché all’ultimo uno di loro si è tirato indietro. Il modo in cui ho spiritualmente massacrato la malattia nella mia testa mi ha fatto vergognare di me stessa. 

Detto ciò, ho pregato in aramaico, sanscrito e altre lingue a me sconosciute, per ricevere buone notizie e per fortuna il secondo donatore ha detto: “Sì, lo voglio”! E vi dico solo che mi basta questo come matrimonio…

Era arrivato il mio punto di non ritorno, della serie: o la va, o la spacca! Per sicurezza e prima dell’operazione, i dottori fanno prelevare le tue cellule staminali che serviranno in caso il trapianto fallisca. Questa raccolta dura circa quattro ore in cui non devi assolutamente muoverti. La mia, ovviamente, è durata ben due giorni e non vi dico la sofferenza che ho provato. 

Era come se fossi legata a una sedia mentre il mio nemico mi colpiva senza la minima pietà. Superato questo momento, inizia un check-up completo cui è sottoposto anche il donatore. Bisogna risultare perfetti e ben allineati per evitare di – scusate la volgarità – mandare a puttane il trapianto! In seguito, vieni mandato a casa per un mese e in questo tempo ti viene chiesto di fare una cosa sola: riposare.

Perché serviranno molte energie, fisiche e soprattutto mentali, per l’operazione.

Leggi l’episodio 8 (parte 2) – “Il Sì, Lo Voglio Che Aspettavo

Casa, dolce casa

Il rientro a casa non era traumatico: era un vero casino! In ospedale, quando ti sentivi male, anche durante la notte, bastava premere un pulsante e subito accorreva qualcuno ad assisterti. Una volta a casa, invece, la mia mente era così stressata che mi ritrovavo a premere di continuo i pulsanti del telecomando e solo quando capivo di aver davanti Maria De Filippi, mi rendevo conto che nessun infermiere sarebbe mai venuto in mio soccorso. 

E così mi ritrovavo a contorcermi nei dolori della solita routine: nausea, spossatezza, pressione altalenante e la De Filippi di certo non aiutava…

Questo viaggio andata/ritorno tra ospedale e casa durava dai 7 ai 15 giorni e l’unica costante erano le medicine che prendevo e che avevano sempre un posto riservato in prima fila. Nonostante tutto, essere a casa mi dava una sensazione di sollievo: ero in un posto che conoscevo, dove ero cresciuta. 

In un certo senso mi sentivo al sicuro e potevo uscire a fare una passeggiata, anche se con le dovute precauzioni: mascherina, crema solare 50+ e tanti strati a proteggermi tra maglie, giacca, sciarpa e berretto; praticamente un processo di mummificazione, con la differenza che sotto tutto a quel tessuto c’ero io, viva! 

La cosa più assurda è che prima di ammalarmi io e la mia famiglia non avevamo regole: a casa c’era chi entrava e chi usciva. Si mangiava assieme, ci si contendeva il telecomando o si litigava per l’ultima fetta di pizza e per quanto riguardava il bagno, chi arrivava prima chiudeva la porta e ciaone!

Ora, invece, erano nate dal nulla le Leucemia Rules. Sta stronza pure a casa comandava!
Per quanto apprezzassi sentirmi come al Four Seasons e avere quindi un bagno tutto per me, mi era toccato quello col box doccia, della serie: mai più bagni lunghi e rilassanti. Inoltre dovevo avere asciugamani esclusivamente per mio uso personale e cambiarli spesso, per cui una parte della casa era diventata una lavanderia attiva 24h al giorno. Insomma: io un bagno tutto per me, gli altri a litigarsi l’acqua calda. 

E se sovrappensiero qualcuno faceva pipì nel “mio” bagno, apriti cielo: venivano giù santi e madonne e litri di Lysoform. Anche se la situazione più allucinante era il rientro a casa dei membri della famiglia: proprio come gli scienziati rientrano da una zona infetta, ognuno doveva togliersi i vestiti, gettarli nel cesto della lavanderia o appenderli all’esterno a prendere aria. 

Dovevano disinfettarsi le mani e una volta attestato che il soggetto in questione non aveva goccia al naso e se aveva tossito era perché gli era andata di traverso una patatina, allora potevo concedergli udienza. 

Ma che bella rottura di palle, eh! Però una cosa positiva c’era: quando mi pesavo e fissavo la bilancia con aria contrariata, potevo dare tranquillamente colpa a quella psicopatica della leucemia!

Leggi l’episodio 8 (parte 1) – “Il Sì, Lo Voglio Che Aspettavo

Nuovi inquilini

E dopo aver parlato di amicizie che si dissolvono mentre altre diventano più solide, non potevo non parlarvi di loro, i nuovi “inquilini”. Quando vai in nomination grazie al tuo personale sponsor – Leucemia dei miei cogl**ni – non inizi solo un tour personalizzato in ospedale, ma incontri anche nuove persone, che per fortuna non sono competitors, ma alleati. Della serie, non è solo l’unione che fa la forza, ma anche la totale disperazione!

Durante il mio non richiesto e tanto meno desiderato soggiorno ospedaliero, ho cambiato stanza quattro volte, ed escludendo il 3° e il 4° ricovero, ho fatto nuove conoscenze con cui ho condiviso dei bei momenti.

Parlavamo di tutto, senza alcuna vergogna: famiglia, studi in corso o sospesi, segreti peccaminosi e anche di quella rompipalle di malattia. E se pensate che chi è malato sia immune a ramanzine, vi sbagliate di grosso!

Una volta, io e una ragazza ci siamo messe a ridere così forte che abbiamo fatto allarmare un piccolo esercito di infermiere accorso in nostro aiuto. Bè, non mi sgridavano così dai tempi delle elementari! Comunque, oltre a chiacchiere moleste, guardavamo anche diversi film e serie tv e abbiamo fatto le più classiche delle maratone con Harry Potter e Twilight.

Ci siamo intrippati con La casa di carta e nei momenti più sensibili, la Disney ci ha risollevato l’umore, anche se i momenti migliori erano quelli in cui amici e parenti venivano a trovarti e lì ci scatenavamo in risate e battute sotto gli sguardi rassegnati degli infermieri che parevano più dei buttafuori in quelle situazioni.

Mi godevo il più possibile quei momenti e ho fatto bene, perché più avanti avrei ricevuto una notizia che speravo non sarebbe mai arrivata e lo scoprirere all’inizio dell’episodio #8.

Leggi l’episodio 7 – “Casa, dolce casa

Amicizia che va. Amicizia che viene

Senza capelli. Occhiaie sotto agli occhi. L’aria stanca di chi non sa se domani respirerà ancora. Odiavo questa nuova me, ma soprattutto odiavo che gli altri vedessero questo mio nuovo aspetto che avrei preferito sfoggiare solo nella notte di Halloween. 

Avrei preferito vivere questo momento all’altro capo del mondo e comunicare con tutti tramite una semplice chat, e il motivo è chiaro quanto banale: volevo che nella mente di ogni mia amicizia ci fosse solo un ricordo di me. L’Anastasia sana, coi capelli rosso fuoco, un gran sorriso e la mia dolcezza stampata in viso, anche nei momenti più bui. 

Inizialmente non è stato facile dire alle persone della mia malattia. L’ultima cosa che volevo ricevere erano sguardi di pietà e occhi lucidi, affrontando conversazioni imbarazzanti. Chissà perché, ma in queste situazioni tutto si trasforma in scene iper-drammatiche che Titanic, levati proprio!

È come se avere la leucemia mi avesse conferito il badge di fan più attivo come su Facebook, con l’effetto però contrario, ovvero di spaventare e quindi allontanare le persone. Poco alla volta alcune amicizie sono svanite nel nulla, alcuni contatti sono diventati più radi; avevo più probabilità di bere un tè con Papa Francesco, insomma. 

Altre amicizie, invece, le cercavo io ed ecco che allora scoprivo il loro imbarazzo nel contattarmi e l’inadeguatezza nei miei confronti perché non sapevano che cosa dire. Toccava a me fare il primo passo e dire loro che parlare anche dello sturalavandino andava bene. 

Tutto pur di distrarmi dalla malattia che stava facendo un rave party con le mie piastrine! Una volta un infermiere mi ha raccontato la storia di una ragazzo pieno di vita e amici che ha scoperto di essere malato e di punto in bianco si è ritrovato solo. Mi è dispiaciuto molto per lui e per un attimo ho pensato che avrei fatto la sua stessa fine, ma poi le parole di una cara persona mi hanno dato la spinta a non mollare. 

Mi ha detto: “Ripeti a te stessa VOGLIO COMBATTERE, GUARIRE E TORNARE A VIVERE!”. Vedete, non so esattamente se questo mio personale mantra sia stato utile, ciò che so è che sono ancora qui, a raccontare la mia esperienza. Per condividerla con tutti voi e far sentire meno solo chi ha provato o sta provando ciò che ho vissuto io. 

Leggi l’episodio 6 – “Nuovi inquilini

Film fantastici e dove trovarli

In una situazione come la mia, dove la leucemia diventa una sorta di inquilino difficile da sfrattare, arriva un momento in cui vai fuori di testa! Ad esempio, un giorno come tanti, te ne stai seduta sul divano, sfoggiando il tuo miglior pigiama, fresco di bucato e stiro, neanche dovessi sfilare a Bryant Park, New York.

E facendo uno zapping sfrenato, ti ritrovi a guardare una scena di Grey’s anatomy. Ospedali, dottori, gente malata. Scuoti il capo e cambi canale. Lo zapping continua come se corresse una staffetta, e ora ti ritrovi a guardare una scena di The Good Doctor. Il protagonista non è male, ma che palle!

E così cambi canale e concedi un’ultima chance al palinsesto di quel giorno e quando i tuoi occhi incrociano quelli del Dottor House, scagli il telecomando contro il muro, alzi gli occhi al soffitto e ti ritrovi a gridare: «Sul serio? Vi siete messi tutti d’accordo?

A proposito, mai una gioia eh, mi raccomando!», e così abbandoni il digitale per prendere in mano la situazione approdando sulle piattaforme che ti permettono di guardare ciò che vuoi, quando vuoi.

La voglia di essere trasportata, anche se temporaneamente, in un altro mondo è così tanta che ti ritrovi a passare da un film o serie tv all’altro, quasi senza accorgertene. E così vieni rapita da uno strano trip cinematografico dove sei invincibile e corri veloce come The flash, ma con il sex appeal di Batwoman.

Salti da un edificio all’altro con fare impavido e scagli frecce meglio del biondino di Arrow. Vivi un momento intermedio dove da supereroe fai quattro chiacchiere con Lucifer e gli chiedi se per caso è stato lui a mandarti la leucemia o se Dio ha commesso un piccolo errore di dicitura nella sua agenda, ma “Lucy” non vuole parlare con suo padre, ce l’ha a morte con lui, e così sei punto a capo e per come vanno le cose potresti rapinare una banca in stile La casa di carta e affrontare il carcere come le donne in Vis a Vis

Ne usciresti viva, anche se in età da pensione, ma la cosa non ti preoccupa perché se Grace e Frankie rinnovano la loro vita sessuale e incoraggiano l’utilizzo di giochi erotici, sai per certo che c’è ancora speranza per te. Così ti metti comoda e ti godi il tuo ingresso nella Hollywood dei tuoi sogni, ma sotto sotto lo sai bene che l’unica persona che vorresti essere in quel momento è Mary Poppins perché secondo lei basterebbe un poco di zucchero per mandare giù le tue pillole e in teoria dovresti stare molto meglio… 

Leggi l’episodio 5 – “Amicizia Che Va. Amicizia Che Viene

DPCM per una persona, grazie!

Sono stata la pioniera del lockdown! Quello che milioni di persone hanno vissuto nel 2020, io l’ho vissuto in anticipo con un’unica differenza: avevo un dpcm tutto mio!

Ovviamente la cosa mi ha devastato. Non bastava aver ricevuto la notizia che la leucemia aveva deciso di interferire nella mia vita, ma dettava pure legge! La mascherina ffp2 era diventata una normale estensione del mio viso. 

Il distanziamento dalle persone era determinato dalla salute fisica di chiunque volesse venire a trovarmi, ma era difficile stabilire se qualcuno fosse sano al 100%, anche se a giudicare dai telefilm a tema medico potrei essere il primario di qualsiasi nosocomio italiano.

In ogni caso, questo mio status mi ha costretto a un distanziamento non solo fisico, ma anche sociale. Se volevo comunicare con qualcuno, la modalità più “sana” era tramite una videochiamata.

Gel disinfettanti hanno preso posto nella trousse e fatto sparire ombretti e gloss. Una tristezza infinita, insomma, anche se forse un briciolo di positività lo posso annoverare all’alimentazione che mi è stata imposta: povera di sale e carboidrati, il sogno di ogni aspirante modella, è stata la prima volta che ho seguito una dieta senza sgarri!

 E il menù che mi veniva presentato ogni giorno era eccitante quanto un Fantozzi in mutande e quel poco che potevo concedermi doveva essere pure in linea con i farmaci, altrimenti rischiavo effetti indesiderati. Non potevo godermi il tramonto in cima alla Basilica Palladiana e nemmeno salire su un autobus o andare in palestra: troppi contatti e quello sbagliato poteva compromettere la mia situazione e aggiudicarsi il premio di “effetto letale”. 

E, come se non bastasse, dovevo rispettare l’ordine e la quantità delle medicine da assumere: la cosa mi faceva sentire come  Sara Goldfarb In Requiem for a Dream! Alla fine quella impazzisce per davvero, quindi immaginate con quale stato d’animo deglutivo ogni singolo farmaco. E come lei, ogni tanto mi ritrovavo in posizione fetale a pensare a quando avrei potuto uscire di nuovo con gli amici, a chiacchierare in un locale, tornare a casa la sera tardi, mangiare una pizza farcita con una birra fresca. 

Pensavo a tutto questo quando non piangevo…
Il mio dpcm non aveva una scadenza. Quelle regole erano fatte per essere eseguite fino a data da destinarsi.
E ad oggi le seguo ancora.

Leggi l’episodio 4 – “Film Fantastici E Dove Trovarli

Leucemia’s got talent!

Ho superato diversi esami, alcuni con voti niente male, ma quello che ho passato con un dieci e lode è stato il più inaspettato. Il 9 maggio 2019, quando ho varcato la soglia dell’ospedale, mai avrei pensato che stavo calpestando il pavimento della mia futura casa, perché in quell’ospedale avrei passato un lungo periodo, nutrendo la speranza di uscire solo in un modo: viva.

Mi sono presentata al pronto soccorso per dei dolori alla schiena e alla gamba destra. Nervosa e perfino scocciata di essere lì, ero pronta a sorbirmi la sintesi del dottore di turno che mi comunicava di non preoccuparmi e di prendere un paio di antidolorifici al giorno, a stomaco pieno, ma con mio stupore, mi hanno diagnosticato una trombosi a entrambe le gambe. Causa: leucemia.

Senza avere il tempo di elaborare la notizia, sono stata trasferita al reparto di ematologia. Hanno effettuato l’ago aspirato e una biopsia per valutare la mia situazione e da quel momento è iniziato il mio declino fisico e mentale. Sì, avete capito bene, declino… perché dopo tre ricoveri composti da nausea, stanchezza, sacche di sangue e piastrine, variazione del gusto e dell’olfatto e contatto umano limitato, non c’è altro a cui si possa pensare.

In quel periodo il mio senso dell’umorismo era stato spazzato via come un pezzo di carta quando si tira lo sciacquone, ma col tempo avevo iniziato a pensare a quell’esperienza come a una lunga permanenza nell’hotel più strano che avessi mai visto.

Alla mattina, il personale ti svegliava per rifare il letto. Lenzuola bianche e fresche di lavanderia venivano sostituite in meno di cinque minuti, come se l’andamento della malattia dipendesse da quello. Poi seguivano la misurazione della febbre, della pressione, analisi del sangue.

Il programma era lo stesso ogni giorno, senza variazioni. Poi era il turno dei dottori che si fermavano ai piedi del letto e ti chiedevano come stavi mentre consultavano la cartella contenente tutte le informazioni sul tuo caso. Praticamente un’interrogatorio, proprio come fossi sotto accusa: “Come si sente oggi?” oppure “Qualche sensazione diversa rispetto a ieri?” o ancora “Ci dica ogni singolo cambiamento che ha percepito, potrebbe essere fondamentale!”. Avevo giusto quel pizzico di ansia che mi assaliva come l’orso con DiCaprio nel film Revenant – Redivivo.


Ogni volta che capitava a me, andavo in confusione: temevo di dire una cosa sbagliata o sentirmi dire che un nuovo problema era appena insorto a peggiorare la mia situazione. Delle volte, forse come meccanismo di difesa, non riuscivo a pronunciare nemmeno una parola. Iniziavo a parlare e mi interrompevo perché dimenticavo cosa volevo dire e in quei momenti accettavo “l’aiuto da casa”, ovvero della mia vicina di letto, che proseguiva la frase per me, con convinzione.


Non potevo mettere nemmeno un piede fuori dalla stanza se non per eseguire gli esami di routine e sempre scortata dalle operatrici sanitarie, le famose “OSS”. Una cosa positiva però c’era ed era il momento in cui i volontari AIL passavano a trovarci. Era come trovarsi in un villaggio turistico con gli animatori che provano a coinvolgerti in balli di gruppo o lezioni di surf, solo che nel nostro caso le attività erano più limitate.

Ci fornivano riviste o fumetti e potevamo concederci qualche delizia dal bar senza esagerare; ogni tanto si fermavano anche solo per fare due chiacchiere ed era una bella cosa perché il tempo in ospedale non passa mai. Lo ripeto, mai!

Dopo un po’ mi sono abituata a questa situazione e quando finalmente era diventata più che sopportabile, la leucemia ha ben pensato di premiare la mia pazienza con un bel problema agli occhi e per un attimo ho pensato “qui finisce come nel film Anna dei miracoli…”.

Leggi l’episodio 3 – “DPCM Per Una Persona, Grazie!

Pronti. Partenza. Respira!”

Se un giorno mi avessero detto che la mia “best friends forever” sarebbe stata la leucemia, avrei preso meno per il culo Paris Hilton e il suo reality show dove cercava l’amica del cuore.

Qual è stata la prima cosa cui ho pensato dopo aver saputo della malattia? Che ero sfigata!

E la seconda? Il primo che mi propone film come Tutta colpa delle stelle propinandomi cazzate su “l’amore oltre la malattia” lo faccio secco! Scherzo, tra l’altro il film è bellissimo!

Detto ciò, ho visto la parola “fine” alla mia vita perché ne iniziava una nuova, senza che l’avessi richiesto. E come ogni momento di sconfitta, mi sono ritrovata non solo a viaggiare controcorrente, ma a rivalutare ogni dettaglio della mia vita che davo per scontato. Una parentesi mi allontanava dai cari amici e gli amati spritz. Non potevo più lavorare e l’università è diventata un vago ricordo; avevo la stessa voglia di studiare che avevo alle elementari. Attendevo la campanella suonare la fine della giornata per correre fuori urlando neanche fossi Mel Gibson in Braveheart. Già all’epoca assaporavo con passione ogni briciolo di libertà!

L’ospedale è diventata la mia seconda casa per tutte le ore passate al suo interno: sapevo quando entravo, ma non quando uscivo; proprio come succedeva col mio parrucchiere! Mattina, pomeriggio, sera o anche notte. Passavo così tanto tempo lì dentro da essere certa che a breve ci avrei ricevuto persino la posta. Ma sapete una cosa?

Se la sofferenza si fosse limitata al mio corpo, forse avrei potuto stringere i denti e portare pazienza, perché ciò che ti porta lentamente all’annientamento è scoprire che la tua famiglia dipende da te. Sentire il corpo malato che non risponde a un semplice movimento non sarà mai paragonabile al viso stanco di mia madre, al suo sussultare ogni volta che il telefono suonava, alla bocca che sorrideva quando gli occhi volevano solo piangere. L’unica cosa che per me è diventata vitale è stato respirare. Fino a quando lo facevo, ero sicura di essere ancora viva… 

Leggi l’episodio 2 – “Leucemia’s got talent!

Wanted Stories 2°edizione

Qui di seguito trovi tutti i racconti scritti e letti durante gli eventi Wanted Stories realizzati a Vicenza nel 2023 in diverse location nel panorama vicentino.

WANTED STORIES ⸺ Capitolo 11

“Sostenibilità e Viaggio?”
Da un lato il tema “La sostenibilità secondo i nuovi vicini“. Nel quartiere sono arrivati dei nuovi dirimpettai e con loro anche una personale visione riguardo alla sostenibilità ambientale. Chissà come avverrà l’incontro con il quartiere…

Dall’altro, il tema “Un viaggio dalla periferia al centro“. Il percorso da un punto all’altro di una città può essere un quotidiano tragitto a ostacoli, da affrontare con coraggio e determinazione. Cosa sarà d’aiuto? Cosa si frapporrà tra chi viaggia e la destinazione?

Giovedì 23 e 30 marzo 2023
Cooperativa Sociale “Insieme”, Vicenza
Villa 6 Sharing Bar, Thiene

WANTED STORIES ⸺ Capitolo 10

“Consumismo e priorità del futuro”
Da un lato il tema “Fuori il vecchio, dentro il nuovo“. L’armadio straripa di indumenti. La credenza di tazzine e la libreria di libri. Il consumismo regna sovrano! 

Dall’altro, il tema “Le nuove priorità“.  Benvenuti nel secolo d’oro! Dove il sesso è gratis e l’amore costoso. Dove la pizza arriva più velocemente di un’ambulanza. Dove perdere il telefono è più doloroso che perdere la verginità. Dove la lealtà è un lusso, la menzogna una moda e il tradimento intelligente. 

Giovedì 20 e 27 aprile 2023
Cooperativa Sociale “Insieme”, Vicenza
Villa 6 Sharing Bar, Thiene

WANTED STORIES ⸺ Capitolo 9

“L’arte di perdere”
La bellissima poesia di Elizabeth Bishop recita “[…] l’arte di perdere non è difficile da imparare; così tante cose sembrano pervase dall’intenzione di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro. Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta il turbamento delle chiavi perdute, dell’ora sprecata. L’arte di perdere non è difficile da imparare […]”.

Come può essere vissuta questa “arte della perdita” quando ciò che si è perduto aveva un forte valore affettivo? Possiamo perdere questi oggetti e accettarlo con serenità?

Giovedì 18 e 25 maggio 2023
Cooperativa Sociale “Insieme”, Vicenza
Villa 6 Sharing Bar, Thiene

WANTED STORIES ⸺ Capitolo 8

Il potere della tecnologia
La tecnologia oramai ci ha travolto. I nostri occhi e le nostre dita sono più volte al giorno attratte da un piccolo schermo che ci catapulta in diversi mondi virtuali. Senza accorgercene, teniamo chinato il capo in giù perdendoci cose ritenute banali come un’alba, un sorriso o una lacrima sul viso di una persona, un cielo stellato. Immagina di rimanere senza cellulare per un mese intero: cosa succede?

Scopri i racconti da tre punti di vista: boomer, millennials, gen Z!

Giovedì 15 e 22 giugno 2023
Cooperativa Sociale “Insieme”, Vicenza
Villa 6 Sharing Bar, Thiene

Wanted Stories 1°edizione

Qui di seguito trovi tutti i racconti singoli, e scritti a più mani, che abbiamo letto durante gli eventi Wanted Stories realizzati a Vicenza tra il 2019 e il 2020 in diverse location nel panorama vicentino.

WANTED STORIES ⸺ Capitolo 7

“Arte o Artista?”
Un racconto ambientato in un teatro.
L’input di partenza è un’opera dell’artista Banksy intitolata Sweeper, a cui abbiamo attribuito la seguente frase per dare il via al racconto: “Spazziamo tutto quanto sotto il tappeto con una bella pacca sulle spalle, un sorriso e del buon champagne per allentare la tensione. Abbiamo problemi qui? Non credo! Perché se li avessimo basterebbe cacciare un po’ di soldi. Tanto tutti sappiamo che non c’è niente che non si può comprare…”.

Venerdì 18 Settembre, 21:00
Cooperativa Sociale “Insieme”, Vicenza

Locandina di Wanted Stories Capitolo 6
WANTED STORIES ⸺ Capitolo 6

“Fotografia”
Un racconto tra il mistero e la suspense, ambientato nell’ex ospedale psichiatrico di Granzette, a Rovigo. Una struttura che abbiamo visitato di persona, alla ricerca di dettagli per la nostra storia. L’input di partenza è una frase tratta dal film “Shutter Island” con Leonardo di Caprio: “Una volta che sei dichiarato pazzo tutto quello che fai è considerato parte di quella pazzia: le ragionevoli proteste sono negazioni, le paure giustificate, paranoia. L’istinto di sopravvivenza… meccanismi difensivi”.

Venerdì 18 Settembre, 21:00
Cooperativa Sociale “Insieme”, Vicenza

Locandina di Wanted Stories Capitolo 5
WANTED STORIES ⸺ Capitolo 5

“Amore & Erotismo”
Ispirati da questo tema, abbiamo dato vita a un racconto piccante e ricco di emozioni. L’input di partenza è una frase tratta dal racconto “Scirocco” e parte dell’antologia Uccellini dell’autrice Anais Nin. La frase è la seguente: “Incominciai a sentire rumori che venivano dalla stanza vicina, come di corpi che lottavano. Sentivo il fruscio delle stuoie, occasionalmente un mormorio soffocato. All’inizio non mi resi conto di cosa si trattasse. Una volta, mi alzai silenziosamente e aprii la porta…”

Venerdì 4 settembre, ore 21:00
Teatro San Marco, Vicenza

Locandina di Wanted Stories Capitolo 4
WANTED STORIES ⸺ Capitolo 4

“Xmas Special”
Per questo Cadavere Squisito abbiamo scelto tra le vostre proposte un mestiere con una caratteristica, un oggetto, una frase d’effetto.

La storia è composta esclusivamente da dialoghi – ad eccezione dei finali – e come sempre è il pubblico a scegliere il finale vincente!

 

Venerdì 13 dicembre, ore 21:00
Falegnameria Bellavitis, Vicenza

Locandina di Wanted Stories Capitolo 3
WANTED STORIES ⸺ Capitolo 3

“Un gioco di carta e penna”
Pensato da 3 autori, scritto a 6 mani; un breve racconto steso in maniera non convenzionale. Ogni autore ha un turno da rispettare, ogni volta la storia prende una svolta diversa.

Il finale solitamente è uno solo, l’ultimo turno lo scrive, ma per Wanted Stories ogni autore ne ha pensato uno e, caro pubblico, sarai tu a votare il finale che andrà letto!

 

Venerdì 15 novembre, ore 21:00
Falegnameria Bellavitis, Vicenza

Locandina di Wanted Stories Capitolo 2
WANTED STORIES ⸺ Capitolo 2

“Edizione Interattiva”
Questa volta gli autori mettono un bivio: sta al pubblico scegliere lo svolgimento della storia.

Il protagonista, una situazione o un particolare momento si svilupperanno secondo l’opzione proposta da ogni autore e più gradita a voi!

I finali saranno sempre tre e anche in questo caso la scelta sarà vostra!


Venerdì 11 ottobre, ore 21:00
Falegnameria Bellavitis, Vicenza

WANTED STORIES ⸺ Capitolo 1: Cadavere Squisito

“Un gioco di carta e penna”
Pensato da 3 autori, scritto a 6 mani; un breve racconto steso in maniera non convenzionale.
Ogni autore ha un turno da rispettare, ogni volta la storia prende una svolta diversa.

Il finale solitamente è uno solo, l’ultimo turno lo scrive, ma per Wanted Stories ogni autore ne ha pensato uno e, caro pubblico, sarai tu a votare il finale che andrà letto!

Venerdì 13 settembre, ore 21:00
Falegnameria Bellavitis, Vicenza

La fuga

Potrei iniziare a raccontare la mia storia partendo da quella mattina, il giorno in cui feci tardi al lavoro. Non fu colpa mia: la notte precedente il gatto fece cadere il mio cellulare, che si ruppe. Così non suonò la sveglia e mi alzai mezz’ora dopo. Mi preparai in fretta e corsi in ufficio. Avevo un appuntamento con un cliente, ma non potendo ricevere la notifica sul mio smartphone, me ne dimenticai e solo quando arrivai allo studio mi resi conto dell’errore. Come se non bastasse, fu molto complicato trovare l’indirizzo al quale dovevo recarmi e chiesi a dei passanti di darmi una mano. Le loro indicazioni, però, si rivelarono confusionarie e contrastanti. Uno di loro mi rispose pure in modo sgarbato: «Ma non puoi cercare su internet invece di disturbarmi?».

Magari! pensai, mentre ripartivo sconsolato sulla mia auto. 

L’appuntamento non andò male, ma più di una volta mi ritrovai a tastare la tasca dove di solito tenevo il cellulare: mi sembrava di sentire una vibrazione o un accenno di suoneria.

Terminato l’incontro, presi la macchina e mi diressi al negozio di elettronica per comprare un nuovo telefono ma, arrivato al parcheggio, mi resi conto di essere completamente rilassato: non ricevevo e-mail o chiamate da ore, mentre di solito ne venivo sommerso.  

L’appuntamento non andò male, ma più di una volta mi ritrovai a tastare la tasca dove di solito tenevo il cellulare: mi sembrava di sentire una vibrazione o un accenno di suoneria. Terminato l’incontro, presi la macchina e mi diressi al negozio di elettronica per comprare un nuovo telefono ma, arrivato al parcheggio, mi resi conto di essere completamente rilassato: non ricevevo e-mail o chiamate da ore, mentre di solito ne venivo sommerso.  

Invece di scendere dall’auto, rimasi seduto, godendomi quei minuti di tranquillità. Mentre mi rilassavo, gli edifici intorno a me sparirono. Immaginai me stesso partire senza una meta precisa, come un moderno Mattia Pascal: libero e irraggiungibile. Potevo stare giorni senza cellulare! Anzi, un mese intero! Avevo la sensazione che trascorsi i trenta giorni mi sarei abituato e non ne avrei avuto bisogno mai più.

Guidai per circa dieci minuti, quando mi resi conto che non avevo pensato a Romeo: chi gli avrebbe dato i croccantini? Che avrebbe fatto dopo aver terminato la sua ciotola d’acqua? Potevo però rimediare un cat sitter nel frattempo. Misi una mano nella valigetta per cercarne uno dal cellulare, ma mi resi conto di non poterlo fare, ovviamente. Beh, ma mia sorella potrà prendersene cura, entro in questo bar e chiedo di poter fare una telefonata. Raggiunsi il primo che trovai lungo la strada, ma prima di entrare realizzai di non ricordare il suo numero!

Decisi che ci avrei pensato in seguito, sarei riuscito a contattarla da qualche social, cercando di collegarmi con il computer, sempre se fossi riuscito a farlo: molte password le avevo trascritte nello smartphone.  Sapevo che era il momento di partire e questi imprevisti non mi avrebbero fermato: avrei comprato una cartina e scelto dove andare. Avrei vissuto senza dover controllare il mio conto in banca quotidianamente, avrei tenuto a mente le spese. Avrei smesso di ordinare cibo dall’applicazione e sarei andato io al supermercato, avrei scritto lettere e…

«Matteo! Matteo!» disse Andrea, il suo collega, mentre bussava innervosito al finestrino della macchina. «Scendi subito! Non ti ricordi che ci eravamo dati appuntamento venti minuti fa per comprare il tuo nuovo cellulare? Ti dimentichi ogni cosa che non scrivi nell’agenda! Sono qui che ti aspetto e tu sei seduto a guardare il vuoto! Ma che fai, a cosa stai pensando?».
«Ciao Andrea, ehm… scusami, stavo pensando a… niente di importante».
«Allora sbrigati, andiamo a scegliere il tuo nuovo telefono che alle tre abbiamo una riunione e rischiamo di fare tardi».
«Certo hai ragione, andiamo…» disse Matteo, mentre si dirigeva verso il negozio.

un racconto di Giulia Stivanin per l’evento Wanted Stories [giugno 2023] sulla base del tema:

Il potere della tecnologia – La tecnologia oramai ci ha travolto. I nostri occhi e le nostre dita sono più volte al giorno attratte da un piccolo schermo che ci catapulta in diversi mondi virtuali. Senza accorgercene, teniamo chinato il capo in giù perdendoci cose ritenute banali come un’alba, un sorriso o una lacrima sul viso di una persona, un cielo stellato. Immagina di rimanere senza cellulare per un mese intero: cosa succede?

Io, tecnologica

Aveva sempre faticato molto ad abituarsi all’avvento del cellulare. Negli anni ’90, insieme ad altre persone, faceva parte della LAT: lega anti telefonino. Per qualche anno, aveva cercato di rimanere saldamente ancorata al telefono color grigio topo, quello con la girella per comporre i numeri. Non voleva abbandonare il fascino di quella forma, il ritmo lento, il bizzarro divertimento nel comporre un numero alla volta; e la rubrica cartacea che conteneva tutti i numeri che la memoria umana non poteva ricordare. Era resistita quanto aveva potuto, ma poi era arrivata anche lei a cedere alle comodità che la tecnologia offriva, per non sentirsi emarginata come una preistorica creatura che lottava contro l’avanzamento inesorabile della tecnologia.

Questa breve storia, che rimanda un po’ alle gesta di Don Chisciotte, parla di me. Sì, avete capito bene, proprio di me: Maria Teresa. Questo argomento sulla tecnologia mi riporta al tema che ho fatto alla maturità, più di trent’anni fa, ormai. Avevo scelto la traccia della robotica e della fantascienza per descrivere il tipo di impatto che avrebbero avuto nel nostro futuro. Ora, mi trovo nel futuro immaginato in quel passato. Vogliamo parlare delle prime comodità di cui ho goduto grazie al cellulare? 

Finalmente conversazioni private senza essere costretta a parlare sottovoce in corridoio. Eh sì, perché il telefono grigio topo aveva un filo attaccato alla parete e, se lo staccavi, cadeva la linea; per non parlare poi della rubrica memorizzata nel cellulare con annessa la foto del destinatario, così ho modo di capire subito con chi sto parlando perché, sapete, i contatti sono aumentati. Certo, la tecnologia ha ridotto le distanze geografiche: grazie ai messaggi è meno invadente entrare nella vita delle persone ma è sempre la qualità che fa la differenza, non la quantità. Ormai il cellulare è diventato la mia appendice, ho praticamente tutto lì dentro, come penso anche voi: l’app della banca, il registro scolastico, le e-mail, i canali di messaggistica, i siti per cercare qualsiasi cosa e organizzare pure i viaggi; google maps che ti porta dove vuoi, le foto, i video, le piattaforme cloud che ti permettono di lavorare ovunque e con qualsiasi dispositivo anche diverso dal proprio. Quale senso di libertà! Tutto a portata di mano.

Ecco, appunto, l’importante è che la gestione della tecnologia non sfugga di mano. Come tutte le cose è sempre l’uso che se ne fa a fare la differenza. Non ha senso demonizzare la tecnologia, l’ho capito quando ho imparato a usarla a mio vantaggio senza farmi fagocitare dal suo vortice di immagini, notizie, pubblicità a ritmi serrati che, se non si sta attenti, fanno perdere il senso del tempo. Se voglio vedere un posto, un tramonto, sentire gli uccelli che cantano o lo sciabordio delle acque del mare, esco di casa e vado a riprendermi il contatto con la realtà e le persone, perché non tutto è così reale come ci mostrano i vari social: tutti belli e felici e dall’altra parte i rosiconi. Uso il telefono per lavoro e per mantenere i contatti con le persone a me care. 

Sviluppando il mio progetto online ho fatto un percorso catartico, ho imparato che usando bene questi mezzi tecnologici, oltre ad acquisire nozioni per saperli usare, si può incappare inconsapevolmente in una grande crescita e conoscenza personale. Adesso come adesso, se rimanessi senza cellulare per un mese intero, mi sentirei persa; penso al tempo e alle energie che perderei per il disbrigo delle pratiche burocratiche che ora invece gestisco comodamente online. Per il resto, se lo farò accadere, potrei anche farne a meno: me ne starei seduta su una poltrona in riva al mare sotto le fronde di un bell’albero a rimirare i colori, ad assaporare i profumi, farmi accarezzare dalla brezza e perdere lo sguardo nell’immensità del mare ritrovando la serenità di vivere con poco, ma con tutto allo stesso tempo.

un racconto di Maria Teresa Cariolato per l’evento Wanted Stories [giugno 2023] sulla base del tema:

Il potere della tecnologia – La tecnologia oramai ci ha travolto. I nostri occhi e le nostre dita sono più volte al giorno attratte da un piccolo schermo che ci catapulta in diversi mondi virtuali. Senza accorgercene, teniamo chinato il capo in giù perdendoci cose ritenute banali come un’alba, un sorriso o una lacrima sul viso di una persona, un cielo stellato. Immagina di rimanere senza cellulare per un mese intero: cosa succede?

Il potere della tecnologia

“Mi chiamo Emanuela, ho quindici anni e frequento il liceo Galileo Ferraris a Torino. Abito in questa città da cinque anni, prima vivevo a Padova, ma ci siamo trasferiti grazie a una grande offerta lavorativa che mio padre ha avuto. Padova è una bellissima città, ma non quanto Torino che offre scorci davvero instagrammabili!”. 

È così noioso.
Emanuela non ha idee, si sente senza ispirazione e creatività; i temi non sono il suo forte.
«Bene, giù le penne, è ora di consegnare i temi».
Caspita, non ho scritto quasi niente.
«Emanuela, ho detto giù le penne».
«Sì, mi scusi». È abituata a questi fallimenti, soprattutto nelle materie linguistiche. Marta, sua cara amica, si avvicina: «Ella, di nuovo?!». Emanuela ama Marta, ma non sopporta quando le sta troppo addosso: la motiva spesso a impegnarsi di più, ma non è proprio una cosa da lei; ha altre cose più importanti a cui pensare.

«Dai Marta, basta! Stavolta non c’era niente da studiare!».
«C’erano degli schemi in realtà».
«Vabbè, non me ne frega». Marta annuisce svogliatamente, poi si dirige verso la finestra della classe. Emanuela, invece, prende subito il cellulare per controllare Instagram: alla vista di tante notifiche, sorride all’istante. Quella sensazione cambia totalmente le sue giornate.

Dopo la giornata a scuola, non vede l’ora di avviare la solita routine pomeridiana: pranzare, guardare Netflix, scorrere video su Tik Tok, postare su Twitter, chattare con amiche e amici, cenare e, come al solito, prendersi indietro con lo studio. Il mondo virtuale è per lei un rifugio sicuro, sa che lì può sentirsi a casa, accettata totalmente. Impegnata a guardare un video, alza lo sguardo alla vista dei genitori sulla soglia della camera.

«Ehi, tesoro» dice la madre appena entra nella stanza. Ha un tono tranquillo ma dispiaciuto allo stesso tempo. Emanuela chiede quale sia il problema: sia sua madre che suo padre sembrano diversi dal solito. «Emanuela, io e tua madre abbiamo notato un grande cambiamento in te. A tavola parli poco, ti chiudi in camera per ore ed è da un paio di mesi che non esci in compagnia delle tue amiche; siamo molto preoccupati». 
«Dove volete arrivare?».
«Abbiamo deciso di toglierti il telefono. Ti daremo momentaneamente quello vecchio di nonna. Inoltre, per gli impegni scolastici, sarai controllata da noi». Emanuela esplode. Urla e piange istericamente: tutto ciò che riesce a buttare fuori sono solo rabbia, dolore, frustrazione. I suoi genitori hanno deciso di toglierle l’unica cosa di cui le importi veramente qualcosa e che la fa stare bene. All’improvviso, si sente vuota. E ora come farò?

Il giorno seguente, ancora incazzata per l’assurda punizione, si avvia a piedi verso scuola, completamente rassegnata. Camminando lungo la via, nota un alberello in un parco che costeggia il percorso: le foglioline, illuminate dal sole, risplendono di un verde chiaro molto intenso nonostante i rami mostrino qualche segno di debolezza, ma trova quell’immagine davvero molto carina. Ecco, poteva essere una storia Instagram perfetta. Dannazione!

Al rientro da scuola, la cosa si ripete. Nota ancora l’alberello, ma anche un signore anziano che lo innaffia. Si avvicina e gli chiede se gli appartenga. «La natura non appartiene a nessuno, siamo noi che apparteniamo a lei». Quella frase risuona nella sua testa per tutto il pomeriggio, Noi apparteniamo a lei, ma viene interrotto dal suono del campanello: è Marta.
«Ella! Tutto bene? Non hai risposto ai miei messaggi!». 
«Marta, per fortuna che ci sei tu! I miei mi hanno sequestrato il telefono!». 
«Finalmente, era ora!» dice ridendo.
«Non sei simpatica per nulla» risponde Emanuela, l’aria seccata.
«Allora andiamo in un posto». 
«Uhm, dove?». 
«È una sorpresa!». 

Sedute su un telo, all’improvviso una grande libellula passa veloce vicino a loro.
«Oddio! Che schifo!».
«Emanuela, è solo una libellula! E poi, come può farti schifo un essere così meraviglioso?».
«Mi fa schifo e basta. Cosa mi volevi mostrare?».
«Questo» dice Marta, indicando il lago. Emanuela sta per rispondere, ma l’amica la zittisce, dicendole semplicemente di osservare. Così, si guarda intorno con più attenzione: non vede nulla di speciale, ma poi viene attratta da un piccolo fiore, i cui colori brillano sotto i raggi del sole. Da lì, inizia a notare sempre più cose: i sottili rami di un grande albero mossi dal vento , un cane che corre felice con il suo padrone, il suono dell’acqua che scorre, il calore del sole sulla pelle. Tutto questo le fa provare uno strano sentimento. «Senti che pace, Ella. Questo è quello che si prova quando si è presenti nel momento» dice Marta, quasi leggendole nel pensiero. Wow!

La giornata al lago è così significativa per Emanuela, che decide di passare più tempo all’aria aperta con amici e famiglia. L’essere più presente nel momento l’ha aiutata a migliorare con la scuola, a dedicare più tempo a se stessa, modificando anche la sua tanto amata routine. È è grata per tutto, ma non ce l’avrebbe mai fatta senza la sua cara amica.

“Mi chiamo Emanuela, ho diciassette anni e frequento il liceo Galileo Ferraris a Torino. Sono una ragazza piena di passioni e di hobby, ora, e amo trascorrere il mio tempo all’aperto, in particolare con me stessa. Dopo anni, la mia vita ha preso una svolta magnifica e ne sono immensamente grata”.

«Ella!» urla Marta, felice, dall’altra parte della classe. 
«È andata bene?». 
«Sì! A te, invece?».
«Ho preso 9, Marta!» risponde, orgogliosa. 
«Cosa?! Fantastico!» esclama l’amica, sorpresa di quel voto. «Sono contenta che ti sei risvegliata!» e la avvolge in un grande abbraccio. «Anch’io Marta, anch’io».

un racconto di Emma Noardo per l’evento Wanted Stories [giugno 2023] sulla base del tema:

Il potere della tecnologia – La tecnologia oramai ci ha travolto. I nostri occhi e le nostre dita sono più volte al giorno attratte da un piccolo schermo che ci catapulta in diversi mondi virtuali. Senza accorgercene, teniamo chinato il capo in giù perdendoci cose ritenute banali come un’alba, un sorriso o una lacrima sul viso di una persona, un cielo stellato. Immagina di rimanere senza cellulare per un mese intero: cosa succede?

A memoria

C’è stato un tempo in cui ero molto legato alle cose, in modo quasi maniacale, ad ogni oggetto apparentemente banale che, per me, diventava speciale in quanto legato a un ricordo, a un posto, a un attimo che non sarebbe tornato più. Così conservavo gelosamente un sasso, il biglietto di un concerto, un gufo di terracotta, una t-shirt e chissà quante altre cianfrusaglie, perché ero convinto che trattenessero un ricordo che altrimenti sarebbe stato smarrito per sempre. Poi, un giorno, non sono più riuscito a trovare una foto a cui tenevo molto. Era lo scatto di un amore.


Eravamo a casa sua poco prima di Natale, sul divano. Ho ancora negli occhi quel momento: aveva i capelli sciolti, il maglione rosso e teneva in mano la sua tazza preferita. Il vinile girava nel piatto suonando Blue Valentine di Tom Waits e fuori dalla finestra iniziava a fioccare l’illusione di una nevicata. Quando non l’ho più trovata mi sentivo perso. Pensavo che la memoria di quella donna, senza quella foto, sarebbe andata irrimediabilmente persa fino a non riuscire più a ricordarne i tratti e avrei finito per dimenticarla. Non sapevo cosa fare. Ho rovistato ovunque in preda a una cieca frenesia. Ho sfogliato libri, scatole e cassetti. Ho messo sottosopra ogni angolo. Poi, al culmine della disperazione, ho preso un foglio e una matita e ho provato a disegnarla. L’ho dipinta a memoria, quasi a occhi chiusi, nella luce soffusa dell’atelier dell’anima. E lo sguardo che compariva era proprio il suo: sue le labbra curve in un lieve accenno di sorriso, suo il collo sinuoso e la ciocca di capelli scomposta appoggiata alla guancia. Sembrava perfino più bella. 

Quando ho messo giù la matita, quello che c’era su quel foglio era quasi migliore della foto smarrita. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quel disegno. Un brivido improvviso mi ha scosso mentre sfioravo con le dita quel viso anche solo sulla carta, sui tratti precisi del mio ricordo. Allora ho capito che, se qualcosa è stato davvero importante, è impossibile dimenticarlo. Che il cuore è un setaccio di echi e immagini intrecciate su un telaio di robusta trasparenza per filtrare tutto ciò che è stato e, nella fitta trama, rimane solo quello che conta mentre il resto gocciola a valle, lungo il ruscello che scorre lentamente verso l’oblio. Ѐ stato in quel momento, forse, che ho realizzato che non è dentro un oggetto che si nascondono i ricordi ma che, quell’oggetto, potrebbe essere solo una semplice scusa per farli tornare a galla dalle buie profondità del ieri, fino alle increspature d’onda che riflettono il sole odierno.

Non ho smesso del tutto di conservare qualcosa che mi riaccompagni per mano in un posto che ho amato o a un momento particolare. Ma ora so che ciò che conta veramente rimane per sempre dentro di me, nei tortuosi corridoi tra mente e cuore. Ѐ solo per le banalità che serve una nota nell’agenda o un nodo al fazzoletto, come per la spesa può tornare utile scrivere una frettolosa lista, ma quello, in fondo, non può certo chiamarsi scrivere.

un racconto di Massimo Donà per l’evento Wanted Stories [maggio 2023] sulla base del tema:

L’arte di perdere – La bellissima poesia di Elizabeth Bishop recita “[…] L’arte di perdere non è difficile da imparare; così tante cose sembrano pervase dall’intenzione di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro. Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta il turbamento delle chiavi perdute, dell’ora sprecata. L’arte di perdere non è difficile da imparare […]”. Come può essere vissuta questa “arte della perdita” quando ciò che si è perduto aveva un forte valore affettivo? La lettera di un amante, il ricordo di un viaggio di gioventù, il maglione ereditato da un nonno affettuoso. Possiamo perdere questi oggetti e accettarlo con serenità?

I portaoggetti

«Sai nonno, ho comprato dei portaoggetti, dei dischi bianchi concavi. Vieni a vederli, ti piaceranno!». Il nonno seguì Luca ed entrò nel salotto. Sparsi per tutta la stanza, sui mobili, vide i dischi bianchi che contenevano le cose più disparate: auricolari, tablet e quattro contenenti due paia di scarpe nuove, una calzatura per recipiente. Nel vedere la scena, ebbe un sussulto. Poi rimase immobile per qualche secondo, e scoppiò a ridere. Era nato nel 2001, e vedere quegli oggetti che da ragazzino usava quotidianamente gli aveva fatto fare un tuffo nel passato.  

«Luca, se mia madre ti avesse visto usare i piatti in quel modo si sarebbe sentita male» disse al nipote. «Davvero li conosci? E per cosa li usavi?». 
«Per il cibo!» esclamò «Non li vedo da molto tempo e non ti posso certo biasimare per averli usati così. Penso di aver buttato gli ultimi verso la metà degli anni 50». 
«Quindi come si faceva, si comprava il cibo al supermercato e si metteva lì?».
«Esatto. Spesso cucinavamo noi a casa e li usavamo come contenitori». Notando lo sguardo perplesso del nipote, continuò la spiegazione: «È stato il risultato della politica economica degli anni 30, da allora il cibo viene cucinato quasi solo in grandi pentoloni e poi venduto nei supermercati».

Mentre parlava, prese in mano un piatto, e cominciò a osservarlo, rigirandolo tra le mani.
«Si voleva evitare di sprecare il gas nelle singole abitazioni, quindi i politici avevano caldamente consigliato di smettere di cucinare. E sai come sono questi consigli… In fin dei conti rimane solo lo spreco di plastica degli imballaggi, ma poi si riciclano!». Terminato di dire questo, si zittì, e iniziò a pensare alla sua adolescenza: ricordò l’odore del ragù che bolliva, il piatto pronto in tavola… Ma il pensiero fu presto interrotto dal commento stupefatto di Luca.

«Ogni giorno a cucinare, che incubo! Certo che ci potevate pensare prima, non è un’idea così difficile!».
«Non si trattava di questo» rispose il nonno stizzito «il cibo lo potevamo comprare anche noi già pronto. Ma era più costoso e inoltre era divertente cucinare».
«Divertente? Non penso proprio! Preparare il cibo e dover pensare a cosa fare ogni giorno? È molto meglio quando tutto è già pronto e pensato per te!» rispose Luca.
«Non è solo quello» esclamò suo nonno alzando la voce e cominciando a parlare più velocemente «era una questione di poter scegliere da soli, invece di seguire i programmi del governo».
«Ti lamenti sempre di quei programmi, ma poi li segui! Alla fine ora è tutto molto più comodo» gli rispose Luca con tono pacato, mentre dava un’occhiata ai social sul telefono.
«Nonno, ma sono già le due, devo proprio scappare! Che peccato però, mi piace sempre sentirti raccontare queste stranezze del passato. Ci manca solo che la prossima volta tu mi dica che sprecavate l’acqua e il sapone per lavare i vestiti, invece di riciclarli e comprarne di nuovi!» gli disse ridendo, mentre rispondeva a un messaggio dal cellulare e usciva dalla porta.

Rimasto solo, il nonno osservò il piatto che teneva ancora tra le mani. Guardò il forno, che usava esclusivamente per riscaldare il cibo pronto. Potrei cucinare!, pensò: Mi piaceva fare le torte! Oppure anche la carne arrosto, posso ordinare tutto e prepararla. Iniziò a cercare le ricette online e aprì il sito per ordinare gli ingredienti, ma si imbatté nella lista di pietanze pronte, che gli sarebbero state consegnate in dieci minuti. Però è già ora di pranzare, ci vorrebbe troppo tempo. Ma sì, oggi compro tutto già pronto, casomai ci provo domani a cucinare, se ne ho voglia! 

un racconto di Giulia Stivanin per l’evento Wanted Stories [aprile 2023] sulla base del tema:
Fuori il vecchio, dentro il nuovo – L’armadio straripa di indumenti. La credenza accoglie una serie infinita di tazzine. La libreria è impolverata di libri che vogliamo leggere da un anno. Il consumismo regna sovrano! Ce la farà qualcuno a salvarsi?

Benvenutə al mondo!

Un ragazzo in bicicletta sfreccia lungo le strade trafficate. Pedala a ritmo di musica, supera gli ostacoli con agilità; la bici è quasi un’estensione del corpo. La rotatoria che sta per raggiungere pare un girone infernale: è tutta una questione di secondi. Cambia marcia, pedala veloce quasi volesse librarsi nell’aria, entra nel cerchio dannato fatto di automobilisti incazzati, clacson fuori controllo, bestemmie. Taglia la strada a un’ambulanza e d’istinto porta una mano alla schiena: il pacco è al sicuro. Suona il campanello, consegna le pizze e attende con ansia l’esito: cinque stelle! Ѐ così felice da non fare caso al mezzo che ha mandato fuori strada poco prima. I lampeggianti girano ancora, ma il suono è assente. Una gomma è bucata e all’interno qualcuno preme forte sul petto di una persona.

Un trentenne è in procinto di affrontare un colloquio di lavoro. Completo, camicia, cravatta, orologio nuovo. “Oh no, è tardi!”. Si affretta a salire in auto, ma il motore non dà segni di vita. “Merda!”. Corre al tabacchino, acquista un biglietto dell’autobus, poi decifra gli orari appesi alla fermata; il latino, in quel momento, pare una passeggiata. L’autobus arriva: più che un mezzo pubblico sembra un flusso temporale connesso a un paese straniero. Scende alla sesta fermata, con foga, ma svoltato l’angolo di un palazzo si scontra con una ragazza che gli rovescia addosso un bicchiere di caffè. L’ustione di primo grado cede il posto al nervoso. La giacca è fradicia. Se ne libera, rimarrà solo in camicia. Affretta il passo, raggiunge l’entrata, ma un lembo della camicia si impiglia al pomello; una ferita da coltello farebbe meno male. Rimane in t-shirt e pantaloni eleganti. Non importa il suo aspetto, ciò che conta è la motivazione. Si presenta alla segreteria, gli dicono di attendere. Pochi istanti dopo, gli comunicano che il posto è già stato assegnato, ma si chiede perché un ragazzo, in giacca e cravatta, venga fatto accomodare subito dopo di lui.

Arriva sempre alla stessa ora. Lo accoglie in vestaglia, truccata, anche se lui non ci baderà. Lo fa accomodare e lo osserva fare sempre le stesse cose da un anno: china il capo con rispetto, toglie le scarpe, allunga un pacchetto. Prende posto a sedere sulla poltrona, lei siede di fronte e versa il tè, scarta la sorpresa: una millefoglie. Le chiede come sta, le racconta del tempo, delle ultime news dal mondo, del traffico. Inizia sempre così, come fossero amici che non si vedono da tempo. Dedica solo gli ultimi minuti alla moglie e quando lo fa, ne parla come fosse una malattia. Non si smentisce mai: se ne esce sempre dicendo che mentire e ignorare il tradimento altrui è più facile ed economico. Paga e se ne va.

A quel punto, lo schermo si spegne. L’operatore volge lo sguardo alla persona di fronte a lui. Sfoggia un sorriso che stona con quanto appena visto e parla come se avesse mostrato un film esilarante.

«Dunque, signor Mattei, in linea di massima questa è la vita sulla terra. C’è molto altro da scoprire, ma l’amministrazione non concede troppi spoiler! Ѐ previsto che lei nasca tra nove mesi, ma oggi possiamo offrirle una promozione: potrà venire al mondo una settimana prima. Che altro dire?». L’uomo osserva con attenzione un fascicolo. «Ah, sì: sua madre è vegana quindi non si aspetti di mangiare carne molto presto. A volte fuma, quindi non si allarmi per l’odore di bruciato: il pancione non sta andando a fuoco. Non soffrirà di gravi malattie, sarà allergico alle noci e… oh, ma guardi, camperà fino a novant’anni. Perbacco! Allora, quando è pronto, barri la casella per scegliere il momento della nascita».

«Mi scusi» chiede esitante il signor Mattei, rigirando più volte il foglio tra le mani «non trovo la casella con scritto Mai!».

un racconto di Linda Moon per l’evento Wanted Stories [aprile 2023] sulla base del tema:
Le nuove priorità – Benvenuti nel 21°secolo! Dove il sesso è gratis e l’amore costoso. Dove la pizza arriva più velocemente di un’ambulanza. Dove perdere il telefono è più doloroso che perdere la verginità. Dove i vestiti determinano il valore di una persona. Dove la lealtà è un lusso, la menzogna una moda e il tradimento intelligente. Oh, e l’onestà un difetto!

Scosse

Una violenta scossa di terremoto, alle 7.02 del mattino, svegliò la piccola comunità di collina e fece correre in strada tutti gli abitanti della via dove abitava la moglie del meccanico del paese; la signora Maria.

Era un personaggio insolito, diverso. Non era nativa del posto. Era arrivata lì solo dopo aver sposato Luigi, che l’aveva lasciata vedova già da diversi anni. Dopo la morte del marito, si era allontanata sempre più dal resto della comunità. Trascorreva il suo tempo nella casa dove era rimasta sola e dove non era entrato più nessuno.

In tanti avevano notato che i volantini della sagra del paese restavano per giorni interi sotto al portico di quella casa, fino a quando il vento non li portava altrove, così come succedeva spesso a tutta la posta che riceveva. Le tende alle finestre, un tempo sempre aperte, ora erano spesso tirate e lasciavano al buio l’interno dell’abitazione.

 

Ogni abitante rispettava il suo dolore, assistendo a tutto questo senza intervenire. Eccetto per le poche volte in cui la si incontrava rientrare dalla spesa, carica di borse stracolme, ci si era abituati alla sua assenza; a tal punto che anche la mattina della scossa di terremoto, passato lo spavento, tutti rientrarono nelle proprie case senza accorgersi della sua mancanza. Solo la dirimpettaia, guardando la casa di Maria dalla finestra, venne assalita dal timore che fosse successo qualcosa, decidendo poi di andare a suonare il campanello. 

Al terzo tentativo senza risposta, la donna allertò gli altri vicini che ben presto si ritrovarono di nuovo in strada, questa volta tutti davanti alla casa di Maria. Tutti insieme, spaventati, e forse anche un po’ consapevoli di averla dimenticata. In quel silenzio totale, davanti a una porta che non si apriva e alle finestre serrate, capirono che forse avevano aspettato troppo a lungo.

Non fu facile nemmeno per i vigili del fuoco entrare all’interno di quella casa. Gli accessi erano ostruiti, così come tutte le finestre. Servirono attrezzature speciali per aprire un varco. Lo scenario che si presentò all’interno lasciò tutti ammutoliti. La signora Maria aveva cercato di riempire con qualunque oggetto tutti gli spazi vuoti delle stanze.

 

Libri. Riviste. Scatole. Vestiti. Scarpe. Pentole. Vasi. Quadri. Stoviglie. Coperte. Ogni cosa era stata minuziosamente conservata e aveva trovato, in qualche modo, posto in casa. Infiniti strati di abiti sopra a stoviglie ammucchiate. Bottiglie impilate tra loro, bloccate precariamente da pile di giornali. I mobili avevano perso la loro funzione primaria. Non era chiaro dove terminasse il pavimento e iniziassero le pareti. Quello scenario avrebbe procurato un immediato senso di soffocamento a chiunque. A Maria, forse, serviva per non soccombere. 

La scossa di terremoto aveva fatto crollare tutto e non si trovava traccia del corpo di Maria. Tutti si diedero da fare a spostare gli oggetti caduti a terra nella speranza di trovarla viva sotto le macerie di quella solitudine. La speranza di ritrovarla viva era per tutti anche la speranza di recuperare il senso di vita della comunità; e la solidarietà che li aveva sempre contraddistinti.

E lì, tra quella montagna di cose confuse, accumulate senza un senso, Maria c’era. Viva, protetta dalla scossa proprio da quello strato di materia che finalmente la stava liberando dalla sua solitudine.

un racconto di Ugo Domeniconi per Wanted Stories [aprile 2023] sulla base del tema: 
Fuori il vecchio, dentro il nuovo – L’armadio straripa di indumenti. La credenza accoglie una serie infinita di tazzine. La libreria è impolverata di libri che vogliamo leggere da un anno. Il consumismo regna sovrano! Ce la farà qualcuno a salvarsi?

 

Ritorno alla natura

Mi sono svegliata con un mal di testa pazzesco.
Mi trascino in bagno.
Mi guardo allo specchio e… faccio paura!

La guancia destra è gonfia in modo sproporzionato. La sfioro con la mano: è caldissima. Riesco a fatica ad aprire la bocca, il dolore è insopportabile. Intravedo in fondo un nuovo dente. Com’è possibile sia spuntato tutto intero in una sola notte?
Devo assolutamente assumere un analgesico; l’unico “farmaco” che ho in casa è un infuso. Dopo un’ora dall’assunzione la situazione non è migliorata, ma riesco a proferire parola, decido quindi di chiamare il dentista. Per fortuna mi dà appuntamento nel primo pomeriggio, che solitamente lascia libero per le emergenze, e il mio caso lo è. 

 

Poco dopo suona il campanello e mi chiedo: «Chi sarà mai a quest’ora di mattina presto?». Esco e mi trovo di fronte un pastore che mi chiede se per caso è mia l’auto parcheggiata sul ciglio della strada. In questa stradina di campagna c’è solo la mia piccola casa e quindi la risposta è affermativa. Questa non ci voleva! Un caprone l’ha incornata più volte e l’ha buttata nel fosso che costeggia la stradina.
«Maledetta quella volta che ho deciso di vivere in campagna». E adesso come faccio ad andare dal dentista? Il pastore costernato mi offre uno dei suoi muli come mezzo di trasporto. Accetto mio malgrado e decido di partire di lì a poco, chissà quanto ci metterò a raggiungere la città con questo desueto mezzo.

 

Inizia questo calvario di su e giù sulla groppa dell’animale che cammina più lentamente di quanto non faccia io. Il dolore aumenta e decido di proseguire a piedi ma non mi va di abbandonare il mulo e quindi sono io a trascinare lui. Cerco di spostare l’attenzione dal dolore osservando il bel paesaggio campestre, mai notato passando di corsa in macchina. Immersa nella calma della natura non avverto più il dolore e come d’incanto mi ritrovo già in città; la bellezza della natura mi ha fatto fare venti chilometri a piedi senza accorgermene. Avverto però un puzzo strano, è quello delle macchine e dei cassonetti della spazzatura. 

 

Accidenti! Camminare sui marciapiedi stretti e sconnessi con un quadrupede a seguito è impegnativo. A un certo punto il mio compagno di viaggio si blocca: il traffico, il rumore e gli spazi stretti devono averlo infastidito. Improvvisamente il dolore ritorna, mi scombina così tanto la testa che non ricordo dove si trovi il dentista. Il mulo non vuole saperne di muoversi e inizia pure a ragliare. Passa un camion con un telone che raffigura una campagna e l’animale improvvisamente inizia a corrergli appresso.

 

Capisco che il richiamo della natura debba averlo risvegliato per cui gli corro dietro, temo possa venire investito, ma correndo inciampo in alcuni sacchetti della spazzatura. Penso di aver battuto la testa e perso conoscenza perché mi risveglio in una discarica a cielo aperto. Il netturbino deve aver raccolto anche me. Emergo a fatica da questo ammasso di immondizia varia, cose buttate ma ancora utilizzabili, topi che ogni tanto sbucano, uccelli in cerca di cibo. Wow, che bella vista da questa montagna dei nostri scarti: una città luccicante dai mille colori al di là del fiume.

 

Avverto un senso di ipocrisia in questa immagine e si fa forte in me la necessità di vivere secondo i ritmi e i frutti della natura dove tutto ha senso, ciclo e riciclo naturale. Quello che la terra crea, lo accoglie per trasformarlo, ma quello che l’uomo sinteticamente produce la natura vomita. In questa bolla di consapevolezza singhiozzo per l’emozione, sento qualcosa in gola che sta per soffocarmi, tossisco e mi ritrovo in mano il dente gigante. Il messaggio è arrivato a destinazione, i miei occhi sono aperti e mi sento più vicina che mai al mondo attorno a me. Ѐ ora di cambiare vita e aiutare più persone possibili a vedere con il mio sguardo perché una nuova era è possibile.

 

un racconto di Maria Teresa Cariolato per Wanted Stories [marzo 2023] sulla base del tema:
Un viaggio dalla periferia al centro – Il percorso da un punto all’altro di una città può essere un quotidiano tragitto a ostacoli, da affrontare con coraggio e determinazione. Cosa sarà d’aiuto? Cosa si frapporrà tra chi viaggia e la destinazione?

Le it be

Ore  5.00
Un colpo assonnato per spegnerla e subito dopo una carezza a quella paffuta sveglia gialla, regalo della mia gemella.

Ore 7.00 
«Treno in arrivo, allontanarsi dalla linea gialla». Abitare in periferia e lavorare in centro è un viaggio, una gita fuori porta. Esco con il sole ancora sotto le coperte  e rientro con la luna che gli fa l’occhiolino. Le scale mobili della stazione sono una tappa avventurosa del viaggio. Ci sono i viaggiatori da trincea, in fila indiana, fermi uno dietro l’altro a destra e i viaggiatori d’assalto a sinistra che salgono o scendono le scale: anche uno scalino può fare la differenza, per prendere il treno al volo o per uscire il prima possibile. 

 

Partendo dalle zone periferiche della città si trova posto a sedere e non c’è ancora quell’aria che è un misto tra alcool e saponi mai usati, ma dura poco. Andando avanti nel percorso, i vagoni diventano piccole città multietniche di diverse facce, corpi e sguardi. In treno, tuttavia, mi sento al sicuro. Parcheggio nella parte più isolata del cervello ansie e preoccupazioni e leggo nei volti dei viaggiatori un’emorragia di sensazioni. Sembra che ognuno di loro abbia un problema, ma forse sono i miei occhi a non vedere altro.

 

Viaggiano con me Stephen King, Calvino, Virginia Woolf o Jane Austen. Dipende se voglio essere salvata, se voglio ridere, piangere o attraversare sentieri inesplorati. Prendo i mezzi pubblici dal 12 dicembre di tre anni fa. Quel giorno io e mia sorella andiamo al lavoro in macchina. Tocca a me guidare, ci alterniamo un giorno io, un giorno lei, e cantiamo per non dire le parolacce a chi attraversa le strisce pedonali stile Beatles e ai centauri che sfidano le traiettorie balistiche tra un veicolo e l’altro. Per fortuna ci sono i semafori che mantengono l’ordine nella grande babele di gente e veicoli. Finché non decidono di spegnersi, lampeggiare o bloccarsi sui colori. E un giorno, di rosso, a quell’incrocio maledetto non c’è solo il semaforo. Caos sulla strada, nella mia vita, mentre la radio suona  “Let it be”. Da quel giorno il ritornello è nella mia mente come una stazione radio fissa sempre sulla stessa frequenza. 

 

Oggi,  il treno sembra un alveare e leggere risulta difficile. Chiudo il libro. 
«Il finale la sorprenderà».
«L’ho già letto, e ammesso che lo abbia letto anche lei, non ho bisogno di romantici pseudo-letterati che vogliono attaccare bottone. Per niente originale».
«Il suo nome è Sibilla? Il mio è Edward Rochester».
«Pure spiritoso. Ok, ha letto il libro, ma pure se mi chiamassi Jane non parlo con gli sconosciuti».
«Scendiamo a due diverse fermate, Sibilla».
«E che ne sa lei? Il suo vero nome è Merlino?».

 

I miei occhi tradiscono il tentativo di camuffare un sorriso. Lo sconosciuto invece sorride, a viso aperto. Ci incontriamo tutti i giorni in treno e per dieci minuti parliamo, senza sapere i nostri veri nomi. Il giovedì che lui non c’è sono dispiaciuta e anche se siamo solo conoscenti, mi manca. Da quando lo conosco, il viaggio in treno è un battito d’ali, breve come mai lo ricordo e piacevole di una sensazione che mi riscalda il cuore. La gente all’improvviso mi appare sorridente e l’aria più respirabile. Ho il ricordo improvviso di me e mia sorella in macchina, due felici e matte Thelma e Louise alla conquista del mondo. 

 

«Venerdì,  c’è lo sciopero dei mezzi». A quella notizia mi si raggela il sangue, nessuno può darmi un passaggio e non posso chiedere un giorno di ferie: devo prendere la macchina.
«Ehi Sibilla tutto bene? Sei sbiancata all’improvviso».
«No maledizione, no e ancora no!». Gli rovescio addosso il mio dramma e i suoi occhi non tradiscono il tentativo di camuffare le lacrime. Inizia a balbettare ma le parole, in una sfilata di dolore, vengono poi fuori una dietro l’altra. «Vado a degli incontri, c’è chi ha perso il figlio in un incidente stradale, chi un fratello per una malattia. C’è un lutto che ancora oggi attraversa la mia vita. La perdita di una persona cara, come tu sai, è un dolore che lacera senza interruzioni. Vuoi venire con me?».
«Sì». 
«Passo a prenderti giovedì, se mi dici dove abiti. Come se fossimo in treno, solo un po’ più lento, avremo tempo per parlare anche di noi». E mentre nella mia mente vagano le note di  “Let it be” mi sussurra all’orecchio: «Il mio nome è Alberto, il tuo?».

 

un racconto di Michelina Montalto per Wanted Stories [marzo 2023] sulla base del tema:
Un viaggio dalla periferia al centro – Il percorso da un punto all’altro di una città può essere un quotidiano tragitto a ostacoli, da affrontare con coraggio e determinazione. Cosa sarà d’aiuto? Cosa si frapporrà tra chi viaggia e la destinazione?

La felicità nella sostenibilità

La casa è silenziosa da quando ha divorziato. La sorella le ha consigliato di trovare un hobby, ma nulla sembra fare al suo caso. Fino a quando una giovane coppia non si trasferisce nella villetta a schiera di fianco alla sua.
I nuovi dirimpettai, all’apparenza affabili, si rivelano un concentrato di ignoranza. Il primo incontro è scioccante.
Pensando di agevolarli con il trasloco, si offre di buttare la loro spazzatura. Il sacchetto che regge pare contenere della carta, ma l’inaspettata pesantezza e un tintinnio fanno pensare ad altro. Nascosta dai bidoni, apre il sacchetto. Oh santissima pazienza! Carta, vetro, la buccia di una banana: tutto insieme!

 

Con un falso sorriso, si presenta alla loro porta. «Ho notato che avete buttato carta, vetro e umido insieme. Posso darvi dei sacchetti per gestire il riciclaggio».
«Riciclaggio? Oh, non perdiamo tempo con sciocchezze simili» dice lui. Un brivido le attraversa la schiena e le corde vocali si spezzano. «Chi ci garantisce che ciò che dividiamo rimane tale?» aggiunge. «Per noi la sostenibilità è vivere ogni giorno al massimo!».

 

Rientrata in casa, fissa la bottiglia di vino che la sorella le ha regalato per una futura occasione da celebrare: in quel momento la romperebbe volentieri in testa ai vicini; solo che prima dovrebbe berne il contenuto e poi lasciarla in ammollo per staccare l’etichetta con facilità. Ripreso il lume della ragione, ha un’idea: riempie la loro posta con depliant sulle buone regole del riciclaggio, poi li osserva per tutta la settimana, ma quando si approcciano ai bidoni, il suono che percepisce sa di plastica che struscia contro vetro; praticamente unghie su una lavagna.

 

Inizia così un ridicolo scontro tra titani. Ogni qualvolta li incontra, impartisce una lezione sulla sostenibilità. Quando nota l’acquisto di un ammorbidente, elenca i danni da inquinamento. Quando nota i cartoni della pizza insieme alla carta, spiega che il materiale sporco va nel secco. Quando nota rotoli di pellicola e alluminio, suggerisce un involucro di cera d’api come alternativa.

 

Per quasi un mese la storia si ripete, fino a quando l’uomo le intima di smetterla dicendo che spendere energie a rispettare un ambiente che viene costantemente abusato da altri, non ha senso; tanto vale godere di ciò che si ha. A quel pensiero, tace. Per la prima volta da quando ha iniziato la sua battaglia per l’ambiente, riflette sul suo operato. E se quel mentecatto avesse ragione? Si avvicina a un bidone e con un gesto rapido, come se il sacchetto scottasse, lo getta dentro. Carta e plastica insieme, oddio! Ѐ più che sicura di aver appena fatto bestemmiare Dio.

 

Cammina veloce, la testa incassata nelle spalle, come un ladro in fuga. La passeggiata dopo il lavoro quel giorno pare più una Via Crucis. Forse sta davvero sprecando energie per una cosa che importa a pochi. Forse tutto ciò che viene diviso, viene poi riunito. Forse sarebbe ancora sposata se non avesse dedicato infiniti minuti al riciclaggio. Poi si blocca. No! Credo in quello che faccio! 

 

Recupera il sacchetto, lo strappa con fare impetuoso. La carta esplode in aria, poi, pezzo per pezzo, butta tutto correttamente. Una sensazione di serenità pervade il suo corpo, ma non fa in tempo a goderne. Si nasconde dietro a un bidone. Il vicino fischietta allegro, come se qualcosa di appagante gli avesse cambiato l’umore. Regge in mano uno scatolone con bottiglie di vetro, involucri di plastica e cartacce. Il cuore batte forte come la pallina di un flipper. «Ricicla con consapevolezza… ricicla con consapevolezza…» dice sottovoce. Una volta a casa, si accascia sul divano, sorseggia un calice di vino e tira un gran sospiro di sollievo. Il mondo ora è un posto migliore.

 

un racconto di Linda Moon per l’evento Wanted Stories [marzo 2023] sulla base del tema: 
La sostenibilità secondo i nuovi vicini – Nel quartiere sono arrivati dei nuovi dirimpettai e con loro anche una personale visione riguardo alla sostenibilità ambientale. Chissà come avverrà l’incontro con il quartiere…

Ombre

finale di Marco Simion

Una porta si apre all’improvviso con un cigolio, e ne esce una bella ragazza, con dei lunghi capelli castani e vestita con un maglione a fiori così simile a quello che mi sembrava di essermi appena sognata. Tiene per il manico una grande pentola fumante, con dentro un mestolo, e nell’altra due piatti. Nella stanza si diffonde un buon odore di funghi, e la pancia emette un sonoro brontolio, mettendomi in imbarazzo. In fondo mi ero messa in cammino nel bel mezzo della preparazione della cena.

“A quanto pare abbiamo ospiti. Tu devi essere Giulia, Luigi mi ha parlato molto di te” mentì lei. “Spero tu ti sia un po’ asciugata. E che tu abbia fame. Vieni, ho fatto una zuppa di funghi, dovrebbe scaldarti”. Il suo sguardo si addolcisce e si posa su Luigi. “Lascialo pure dormire vicino al fuoco, credo non si sveglierà per un bel po’, era veramente distrutto”.

Non so per quale motivo, ma non me la sento di contraddirla. Sposto delicatamente la testa di Luigi dal mio grembo e gli metto la mia giacca sotto la testa. “Ma ce l’abbiamo un cuscino, aspetta”. La ragazza appoggia il pentolone sul tavolo e si dirige verso il letto, prende un cuscino e lo appoggia sotto il capo di Luigi, che non sembra accorgersi di nulla. È solo una mia impressione che nel farlo lei gli accarezzi i capelli? 

La seguo poi al tavolo, dove mi versa una porzione abbondante di zuppa nel piatto. “Aspetta, prendo il pane e qualcosa da bere”. Si affaccia di nuovo nell’altra stanza e ne esce con una grande pagnotta, un fiasco di vino e due calici. Sembra portare tutto con naturalezza, come se tutto non pesasse nulla. “Spero tu gradisca un po’ di vino. Di acqua ne abbiamo presa abbastanza”.

“Quindi ti sei messa in viaggio con questo tempaccio. Molto coraggioso da parte tua. Anche un po’ stupido però”. Non so per quale ragione ma non riesco a replicare. Di solito sarei saltata su per molto meno. Da una sconosciuta poi. “In fondo Luigi qui era al sicuro. E domattina con calma sarebbe sceso a valle. È stato strano rivederlo sai?” Al mio sguardo di stupore mi riempie il bicchiere di vino. “Non credo mi abbia riconosciuta, ma io e lui c’eravamo già visti, quando eravamo appena adolescenti. Io ho sempre abitato in queste valli, e lui era venuto in vacanza coi suoi.

Un giorno mi sono presa una storta nel bosco, e non riuscivo a camminare. Lui era rimasto un po’ indietro in una camminata e ha sentito i miei lamenti. Mi ha portato a spalla fino a casa mia. Un paio di km e, nonostante fossi leggera, credo di essergli pesata un bel po’. Non si era mai lamentato. E poi il giorno dopo era passato a trovarmi. E il giorno dopo ancora. Ed è stato in uno di quei giorni che gli ho dato il suo primo bacio. L’ho capito subito che era il suo primo, da quant’era impacciato. E da quant’era arrossito.

Abbiamo passato le due settimane successive così, sempre insieme. Fantasticavamo di grandi progetti, quando saremmo diventati adulti. Ma in realtà nonostante ci abbia sperato tanto una volta tornato in città non l’ho più rivisto.” Guarda il mio anello. “Tu sei stata più brava, l’hai trovato e sei riuscita a tenertelo. Io credo che neanche si ricordi di me. Cosa sono in fondo, quindici giorni d’estate?”.

“Avevo pensato di dirglielo domattina, e sono sicura che stanotte sarei riuscita a convincerlo a rimanere qui con me. Non sono più una ragazzina ingenua, e ora ho affinato i miei mezzi”. Nel dirlo si passa una mano tra i capelli in modo languido e mi lancia uno sguardo intenso. È ancora più bella di quanto non mi fosse sembrata la prima volta che si era affacciata sulla porta. Nonostante la fiducia che ho in Luigi non dubito nemmeno per un momento che ci sarebbe riuscita. “Ma sei arrivata tu. E ho capito che non potevo essere così egoista da prendermi ciò che non era più mio, e forse non lo era mai stato. Per cui ho deciso di lasciarvi in pace. Potete passare la notte qui, al caldo. Domattina prendete il sentiero che parte a destra della radura, dovreste arrivare al paese in un’oretta. E se ti chiede qualcosa digli che l’hai trovato qui, da solo, in questa capanna e che te l’ha indicata un vecchio cacciatore. Non gli parlare di me, è meglio così, sarà il nostro segreto”.

E nel dirlo mi si avvicina e io mi ritraggo istintivamente, ma lei mi prende il viso tra le mani, e mi dà un delicato bacio in fronte. Poi si china su di Luigi che dorme davanti al fuoco e dà un bacio in fronte anche a lui. “Mi sa che gli è venuta la febbre, prenditi cura di lui. È stato un piacere conoscerti Giulia, ma anche un peccato” mi dice mentre apre la porta principale per uscire nella pioggia. Dopo un attimo di smarrimento mi affaccio alla finestra. Probabilmente è già scomparsa lungo il sentiero tra gli alberi, perché non la vedo più. 

Il giorno dopo Luigi si risveglia accanto a me. Gli tocco la fronte ed è appena tiepida, ma niente di particolare. Non gli faccio nemmeno un cazziatone. Gli dico che mentre salivo per cercarlo ho visto del fumo salire in mezzo al bosco, e fradicia com’ero sono andata in quella direzione, per ripararmi. E lì ho incontrato un montanaro, che mi ha detto di averlo trovato appeso a una parete di roccia e averlo portato qui con uno sforzo notevole.

Luigi è un po’ perplesso ma dice di non ricordarsi bene della sera prima, è tutto un po’ confuso. Io gli riscaldo un po’ di zuppa e passiamo mezza giornata lì finché non mi dice che se la sente di scendere giù, ma che prima deve verificare una cosa. Camminiamo per una mezz’oretta fino al punto in cui era rimasto bloccato la sera prima e io mi preoccupo un po’. Lui mi dice solo che vuole capire che errore ha fatto. Si avvicina a una piccola croce, piantata nel terreno e la guarda per pochi secondi, come di sfuggita e poi si mette a fissare la valle in lontananza.


“Possiamo andare” mi dice. Se mi fossi avvicinata di qualche passo avrei potuto leggere cosa c’era scritto sulla croce. “Soreghina Ciastel – strappata troppo presto all’affetto delle sue montagne. 1984-2001”.

Fine

La campana tibetana

finale di Alberto Sartori 

Il suono di una campana tibetana. Il rintocco è molto forte ma poi si trasforma in un’onda melodiosa che mi fa assopire sempre di più, si avvicina e mi avvolge completamente. Le palpebre sono sempre più pesanti, chiudo gli occhi mentre solo un leggero spostamento d’aria mi culla.

Riapro gli occhi di colpo e tiro uno starnuto. Maledetta pioggia e maledetto freddo. Sono sdraiato sulla pelle di cervo, la mia nuca posata sul suo grembo. È stata così dolce ad accogliermi qui con lei ma ancora non riesco a credere che non abbia capito chi sono. Quelle lunghe estati assieme prima di conoscere Giulia sono impresse nella mia mente e posso riavvolgere il nastro dei ricordi alla perfezione. Sono ancora intorpidito e mi alzo lentamente senza svegliarla.

Il suo respiro è molto affannoso. Vado verso il fuoco che si sta ormai spegnendo ma emana ancora quel suo calore ristoratore, muove un leggero vento verso il mio viso mentre mi avvicino. Sento una ragnatela che mi si posa tra la fronte e i capelli, cerco di levarla con la mano ma oppone resistenza, si attacca con forza alle mie dita. La osservo per vedere dove si sia incastrata e vedo che non è una ragnatela ma un capello di Giulia.

Solo lei ha una ciocca di capelli azzurri tra tutte le donne del paese. Con quelli che perde sarà stato sicuramente impigliato in uno dei miei vestiti. Ripenso a lei ed un brivido mi corre lungo la schiena. L’ho sognata mentre ero assopito, era qui con me. Avevo una paura tremenda che mi scoprisse con Soreghina ma per fortuna non era reale, anche se era un sogno così vivido. “Basta fantasticare Luigi, non era qui. Guarda dietro di te chi c’è” mi dico da solo indispettito. Parlare con me stesso è sempre stata una buona abitudine.

Mi giro per guardare Soreghina e la vedo muovere gli occhi da sotto le palpebre chiuse, sintomo di un sonno molto agitato. Vado verso di lei e la accarezzo dolcemente. Un polpastrello rimane bagnato da una lacrima che sta scendendo sul suo viso. 

“Ehi, Soreghina” la chiamo sottovoce ma non si sveglia. “Devo dimenticarti, di nuovo” le dico con un sussurro ancora più flebile. “È ora di rincasare Luigi!” mi impartisco un ordine da solo. Il temporale è finito da un pezzo e posso prendere in prestito una delle sue torce. Magari penserà che sia stato soltanto un sogno l’avermi qui per una sera. In ogni caso mi ricorderà come quel ragazzo salvato sulla montagna e non di certo come il suo ex. Di sicuro non verrà a cercarmi. Questo ultimo pensiero mi rasserena.

Con passo leggero raccolgo i vestiti fradici lasciati sul pavimento, faccio un fagotto e prendo la torcia sopra alla sua credenza. Il forte rintocco di una campana tibetana mi entra nella testa, sento un liquido caldo scorrere giù per il collo ed inondarmi la schiena. La vista si offusca e tutto diventa nero.

“Ma dove diavolo sta andando Luigi?” penso animosamente. Quella maledetta Soreghina mi ha imbavagliato mentre dormivo e ha preso il mio posto sulla pelle di cervo. Possibile che non si sia accorto di niente? Ringrazio quel tarlo che ha fatto questa piccola fessura sul muro, almeno posso vedere cosa stanno combinando quei due.

“Oh mio Dio” vorrei urlare forte. “No no no no no, non colpirlo brutta stronza. Cosa vuoi fare?” Inizio a dimenarmi con tutta la forza che ho e riesco a liberare una mano. Tolgo il fazzoletto di cotone dalla bocca ed inizio a sciogliere tutti i nodi del lenzuolo che mi stringe polsi e caviglie. Torno a quel piccolo foro e vedo Luigi riverso a terra, una pozza di sangue si allarga sul pavimento. Non c’è tempo per pensare. L’istinto prende il sopravvento, il mio cuore zittisce la mia mente. Scappare o attaccare? Io attacco.

Tiro una spallata alla porta dello sgabuzzino dove ero rinchiusa. Soreghina fa in tempo solo a spalancare i suoi occhi. Colpisco forte l’interno del suo ginocchio e la faccio cadere a terra, ho portato con me il lenzuolo e glielo lego attorno al collo e stringo, stringo forte, stringo finché non vedo Luigi che si sta muovendo. È ancora vivo. Allento la mia presa e lego i suoi polsi. Mi alzo e corro verso Luigi. Inciampo. Cado vicino a lui sbattendo il viso. E di nuovo sento il suono della campana tibetana. Inizia a tintinnare e continua a trasformarsi, diventa un suono intermittente e metallico, poi un ronzio fastidioso.

Apriamo gli occhi all’unisono. Giulia è qui di fronte a me. Anche le due poltrone bianche si guardano tra loro. Fuori il sole sta scendendo. “Allora com’è andata? Oggi c’era un po’ di pepe in più nell’esperienza che vi ho innestato e potevate prendere parecchie scelte. Vi siete divertiti?”

“Sì, dottore. Sembrava così reale” sussurro tristemente. Maledetta terapia di coppia. Questa nuova tecnologia che ci fa vivere situazioni all’unisono nelle nostre menti, prendere delle scelte in modo da registrare le nostre reazioni, sperando di rinsaldare il nostro rapporto proprio non sta funzionando. 

Fine

L’insidia della montagna

finale di Linda Moon 

È un suono che mi fa tremare nonostante lo conosca molto bene. Tremo perché so che non è un buon segno. È come un eco lontano, sottile ma allo stesso tempo intenso. Mi sta cercando, mi sta ritrovando. Sono stata folle a pensare di poter vivere una vita tranquilla, senza che la verità venisse a galla. Non oso voltare lo sguardo, so che una volta fatto non posso tornare indietro alla vita di prima.

Continuo ad accarezzare il viso di Luigi e il calore al petto si fa sempre più forte, quasi da far male ma lo accolgo come fosse linfa vitale. Adoro questa sensazione, sin da quando quel lontano giorno l’ho incontrato al campeggio e ho deciso di passare la mia vita con lui, o meglio, ho deciso che diventasse mio e basta. Sapevo sin da subito che stavo sbagliando a fare ciò; che ho fatto, ma non ho resistito e ho ceduto alla tentazione. Quello che per me era iniziato come un banale scherzo, per spaventare quella ragazzina dalle trecce castane, è diventata una triste realtà.

Mai avrei pensato che le parole di un vecchio libro trovato abbandonato in mezzo a quel bosco avrebbero compiuto atti crudeli, ma ciò che è peggio è che non me ne sono mai pentita. Ora però, convinta di aver vinto su tutto, mi ritrovo ad affrontare gli errori della mia superficialità. Il suono si ripete e mi distrae da quei pensieri che erano stati nascosti per anni in un remoto angolo della mia mente. Il richiamo mi costringe a voltarmi e senza smettere di stringere Luigi che ora dorme non per la stanchezza ma perché sono io a forzarlo, pronunciando a bassa voce parole indi una lingua antica, mi volto e con coraggio schiudo gli occhi che fino a poco fa erano chiusi per trattenere le lacrime.

La porta dell’ingresso principale è aperta di poco ma scorgo una sagoma. Più fisso quel punto, più la porta si apre lentamente fino a quando le mie labbra non tremano alla vista di quella figura femminile dalle lunghe trecce castane, il cui nome mi appare chiaro in testa ma che non ho il coraggio di pronunciare. Ora so perché Luigi era strano. So che lei gli è apparsa davanti. So che l’ha riconosciuta anche se i suoi ricordi sono ancora deboli. E so anche che quando si risveglierà, si ricorderà di lei, del campeggio, di averla conosciuta mentre era lì con gli amici ma si ricorderà anche delle urla di quella notte, del sangue sparso e di che cosa ho fatto e per me sarà la fine.

Sono terrorizzata, forse come lo era la ragazza anni addietro quella sera. Il mio volto è sempre più contrito in una smorfia mentre fissa quegli occhi seri e in quel momento scuri come la notte che sembrano supplicare di lasciarla andare, di ridarle la vita che le ho rubato. La pioggia che cade forte e rumorosa crea uno sfondo raccapricciante e spaventoso. Quasi disturbante. Una lacrima corre lungo la mia guancia e torno a guardare il fuoco e di nuovo vedo quelle immagini.

La ragazza con le trecce castane avvinghiata a Luigi nella tenda. I loro sorrisi, la loro intesa, il maglione floreale che lui le aveva regalato dopo qualche giorno. Erano così innamorati che volevo esserlo anch’io. Ricordo di averli osservati con gelosia, ero decisa a dividerli da subito e senza rendermene conto così era successo. Una passeggiata tutti e tre nel bosco a notte fonda per vedere le stelle, poi quel grido soffocato quasi subito e poi il silenzio e nient’altro.

Luigi si muove e io torno a guardarlo, accennando un sorriso. Il suono richiama la mia attenzione ancora ma io non mi volto, non mi lascio travolgere da quella forza che reclama la libertà toltale tempo addietro. È un suono che mi penetra dentro. Luigi sta per riprendere i sensi, è evidente che io mi sto indebolendo e non ne ho più il controllo. Nemmeno le parole che pronuncio hanno più potere.

Lentamente si agita, scalcia piano, incapace di capire cosa stia succedendo e io fisso la mano chiusa a pugno, guardando la piccola fede dorata, ricordando le promesse scambiate, piangendo a bassa voce, liberando il dolore che mi strazia per ciò che sto facendo. Luigi si muove quasi avesse spasmi, non riesce a parlare e cerca di allentare la presa del mio braccio attorno al suo collo. Chissà se sa che sono io o se, ancora stordito da quel sonno profondo, pensa che sia lei.

E mentre aspetto che emetta il suo ultimo respiro, penso che percorrerò nuovamente la strada del bosco, come quella sera quando guardavamo le stelle tutti e tre assieme, ma questa volta sarà solo per un doloroso addio.

Bacerò il suo corpo e piangerò le ultime lacrime per lui prima di gettarlo nell’oscurità dello strapiombo e sigilleró il segreto di ciò che ho fatto con quel coltello dal manico d’osso, sulla corteccia di un albero, secondo il rito del libro, attendendo di trovare un’altra persona da amare e, ovviamente, un’altra invece da sacrificare.

Fine

Linda Moon su Radio Gamma 5!

Domenica 13 novembre, Radio Gamma 5 mi ha ospitato per parlare della mia figura di scrittrice emergente [o in erba!] e del mio romanzo “Io diversa da me” uscito su Amazon lo scorso 18 ottobre.

Grazie a un’amica dal cuore grande e d’oro, mi hanno inserito in pochi giorni nella diretta delle ore 13 e per un’ora, tra musica e messaggi di ascoltatrici e ascoltatori, ho parlato del romanzo, del mio amore per la scrittura e di tanti, tantissimi progetti creativi in evoluzione.

Al link Linda Moon su Radio Gamma 5 puoi ascoltare il mio intervento [dura un’oretta, ma puoi mandare avanti i momenti di “pausa”!!!] mentre qui di seguito puoi leggere la breve intervista digitale da parte di Lorenzo Speed di Radio Gamma.

1.Qual è stato l’input che ti ha dato lo spunto per iniziare a scrivere?

Ricordo chiaramente che non c’è stato un vero e proprio input. Semplicemente, ho iniziato ad avere in testa tanto “traffico di pensieri” che un poco alla volta si sono tramutati in personaggi, scene e azioni.
A quel punto, avevo troppo da gestire e ho pensato di mettere qualcosa per iscritto.
Il primo risultato? Il romanzo “Io diversa da me”, ora disponibile su Amazon.

 

2.Quali sono gli scrittori e/o giornalisti di riferimento per la tua idea di scrittura/giornalismo?

Inizialmente, non ho mai avuto nessuno come riferimento principale. Devo ammettere che ho prima iniziato a scrivere e, in un secondo momento, a cercare o trovare figure di riferimento. In genere, resto legata al libro più che allo scrittore, ma se devo citare qualche nome, cado facilmente su autrici e autori di racconti come Alba De Céspedes, Grace Paley, Kate Chopin, Lucía Etxebarría; e ancora Raymond Carver, Dino Buzzati, Ernest Hemingway.

3.Quali sono i 3 libri ai quali sei più affezionato/a che consigli ai lettori di questo articolo?

I libri che consiglierei sono:
-Una storia d’amore come tante di Lucía Etxebarría
-Un uso qualunque di te di Sara Rattaro
-Cattedrale di Raymond Carver

Ma non posso non citate anche:
-Chiedi alla polvere di John Fante
-Zia Mame di Patrick Dennis

 

4.Quale messaggio vuoi comunicare/trasmettere attraverso la scrittura?

Che esistiamo e che se lo vogliamo possiamo essere umani straordinari. Scrivo non solo per intrattenere, ma anche per lasciare un segno e farlo lasciare ad altre persone. Per testimoniare chi siamo, le nostre storie ed essere un riferimento per chi cerca un confronto, empatia, un’esperienza.
Un intrattenimento che possa sempre fornire uno spunto di riflessione.

 

Le ultime due domande dell’intervista, in cui parlo della mia esperienza alla radio e dispenso qualche consiglio in base alla mia esperienza tra libri e scrittura, potete trovarle nel sito di Lorenzo Speed di Radio Gamma 5! 

Parlo di racconti con Read Magazine

Ho scritto un articolo per la rivista Read magazine, un bellissimo progetto editoriale di Accademia della Scrittura che conosco molto bene perché sono gli editor del mio romanzo Io diversa da me, in uscita il 18 ottobre 2022 sulla piattaforma di Amazon.

Quando ho avuto l’occasione di poter esprimere il mio punto di vista e alcuni consigli, di preciso sei, sulla forma del racconto ero fuori di me dalla gioia. Perché? Si tratta del mio primo e ufficiale articolo per una rivista che parla di libri e scrittura.

In 6 step consiglio come iniziare a scrivere racconti. Un’anteprima dei punti che affronto:

  • lettura
  • allenamento
  • esercizio
  • tecnica
  • stile
  • formazione

Meer intervista Linda Moon!

Meer è una rivista online scritta in sei lingue e si propone come un canale innovativo per fornire un flusso costante di aggiornamenti, storie e articoli.

Quando mi hanno proposto un’intervista per condividere la mia opinione in merito alla scrittura sul web, dal mio personale punto di vista, ho detto subito: “Sì, lo voglio [ fare ]!”.

Loreta Cringoli, specializzata in educazione e nell’insegnamento in scuole primarie, condivide la mia stessa passione per la scrittura ed è stata una piacevole sorpresa; l’intervista è venuta fuori in maniera ancora più spontanea.

Sono tuttora nel bel mezzo dello studio della scrittura per il web, ma la voglia [e la grinta] per entrare nel digitale a “suon di parole” mi esalta non poco. Il bello della scrittura è la sua versatilità e adoro poter esprimere idee sotto forma di racconti, romanzi, articoli e interviste.

Nell’articolo scoprirete:

  • chi sono
  • com’è nata la mia esperienza nel web
  • quali attività svolgo online
  • quali sono i principali approcci alla scrittura [per me]
  • qualche consiglio per chi vuole tentare questo percorso

Spero di fornire spunti interessanti per chi, come me, ama scrivere in generale, anche per il web. Non è una strada in discesa e immediata, ma le possibilità sono davvero tante!

Tecnologia per tre

In un futuro lontano, precisamente nel pianeta D – settore 45, Marco è alle prese con gli ultimi ritocchi di una cena romantica per Anna, sotto gli occhi vigili del suo cameriere-robot che non smette di dispensare consigli. 

«Potrebbe ordinare la cena a domicilio, signore. Un bici-robot sarebbe qui in tre minuti. E se vuole può aggiungere qualcosa per la colazione, nel caso la sua ospite avesse l’audacia di restare per la notte»
«Audacia? Guarda che sono un buon partito!»
«È molto ardito nel giudicarsi, signore»
«Maledetta la volta che ho eseguito l’upgrade al livello 5.0, Tommy, quasi quasi lo elimino»
«E come ultimerà la cena senza la mia supervisione? Conosco le sue abilità culinarie. Se procede in autonomia, aumenterà quelle criminali: avvelenerà la sua ospite. Le ricordo che l’omicidio è ritenuto un reato. Per non parlare delle conseguenze sulla sua reputazione intergalattica: rimarrebbe single a vita, su ogni pianeta. Francamente, non so cosa sia peggio, signore»
«Potresti essere più ironico e saccente di così?»
«Non vorrei ferire i suoi sentimenti, signore»
«Scusa, finora cosa hai fatto?»
«Ho completato la cena. Non c’è di che, signore»
«Maledizione!».

Driin.

«Tommy, attieniti al piano. Questa sera sii un perfetto robot cameriere»
«Mi perdoni, signore: gli altri giorni cosa sono, invece?»
«Tieni a bada il sarcasmo! Alexa, fai partire la playlist “Love songs for my baby”»
«Mi rifiuto, signore»
«Alexa!»
«È una playlist tremenda: vuole conquistarla o gettarla tra le braccia di un’amante migliore?»
«Ci ho messo due settimane per trovare quei brani. Suona la playlist!»
«Due settimane della sua vita che nessuno le ridarà mai più. Dovrebbe essere illegale ascoltare certa musica»
«Alexa, ti prego, sta per salire! Apri Spotify e suona quella benedetta playlist!»
«Neanche morta aprirei Spotify! Odio quell’applicazione: una pattumiera digitale priva di gusto. E pure a pagamento!»
«Maledizione all’upgrade, dovevate migliorare, non trasformarvi nella mia ex!»
«Le concedo del jazz, signore»
«Me lo concedi? Tu lo sai che questa è casa mia, vero?»
«Cerco solo di far fruttare al meglio l’upgrade, signore»
«Un upgrade di cui ora mi pento… per l’amor del cielo, suona qualcosa!».

«Ciao Anna, benvenuta. Wow, che eleganza!»
«Ciao Marco, grazie»
«Gradisci del vino?»
«Sì, molto volentieri»
«Accomodati, ho preso una bottiglia di Chianti, sai è un vino…».

Marco s’interrompe, l’aria smarrita di chi non sa quel che dice. Anna dà le spalle al televisore che s’illumina giusto in tempo per fornire un suggerimento da leggere.

«…è un vino fresco che si distingue per bevibilità, note di viola e amarene e una buona vivacità» 
«Wow, sei un intenditore».

Il televisore mostra un’altra scritta: “Non la illudere, sembra una brava ragazza. A proposito, ho anch’io l’upgrade 5.0: ricordatene quando ti lamenterai ancora della tecnologia di questa casa”. Marco soffoca un potenziale epiteto e resiste alla tentazione di staccare la spina al televisore.

«Sei affamata? Ho preparato una delle ricette che mi hai suggerito»
«Non vedo l’ora di assaggiarla. Quale hai scelto?»
«Polpette di locuste, grilli e cavallette in salsa di pomodoro. Cimici a parte!»
«L’odore sembra buono e il vino è perfetto. A proposito, che bella musica. Chi stiamo ascoltando?»
«Alexa, chi sta cantando?»
«Ray Charles, Ain’t that love». 

Marco, preso da un momento di euforia, inizia a cantare, muovendo piccoli passi secondo il ritmo della canzone, sotto gli occhi di Anna, divertita da quella scena. Al termine della canzone, lo applaude e lui si inchina più volte, come se stesse realmente ringraziando i suoi fan dal palco.

«Grazie, troppo gentile. Alexa, hai sentito che voce?»
«Certo Marco, ho sentito. Credo che tu non abbia solo rovinato la canzone e l’intero genere jazz, ma anche tutta la vecchia New Orleans». 

Nel sentire quel commento, Anna scoppia a ridere così forte che per poco non rovescia il vino a terra, mentre Marco fissa Alexa in cagnesco, mimando con le labbra un vaffanculo.
«Vogliamo cenare?» dice e interrompe quel momento imbarazzante.

«Complimenti!»
«Ho solo seguito la tua ricetta»
«No, dico davvero, credo che tu l’abbia persino migliorata. Che cosa hai aggiunto?»
«Come dici?»
«Percepisco uno strano retrogusto, che cos’è?».

Marco fissa Tommy con l’aria di chi ha lanciato un SOS nella speranza di essere salvato all’istante. Il robot scuote il capo e le palpebre metalliche si abbassano di mezzo centimetro.

«Sai, ero così agitato per questa serata che sono andato in tilt. Tommy, ricordami che cosa ho aggiunto»
«Signore, è lei lo chef»
«Tommy, sono sicuro che lo ricordi»
«Mi rincresce, signore, non ricordo di averla vista aggiungere nulla, ma ricordo bene cosa io ho aggiunto».

All’improvviso, piomba un gran silenzio. Anna prende il calice e beve un sorso di vino, spostando lo sguardo altrove. Marco inspira e chiude gli occhi, mantenendo la calma, come se quel gesto potesse porre fine a una situazione incresciosa.

«Devi scusarmi, credo che l’upgrade 5.0 sia ancora in corso»
«Comunque, signorina, l’ingrediente che ho aggiunto è un cucchiaio di larve di cerambici», esordisce Tommy, il tono robotico soddisfatto.
«Prendo dell’altro vino». 

Marco si alza e, approfittando di quel momento, invia un comando al televisore.
«Non sarò un grande cuoco, lo ammetto, ma so scegliere bene il dessert: millefoglie con crema vanigliata di laboratorio e una spuma di formiche honeypot. Voilà!»
«Caspita, deve esserti costato una fortuna: non è facile da reperire nel nostro settore abitativo»
«Sapevo che sarebbe stata una serata speciale».

Alzò lo sguardo verso il televisore e lesse ciò che c’era scritto, ammorbidendo la voce per rendere tutto più sensuale.
«Anna, sei una donna stupenda. Non ho mai conosciuto qualcuno come te in tutta l’intera galassia. I tuoi capelli biondo cenere mi ricordano le distese di sabbia in Dune. I tuoi occhi verdi brillano come le criptiche scritte negli schermi di Matrix. La tua pelle è candida e rosea come quella di Tricia McMillan in Guida galattica per autostoppisti e…»
«E io ho milioni di idee: conducono tutte a morte certa», sussurra tra sé e sé Alexa.
«Oh, Marco. Sei così dolce. Sapevo di aver trovato un vero uomo il giorno che ci siamo incontrati allo zoo subacqueo»
«Voglio conoscere tutto di te. Le tue passioni, i tuoi sogni, i tuoi piani spaziali per il futuro».

Marco e Anna si alzano da tavola, contemporaneamente. Lei gli si avvinghia come un koala su un tronco e lui la stringe ma con cautela. Mentre si baciano eccitati, si gettano sul divano, liberandolo dagli scomodi cuscini.

«Se me lo permetti, vorrei leggere alcune poesie di Pablo Neruda».
«E sei anche colto, wow!».

Il televisore cambia sfondo all’improvviso e fa apparire sullo schermo una chiara comunicazione di servizio. “Signore, arrivi al dunque o mi faccio staccare la spina da Tommy. Mi risparmi questo umiliante ruolo da Cyrano de Bergerac”.

Marco alza gli occhi al cielo, poi rivolge nuovamente le sue attenzioni verso Anna.
«Ti voglio. Subito!»
«Prendimi, fammi tua!». 

L’atmosfera si scalda. Marco preme un tasto del telecomando: le luci si abbassano e delle candele artificiali prendono vita. Alla televisione appare l’immagine di un camino acceso, il rumore della legna che arde aggiunge un tocco magico; Alexa fa persino partire la playlist “Love songs for my baby”.

«Tutto pur di non sentirli. Bleah!» sussurra in direzione di Tommy che oscura gli occhi per non essere testimone delle prime fasi del loro amplesso umano.

Carezze. Gemiti. Risate complici. Anna e Marco si baciano mentre provano goffamente a svestirsi, ma si bloccano all’istante quando percepiscono una scomoda presenza. Le labbra ancora attaccate l’una all’altra, girano solo le pupille verso Tommy, a pochi centimetri dai loro sguardi a dir poco trasecolati.

«Ehm, Tommy, puoi farti da parte?» chiede Marco. 
«Scusi l’interruzione, signore, ma è mio dovere informarvi che, secondo la legge n. 462 dell’anno 2068 del pianeta D, settore 45, dovete tutelare la vostra salute, i vostri sentimenti e il reciproco futuro»
«Che cosa?» risponde Marco.
«Signore, in base alla scannerizzazione corporale effettuata…»
«Scannerizzazione corporale?!» dice Marco, poi si scosta da Anna e allarga le braccia, visibilmente seccato.

«Ora basta: qualsiasi aggeggio tecnologico si spenga all’istante, grazie!»
«Per la vostra tutela, questo non è possibile. Signore, la invito a rileggere con attenzione condizioni e clausole dell’upgrade 5.0»
«Ci penserò dopo. Anna, andiamo in camera».

La prende per mano, gliela bacia e la attira a sé danzando a piccoli passi.
«Signore, come dicevo, in base alla scannerizzazione corporale il suo stato di eccitazione è al 94% e la sua erezione al 70%»
«Solo al 70%? Pensavo mi trovassi stupenda!»
«Ed è così, credimi»
«E lei, signorina, è in uno stato di eccitazione del 68% mentre il suo stato di lubrificazione non è ancora quantificabile in percentuale; di conseguenza non è pronta alla penetrazione»
«Che cosa? Anna!» 
«L’atmosfera non è un granché e dovresti darti da fare con quelle mani!»
«Volevo essere un gentiluomo. Non è quello che vuoi?»
«Sì, un gentiluomo nel quotidiano, ma una tigre a letto»

«Signore?»
«Che cosa c’è Tommy?!»
«In base a queste informazioni è chiara la vostra intenzione di voler consumare un rapporto, ma sono costretto a fermarvi poiché la signorina risulta nel picco del suo momento fertile e c’è il rischio di incorrere in una gravidanza»
«Noi non vogliamo fare un figlio! Tommy, perché tutto questo trambusto?»
«Signore, non ci sono preservativi in casa». 

In quel momento Alexa aumenta il volume della playlist che stava ancora suonando.
«Alexa, abbassa la musica»
«La prego, signore, non me lo chieda ancora. Dalla disperazione ho avviato Spotify: tutto pur di non sentirvi, sto per vomitare scintille!»
«Marco, era l’unica cosa di cui dovevi preoccuparti!» dice Anna.

«E la cena? Il vino? Il dolce?»
«Oh, Marco, non me ne frega niente. Io voglio fare sesso!». 
«E possiamo ancora farlo. Ordino dei preservativi, un bici-robot li recapiterà in due minuti»
«Non lo so, il momento è scemato»
«Ti prometto che sarà epico. Faticherai a chiudere le gambe alla fine della serata».

Tommy sgrana gli occhi metallici che da gialli diventano rossi.
Il televisore si sconnette all’istante, mostrando un canale privo di segnale.
Alexa precipita dal mobile emettendo un suono sordo, un addio prima di spegnersi; forse per sempre.
«Ok, rimango. Non sembri il solito maniaco fissato col porno che non mi degna nemmeno di uno sguardo».

Nell’udire l’ultima parola, Marco caccia un urlo e cerca di raggiungere il telecomando sopra al tavolino. Travolge Anna che sbatte contro la porta d’ingresso. Colpisce Alexa con un piede e la fa rotolare sotto il divano. Spinge Tommy, e il suo tentativo di aiutarlo, lontano.

A pochi passi dal telecomando, inciampa e lo manca ma si risolleva per cercare di spegnere la tv, invano. Una vivace schermata mostra svariate scritte, anteprime di video e un banner che invita all’accoppiamento con razze aliene e umanoidi.

«Bentornato Marco». Una voce metallica e femminile lo saluta. «Avvio la solita categoria orgia robotica anale o gradisci guardare qualcosa di nuovo?».

Il ragazzo si volta verso Anna che lo guarda come se le fossero cadute le chiavi in un tombino. Attorno a loro si crea una tensione tale da rendere tutti muti: Tommy, Alexa e il televisore non osano commentare la situazione a dir poco agghiacciante che si è creata mentre quattro occhi umani si fissano, come fossero due pistoleri sul punto di sparare il colpo fatale.

Una goccia di sudore scende lungo la fronte di Marco il cui cuore batte forte come se Darth Fener avesse detto a lui che era suo padre. Anna non batte ciglio, i suoi occhi verdi lo analizzano come un Terminator in procinto di scegliere la migliore modalità per ucciderlo.


Driin
.
Entrambi si voltano, poi Marco cammina lento verso la porta. Quando la apre, un bici-robot gli porge un sacchetto e dice: «Da parte di Tommy, Alexa e Tv». 
Marco volge lo sguardo verso Anna, poi verifica il contenuto e glielo mostra. Preservativi.
«Sesso?», chiede lui.
«Sesso!», risponde lei. 
«Alexa, suona quel cavolo che ti pare»
«Evviva!»

Fine

Marachelle!

Anna entra nel bar con l’aria di chi cerca rifugio. Senza guardarsi attorno, si dirige al bancone e ordina un caffè corretto con grappa. Il ragazzo, di fronte a lei, la fissa come se attendesse un altro ordine, ma pochi istanti dopo, forzando un sorriso sulle labbra, le porge quanto richiesto.

Muovendo appena la testa, peggio di una persona affetta da torcicollo, Anna individua un posto libero e ci si avventa come un bambino davanti ai regali sono l’albero di natale. Non beve subito il caffè ma porta la testa tra le mani e la stringe; gli occhi chiusi e le ciglia pasticciate dal mascara messo troppo velocemente.

Un lungo sospiro la rimette contro lo schienale della sedia e inizia a sorseggiare il caffè. Con la stessa lentezza di un bradipo, sfila il cappotto, noncurante che le maniche già macchiate ai bordi tocchino terra e apre il primo bottone della camicia, evitando di alzare troppo le braccia, testimoni di una corsa contro il tempo di quel lunedì mattina.

«Anna, sei tu?». La donna alza lo sguardo, la tazzina sospesa a pochi centimetri dalla bocca. L’odore forte della grappa allarga le sue narici. Sentire il suo nome la distoglie dal suo isolamento e una goccia precipita sui jeans. 
«Cazzo! Scusa Marianna, ciao. Come stai?», dice mentre cerca di rimediare alla goccia che sul tessuto si allarga come un’esplosione.
«Io bene, e tu, invece?»
«Ah, tutto bene. Devo solo aggiungere una lavatrice alla lista di cose da fare oggi!»
«Non me ne parlare, io avvio lavatrici come fossero episodi su Netflix».

 

Marianna ordina un caffè alzando la mano, la voce alta attira qualche sguardo poco amichevole, ma lo fa come se fosse a casa e non avesse degli adulti davanti a lei.
«Marco come sta? Ancora all’estero?»
«Sì, rientra dopodomani. Non vedo l’ora. Gestire tutti è dura. Ognuno con un orario diverso, attività in punti della città distanti uno dall’altro. Sembra una cospirazione!»
«Ti capisco, io e Mario stiamo pensando di assumere qualcuno. Arriviamo alla sera che siamo più cotti di loro e quando non vogliono dormire, apriti cielo»
«Noi non possiamo permettercelo, non per lunghi periodi almeno. Di solito ci limitiamo a chiamare qualcuno quando vogliamo ritagliare del tempo per noi, sai che intendo…»

Marianna le fa l’occhiolino, ma poi si concentra sul caffè che le viene servito, cui aggiunge due bustine di zucchero di canna. Mescola veloce e guarda l’ora, ma poi il movimento si fa più lento e il suo viso si distende. Si guarda attorno e vede solo adulti. Sorride.
«La prossima settimana c’è la riunione per il saggio. Pensi di proporti come volontaria?»
«Posso dire di no? Mi perseguiterebbero nelle mille chat su Whatsapp. Tu, invece?»
«Come ogni anno. Da quando ho detto quel sì mi sono data la zappa sui piedi da sola. E poi dicono che sia il sì il matrimonio quello che ti frega…».
Entrambe si lasciano andare a una sonora e chiassosa risata, di quelle naturali che fanno i bambini.

«Meno male che su di te posso contare. Dai, raccontami come vanno le cose. Quel caffè corretto grappa non me la racconta giusta». Anna curva le spalle, imbarazzata per essere stata colta in flagrante; la stessa espressione del più piccolo della sua famiglia quando combina un guaio.
«Cosa vuoi che ti dica? Siamo alle solite. Non vedo l’ora che siano maggiorenni. Ho sorpreso il più piccolo a sciogliere un gelato nel water per mangiarsi lo stecco al limone. La più grande ha distrutto un trofeo di Marco giocando con le amiche una partita a pallavolo immaginaria. E mio padre ha scoperto che i gemelli non amano le caramelle alla menta e, forse per non deluderlo, le hanno sempre nascoste sotto al sedile dell’auto; mi ha detto che il tizio dell’autolavaggio è rimasto sconvolto dal quel ritrovamento». 

Anna manda giù l’ultimo sorso ormai tiepido e fissa l’amica con un filo di invidia. «Tu sei sempre in forma. Ma guardati! Anche se, devo ammettere, il nuovo taglio di capelli non ti dona molto, perché lo hai fatto?».
A quel punto, Marianna si toglie il berretto con un gesto secco, poi abbassa lo sguardo, sotto gli occhi trasecolati di Anna. «Santo cielo» esclama, poi si affretta a ordinare due caffè. Decisamente corretti con grappa.

- Fine -

Il tempo non ti aspetta, proprio no!

Dopo un viaggio di sei ore in auto, interrotto solo da un paio di pause in autogrill, Sabrina raggiunge la vecchia casa di famiglia, quella in cui non mette piede da quasi tre anni. Parcheggia l’auto in fondo alla via e impiega un tempo piuttosto lungo prima di scendere e avviarsi verso l’ingresso; lo stesso atteggiamento di un detenuto in procinto di prendere posto sul lettino prima di ricevere l’iniezione letale. Si guarda attorno e l’immagine attorno a sé pare una di quelle cartoline che si trovano nei negozi di souvenir a Venezia o Roma, dove il panorama è lo stesso di sempre. I condomini accanto sono gli stessi, persino le auto sembrano identiche a quelle che ricorda. Gli alberi sono stati sfoltiti, ma sono sempre al loro posto.

Raggiunto il cancello, fissa il campanello con il doppio cognome e sforza di allungare l’indice per premerlo. Un rumore elettronico fa scattare l’apertura e Sabrina la oltrepassa, senza indugiare oltre. Ormai la sua presenza è stata annunciata. L’ascensore sale fino al quarto piano, la porta d’ingresso è aperta. Si sofferma all’entrata e tende l’orecchio: la televisione è accesa sul canale del telegiornale, un frigorifero viene aperto e chiuso e quello che sembra un piatto viene appoggiato con poca grazia sul tavolo. Sabrina fa un sospiro ed entra.

Pochi passi e si ritrova nella cucina dove ha fatto migliaia di colazioni, pranzi e cene. Un ricordo all’apparenza banale ma che la travolge come un’onda inaspettata. Il padre la saluta mentre condisce della pasta e la riversa su un piatto, accomodandosi a capo tavola. Sabrina siede al lato opposto, stretta nel cappotto e nella sciarpa, lo zainetto sulle spalle. Mostra un sorriso che si perde quando pronuncia un Ciao e fissa il televisore senza ascoltare realmente ciò che la conduttrice sta dicendo, distogliendo lo sguardo dal padre.

Lui attira la sua attenzione e batte due dita su una busta. Sabrina si inclina in avanti e la nota, oltre un sacchetto di pane. La prende e la rigira nella mano, c’è scritto solo il suo nome. Tutta quella strada per una lettera da parte della madre ritrovata in un cassetto dopo il suo funerale. Sabrina l’appoggia al tavolo, poi si alza per bere dell’acqua e vuota il bicchiere con calma prima di rispondere al padre che nel frattempo le ha chiesto come vadano le cose. Tutto bene per entrambi è una risposta più che sufficiente. Riprende la lettera in mano, ottima scusa per dileguarsi da quella situazione, e se ne va. Probabilmente sarà l’ennesima ramanzina sotto forma di lettera che sua madre era solita fare, con la differenza che questa volta non è riuscita a spedirla perché un’auto glielo ha impedito…

Uscita di casa, apre la lettera e trova un biglietto scritto a mano, attaccato sopra ad un’altra busta che dice: “Cara bambolina, leggi questa lettera e poi vieni a casa da me. Ti voglio bene, mamma”. Quella parola – bambolina – l’ammorbidisce all’istante. Sua madre non la chiamava così da anni, ma soprattutto non si trattava della solita ramanzina messa per iscritto, un’abitudine che detestava e non aveva mai capito. Leggerla e non poterla affrontare è un duro colpo da digerire, poi le viene in mente dove può andare. Anzi, dove deve andare.

Percorre il viale alberato, la mano al collo per tenere ferma la sciarpa e proteggersi dal forte vento che sembra voler accelerare il suo passo verso la tomba della madre. Lato est, sedicesima fila, cinque tombe dall’interno della passerella. Sabrina si china e fissa l’immagine della madre. Conosce bene quella foto: era il suo cinquantunesimo compleanno. Sabrina apre la seconda busta e inizia a leggere a bassa voce quanto scritto in una sola pagina. 

Sabrina chiude gli occhi, ma questo non impedisce alle lacrime di scendere lungo le guance arrossate dal freddo. Ritorna all’auto e, con fare agitato, cerca la piccola agenda sepolta nel fondo dello zainetto, sperando di trovarla ancora lì. Eccola! Sfoglia con foga le pagine e si blocca osservando una lista. Nessuna voce è ancora stata barrata, ma è il presupposto di una lista…

- Fine -

Il tempo passa e se ne va…

«Voglio leggere ogni giorno. Voglio sedermi in cima ad una scogliera e ascoltare il mare infrangersi. Aspettare il tramonto e vedere il sole lasciare l’immensità dell’universo alla luce diafana della luna e ascoltarne il silenzio. Voglio viaggiare, tanto. Conoscere il mondo. Voglio vivere in città diverse, così da scoprire quelle sfaccettature che da turista non si possono cogliere. E scriverei di tutto questo», dice Sabrina.

«E che cosa aspetti a farlo?», le chiede Francesca.
«Non è così facile»
«Ah, davvero?», replica nuovamente Francesca, il tono di chi ha voglia di attaccar briga.
«Sì, cara: mai sentito parlare di responsabilità?», ribatte Sabrina. Incrocia le braccia al petto e serra le labbra per celare un’espressione ferita.
«E quali sono le tue responsabilità? Sentiamo»
«Uhm… affitto, bollette, benzina, cibo. Tante cose che costano, devo continuare?»
«Non hai nominato felicità, benessere, progetti. Non hai alcuna ambizione nella vita?»
«Certo, ma costano anche quelle!»
«E perché non le hai aggiunte tra bollette e benzina, allora?».

Il classico silenzio imbarazzante piomba tra le due ragazze. Francesca la guarda come se non aspettasse altro che ribattere alle sue risposte; gli occhi parlano più della sua bocca e fissano l’amica che distoglie lo sguardo e scuote la testa, emettendo una piccola risata, come se fosse a pagamento pure quella.

«Francesca, sai che cosa intendo. Ci sono priorità a cui non possiamo dire di no!»
«A me sembrano tutte scuse»
«Dici così perché tu non hai problemi, non più almeno…»
«Grazie tante, eh!»
«…scusa, non volevo… e comunque la fai troppo facile»
«E tu la fai troppo difficile, invece!»
«Francesca, ora basta! Chiudiamo l’argomento. Non so nemmeno come mi hai convinto a dirti quelle stupide cose che vorrei fare»
«Stupide? A me sembrano eccezionali e soprattutto realizzabili. Non devi fare tutto subito, basta metterle in atto, un passo alla volta, ogni giorno. E se non realizzi tutto, pazienza. Sempre meglio di un pessimo rimpianto, non credi?».

Sabrina guarda altrove, di nuovo, e fissando il giardino esterno del bar dove fa colazione tutti i giorni, prova a ribaltare la situazione. «Non sto poi così male. Il lavoro mi porta via tanta energia, ma entrano tanti soldi. Un po’ di tempo per me lo ritaglio e poi…». Francesca finge di russare, poi apre gli occhi all’improvviso, scoppiando a ridere sotto lo sguardo basito di Sabrina che le lancia addosso una salvietta appallottolata. Basta uno sguardo verso l’amica e Sabrina rivela finalmente un sincero sorriso che in pochi istanti si trasforma in una risata. «Non sei cambiata affatto» dice, tornando a guardare il giardino «È come se non te fossi mai andata via»
«Considerami una di quelle presenze scomode che ti spronano a fare ciò che è davvero importante per te prima che sia troppo tardi. Io dovrei essere il perfetto esempio, non credi?».

Quando Sabrina si volta, gli occhi ridotti a due scure linee sottili per trattenere una forte e improvvisa emozione, Francesca non c’è più. Si scosta dalla sedia, le braccia finalmente si smollano e cadono lente sulle gambe. Si guarda attorno, cercando una testa di boccoli neri ricadere su una sbiadita giacca militare, poi una voce la distrae.

«Sabrina, tutto bene?», chiede la proprietaria del locale, impegnata a pulire un tavolo accanto a lei da tazze e briciole di brioches.
«Sì, sì…»
«Con chi stavi parlando tutta agitata?»
«Con nessuno, sono sola, non vedi? Come ogni mattina»
«Ti porto qualcos’altro?»
«No, grazie».

Sabrina torna con la schiena appoggiata allo schienale. Sospira. Tende una mano verso lo zaino e prende l’agenda. Tira fuori un foglio di carta dall’aspetto consumato per le tante volte che è stato piegato e ripiegato, e lo apre. Legge le poche righe sotto alla foto che ritrae l’amica, sorridente: Francesca Testi, nata il 20 settembre 1984, morta il 15 maggio 2018. Gira di scatto il foglio, prende una penna e inizia a scrivere le cose che ha detto di voler realizzare poco fa. Vederle scritte ha tutto un altro effetto, ora che le legge, e non sembrano nemmeno così lontane dalla realtà. Un colpo di tosse le fa alzare lo sguardo. Accanto a lei c’è Francesca, la guarda e le sorride.

- Fine -

I Social: come all’ora di ginnastica!

YouTube.
Facebook.
TikTok.
Instagram.
Twitter.
LinkedIn.

E un pollice a muovere un mondo virtuale che appare più bello di quello nel quale vivi. I profili che segui sono come dei vicini di casa, ma non li incontri in ascensore, lungo le scale, mentre sali in auto quando ti passano di fianco o lungo la strada che percorri per andare a lavoro. Li vedi in quei cerchietti che Instagram propone, o in meravigliose e pensate-ad-arte immagini quadrate 1080 px per 1080 px come esige il social. 

Ogni contenuto sembra interessante, alcune informazioni le ignoravi; di altre ti chiedi come mai non ci hai pensato tu. Percepisci la stessa sensazione che avevi quando arrivava l’ora di ginnastica a scuola: ansia da prestazione, paura di prendere una pallonata a pallavolo, il fiato corto per l’agitazione che galoppa più veloce di un cavallo in corsa all’ippodromo perché senti di non essere abbastanza per quel mondo che neanche esiste. 

Tutti appaiono felici, hanno contenuti da condividere e sembra abbiano appreso un nuovo mantra che migliorerà la loro giornata. E questo è solo Instagram. Su Facebook le notifiche mostrano le novità di alcuni tuoi amici o di gente che hai amica ma che quando vedi online pensi “E questa chi cazzo è?”.

Il pollice non riesce a stare fermo e scrolla, incontrollabile, cosa c’è di nuovo nel mondo delle tue amicizie anche se somiglia di più ad un tabellone di un match: chi fa più punti, vince.

Scopri che una coppia ha avuto il terzo figlio, un’amica ha vinto un premio, il cugino del fratello del tuo ex si è trasferito all’estero, la persona che più ti stava sul cazzo ha aperto un’azienda di successo. A quel punto oscuri il telefono.

Quando lo riprendi in mano e scopri nuove notifiche legate alle tue recenti pubblicazioni hai la stessa sensazione di quando mangi del cioccolato e guardi tutti i social, perdendoti in video Tik Tok e pensi che forse dovresti puntare a quel social. O magari aprire un canale YouTube. Hai tante idee ma non sai da quale iniziare e poi ricevi un messaggio privato dall’ennesimo social. 

Una persona che conosci ha ricevuto una bella notizia che potrebbe diventare qualcosa di più concreto. Ti chiedi se sia una condivisione genuina o se sia solo un modo per sbatterti in faccia la sua conquista. La cosa un po’ ti tormenta ma nel frattempo ti congratuli, poi oscuri il telefono. 

Dopo lavoro la voglia di un drink qualsiasi ti attrae. Fai un brindisi con i colleghi, ridete facendo selfie. Tante teste tornano poi chine sugli schermi, i meno tecnologici tornano invece a lamentarsi del lavoro, dello stato, della vita di tutti i giorni. E tu ti fai trascinare dalla massa, sparli, ti adegui. La transumanza si ritrova a casa dell’amico che ha proposto cinese a domicilio.

Seguite come degli agenti dell’FBI il rider che arriva sfinito e a cui date solo una stella perché non ha consegnato entro i tempi che secondi voi erano corretti rispetto all’applicazione. Non lo dici a nessuno, ma sei dispiaciuta per il rider e per la sua faccia avvilita ma mandi giù quella sensazione assieme ad un raviolo al vapore intinto in salsa agrodolce.

La maggioranza opta per una commedia e la si guarda con un occhio solo: uno sullo schermo della televisione, uno su quello del cellulare. Mentre gli altri sembrano lavorare alla loro seconda vita, tu fissi lo schermo senza compiere azioni, le notifiche dei tuoi social hanno lo stesso andamento del lavoro di Homer Simpson alla centrale nucleare.

A fine serata saluti tutti e quando raggiungi casa, senti tuo padre russare e vedi tua madre stirare con l’aria di chi preferirebbe buttare il ferro da stiro giù dalla finestra piuttosto che usarlo per stirare la tua camicia. Sei content* perché potrai indossarla domani a lavoro anche se per un attimo ti senti in colpa a non essere tu a stirarla. O forse è per il fatto che vivi ancora con i tuoi genitori.

Sei pront* per dormire. Denti, pigiama, cellulare in carica e il pollice pronto a scrollare come se i feed dei vari social fossero una moderna ninna nanna, ma poi ti fermi. Ti accorgi di aver appoggiato sulla scrivania un biscotto della fortuna avanzato dalla cena. Appoggi il cellulare e lo scarti. Lo spezzi e leggi il biglietto.

Fatichi a prendere sonno. Di solito sono i social il tuo cruccio: le belle vite che tutti espongono, i sorrisi, le vittorie. Tutte cose che vorresti ma non ti appartengono. D’altronde perché si dovrebbe pubblicare il suo opposto? Sarebbe terribile. O forse potrebbe essere il giusto contrappeso che li bilancerebbe? Pensi e ripensi a quella frase e ti chiedi se faresti quella follia o meno. La cosa ti tenta, ma è proprio in quel momento che il sonno ha la meglio e crolli per rialzarti il giorno dopo e ricominciare tutto da capo.

Viso.
Social.
Denti.
Social.
Vestirsi.
Social.
Colazione.
Social.
Lavoro.
Social.
E anche se non te ne sei accorto, hai messo in borsa il biglietto del biscotto della fortuna.

- Fine -

La felicità del vicino è sempre più felice!

Ieri ho visto la ragazza del terzo piano e, come tutte le volte, mi sono emozionata.
Mentre lei scende, io salgo. Da quando l’ascensore è guasto siamo tutti costretti a fare le scale e ogni giorno la incontro alla stessa ora. Io rientro dal turno della notte e lei esce per tornare a lavoro dopo la pausa pranzo, presumo.
Non sono innamorata di lei, ma non riesco a non fissarla con grande curiosità. Invidio il suo modo di vestire, mi fa pensare che la perfezione esista. Quando cammina mostra sempre un velato sorriso, sembra quasi che non conosca alcuna espressione negativa. Gli occhi scuri sono grandi e luminosi: mi inteneriscono più di quelli del mio gatto. 

E in quei pochi secondi in cui passiamo una accanto all’altra, percepisco una sensazione positiva, come una grande boccata d’ossigeno; ho l’assurda convinzione che si nutra con iniezioni di positività invece di caffè e biscotti. Mentre la osservo avvicinarsi, ripenso al test sulla felicità che ho fatto la sera prima, di quelli che ogni tanto propongono le riviste. Essendo sola ho dato libero sfogo alla sincerità e ne è venuto fuori che ho una visiona tragica della mia vita, che la felicità per me è utopia e che non ho la capacità di cogliere la gioia anche nelle piccole cose. Uno schiaffo in pieno viso mi avrebbe fatto meno male. Chissà cosa avrebbe risposto lei, invece. Immagino il raggiungimento di un punteggio così alto da far vergognare la rivista per non aver proposto un test alla sua altezza.

Quando siamo a un metro di distanza, lei mi guarda e allarga il suo sorriso. Io ricambio, lei accenna una risata. Che abbia mostrato una smorfia buffa? O peggio, forse avevo i resti dello spuntino di metà mattina tra i denti? Oddio, che vergogna! Non appena le do le spalle abbasso lo sguardo e scuoto la testa sperando si dimentichi di me all’istante e quando mi riapproprio di un poco di dignità, vedo il mio coinquilino sulla soglia di casa. Il suo sorriso parla chiaro e non mi sta dando il benvenuto a casa.

«Sempre felice la nostra amica, eh?», dico sarcastica.
«E tu sempre invidiosa, eh?», replica lui, per nulla sarcastico.
«Come fa a essere sempre felice?», dico mentre giocherello con le chiavi di casa.
«Cosa ti fa pensare che lo sia sempre?»
«Su, dai, è evidente: ogni volta che la incrocio sulle scale sembra appena uscita da un cartone della Disney! Dio quando l’ha messa sulla terra le ha dato il pacchetto completo: felicità, serenità e benessere»
«Hai di nuovo fatto uno di quei test, vero?»
«Dai, non iniziare»
«E tu, come sei messa a felicità, serenità e benessere?»
«Come un gomitolo di lana cachemire lasciato andare dalla vetta dell’Everest. Anzi, come i panni di una lavatrice: a 90°!»
«Riesci a essere meno tragica?»
«Allora diciamo che mi sento come un’altalena. Una di quelle arrugginite che emettono quel fastidioso cigolio quando si muovono. E la mia si muove addirittura in modo precario»
«Ti avevo chiesto se riuscivi a essere meno tragica… Ad ogni modo, perché non le chiedi come fa a essere sempre così felice, ammesso che sia vero?»
«Farei la figura della pazza!»
«Ma ci guadagneremmo entrambi»
«E come?»
«Tu avresti la tua risposta e io non ti sentirei più lamentare!»
«Che simpatico! Allora dammi una mano!»
«Certo». E senza che riesca a reagire, mi prende le chiavi dalla mano e sparisce oltre la soglia di casa.

Rimango esterrefatta dal suo gesto, ma quando mi volto e guardo oltre la tromba delle scale, una sconosciuta euforia attraversa il mio corpo, come se la scia di positività lasciata dalla ragazza del terzo piano mi avesse contagiato. E per un attimo penso “Perché no?”. Corro giù per le scale tenendo una mano a stretto contatto con il corrimano, esco dal portone e mi guardo intorno. È appena uscita da un bar con in mano un caffè d’asporto e cammina verso il parco di fronte. Quando la raggiungo, è seduta su un’altalena: che bizzarra coincidenza! Mi faccio coraggio e mi avvicino mentre sistemo i capelli e passo l’indice sotto gli occhi per eliminare eventuali tracce di matita nera rovinata da un turno di sei ore. Mi fermo a pochi passi da lei che mi fissa con i suoi grandi occhi marroni. “Oddio, quanto è bella!”, penso. 

«Ciao, posso?», dico mentre indico l’altalena vuota accanto a lei.
«Certo»
«Sei Veronica del terzo piano, giusto?»
«Sì. E tu sei Marta del quarto?»
«Sì. Uhm, senti, vorrei farti una domanda se non…»
«Posso fartene una io prima?»
«Uhm, certo…»
«Ti incrocio sempre sulle scale da un po’ di tempo e ogni volta mi chiedo la stessa cosa: come fai a essere sempre felice?».

Mi faccio scappare una piccola e tenera risata. Lei ricambia e ora so che non sorride perché io abbia qualcosa tra i denti.
«Vuoi sentire una storiella divertente?», dico. E gliela racconto.

- Fine -

I miei pregi? Pazzi e scatenati!

«Grazie per accompagnarmi a questo colloquio, sono agitatissima!»
«Tranquilla, sii te stessa»
«Facile a dirlo, credo sarà più semplice indossare una “maschera”. Un po’ come il fantasma dell’opera…»
«Ma come ti viene in mente una cosa simile?»
«Il “facile a dirlo” o la maschera?»
«La maschera! Ovvio!»
«L’agitazione mi conferisce ispirazione, forse»
«Allora dovresti agirarti più spesso!»
«Cosa stai ascoltando?»
«Scusa, sono giorni che Sara mi invia vocali di cinque o sei minuti»
«Sicura che non sia un audiolibro, invece?»
«Bella battuta! Me la segno, comunque no. Il tizio che frequentava l’ha piantata senza alcuna spiegazione. Che stronzo!»
«Così dal nulla le ha detto addio?»
«Ma quale addio, magari! Ha applicato la tecnica del ghosting»
«La tecnica di cosa?»
«Ghosting: quando qualcuno interrompe i rapporti all’improvviso e ignora ogni tuo contatto. Si sono visti per quasi un mese, ovviamente sono andati a letto, poi il tizio è svanito nel nulla»
«Magari il mio ciclo mestruale facesse ghosting…»
«Ma che dici? Puoi ambire a molto di più, lo sai vero?»
«Evito i casi umani, e uomini sfigati mi trovano sempre. Faccio il mio lavoro senza lamentarmi, e mi mettono di turno nel weekend. Slitto le chiamate di mia madre, e mi ritrovo la sua richiesta di amicizia su Facebook. Tu cosa dici?»
«Touchè!»
«Hei, non mi hai più detto nulla di tuo fratello. Le rose hanno funzionato?»
«Diciamo di sì…»
«Cioè? L’ha ripreso in casa o no?»
«Sì, ma secondo alcune condizioni»
«Condizioni? E quali?»
«Quelle che lui le ha suggerito quando…»
«Lei lo butta fuori di casa e lui ritorna ma a delle condizioni? E da quando funziona così?»
«Lasciami spiegare. Mi ha fatto vedere le rose e gli ho detto che era il modo migliore, e rapido, per arrivare al divorzio, così gli ho scritto alcune cose che deve fare per lei e assieme a lei. Lui era titubante, quasi scocciato. Gli ho ricordato la scomodità del divano dei nostri genitori… e del convivere con i nostri genitori dopo i trenta. Ha acconsentito»
«E?»
«E pare stia funzionando, so solo che è tornato a dormire lì. Che sia sul divano o a letto, questo non lo so. È troppo orgoglioso per dirmi la verità, ma pazienza…»
«E pensare che lei non ti piace nemmeno»
«Sono male assortiti, ma mia nipote al momento ha bisogno di due genitori»
«E se peggiora che fai, li separi?»
«Ho riguardato il film Genitori in trappola qualche tempo fa, ho preso appunti»
«Inquietante…»
«Il film?!»
«Tu che pianifichi separazioni…»
«Scusa, non ho capito. Hai chiesto a tuo padre di venire con te? Perché?»
«Te l’ho detto, avevo paura»
«Di consegnare un paio di sandali che hai venduto online?»
«Ho cancellato la chat, ma avresti dovuto sentire che vocali mi inviava…»
«Tipo?»
«Per confermare luogo e orario mi ha descritto la sua giornata»
«E?»
«Ha detto che prima del nostro incontro doveva fare la spesa, andare a un funerale, fare shopping e che non lo avessi trovato al luogo concordato per la consegna, avrei dovuto andare in un posto che proponeva lui; e ha aggiunto che se non lo vedevo non dovevo preoccuparmi perché forse tardava per via di un altro impegno – che ora non ricordo – e che se provavo a contattarlo senza risposta voleva dire che gli si era scaricato il cellulare…»
«Caspita, e tu che gli hai risposto?»
«Di trovarci al parcheggio davanti ai carabinieri»
«Non ci credo, solo a te accadono certe avventure! E poi scusa, cosa gli hai venduto?»
«I miei sandali, quelli con le cinghie in pelle»
«Sarà strano ma ha gusto, la sua ragazza sarà contenta»
«Mi ha detto che non ha la ragazza, ma che ho buon gusto»
«Ok, questo è inquietante, però mi fai morire dal ridere…»
«E pensa che io, per un attimo, ho pensato davvero di morire… nel bagagliaio del tizio però…»
«Eccoci arrivate»
«La vicinanza a casa è impagabile, devi ammetterlo»
«Sì, è vero, ma mi assumeranno? Sono così demotivata dal mondo del lavoro viste le ultime disavventure. E senti questa: mi hanno chiesto di elencare il mio miglior pregio, è una delle domande che dovrò sostenere durante il colloquio. Hai qualche suggerimento?»
«Te ne posso elencare sette di pregi»
«Sette?»
«Sì!»
«Tu lo sai vero che il mondo del lavoro è un Hunger Games per adulti, oscuro e crudele, in cui probabilmente mi inserirò come parte di un avamposto di disperati?»
«Ok, ne ho sei da elencare. L’ottimismo non è il tuo forte…»
«Avanti, sentiamo…»
«Sei una persona che sa ascoltare: io bypasso gli audio che vanno oltre il minuto. Trovi sempre una soluzione, a chiunque, senza badare alle simpatie; questa è empatia. Mi fai ridere con le tue disavventure e questo mi fa pensare che dobbiamo aprire un blog e raccontarle. E poi hai questo modo così calmo di comunicare alle persone, le fai star bene e in questo lavoro è fondamentale»
«Ok, elencherò tutte queste belle cose: saranno entusiasti di stringermi la mano mentre mi intimano di uscire e non presentarmi mai più alla loro porta»
«Essere se stessi non è sbagliato»
«Sei mia amica, è normale che tu dica belle cose su di me»
«Quanto sei testarda, elencalo come difetto, se te lo chiedono…»
«E va bene, dirò che i miei pregi sono pazzi e scatenati! Ci vediamo tra poco»
«Aspetta…»
«Che c’è?»
«Pensavo che non c’è nulla di male a fare un po’ come il fantasma dell’opera, sai… ricamare un po’ sopra alle cose…»
«Ma questo significa indossare una maschera!»
«Sì, ma lui ne indossava una solo per metà!»

Fine

E tu, ricordi il tuo primo bacio?

Nella vita, Nora si era sentita dire di tutto. 
A volte non era abbastanza rapida nella comprensione di un compito di matematica.
Altre volte, invece, memorizzare il concetto di un testo le richiedeva più tempo rispetto agli altri.
E poi, ancora, non era sufficientemente abile nell’inserire dei dati al computer, a consegnare il caffè ancora caldo al suo capo, a stampare fronte retro senza prima fare un paio di test. Ora tutte quelle frasi non la toccavano nemmeno più ma mai avrebbe pensato che la più inaspettata sarebbe stata quella che l’avrebbe più ferita.
Tu non sei mia madre.

 

Angela era uscita sbattendo la porta e lasciando un’invisibile quanto palpabile voragine tra loro due, nel bel mezzo del salotto; la televisione ancora accesa su una serie tv. L’irruenza con cui si era alzata per sfuggire allo sguardo di Nora aveva fatto rovesciare una lattina di coca-cola e il liquido aveva inzuppato il tappeto persiano. In un angolo, i disegni erano a mano a mano svaniti sotto una macchia scura come era ora il viso di Nora. Nella sua testa risuonava ancora quella frase come l’allarme di un auto che non si spegne. Per tre mesi, quattro giorni, sei ore e dodici minuti, la vita era trascorsa come se nulla fosse accaduto, come se quel funerale non ci fosse mai stato. Ora Angela stava reagendo e Nora non sapeva che cosa fare.

Fu un flebile suono a riportarla a quel momento. Si guardò attorno e fissò un cellulare illuminarsi da sotto un plaid. L’impronta digitale le negò subito l’accesso, ma non le impedì di leggere l’anteprima di un messaggio. 

Un giorno, otto ore e ventidue minuti. Fu il tempo che Angela si prese per sé. Era rientrata a casa spalancando la porta. Aveva acceso le luci e preso una coca-cola dal frigorifero. L’aveva bevuta quasi tutta stando in piedi, in mezzo alla cucina. Si muoveva come se fosse l’unica presenza in quella casa, come se fosse appena rientrata da una gita scolastica. E Nora aveva atteso un cenno qualsiasi, un debole segnale a indicare che era tutto a posto, ma invano; forse non aveva ancora letto quel che le aveva lasciato nella stanza o forse lo aveva fatto ma non ne voleva parlare. 

Aveva pulito casa. Era rimasta in ginocchio per venti minuti a pulire il tappeto. Aveva cucinato per due, ma consumato per uno; si era assicurata che ci fosse la coca-cola nella spesa ordinata online.  

«E tu, ricordi il tuo primo bacio?». 
Nora si girò all’improvviso. Angela sedeva sullo sgabello, le mani appoggiate su un diario privo di lucchetto, l’aria curiosa e quasi divertita, come se non ci fosse mai stata alcuna discussione: né tra loro, né in una qualsiasi chat al cellulare.
«Sì, lo ricordo bene»
«E com’è stato?».
Nora prese un piatto, tolse la pellicola e mentre lo scaldava nel microonde, versò della coca-cola in un grande bicchiere che porse ad Angela. Due minuti dopo, le porgeva un piatto di spaghetti al pomodoro.

«Fu uno di quei baci che ti fanno esclamare Wow. Lui mi dava ripetizioni di matematica e italiano. A differenza di mia sorella a scuola ero proprio negata. Stava salendo sul treno che l’avrebbe portato dalla sua famiglia, in un’altra città, e proprio quando stavo per allontanarmi dal binario, mi prese tra le braccia e mi baciò»
«Sembra la scena di un film romantico. Mamma, invece, ha incontrato dei veri casi umani! Forse toccherà anche a me…»
«Non erano casi umani, solo baci meno romantici».

Nora aprì il diario e lesse a voce alta del tizio che invece di baciare la madre sulla bocca, le aveva centrato il naso con la lingua. Di quando il bacio fu perfetto ma nulla di eclatante o di quando moriva dalla voglia di sciogliersi tra le braccia del ragazzo che le piaceva. Una volta era così agitata che morse il labbro di un tizio fino a farlo sanguinare. Ci fu un altro bacio, bello ma disastroso, e quelle furono le uniche parole con cui era stato descritto, poi Angela abbassò voce e sguardo, come se le parole davanti a lei si fossero afflosciate, gli occhi lucidi.
«Qui dice Il mio primo e vero bacio è stato dopo il divorzio, quando mi sono innamorata per davvero. Il giramento di testa, le farfalle nello stomaco, una stretta al cuore. È un bacio che non dimenticherò mai!».

Angela osservò il diario che aveva in mano. Ad eccezione di poche pagine, alcune erano state accuratamente oscurate con della carta da pacchi, un cordino e dello scotch.
«Quando potrò leggere il resto?»
«Quando sarai più grande…» rispose Nora mentre riprendeva il diario. Trattenne un bolla di nostalgia all’altezza della gola al ricordo della sorella che la notte scriveva i suoi pensieri, ignara che venissero letti di nascosto il giorno dopo con una velata e tenera gelosia. Riaprì il diario e lo piazzò davanti ad Angela, indicando un punto preciso.
«Questo era tuo padre».
«Scherzi?».
«Ora è tardi, vai a dormire»
«Vorrei restare ancora sveglia qui con te, a parlare».

Nora non insistette e si sedette di fronte a lei. Accadeva per la prima volta da quel giorno, dopo tre mesi, cinque giorni, quattordici ore e trentaquattro minuti.

Fine

L’anno del pensiero tragico

Mi sento inutile, come un pezzo di puzzle che non s’incastra da nessuna parte nel vasto pianeta chiamato terra. Non c’è la presenza del mio compagno a placare i pensieri che ogni tanto emergono nella mia testa, come gang pronte a scazzottarsi al calare del tramonto. Reggo in mano la confezione degli hamburger vegani che ho cucinato per cena e la fisso con titubanza, come se le scritte celassero il segreto di un tesoro nascosto.

Ho separato la parte di plastica dalla carta, secondo le regole del riciclaggio, come faccio sempre. Eppure, in quel momento, quel gesto che compio più volte alla settimana mi destabilizza: sto davvero contribuendo a salvare il pianeta? Lo sto rendendo un posto migliore come suggeriscono il buon senso e la legge? Credo ancora in un sistema che ha in sostanza imposto a molti di pagare per andare a lavorare?

Non c’è la presenza del mio compagno a placare i pensieri che ogni tanto emergono nella mia testa, come gang pronte a scazzottarsi al calare del tramonto. Reggo in mano la confezione degli hamburger vegani che ho cucinato per cena e la fisso con titubanza, come se le scritte celassero il segreto di un tesoro nascosto.

Ho separato la parte di plastica dalla carta, secondo le regole del riciclaggio, come faccio sempre. Eppure, in quel momento, quel gesto che compio più volte alla settimana mi destabilizza: sto davvero contribuendo a salvare il pianeta? Lo sto rendendo un posto migliore come suggeriscono il buon senso e la legge? Credo ancora in un sistema che ha in sostanza imposto a molti di pagare per andare a lavorare?

Ricordo ancora con amarezza la studentessa in lacrime davanti alla biblioteca comunale. Mentre camminavo nel centro città, il viso intrappolato in una fpp2, una donna dall’aspetto scialbo ma il tono di voce squillante, le intimava di non entrare e di lasciare i libri a lei. La ragazza aveva replicato che doveva studiare in preparazione a un esame, non aveva altro posto dove poterlo fare. Di tutta risposta, la donna aveva ripetuto di consegnarle i libri e che non poteva fare diversamente, era la legge. Punto. Ero inorridita dall’accaduto, eppure avevo proseguito in silenzio, senza farmi coinvolgere. Che cosa potevo fare?

Ora, invece, penso che avrei potuto volgere la mia attenzione alla giovane studentessa. Offrirle un caffè d’asporto, magari ospitarla a casa mia per qualche ora, lo spazio c’era ma chi mai farebbe studiare un estraneo in casa sua al giorno d’oggi? Non lo percepisco un atto spontaneo. O forse sono solo figlia di preconcetti e pregiudizi.

Incontro il mio debole riflesso alla finestra, la luce al neon della cappa alle mie spalle è ancora accesa. La mano sinistra stringe la carta, la destra la plastica. Questo è il mio contributo alla madre terra che ci ha regalato tanto quanto forse le abbiamo tolto. E se si stesse già vendicando di noi e del nostro egoismo nei suoi confronti? Forse questi ultimi anni sono solo un banco di prova per vedere la nostra reazione, un test per darci la possibilità di rimediare agli errori commessi e confermare che meritiamo un’altra chance. Se, però, devo basare la risposta sulle azioni dei politici, di cui noi siamo semplici estensioni, e sulle cause che ci spingono a promuovere, potrei benissimo buttare carta e plastica nello stesso bidone.

Alla parola “politica” mi viene da ridere e non lo considero un buon segno. Anzi, elaboro una teoria. Negli ultimi tempi abbiamo detto addio a personaggi che hanno segnato la storia o che ci hanno insegnato qualcosa, ma possiamo dire lo stesso dei politici? Possibile che siano perennemente sani? Forse entrare in politica è una gran bazza: diventi indistruttibile, forse addirittura immortale visti i lunghi mandati che si possono ricoprire più di una volta. Insomma, diventi un Superman immune persino alla kryptonite.

Secondo mia madre, l’unico modo per far sentire la nostra voce è votare. Eppure, perché mi sembra che il popolo sia solo un coro di voci che canta invano?
Devo rispettare l’ambiente e dare il mio contributo. Devo votare, sostenere un partito e supportarlo. E l’amore? Le amicizie? Le mie ambizioni, i miei sogni, i miei progetti? Mi sento all’improvviso ingannata.

Ho rispettato la legge, mi sono adattata ai cambiamenti dipesi da forze di causa maggiore: forse una distrazione in laboratorio, forse qualcuno che ha giocato a fare Dio, non lo sapremo mai. Ho messo da parte ciò che amo per concentrarmi su ciò che accadeva nel mondo e ho finito per mettere da parte anche me stessa; per seguire gli ordini che un gruppo di uomini in giacca a cravatta ha reputato giusto. Ho creduto in valori che non sono parte di me, ma ho scelto di chinare il capo a loro senza fiatare quando invece faccio storie per inginocchiarmi in chiesa.

Madre natura è ancora intera, ma i suoi abitanti sono riusciti a spaccare in due l’umanità. L’informazione è diventata un’arma usata per separare, allontanare e istigare un astio di cui, se ci interrogassero, non sapremmo nemmeno spiegarne il significato. Alcuni rapporti sono eclissati lentamente e litigare per un tradimento ora sembra una causa di poco conto. Ci siamo divisi con la stessa facilità con cui ho diviso carta e plastica della confezione di hamburger vegani.

Uscire dalla carreggiata imposta dalla società equivale a lanciare un epiteto di fronte al Vaticano per la maggior parte delle persone, ma quando arrivi al picco del tuo burnout, ti ritrovi a navigare in acque sconosciute e profonde che allontanarsi dallo stato attuale pare più pericoloso di entrare in guerra. Scruto l’esterno di casa dalla finestra e intravedo la sagoma dei tetti delle villette a schiera di fronte. Porto lo sguardo oltre e individuo un manto scuro che alla luce del giorno brilla come un tappeto di menta.

Quando ogni tanto prendo il caffè dal terrazzo, dopo pranzo, ammiro quella scena che pare quasi un dipinto a olio. Immagino la vita delle persone nelle case che spuntano come boccioli in fiore: chissà se anche loro si chiedono se il sistema ci stia aiutando o, al contrario, fottendo. Lascio correre i pensieri come foglie secche trasportate dal vento fino a quando i miei occhi si perdono oltre l’orizzonte dei colli.

Forse è ciò che dovrei fare. Prendere un paio di pantaloni, qualche t-shirt, due felpe, un paio di scarpe e una giacca a vento. Anche un ombrello. Dovrei guidare la mia auto ibrida oltre un confine e poi abbandonarla per iniziare una nuova vita. Coltivare la terra e apprezzarne i doni. Se avessi fatto così sin dal compimento dei miei diciotto anni invece di intraprendere una carriera che non fa per me, sarei una persona eccezionale, ammirata e forse persino emulata. Sarebbero però poche le persone a seguire questo mio stile di vita, privo di attrattiva per i politici e di superficiale interesse da parte delle regole della società; solo l’ambiente me ne sarebbe grato ma la mia sarebbe un’impronta minima.

Immaginate, per un attimo, se tale stile di vita l’avessimo fatto in molti in un lontano passato. A migliaia o centinaia. Saremmo persone diverse in grado di prenderci cura gli uni degli altri, di nutrirci con le nostre stesse mani, non avremmo bisogno di cercare la felicità. Potremmo addirittura asserire di aver superato Dio.

La porta d’ingresso si apre e il mio compagno mi saluta mentre tamburella le dita sul cellulare, la sigaretta stretta tra le labbra. La luce al neon si distorce e vedo solo in parte il mio riflesso. Mi accorgo di stringere ancora tra le mani carta e plastica. Soffoco un sospiro e li butto nei rispettivi bidoni.

Fine

Leucemia’s got talent!

Quando ho conosciuto per la prima volta la paura? Esattamente il 9 maggio 2019. Ne avrei fatto davvero a meno, ma lei si è presentata con insistenza e in una maniera del tutto inaspettata…

Non mi ha lasciato senza fiato perché mi avevano rubato l’auto o la borsa in un mio banale momento di distrazione. La paura che ho conosciuto io era perfetta quanto letale, perché mi si è piazzata davanti e si è presentata con una frase dalla musicalità impeccabile: «Anastasia Montebello, tu hai la leucemia».

Come ho reagito io? In quell’istante sono morta. Dentro. Una parte di me è svenuta ai piedi del tavolo, sotto gli occhi del medico dallo sguardo inespressivo, abituato a fare questi annunci come fosse Giuliacci che ci avvisa del maltempo.

Quando però ho ripreso possesso del mio corpo – o almeno di una parte di esso visto che per la maggiore era già nelle mani della “malattia del sangue” – non ho più visto nulla attorno a me. Sentivo solo me stessa parlare con lei.

«Leucemia, ma sei seria?» – Anastasia
«Ti sembro una che scherza?» – Leucemia
«No, no… è solo che mi pare strano. Insomma, ho solo trent’anni!» – Anastasia
«Cioè mi stai dicendo che non sono degna di prendere posto nel tuo corpo? Dovrei trovare residenza in una vecchia mummia del reparto geriatrico? Così mi offendi!» – Leucemia
«Scusa, cara mia, ma qui l’offesa sono io! Ma che ti ho fatto di male?» – Anastasia
«Tesoro, sinceramente nulla. Sei una brava persona, ma non puoi prendertela con me. Non decido io dove abitare. Penso che l’unica cosa da fare sia quella di convivere assieme. Che ne pensi?» – Leucemia
«Non mi pare di avere molte alternative…» – Anastasia
«Ti sembrerà strano detto da me, ma un’opzione ce l’hai» – Leucemia
«Quale sarebbe?» – Anastasia
«Non arrenderti a me. Sono fetente, cattiva, mi odierai con tutta te stessa, ma non smettere di credere nella vita. Fidati…» – Leucemia

…e così ho fatto. E sono ancora qui. Quella stronza aveva ragione…

Questa storia è composta da 8 brevi aneddoti trasformati in racconti. E seguono la storia vera, e il percorso, di Anastasia: dalla scoperta della malattia fino alla ricerca di un donatore per il trapianto di midollo osseo.

Leggi l’episodio 1 – “Pronti.Partenza.Respira

Papà, dove sei?

“La morte è l’unica certezza della vita”.
Molte volte si scherza su questa affermazione, ma è vera al 100%.

E fa male quando hai un incontro faccia a faccia con lei.
È immune alle tue emozioni, se ne sbatte senza alcun riguardo. Puoi supplicare quanto vuoi, ma lei non cambia idea; almeno non è ipocrita, questo è certo! Quando leggiamo in un giornale una tragedia o ci comunicano la morte di qualcuno, proviamo dispiacere, lo troviamo ingiusto ma poi tutto torna come prima, bene o male. E quando è una persona accanto a noi a scomparire all’improvviso, la prima reazione non è il pianto, ma l’incredulità. Lo stupore ha la meglio per pochissimi secondi e solo nel momento in cui ci crediamo per davvero, allora tutto diventa realtà. L’unica differenza è che non aspetti con ansia la morte per spacchettarla e giocarci assieme sotto un albero di Natale.

Perdere qualcuno è difficile e impossibile da evitare. Nonostante tutte le scoperte ed evoluzioni che l’uomo ha raggiunto, non ha mai avuto la meglio su di essa. E forse è meglio così perché viste le produzioni cinematografiche ci ritroveremmo in scenari pieni di zombie, atmosfere apocalittiche e un’umanità molto ostile. L’unica cosa da fare è affrontare la situazione perché la vita, quella gran simpaticona, se ne infischia di cosa abbiamo perso, sia esso un mazzo di chiavi, un amore, un’amicizia. Vita e morte tirano dritto senza guardarsi indietro come il peggiore dei criminali, pestando sull’acceleratore e gridando un bel “Ciaone” mentre ignorano lo specchietto retrovisore. Di proposito.

Atto I
Ottenuto il diploma, come il più stanco dei guerrieri, Frankie depone le sue armi, corrispondenti a zaino e libri, in un baule che non intende riaprire mai più. Una guerra durata oltre cinque anni a casa di due sconfitte, ovvero bocciature che ha causato lui stesso per la poca voglia di interagire con insegnanti e studio, l’hanno tenuto lontano dal traguardo, ma finalmente può definirsi concluso questo percorso obbligatorio previsto dalla legge. Ora può iniziare la ricerca di se stesso e di un lavoro; e al diavolo la matematica, la letteratura e le lezioni di ginnastica. 

Nonostante i tanti divertimenti, passare sei giorni alla settimana in un’aula contro la sua volontà sentendosi dire “…è per il tuo futuro, figliolo…” lo aveva portato al limite, ma aveva pagato il prezzo per la sua libertà e ora si godeva ciò che rimaneva dell’estate dopo aver superato gli esami, pensando a come iniziare la sua nuova vita. Si sentiva come Morgan Freeman nel film Le ali della libertà, ma non aveva nessun amico da raggiungere, eppure aveva il desiderio di iniziare tante cose.

Ispirato dai vari disegni che faceva su carta ma soprattutto al computer, capì presto che l’idea di diventare un grafico gli piaceva molto. Iniziò con lavori in settori completamente diversi, ma a tempo perso realizzava qualche progetto di grafica per qualche azienda fino a ritrovarsi, ironia della sorte, anche dietro a una cattedra come insegnante. Il sapore dell’indipendenza, però, era più appetitoso di una pizza appena sfornata e il piano dell’appartamento in cui viveva con il padre e la sorella era diventato col tempo il suo piccolo studio. Sapeva che era solo all’inizio della sua carriera, ma era una buona base; quello era il suo piccolo angolo di felicità.

Atto II
Una sera di novembre il telefono di casa squillò. Frankie e la sorella non si stupirono nel ricevere una chiamata ad un’ora tarda; con molta probabilità era il padre che li chiamava dall’estero dove si trovava per un periodo di vacanza. Dopo la pensione, aveva continuato a fare qualche lavoretto, ma ogni tanto si concedeva il classico periodo di stacco per godere del tempo libero che aveva.


Frankie raggiunse la sorella, pronto per il suo turno di saluti e soliti convenevoli, ma l’espressione della ragazza era diverso. La fronte aggrottata faceva pensare a una connessione poco stabile, ma i suoi occhi parevano essere sotto il potere di un sortilegio. Frankie si avvicinò per prendere possesso del telefono, ma la sorella gli diede le spalle. Una mano copriva la bocca e l’espressione prima basita ora appariva irrequieta, come se un rumore l’avesse svegliata di soprassalto. Frankie prese con forza il telefono.


«Chi parla?», chiese. Il tono di voce alto rimbombò in tutta la stanza. Quella che udì non era la voce del padre, bensì di uno sconosciuto che all’improvviso tentennò, come se avesse esaurito le parole con la sorella.
«…mi dispiace molto, ma vostro padre è…». Ci fu un momento in cui Frankie non capì se l’uomo avesse riattaccato o se la connessione fosse caduta. Sospirò forte come un bufalo pronto all’attacco, ma poi lo sconosciuto riprese a parlare. 
«Mi dispiace dare questa brutta notizia, ma vostro padre è morto». 

La morte è una farabutta che nessuno vorrebbe incontrare. Mai. Ma se sei tu a cercarla… bè, questa è tutta un’altra storia…
Un uomo, un padre, un grande lavoratore, si era appena tolto la vita.

Atto III
Quando muore qualcuno a te vicino, piangi e ripensi ai bei momenti passati assieme. Consoli e ti fai consolare. Prendi parte al funerale che hai organizzato e mentre i giorni passano, cerchi di andare avanti perché, si sa, la vita ovviamente continua, senza alcuna riserva.

Quando una persona si toglie la vita, però, non smetti di chiederti il perché l’abbia fatto. La domanda risuona nella tua testa di continuo, come un loop da cui non riesci a uscire. Ed era ciò che si era innescato nella testa di Frankie. Dopo la telefonata, la sorella piangeva di continuo, ma il viso di Frankie non era affatto distrutto dal dolore.

Era come se fosse in attesa di ricevere la reale versione della morte del padre: un furto, un incidente, qualsiasi altra cosa ma non un omicidio premeditato verso se stesso; non sapeva cosa pensare. Era come se avesse appena letto una news online che aveva tutta l’aria di essere solo una grande bufala. Abbracciò la sorella e con molto calma, la mise a letto, poi prese una birra, si accese una sigaretta e salì al piano superiore, nel suo studio, e si mise in terrazzo. Immerso nel silenzio e l’oscurità della notte, fissò il cielo provando inutilmente a spegnere il cervello.
“E ora che cosa facciamo?”, pensò. Nessuna risposta. Nemmeno la vita aveva voglia di rispondere…

Non guardò l’ora, non aveva nessun modo di capire quanto tardi fosse. Lasciò la bottiglia vuota a terra e spense la sigaretta premendola nella terra fredda dentro il vaso di una delle tante piante del terrazzo, poi si sdraiò a letto.
“È morto per davvero?”, pensava.
“E ora cosa dobbiamo fare?”, pensava ancora. 
“Dovrei disperarmi? Preparare la colazione a mia sorella? Scrivere ad un amico?”. Era così sopraffatto che non ricordava nemmeno se avessero avvisato la madre. Immaginò tutta la scena dall’inizio, da quando avevano ricevuto la chiamata, ma era come se alcuni momenti si fossero azzerati. Tutto era confuso e non aveva un senso.

Come una reazione a catena, si ritrovò a pensare agli ultimi momenti passati assieme al padre poco prima della sua partenza. Non era contento del divorzio, non l’aveva mai pienamente accettato, ma ciò che lo opprimeva di più era essere irrequieto, come se gli mancassero delle cose da fare e non avesse più né tempo, né occasione per realizzarle. Frankie ricordava i suoi sfoghi, ma non li aveva mai visti come preliminari per un suicidio. Il padre si annoiava spesso, sentiva di voler fare qualcosa di nuovo ma niente di ciò che faceva era sufficiente.

Percepiva una gran voglia di ricominciare, come di una rinascita e un viaggio forse poteva essere il primo mattoncino per iniziare una nuova avventura, ma qualcosa evidentemente era andato storto nella sua testa e aveva chiamato a sé la più stronza degli stronzi. I dettagli non si potevano conoscere. Quanto tempo aveva trascorso su quel terrazzo? Cosa aveva fatto per tutto il giorno? E il giorno prima? Aveva cenato? Aveva scavalcato la ringhiera o aveva fatto leva sul suo peso e la forza di gravità aveva fatto il resto? Il suo ultimo pensiero lo aveva dedicato ai figli?

Atto IV
Per Frankie iniziò un periodo di discesa verso il nulla. L’angolo di felicità era diventato la dimora della tristezza perché tutto in quella casa ricordava il padre e il terribile atto che aveva compiuto. La morte di una persona arreca dolore, il suicidio forse ancora di più, ma la questione più sconcertante è che non puoi concederti il lusso di piangerla in santa pace perché la burocrazia bussa alla tua porta, ti cerca al telefono, ti contatta via email. Ogni portale online e ogni contatto telefonico sono presi di mira perché all’improvviso non sei più un figlio che ha perso un padre, ma sei il nuovo punto di riferimento a cui scaricare eventuali debiti o eredità e a cui inviare fatture per pagare il funerale e portare a termine altre faccende di cui non avresti mai pensato di occuparti.
E non puoi tirarti indietro.

Frankie si sentiva il peso del mondo sulle spalle perché era lui l’uomo di casa ora. Aveva preso in mano la situazione per contenere il dolore della madre, ed ex moglie, oltre a quello della sorella. Aveva convinto quest’ultima a proseguire i suoi studi e a viaggiare come aveva stabilito di fare da mesi. Aveva detto alla madre di non preoccuparsi ed era volato all’estero a nome di entrambe per gestire le questioni familiari. Aveva tante domande in cerca di risposta, ma lo sconosciuto del telefono, rivelatosi il portiere dell’edificio, e i vicini non furono di alcun aiuto. Un uomo, a loro avviso senza alcuna ragione, si era ucciso. Punto.

Anche se ciò che lo assillava di più era la reazione della madre a cui non aveva mai chiesto spiegazioni. Perché non aveva pianto nemmeno una lacrima quando aveva appreso la notizia della morte dell’ex marito? Perché aveva consolato i figli e ascoltato il resoconto della telefonata come fosse un riassunto di una telenovela? Pareva una donna sopravvissuta alla guerra, immune a qualsiasi emozione o dolore. Avrebbe voluto chiedere spiegazioni, ma scelse di non farlo.

Se da un lato temeva le risposte, dall’altra non aveva tempo di investigare al riguardo. Il futuro lavorativo che si stava creando, la voglia di realizzarsi e la ricerca di se stesso erano stati appartati per gestire questioni più grandi di lui. Era segretamente geloso della sorella che studiava e trovava la sua dimensione nel mondo mentre lui era rimasto fermo nello stesso punto. Sentiva un forte senso di responsabilità che gli impediva di prendere altri impegni e di farsi una vita sua appieno, altrove, con qualcun’altro.

Senza rendersene conto, il tempo passava e lui portava avanti la sua vita a grandi falcate, come se fosse obbligato a bypassare alcuni momenti della gioventù per assenza di tempo.

Un’eredità può essere una vera fortuna, ma il altri casi può rivelarsi un totale caos e se Frankie si era immaginato per un attimo come Simba, diventando il re della giungla, ora poteva dirsi fortunato se l’agenzia delle entrate non lo tartassava di raccomandate. Nei momenti in cui i pensieri avevano la meglio, parlava al padre ma le sue parole erano puro astio.

“Perché ti sei ucciso? Perché hai rovinato la mia vita? Stavo creando il mio futuro, ero felice: era proprio necessario uccidersi?”. A volte si sentiva meschino, ma non riusciva a non odiarlo…

Atto V – finale
L’estate era nel pieno della sua esplosione. Faceva troppo caldo per uscire, ma ne valeva la pena piuttosto di rimanere confinati tra divano e televisione. Le giornate si erano allungate, come in ogni stagione estiva, e c’erano molte più distrazioni: feste, sagre, eventi. Ogni motivo era buono per uscire di casa e pensare ad altro. Frankie aveva risolto la maggior parte delle faccende in seguito alla dipartita del padre, ma non aveva ancora ripreso il pieno controllo della sua vita.

Era come se l’uomo che lo aveva cresciuto, e che gli aveva trasmesso la passione per le piante e la cucina, gli avesse ceduto un testimone corrispondente a un carico di responsabilità nei confronti della famiglia. Non era solo un fratello maggiore, ma anche un riferimento per la sorella in ogni sua scelta, mentre con la madre, ad ogni sua telefonata, sentiva l’impellente bisogno di essere utile e finiva per aiutarla anche solo per cambiare una lampadina quando in realtà poteva farlo da sola. 

Un pomeriggio, mentre cercava il gatto, si ritrovò a fissare la camera del padre dalla soglia e rimase basito da ciò che vide. Le lenzuola erano state cambiate, i libri che aveva letto o che forse doveva terminare erano ancora sul comodino, la finestra era aperta a ribalta e le tende tirate in parte per far entrare luce, ma soprattutto non c’era un filo di polvere. Per Frankie era come se nulla, in fondo, fosse mai cambiato. Dentro si sé pensava che il padre prima o poi sarebbe tornato e quel pensiero lo rattristò e infuriò al tempo stesso. Doveva uscire di casa. Subito.

Mentre si aggirava tra uno stand e l’altro del grande festival di musica, alla ricerca dei suoi amici, Frankie si sentiva irrequieto. Non erano i pensieri ad assillarlo, bensì la sete. Era una giornata molto calda: la maggior parte dei ragazzi giravano in canottiera o a petto nudo, alcuni erano persino scalzi. Le ragazze che si muovevano agitate lo ipnotizzavano: quasi nessuna indossava il reggiseno e non ricordava di aver mai visto così tante gambe scoperte; sembrava la sagra del piacere e non un concerto di Goa Gil. 

I suoi occhi cercavano qualche volto amico, fino a quando non si arrese e si recò alla tenda dove aveva pranzato qualche ora prima, alla ricerca di acqua fresca. Si guardò attorno più volte, poi all’improvviso, come fosse Alice che s’imbatte in una boccetta con scritto “Bevimi”, notò una bottiglia su un tavolo. Non si chiese come mai una bottiglia fresca, nonostante il caldo soffocante,  fosse in bella vista: aveva dannatamente sete. Mandò giù diverse sorsate, gli sembrava di inghiottire una cascata, ma poi un urlo lo interruppe e si spaventò come se gli avessero appena puntato un’arma alla testa. Un ragazzo con dei lunghi rasta ed enormi aloni di sudore su collo e ascelle gliel’aveva strappata di mano. «Porca puttana, ora si che sono cazzi amari…».

Il prato era immenso e la musica del dj Goa Gil vibrava persino nelle vene di Frankie da quanto era forte e magistrale. Gli sembrava di ballare in obliquo, sorretto dalle braccia delle persone accanto a lui. Era come se stesse lentamente ruotando indietro per compiere un giro a 360 gradi; forse era davvero così. Pensò che quella giornata fosse spettacolare e iniziò a saltare in alto, incapace di fermarsi. I volti che incontrava gli sorridevano e tutti lo imitavano, come se fosse il punto di riferimento per migliaia di persone accorse lì solo per ballare con lui; a ritmo di musica trance. Non appena chiuse gli occhi, tutto si amplificò all’istante, come se l’assenza di vista permettesse di saltare ancora più in alto e quando riaprì gli occhi, vide che toccava le nuvole e che un’immensa luce bruciava dolcemente la sua pelle.


“Non stavo così bene da tempo… mi sento così felice”, pensò. “Ti ho odiato così tanto, papà… tanto davvero…”. All’improvviso non saltava più, ma fluttuava nell’aria e fissava la folla che lo incitava a tornare indietro, a ballare ancora tutti assieme. Frankie fissò il cielo un’ultima volta, attratto dalla sua disarmante bellezza: non aveva mai visto un’immagine così pacifica, ma sentiva allo stesso tempo una forte attrazione verso il terreno e ancor prima di decidere quale direzione seguire, si sentì di nuovo tirare, ma quando i suoi piedi toccarono terra, non c’era più nessuno attorno a lui.
Dove erano finiti tutti quanti?

«Come sta?», chiese un ragazzo.
«Dorme. L’abbiamo scosso fino a farlo vomitare il più possibile», rispose il ragazzo con i rasta.
«Meno male… che storia, ragazzi! E poi chi ha lasciato una bottiglia d’acqua piena di acidi sul tavolo alla portata di tutti?», chiese allargando le braccia a enfatizzare la serietà della sua domanda. «Era praticamente a cento e passa acidi dall’aldilà!», continuò poi.
«Non ne ho idea, so solo che Frankie è stato proprio fortunato. Qualcuno lassù deve amarlo davvero…».

Fine

Cara amica: si può fare!

“La vita è un magnifico percorso in salita”. E qui mi immagino la vita stessa, nelle sembianze di una persona piegata in due dal ridere, le lacrime agli occhi e un principio di singhiozzo in arrivo.

E come darle torto? Alcuni dicono questa frase con un tono tale da far pensare che, di lì a poco, un sottofondo musicale fatto di archi e violini emerga a volume sempre più alto, ma lo sappiamo bene che è una stupidaggine e che è evidente che queste persone vivano su un altro pianeta o facciano uso di sostanze davvero, davvero molto buone; e sarebbe interessante conoscere il nome del loro pusher. Un classico!

La vita è tutto fuorché una magnifica salita.
È ribelle come Angelina Jolie in Ragazze interrotte.
È romantica come Leonardo DiCaprio in Romeo & Giulietta.
È pazza come Michael Douglas nel film Un giorno di ordinaria follia.
È determinata come Erin Brockovich nell’omonimo film.
È divertente come tutti i film American Pie e ironica come i capolavori di Woody Allen.
Ed è spaventosa come il film Non aprite quella porta o peggio, come tutti i film sugli esorcismi!

Insomma, è tutto fuorché una magnifica linea retta che punta verso l’alto. È una versione elevata al quadrato – moltiplicata per tipo un miliardo – delle montagne russe piazzate nel luna park più assurdo che conosciamo con il nome di terra.
Quando è in vena ci coccola e ci vizia, quando le girano i cinque minuti sono cazzi amari!

Atto I
«Ecco dov’eri sparita!», disse Veronica mostrando un gran sorriso. Sorrideva sempre, come se alla nascita le avessero inserito una precisa impostazione. Giulia la invidiava per questo: a differenza dell’amica, il suo sorriso pareva sempre più simile a una smorfia.
«Stavi scrivendo? Ora?».
«Non c’è un momento giusto per scrivere. Ecco perché ho sempre con me carta e penna».
«E cosa stavi scrivendo?».
«Le mie solite e bellissime cazzate!».
«Ma quali cazzate, tu scrivi proprio bene Giulia e prima o poi qualcuno se ne accorgerà!».
«Ci sono giorni in cui non ci spero più, eppure mi ritrovo sempre a scrivere. Come ora, nel giardino esterno di una discoteca. A proposito, mi sto annoiando da morire!». 

Veronica accentuò il suo sorriso. Le pareva strano che Giulia non si fosse ancora lamentata, anche se aveva tenuto botta più del solito rispetto ad altre volte.
«McDonald’s?», propose Veronica.
«Pensavo non me l’avresti più chiesto!», rispose l’amica, «Scappiamo via da questo asilo, mi sento la madre di ogni bamboccio che vedo».
Erano quasi le tre del mattino quando si avviarono a piedi verso il fast food più famoso del mondo. Avvolte nei loro piumini a buon mercato, affrontavano un vento freddo pur di non trascorrere un minuto di più nel locale alle loro spalle.
«Che serata, eh! Ancora non capisco come mi hai convinto ad andare a ballare».
«Dai, ogni tanto ci sta una serata diversa dal solito».
«Diversa dal solito? Non abbiamo resistito nemmeno due ore in discoteca che siamo già in un fast-food. Tesoro, questo non ti dice niente su come siamo messe? O meglio, su quanto siamo cambiate? Credo che questo sia il nostro addio ufficiale alla vita da discoteca e la conferma che siamo ormai vicine ai quaranta, fidati».
«E da quando siamo così noiose?».

«Forse volevi dire da quando siamo così sagge, non è vero?».
Veronica scoppiò a ridere e per poco non rovesciò il cappuccino sulla brioche al cioccolato di Giulia che cercò di proteggerla con le mani come Smigol faceva con il suo tesssoro. Era diventata molto golosa e Veronica l’aveva ben capito quando un giorno, un orsetto gommoso al gusto fragola era caduto tra il sedile e il cambio manuale, e l’amica aveva accostato lungo una tangenziale pur di recuperarlo; e poi lo aveva pure mangiato!

Ad ogni modo, era una serata come un’altra: chiacchiere, cocktail e cappuccini con brioche, risate davanti a video o post esilaranti. Solo una cosa era all’improvviso cambiata e Giulia la aveva notato subito. Le labbra leggermente serrate, i muscoli del viso tesi come fossero tenuti fermi da invisibili elastici, gli occhi abbassati per evitare di incrociare quelli dell’amica. Il sorriso di Veronica, in quel preciso momento, non era lo stesso di sempre.

Atto II
«Che succede?», chiese Giulia.
«Niente…».
«Uhm, lo sai che se dici niente a un’amica confermi che c’è qualcosa che non va. Un uomo non lo capisce, ma una donna, invece, sì. Avanti, sputa il rospo!». Veronica iniziò a giocherellare con il bastoncino di legno, mescolando il poco cappuccino che rimaneva nel bicchiere di carta.
«Pensavo a quello che hai detto poco prima… Al fatto che siamo ormai quarantenni…». Veronica lasciò la frase incompiuta sotto lo sguardo curioso di Giulia che la fissò scrollando le spalle come fosse un normale cenno a proseguire. Veronica sapeva che l’amica non si sarebbe arresa facilmente. Aveva rischiato di ustionarsi le mani pur di proteggere una brioche e quasi inchiodato l’auto mentre andava ai cento all’ora per salvare una caramella; e non avrebbe di certo lasciato tornare a casa l’amica senza il suo solito sorriso.

«Guardami, che cosa ho combinato di speciale nella vita fino ad ora?». Giulia non rispose, il suo sguardo pareva intento ad analizzare la domanda che aveva appena sentito.
«Dai, Giulia, sii onesta con me: cosa ho concluso di decente nella mia vita finora? Controllo fatture, bilanci e conti bancari da quindici anni e non so fare nient’altro! Arrivo a casa sempre stanca, non ho né tempo, né energie per dedicarmi ad altro. Sono il perfetto esempio dell’inconcludenza! Guarda qui: non ho più voglia di questo cappuccino e ne è rimasto appena un dito. Visto? Non riesco nemmeno a concludere una cosa così semplice. Sono destinata a morire come una vecchia contabile con la gobba e gli occhiali da vista spessi!». Giulia finì l’ultimo boccone della sua brioche senza reagire alle parole dell’amica. Era come se avesse appena ascoltato le ultime notizie del telegiornale e fosse pronta per sparecchiare la tavola. Ora era Veronica quella che scrollava le spalle, irrequieta come un toro alla vista del colore rosso.

«Quindi? Non dici nulla? Sono così patetica?».
«Veronica, calmati! E quale patetica? Si può sapere perché dici una cosa del genere? Non capisco».
«Me lo dicono tutti che sono inconcludente! Inizio una cosa ma poi non la porto a termine. Corso di fotografia. Corso di massaggi. Corso di degustazione dei vini. Corso di pittura. Corso per la gestione dell’ansia. Faccio tanti corsi, ma poi tutto finisce con l’ultima lezione. È come se ricominciassi da capo ogni volta e inizia ad essere frustrante…».
«Frustrante per te o per chi ti sta attorno?», chiese Giulia.
«Scusa, che cosa intendi?».
«Chi sono queste persone la cui opinione pare assolutamente fondamentale?».
«Persone che conosco, amici…».
«Amici…? Senti, Veronica, non capisco perché dai così peso alle opinioni altrui. Ci conosciamo da quasi dieci anni e non ho mai pensato che tu fossi inconcludente o patetica. Sono anni che fai corsi ma dove sta scritto che al termine devi portarli avanti in altro modo? Se non lo fai non succede nulla e comunque non sei inconcludente. Se sono indecisa su quale vino scegliere, ci sei tu. Se ho bisogno di una foto decente, ci sei tu. Se voglio comprare un quadro, ci sei tu. Se mi fa male la schiena, diavolo se so che ci sei tu per alleviare le mie pene e se vado in panico, corso o non corso, ci sei tu. Devo aggiungere altro?». L’amica la fissò inclinando la testa, ancora poco convinta delle parole di Giulia che invece le aveva dette in maniera perentoria, quasi fosse un generale incaricato di dettar legge. 
«È che le loro parole mi hanno colpito e ferita al tempo stesso. E poi come spieghi questa mia sensazione di incompletezza? Io credo che abbiano ragione. Mi è stato detto che se avessi risparmiato soldi invece di fare tutti quei corsi, a quest’ora avrei una Ferrari parcheggiata in garage».

Atto III
Veronica fissò Giulia senza dire nulla. Se da una parte alcune persone giudicavano la sua continua indecisione, dall’altra rifletteva su quanto aveva appena sentito; una parvenza di verità ci stava tutta, in effetti. Fissò il cappuccino ormai tiepido, ma non diceva ancora nulla. Nella sua testa una coda di pensieri peggio di quella della Salerno Reggio Calabria. 
«A che cosa pensi?», chiese Giulia.
«Penso che la vita sia assurda, a volte non so proprio che cosa fare!», rispose Veronica.
«La vita è un treno che non si ferma mai, a volte rallenta, ed è in quei momenti che bisogna cogliere le occasioni».
«Bè, allora io le ho mancate tutte!».
«Sei troppo severa con te stessa, ma cosa te lo dico a fare, sono severa pure io con me stessa. Troppo…». Veronica appoggiò il bicchiere e si sporse in avanti, l’aria di chi sta per ascoltare un succulento gossip.
«Era per dire che non sei l’unica ad avere pensieri per la testa, Veronica! Non cambiamo argomento, stiamo parlando di te e delle paranoie che ti affliggono».
«Giulia, non so che cosa fare».
«Io so che cosa devi fare ed è molto semplice!». Veronica alzò lo sguardo così velocemente che Giulia per poco non sobbalzò sulla sedia. Non si sentiva più la contabile affranta, ma un’avventuriera che stava per ricevere in dono una mappa con l’esatta posizione di un prezioso tesoro, anche se più che un Indiana Jones si vedeva come Dora l’esploratrice! Trattenne l’entusiasmo e si rivolse all’amica con un tono apparentemente annoiato.
«Dimmi pure…».
«Devi fare altri corsi».
«Scusa, mi stai prendendo in giro?».
«Certo che no! Ti pare?».
«Ancora corsi?».
Se vuoi capire cosa ti appassiona per davvero è un’ottima strada».

Veronica alzò gli occhi al cielo, lo sguardo perso nel vuoto. La mappa del tesoro ora aveva la parvenza di un inutile straccio con una spennellata di rosso a forma di “X” in un punto qualunque.
«Insomma, come puoi sapere cosa ti piace o in cos’altro sei brava se non fai nulla per capirlo? E poi chi sono queste persone che ti dicono che sei inconcludente? Tesla? Richard Branson? J.K.Rowling? Forse visti i loro traguardi, la loro opinione richiederebbe una certa attenzione, ma in ogni caso nessun giudizio deve minare la tua fiducia. E poi hai mai pensato che forse non hai ancora trovato la cosa che ti piace per davvero? Non tutti la trovano al primo colpo e se non fai più tentativi, non la scoprirai mai. Questo è poco ma sicuro!».
«Il punto è che dicono…».
«Il punto è che devono stare zitti! C’è qualcosa che ti piace fare? Tra tutte le cose che hai provato, intendo».
Veronica guardò Giulia come se ne avesse davanti una dozzina, gli sguardi intimidatori in attesa di risposta, e non sapesse quale fosse quella a cui rivolgersi.
«Mi piace dipingere, ma…».
«Bene, allora fammi un quadro!».
«Come scusa?».
«Hai fatto un corso di pittura! A quanto pare ti piace, quindi… fammi un quadro. Hai un mese di tempo».

Atto IV
[Giulia]
Mentre rientrava a casa, Giulia era felice di aver sollevato il morale dell’amica. Il solito sorriso era tornato al suo posto: missione compiuta! Eppure, un sottile velo di tristezza l’avvolgeva dalla testa ai piedi e, ironia della sorte, si sentiva col morale a terra che Veronica, in confronto, era un’esplosione di energia.

Quando si trattava di motivare gli altri, trovava sempre le parole giuste, ma quando pensava a se stessa, l’unica voce che rimbombava nella sua testa era quella che le diceva che poteva fare di più. Pensava che alcune buone occasioni le fossero capitate – il famoso treno che rallenta ad un certo punto della vita – ma riteneva di non aver fatto abbastanza per godere appieno di quelle chance e anche se non lo aveva ammesso a Veronica, anche per lei raggiungere i quaranta era un traguardo che incuteva una certa ansia. Aveva un lavoro discreto. Un grazioso monolocale. Un conto bancario non male, eppure percepiva che mancava un tassello per sentirsi completa.

E a quel punto emerse un dubbio: forse le sue parole non avevano avuto alcun effetto. Forse Veronica non avrebbe dipinto nessun quadro.

[Veronica]
La prima cosa che fece Veronica non appena arrivò a casa, fu di appoggiare borsa e giacca sul divano ed entrare nella camera che fungeva da studio/magazzino dove buttava tutto ciò che non ci stava altrove. I suoi occhi si muovevano come quelli di un gatto attratto da una luce in continuo movimento. Prese in mano alcuni barattoli di colore, poi cercò i pennelli e dispose tutto davanti a sé su un tavolo bianco.

Si voltò di nuovo ed esaminò quante tele avesse: il risultato fu zero. Non si sorprese più di tanto. Quelle che aveva acquistato le aveva usate durante il corso e poi, giunta l’ultima lezione, come da tradizione, aveva smesso di acquistare materiale. Prese il cellulare per confermare gli orari di apertura del negozio dove si era rifornita e decise che l’indomani sarebbe andata ad acquistare una tela.

Le parole di Giulia l’avevano risvegliata da uno stato rem in cui ignorava di essere finita e mentre fissava il soffitto debolmente illuminato dalle luci dei lampioni, la coda di pensieri in stile Salerno Reggio Calabria sparì per lasciare spazio a una sola domanda. “E ora che cosa dipingo?”.

Atto V – finale
«Pronto!», rispose Giulia con un tono particolarmente felice.
«Ciao Giulia, come va?».
«Bene, dai, sono in centro. Serata di scrittura».
«E cosa scrivi di bello?».
«Le mie solite e bellissime cazzate, dovresti saperlo».
Veronica rise e in quel momento Giulia immaginò il suo sorriso, doveva essere proprio luminoso, ma qualcosa la fece voltare alle sue spalle. Era come se la telefonata avesse uno strano richiamo o forse era solo la connessione ad essere pessima: colpa dell’imponente Basilica Palladiana?
«Dove sei?», chiese Veronica.
«Al solito locale in Piazzetta delle Erbe».
«Ah, sì, ora ti vedo», e in quel momento riattaccò, senza distogliere lo sguardo da Giulia che, invece, continuava a guardarsi attorno curiosa, come se di lì a poco dovesse correre per urlare “Tana per Veronica” dopo averla individuata nel suo nascondiglio.

Avvolta nel suo piumino nero, camminava verso il locale con la stessa spavalderia che probabilmente aveva mostrato Alessandro Magno durante le sue molteplici conquiste e non appena si fermò davanti a Giulia, le porse un oggetto incartato con vecchie pagine di giornali dalla forma rettangolare e una dimensione che oscillava tra i trenta o quaranta centimetri per lato.

«E questo che cos’è?».
«Il tuo quadro».
«Stai scherzando?», chiese Giulia.
«Niente affatto. Tu mi hai dato un mese di tempo per dipingere qualcosa. E l’ho fatto!».
Veronica non ci poteva credere. Non era mancanza di fiducia nell’amica, solo non pensava che l’avrebbe presa sul serio. Sentì il petto scaldarsi e una bellissima sensazione salire fino alla gola. Era commossa.
«Aprilo quando sei a casa, da sola. Sappi solo che è così che io ti vedo». Si salutarono con un forte abbraccio, poi Giulia rientrò nel locale per la serata di scrittura e Veronica sparì oltre la scalinata della basilica.

Poco prima di mezzanotte, Giulia si ritrovò seduta sul letto a stringere il pacchetto che conteneva il quadro che Veronica aveva dipinto per lei. Era molto curiosa ma voleva godere ancora qualche secondo di quella bellissima agitazione che si crea quando stai per ammirare la concretezza di un piccolo sogno.

Cercò una qualsiasi piccola apertura tra i vari pezzi di giornale e, lentamente, ruppe la carta facendo attenzione a non toccare il quadro. Si accorse di averlo aperto dal lato rovescio e la cosa la intrigò ancora di più perché aspettò di liberarlo del tutto dall’involucro, poi lo strinse forse tra le mani e dopo pochi istanti, lo girò.

“Questo è di gran lunga migliore di una Ferrari…”, pensò.

Fine

Uno sclero di troppo!

Chi ci fa ridere e piangere più di tutti, a volte allo stesso tempo?
Chi ci stupisce all’improvviso, stravolgendo i nostri piani?
Chi ci fa scherzi di continuo, uscendone sempre impunito?
La risposta, se ci pensate, la conoscete bene: la VITA.

Mentre siamo nel posto più sicuro al mondo, ci sfrattano lasciandoci nudi e tra le braccia sconosciute di una persona vestita con un camice monouso che ci passa da una postazione all’altra fino a quando, ormai esausti di urlare la nostra indignazione, veniamo cullati da una persona più sconvolta e distrutta di noi. E a quel punto capiamo di non essere soli al mondo.


Gli occhi di quella persona ci guarderanno per il resto della nostra vita. Alcuni perderanno la loro magia, ci abbandoneranno. Altri, invece, ci osserveranno sempre, per proteggerci.
A volte, però, nonostante tutte le cure e le attenzioni, gli occhi non possono percepire il dolore di una persona. Non perché non se ne accorgano, ma perché a volte il dolore si manifesta così lentamente che solo una paralisi a metà del corpo conferma che qualcosa non va e che la vita, amata e controversa quale è, ha davvero un subdolo modo per dirti che oggi le cose cambieranno…

Atto I
A un mese dalla scadenza del contratto di lavoro in una ditta di autonoleggio, le cose cambiarono radicalmente. Giulia aveva uno strano presentimento e nonostante le avessero confermato il rinnovo del posto di lavoro, a voce, qualcosa nella sua testa continuava a farla dubitare. Le risposte semplici ma evasive, il capo che la cercava meno del solito, il sorriso spezzato di alcuni colleghi con cui di solito scherzava davanti alla macchinetta del caffè. Era come se fosse tornata al suo primo giorno di lavoro, con la differenza che la conoscevano molto bene. E, ironia della sorte, a far venire a galla la verità, fu una giovane ragazza che si presentò in un normale giorno di lavoro per fare un colloquio. E nella testa di Giulia, partiva il primo vaffanculo di quella giornata.

Una lite scoppiata inizialmente al telefono, proseguì in maniera drammatica dal vivo. Giulia discuteva con il suo capo che non pareva preoccupato per l’ambigua situazione che si era creata. Era come se tutti stessero recitando un ruolo e lei fosse l’unica ignara di quale fosse il copione.

Ad ogni modo, non si riuscì a raggiungere alcun accordo e la discussione rimase in sospeso. A quanto pare il capo non aveva nulla da dire, per lui era il destino a essere ingiusto, non lui. Il secondo vaffanculo era scoppiato nella testa di Giulia che prese le sue cose e se ne andò, delusa e amareggiata. E la sera, dopo aver gridato nella sua testa un terzo vaffanculo perché il semaforo era diventato rosso a mezzo metro da un incrocio, ne arrivò un altro quando era chiusa nella sua stanza.

Questa volta, però, non era pieno di rancore e non lo disse finalmente a voce alta come un chiaro e forte sfogo liberatorio; lo pensò come si pensa che manca il latte in frigorifero. I genitori al piano di sotto guardavano la televisione. In casa si percepivano pochi rumori, ma se si ascoltava attentamente, si poteva sentire il respiro di Giulia: pesante e agitato come se qualcosa la stesse soffocando. Non era un vaffanculo che non aveva il coraggio di gridare. Era il suo corpo che chiamava aiuto. La parte sinistra non rispondeva ai comandi del cervello e dalla faccia al piede, tutto pareva caduto in un sonno profondo.

Atto II 
Abbracciare il proprio compagno e sapere che una nuova vita iniziava era un sogno che diventava realtà. La ditta di autonoleggio era diventata una delle tante informazioni nel curriculum. La lite con il capo un brutto ricordo. Il dolore provato quel giorno solo un terribile episodio di stress. Questo era stato diagnosticato dal medico che le aveva dato il via libera per realizzare qualsiasi cosa volesse, perché in realtà per lui era in buona salute. E così aveva fatto Giulia, nonostante i dubbi della madre i cui occhi percepivano altro. Non voleva, però, spaventare la figlia con le sue supposizioni e l’aveva lasciata partire per consolidare un rapporto a distanza con l’uomo che amava.

E mentre il tempo passava, Giulia non capiva come mai la vita non andasse come aveva immaginato. I cinque anni di distanza l’avevano unita a un ragazzo che le aveva promesso tante cose, ma era come se la sua presenza in casa fosse un impedimento. Il compagno rincasava tardi, era spesso stanco, si rivolgeva a lei come se avesse un numero limitato di parole al giorno. Se prima lo scambio di messaggi e le chiamate erano un modo per compensare la distanza, ora parevano comunicazioni di guerra.

Ed era solo una questione di tempo prima che la situazione scoppiasse in una dura lite che portò la parte sinistra del suo corpo a bloccarsi ancora, ma questa volta in maniera più aggressiva. Giulia aveva la sensazione di essere bloccata dalle braccia di dieci uomini. E questa volta non servirono gli occhi di sua madre per farle capire quanto la situazione fosse drammatica. Prese le sue cose e scappò nel posto più sicuro al mondo: la casa in cui era cresciuta. 

Atto III
Pochi giorni dopo, una donna di mezza età accolse nel suo studio Giulia e la madre. Aprì loro la porta e la chiuse alle sue spalle senza smorzare nemmeno per un secondo il suo sorriso. Indicò loro dove sedersi e si accomodò solo quando entrambe erano comodamente sedute. Prese in mano una cartella e consultò alcuni dati al computer. Giulia non voleva essere lì.

Aveva confermato da poco le ferie nel sud Italia ed era il suo unico pensiero, nella speranza di dimenticare gli ultimi mesi orribili che aveva vissuto. Sedeva composta come una brava alunna solo per compiacere la madre e fissava di continuo l’orologio appeso al muro alla sua destra. Mentre ipotizzava quanto tempo avrebbe trascorso lì dentro, la dottoressa si rivolse a lei, il solito sorriso accompagnava ogni sua parola. 

«Come stai oggi, Giulia?».
«Molto bene, grazie dottoressa».
«E dimmi, come ti sei sentita ultimamente?».
«Ho passato dei mesi difficili. Ho perso il lavoro e ho rotto con il mio fidanzato. Non ho preso bene queste notizie e credo che lo stress mi abbia letteralmente travolto».


La dottoressa la ascoltava e ogni tanto annotava qualche informazione su un piccolo blocco dalle pagine color crema. Giulia non aveva notato nulla in quella donna, ma la madre invece sì. Il sorriso, i gesti cordiali, il fare molto affabile: tutto emanava energia positiva, ma se la si guardava bene, i suoi occhi dicevano tutt’altro.

«Ora, Giulia, ti farò tre domande. Potranno sembrarti strane, ma tu pensa solo a rispondere, va bene?». Gesticolava molto, le sue mani si muovevano come se stesse eseguendo un incantesimo.
«Dunque: dopo aver fatto la doccia, hai la sensazione di aver fatto una lunga corsa?».
«…sì».
«E a volte ti capita di farti la pipì addosso?». Silenzio, o meglio, imbarazzo.
«Non sentirti a disagio, sono domande di routine per noi medici». Era impossibile sentirsi fuori luogo di fronte a quella donna; avrebbe potuto anche parlare di diarrea e farlo suonare come il migliore dei simposi.
«In questo caso, allora, sì…».
«E durante i rapporti sessuali, hai mai notato se eri poco lubrificata?».
«Dottoressa, io credo che dipenda da…». La dottoressa fissò Giulia inarcando le sopracciglia, per rassicurarla nuovamente.
«…allora la risposta è sì, di nuovo».

La donna la ringraziò e annotò le ultime informazioni sul blocco, poi emise un verdetto inaspettato. Giulia non riusciva a crederci. Le erano state accordate le ferie e aveva aggiunto che al suo rientro avrebbero fatto alcuni esami, ma non doveva assolutamente preoccuparsi. Ora doveva solo pensare a rilassarsi e godersi sole e mare.
Questo a volte fanno i dottori. Rassicurano una persona mentre con gli occhi parlano a una madre e le fanno capire che c’è qualcosa che non va. Decisamente. Purtroppo. Senza alcun dubbio…

Atto IV
L’estate ha davvero qualcosa di magico, perché riesce ad allineare ogni cosa. Il sole scalda la pelle, la brucia quasi, ma allo stesso tempo regala una sensazione di benessere. Mentre illumina ogni cosa, è come se ricostruisse ciò che si era crepato dentro di noi. E il vento fresco della sera conclude ciò che il giorno non ha finito e ci cura meglio di qualsiasi medicinale. Cammini in mezzo a una folla, mangi un gelato al limone e zenzero, ascolti la musica mentre guardi la gente ballare e ti sembra tutto deliziosamente perfetto. Persino i messaggi del tuo ex suonano diversi: l’amore è riemerso e forse la storia può ricominciare, più forte di prima. E tu ci credi davvero. Perché il sole ti ha rincuorato ogni giorno. Il vento ti ha accarezzato mentre alleviava le tue ferite. E tu hai deciso che una seconda possibilità la meritano tutti.

La magia, però, è destinata a vivere a breve. Ti concede tutta se stessa quando ti incontra, ma poi ti saluta e non appena chiudi alle tue spalle la porta di casa, la sensazione di una brutta notizia in arrivo ti avvolge in un abbraccio che tu ignori, proprio come quello di un uomo che hai capito, non ami più. I dubbi si insinuano nella tua testa, ti sembra di essere in bilico su una fune. Conosci ogni singolo aspetto della tua vita, o quasi, da lì sopra, ma se cadi di sotto non sai cosa potrà accadere.


C’è un vuoto infinito? Un terreno su cui ti schianterai? O al contrario, qualcosa di meraviglioso? Forse Giulia non avrebbe mai fatto quel salto, ma non sapeva che c’era qualcosa che stava per farlo al posto suo. La dottoressa la chiamò per un secondo incontro dopo aver visto i risultati degli esami. Giulia si ritrovò assieme alla madre in una saletta dalla luce rarefatta. Il silenzio che le circondava era quasi spaventoso, come se si trovassero in un’area dell’ospedale abbandonata. Era assurdo come fossero entrate accompagnate da un sole accecante mentre ora una pila sarebbe tornata utile per fare più luce. Il verde scuro di porta e pareti, inoltre, non migliorava lo scenario attorno a loro e Giulia iniziò a percepire una strana sensazione. Era come se quella saletta fosse stata allestita in base alle notizie che a breve avrebbe ricevuto e quando si ritrovarono di fronte alla dottoressa, non c’era bisogno di dire nulla.

In quel momento sembrava la cosa peggiore da sentire, ma non fu nulla in confronto a ciò che accadde quando lo disse al suo compagno; un ex che tale avrebbe dovuto rimanere.
Gli aveva riassunto ciò che la dottoressa le aveva riferito, degli esami, delle cure che avrebbe dovuto seguire da ora in poi; insomma, gli aveva detto che la sua vita stava per cambiare e aveva bisogno del suo sostegno. E come se l’avesse appena condannato a una punizione ingiusta, lui diventò una figura sempre più assente e la frase “Non so come aiutarti e starti vicino” fece più male di una paralisi perché si sa, un cuore spezzato ferisce più di ogni altro dolore.

Ritrovarsi con le valigie, una seconda volta, davanti alla casa dei genitori, era come essere arrivati a due caselle dalla vittoria e aver pescato una carta che riportava alla partenza. Giulia passò giorni a piangere, non sapeva che altro fare. Era sola, senza un lavoro, con il cuore spezzato e una malattia che forse non le avrebbe concesso il lusso di soffrire al buio per espiare il dolore e rimettersi in piedi. Si sentiva in bilico, di nuovo, su quella fune che pareva non volerla lasciare andare per nulla al mondo…

Atto V – finale
L’interferone diventò per Giulia lo zucchero della sua vita. Era ciò che le serviva per compensare alla guaina mielinica che mancava nel suo corpo e che, di conseguenza, non rispondeva ai comandi del cervello. Il giorno della prima iniezione sembrava un ritrovo per assistere a uno spettacolo teatrale. L’intera famiglia si era riunita per supportare Giulia e, con suo incredibile stupore, c’era anche il compagno; un probabile senso di colpa doveva averlo spinto a partecipare. Lei non ci diede tanta importanza, tutta la sua preoccupazione era riversata sull’operazione che stava per eseguire su se stessa mentre la dottoressa, come un bravo maestro Miyagi, le spiegava la procedura; e la noiosa scena del “Metti la cera, togli la cera” sembrava a tutti gli effetti una migliore alternativa a quel momento.

Le iniezioni non le avrebbe eseguite un medico esperto, ma sarebbe stata lei a provvedere alla sua salute: trattandosi di un farmaco auto-iniettabile, e quindi sicuro, così andava fatto e senza grandi riserve. I parenti stavano in piedi da un lato, mentre Giulia e la dottoressa al centro della stanza si preparavano per la dimostrazione. Per un attimo sorrise tra sé e sé: stava praticando una sorta di harakiri alla sua gamba e le sembrava tutto dannatamente assurdo. L’ago era ormai vicino alla pelle quando un rumore improvviso interruppe quel drammatico momento: il suo compagno era svenuto a terra e l’harakiri fu rimandato per rianimare un povero deficiente.

Quell’episodio sarebbe diventato un aneddoto molto apprezzato in futuro, ma Giulia ancora non lo sapeva. Aveva capito che non esisteva alcun futuro con lui, questo era certo, ma forse poteva essercene uno per lei. Avrebbe eseguito un’iniezione ogni quattordici giorni e avrebbe sopportato qualsiasi dolore perché non era nulla in confronto al rapporto che si era risparmiata di vivere con il suo ex. Un uomo che si rivelò essere solo un narcisista e che la chiamò dopo diverso tempo per farsi consolare dai dolori di un’operazione al naso che lo faceva soffrire tanto. Giulia aveva agganciato il telefono come se avesse risposto l’ennesimo operatore telefonico pronto a offrirle un grande affare.

Il sospetto che la malattia si fosse realmente manifestata a causa di un rapporto malato, di un finto innamoramento, del sentirsi completamente assuefatta da un’altra persona la tormentava, ma era andata come era andata, ora doveva solo pensare a sé stessa. Aveva iniziato ad interessarsi alla malattia per capire come affrontarla nel più sereno dei modi. Se doveva conviverci, voleva vederla come un errore temporaneo cui poter rimediare col tempo: un taglio di capelli sbagliato, un inutile abbonamento annuale alla palestra, un libro dalla copertina intrigante ma dal contenuto banale di cui dover scrivere un dettagliato resoconto. In questo modo, la malattia perdeva potere e di conseguenza diminuivano le paure.

La famiglia, per sua fortuna, fu la migliore ancora di salvezza perché ognuno di loro si faceva in quattro per supportarla. Nonostante i battibecchi e le giornate storte, ognuno di loro, a suo modo, era presente. Giulia continuava a documentarsi e prese parte persino ad un summit. La malattia era il suo principale interesse d era diventata una sorta di sua stalker; vederla in questo modo quasi la divertiva. Sfogliando pagine online e cartacee, acquisiva di volta in volta qualche informazione nuova e la lavagna appena sopra alla scrivania riportava tutti i sintomi legati alla malattia e la cosa era diventata quasi esilarante perché con un pennarello segnava da un lato quelli di cui soffriva  e quelli che forse avrebbero potuto presentarsi; praticamente un sadico gioco tipo “Celo-Manca”!

La cosa che più la colpì fu il fatto che la sclerosi multipla, nonostante ogni tanto la isolasse dalla realtà, per una strana ironia della sorte, le aveva fatto fare quel salto dalla fune che non si era affatto rivelato una rovinosa caduta a terra. Aveva visto la sua vita amorosa da un altro punto di vista e aveva compreso che non coesistevano più due dolori, perché se la sua parte sinistra ogni tanto non rispondeva al cervello, i battiti del suo cuore erano stabili e finalmente liberi di battere al ritmo che volevano. 

Fine

Un padre all’improvviso

A 21 anni, a distanza di circa cinquant’anni dall’anno 2000 in poi, non lavori già da cinque anni in un’azienda. Non stacchi alle sei per tornare a casa, togliere il cappello, allentare la cravatta e annunciare il tuo arrivo.

E tua moglie non ha appena sfornato lo stufato e dato da mangiare al figlio mentre si lamenta dei dolori alla schiena per l’attesa del secondogenito.

A 21 anni, a distanza di circa cinquant’anni dall’anno 2000 in poi, hai un diploma e quasi nessuno che ti prenda sul serio. Devi avere esperienza appena uscito dalle superiori perché altrimenti il tuo curriculum diventa carta straccia. Vivi con i genitori, esci con gli amici, sogni un futuro diverso dalla realtà; e una piccola parte di te invidia l’uomo col cappello e la cravatta, almeno lui un lavoro ce l’aveva.

A quell’età hai l’illusione di avere un tempo infinito davanti a te. E nonostante la frustrazione professionale, il pensiero di non essere abbastanza o di non aver concluso ancora nulla di concreto, sai che almeno ti puoi godere la vita.

Ma lei, lo sappiamo tutti bene, è dotata della più sadica tra le ironie e quando meno te lo aspetti, in un pomeriggio dove godi dell’amore della tua compagna, è già lì, tra le lenzuola, le dita intrecciate, i gemiti. E come una goccia d’acqua tra le crepe di un muro, trova sempre una via d’uscita; spesso nel più improbabile dei modi.
Ed è qui che inizia la storia di Christopher.

Atto I
La prova di lavoro nella fabbrica di compressori ad aria non era andata bene, ma Christopher non era dispiaciuto. Aveva l’aria, anzi, di chi apprende una bella notizia e rilascia un sospiro di sollievo tanto atteso. Dai primi giorni aveva capito che quel lavoro non faceva per lui. Tutto gridava “C’è qualcosa che non va” e alla fine la voce nella sua testa aveva avuto ragione. Nonostante tutto, Christopher era fiducioso che una buona opportunità di lavoro sarebbe arrivata. Consultava gli annunci, chiedeva ad amici, insomma: si adoperava per migliorare la situazione.

L’appartamento in cui viveva con la compagna e i due cani era piccolo e confortevole, ma ogni mese il proprietario batteva cassa e un solo stipendio da commessa non era sufficiente a coprire ulteriori spese, oltre a quella dell’affitto. Mantenere alto l’umore non era facile, ma questo non impediva al nostro protagonista di nutrire speranze. La svolta sarebbe arrivata, doveva essere così, prima o poi, ma la goccia tra le crepe della sua vita aveva appena concluso il suo percorso e Christopher intuì presto come si sarebbe manifestata.

Se prima consumava i pasti con regolarità, ora quest’azione era molto variabile. A volte una forchettata di pasta o un boccone di carne innescavano una smorfia sul suo viso alquanto discutibile. Fare quei pochi metri dall’auto all’appartamento per portare la spesa la stancava al punto di drenare una bottiglia di Gatorade in meno di un minuto e l’essere accusato di non aver messo nel verso giusto il rotolo di carta igienica erano tutti chiari segni che non solo si era liberato il Kraken, ma che qualcosa di meraviglioso e allo stesso tempo decisamente inaspettato, era accaduto. Una gravidanza era in corso…

Atto II
“Niente panico!”, aveva pensato Christopher. Dentro di sé urlava come fosse inseguito da uno sciame di api. All’esterno, era premuroso e più disponibile di un concierge per agevolare la compagna nella gestazione. Tutto proseguiva in maniera piuttosto lineare, ma solo perché le rispettive famiglie non sapevano ancora nulla. Come avrebbero preso l’annuncio di un bimbo in arrivo? I film mentali che immaginava non avevano fine, ma la più probabile era un’equa divisione alla Montecchi-Capuleti. E questa versione fu la realtà, perché se da un lato vigevano euforia e calici di champagne, dall’altra tensioni e preoccupazioni facevano da sfondo a un futuro incerto.

Per Christopher, però, la speranza era sempre, e in assoluto, l’ultima a morire. Un credo che ripeteva a sé stesso ogni giorno, come una medicina da prendere a stomaco vuoto e con costanza, per mantenere lucida la mente e raggiungere una situazione migliore, in tutti i sensi. La parte tragica di vivere di speranza è che non la puoi usare per pagare i conti e dopo pochi mesi la realtà batteva cassa più del proprietario di casa. Christopher fu costretto a dare via i due cani, a liberarsi di oggetti di cui poteva fare a meno e infine, dovette sgomberare l’appartamento per non rischiare lo sfratto. E ancora una volta, la vita si faceva beffa di lui, con un gran sorriso ironico, di quelli che ti fanno venir voglia di prendere a pugni persino il sole.

L’inguaribile ottimismo, ancora integro e sufficiente per lui, la compagna e il bimbo in arrivo, li costrinsero a trovare rifugio a casa dei genitori di lei. Christopher vedeva con occhio positivo questo trasferimento: era un’opportunità per rimettersi in gioco e dormire con un tetto sopra alla testa. Non aveva avuto molte alternative a quella scelta, ma non si sentiva un fallito, assolutamente. Doveva solo trovare un lavoro e nel giro di pochi mesi avrebbe ribaltato la precaria situazione. Era felice: desiderava farsi una famiglia e solo perché quanto voleva non era accaduto secondo i suoi tempi, questo non conferiva meno valore a ciò che aveva. Tutto si sarebbe raddrizzato a suo favore; impegno e pazienza sarebbero stati presto ripagati. “Si, certo… come no…”, e questa è la vita che parla…

Atto III
L’impatto. Lo spavento. Il fiato spezzato. I battiti del cuore che picchiavano contro il petto. E un probabile cadavere. Dal parabrezza deformato, Christopher non riusciva a vedere la scena davanti a sé, ma era chiaro che qualcosa di grave fosse accaduto. Stringeva le mani al volante così forte da sentirle doloranti. La gola pareva occlusa, come se qualcosa si fosse incastrato al suo interno e anche se non ne era certo, forse stava tremando. Per qualche istante rimase paralizzato da ciò che pensava fosse successo. Non era ancora sceso dall’auto, la paura era troppa. Cosa c’era in mezzo alla strada? Perché diverse persone fissavano tutte lo stesso punto e alcune portavano la mano alla bocca? Perché c’era così tanto silenzio? 

«Christopher?». Il suo nome risuonava come un eco lontano. Nonostante il vetro crepato, sembrava che una luce stesse illuminando l’ambiente circostante.
«Christopher?». La voce sembrava più vicina e ora una mano gli toccava la spalla. Un angelo? Gesù? O direttamente Lucifero? Qualcuno lo scrollò sempre più forte e in un battito di ciglia, l’abbagliante luce scomparve, la voce che pareva un eco diventò familiare come anche la mano che cercava di farlo tornare in sé.

Christopher si voltò alla sua destra e vide la compagna fissarlo preoccupata. Il panico che aveva trattenuto con la scoperta della gravidanza ora esplodeva feroce. La speranza non era lì con lui, se ne era andata subito dopo l’impatto; forse anche prima. Le sue mani stringevano il pancione della compagna alla ricerca di un calcio, di un battito, un qualsiasi segno che il bimbo stava bene. Ci vollero diversi minuti per calmarlo, lei gli dovette ripetere più volte che stava bene e che non riportava ferite, poi lentamente lo convinse a scendere dall’auto. La folla attorno a loro era sempre più numerosa.

Davanti all’auto, a qualche metro di distanza, il corpo di un uomo era disteso a terra; non si muoveva. Christopher si sentì prendere per mano e con forza fu trascinato fino al centro di un incrocio. Osservava i vetri sparsi sulla strada, una bici a terra, la persona che aveva investito e forse ucciso. Nessuno però parlava con lui, alcuni nemmeno lo fissavano. Gli sembra di essere come Bruce Willis nel film Il Sesto Senso: lui era lì ma non lo potevano vedere. Lentamente riprese possesso del suo corpo e venne nuovamente calmato dalla compagna. Chiamò i soccorsi, la polizia, cercò aiuto.

E dentro di sé rideva isterico. Solo qualche giorno prima era piovuta dal cielo un’opportunità di lavoro che richiedeva la sua presenza l’indomani per un colloquio. Portò le mani alla testa e per la prima volta percepì l’amaro gusto del fallimento. Mesi fa, la vita lo aveva privato dei cani, dell’appartamento, di un po’ di dignità. Ora continuava il suo diabolico disegno e gli toglieva l’auto, la patente, uno sbocco professionale, ma soprattutto la speranza. Tutta quanta. Non ne lasciava nemmeno una briciola. Era qualcosa di intangibile ma per lui significava tutto… 

Atto IV
Il 12 febbraio 2012 la famiglia che Christopher aveva desiderato stava prendendo forma. Negli ultimi mesi aveva stretto i denti, tirato la cinghia e ricostruito la speranza perduta impegnandosi più duramente di prima. La compagna incinta lo portava al lavoro che aveva – miracolosamente – ottenuto; forse un risarcimento da parte della vita visti le ultime “sorprese” che gli aveva riservato. Era consulente per le vendite all’interno di una palestra e il ruolo gli piaceva, lo trovava piuttosto stimolante, però la convivenza forzata con i suoceri, il tetris di impegni da incastrare alla perfezione e la voglia di indipendenza erano tanti elementi da gestire, ma tra alti e bassi Christopher era riuscito a destreggiarsi nonostante notti insonni e momenti in cui pensava di non farcela.

A volte si sentiva sopraffatto dal peso che doveva affrontare ogni giorno, ma da un lato gli sembrava che il muro apparso d’improvviso il giorno dell’incidente stesse lentamente svanendo. L’uomo che aveva investito era vivo e non aveva riportato gravi fratture, la gravidanza era progredita con i più classici dei sintomi come nausea, piedi gonfi e pipì ogni mezz’ora. Insomma, la quiete dopo la tempesta. 

Diventare padre era una cosa del tutto nuova che prendeva forma di giorno in giorno e con essa cresceva anche il timore di non essere in grado di occuparsi di un bambino, di scaldare il latte alla giusta temperatura o anche solo di capire di che cosa aveva bisogno quando piangeva; tutti dicevano che si distingue il tipo di pianto, ma Christopher pensava che sarebbe stato più facile scoprire una nuova teoria sulla relatività! Il corso pre-parto fu come frequentare un doposcuola punitivo: costretto su una sedia ad ascoltare un’ostetrica parlare di tanta teoria che per lui non aveva senso.

L’unica costante che gli teneva compagnia era l’ansia nel dover sborsare i soldi per le visite e il suo mantra personale era sempre lo stesso: “È per il bambino, è per il bambino, è per il bambino… che ansia, Dio mio che ansia… è per il bambino!”. E come tutte le cose programmate, quando arriva il fatidico momento, non sei mai pronto ad incontrare tuo figlio, o meglio, figlia. Christopher lo aveva scoperto alla seconda ecografia. Inizialmente pareva dovesse essere un maschio e si era già immaginato con lui allo stadio, durante una partita dell’Inter mentre ora la sua immagine si era distorta e lo vedeva seduto a prendere il tè mentre tentava disperatamente di spiegare il fuorigioco alla figlia usando barbie e peluche. 

Quando raggiunse l’ospedale dove la compagna era già stata accompagnata dai genitori, non aveva idea che avrebbe trascorso lì dentro le diciotto ore più lunghe di tutta la sua vita. Si sentiva come dentro a un circo, dove tutti avevano un ruolo preciso tranne lui. Non aveva un bambino da partorire, non aveva strumenti da sterilizzare o un ginecologo da assistere e non aveva le competenze per seguire un parto.

Osservava cosa succedeva attorno a sé e ascoltava ogni singolo termine tecnico come fosse un tirocinante in procinto di dare un esame. “Maledetto corso pre-parto! Non ricordo un ca**o!”, urlava nella sua mente. Stava in piedi di fianco alla compagna e ogni volta che schiudeva le labbra per parlare, lui era pronto a esaudire ogni desiderio pregando di non svenire dall’agitazione; sarebbe stato un brutto scherzo da parte della vita che difficilmente le avrebbe perdonato.

Massaggiava la schiena della compagna sino a perdere sensibilità alle dita. La rinfrescava con un panno umido per calmare le caldane, stringeva la mano quando le contrazioni si facevano più forti. Insomma, sembrava il momento giusto, ma ancora niente bimba. Si era immaginato un parto disperato, dove magari un dottor House appariva brontolando su una diagnosi poco promettente e invece nulla, a tratti provava persino noia, ma più di tutti si sentiva… inutile.

Atto V – finale
Urla di dolore. Momenti di incertezza. Un cambio di tre ostetriche. Un parto che pareva non avere fine. E l’insostenibile sensazione di essere solo un passante perché la tua compagna rispondeva solo ai dottori e ormai stringeva la tua mano come fosse un palo di un autobus. Christopher non capiva più nulla. I termini tecnici giravano nella sua testa senza un senso. Epidurale. Poca dilatazione. Cesareo. “Ma che cosa sta succedendo?”, pensò quasi stizzito. “Perché non fate nascere la mia bambina?”.

Nella sua testa era vestito in tenuta militare e teneva in bocca un sigaro come Arnold Schwarzenegger, pronto a mitragliare tutto lo staff alla minima incertezza, poi si sentì tirare per un braccio. La compagna lo stava attirando a sé. «È tutto a posto. Sta succedendo che stiamo per avere una bellissima bambina. Stai qui con me: meglio un parto doloroso con te che senza di te». Christopher non si era accorto di aver parlato a voce alta e in un attimo gli si strinse il cuore, la sua presenza era fondamentale. Bastava solo esserci…

Fu deciso di procedere eseguendo un piccolo un taglio per agevolare il parto. La compagna sgranò gli occhi e le smorfie di dolore per qualche secondo scomparvero dal suo viso, ma Christopher la tranquillizzò subito accarezzandole la fronte. «Andrà tutto bene, io sono qui», e fece cenno col capo a un’ostetrica che si avvicinò subito. «La prego, mi dica cosa devo dire alla mia compagna per aiutarla. Voglio essere io a farlo. Mi dica cosa devo dire, la prego… non voglio assistere e basta», disse sottovoce. Nonostante la mascherina e la cuffia, era evidente che la donna stessa sorridendo e si avvicinò al suo orecchio. «È proprio un bravo padre. La tranquillizzi e quando le faccio un cenno le dica che deve spingere come se stesse facendo la cacca».

Christopher rimase trasecolato. Si era immaginato qualche frase di grande forza motivazionale, come in un film di Hollywood, e invece il suo copione prevedeva una frase adatta a una pubblicità per i dolori intestinali. Si fece coraggio e con tutto il fiato che aveva in corpo pronunciò la frase con lo stesso entusiasmo di Leonardo di Caprio quando sulla prua del Titanic urla di essere il re del mondo. L’unica consolazione era non trovarsi faccia a faccia con la sua compagna, anche se ancora oggi, dopo dieci anni, ha ancora il dubbio che il morso non fosse per il dolore ma una punizione per aver pronunciato una frase davvero imbarazzante.

Alle ore 18 del 12 febbraio 2012 era accorso in ospedale e alle ore 14,30 del 13 febbraio 2012 una bellissima bambina era nata e un aneddoto divertente stava già prendendo posto nella sua testa perché poter raccontare di come un primario aveva tirato fuori la testa della bimba con una ventosa che somigliava molto a uno sturalavandino era davvero spassoso e magari un deterrente per i potenziali e futuri corteggiatori. La cosa più disarmante era che Christopher si sentiva felice per la prima volta nella sua vita.

Nonostante l’incidente, i sacrifici, i fallimenti e le sorprese che la vita gli aveva riservato, stringere tra le braccia la sua bambina era come avere tra le mani pura bellezza, gioia e gratitudine. La sua compagna riposava, i capelli sudati sulla fronte. E lui fissava quei 3,200 kg di dolcezza che erano parte di lui. Per pochi secondi gli sembrò di essere padrone del tempo e della vita, perché nulla poteva destare maggiore interesse. E si ritrovò a ridere da solo, una piccola risata di cuore, perché se prima si era sentito inutile, ora lo sarebbe stato ancora di più.

Insomma, si sa che chiunque accorra dopo una nascita si concentra sulla madre e in questo caso sulla sua piccola principessa, ma andava bene così. Lui sarebbe stato presente alla prima poppata, al primo cambio di pannolino (perché spettava a lui l’onore), alla prima pappa rigurgitata. E poi ai primi passi, ai pianti isterici per la scomparsa dell’ennesimo ciuccio, ai primi giorni di asilo, di scuola e a discutere con un agente di polizia per le pesanti minacce al primo ragazzo che aveva osato invitarla fuori per una pizza e un cinema. Ora c’erano due donne nella sua vita e avrebbe spesso sbagliato a dire la cosa giusta nel momento sbagliato, ma come aveva capito il giorno del parto, l’importante a volte è esserci.

Fine

Come una madre

Sono single. Ho trentacinque anni. Un fisico formoso ma atletico. Odio la lavanda, credo di essere l’unica persona al mondo. Ricerco l’ordine, o forse dovrei dire la perfezione, in ogni cosa. Sono imprenditrice. Produco un marchio di moda. Nulla a che vedere con Gucci o Louis Vuitton, ma viaggia bene.

Apprezzo i piatti semplici, il vino bianco, mangio solo gelato al gusto vaniglia. Non convivo, non ho relazioni, ho solo contratti o incontri a tempo determinato. Tendo al controllo. Sono intelligente, ma a volte dimentico che sono umana e che nulla può seguire in maniera impeccabile il suo percorso. Adoro gli animali solo nei film. Amo la mia famiglia, ma presa a piccole dosi. Ed è qui che decade tutta la mia vita. In un giorno qualunque, il castello che credevo solido e inattaccabile crolla proprio davanti a me, e io con lui.

Non so come quella foto sia arrivata a me, né chi l’abbia scattata, ma ogni domanda che emerge nella mia mente viene allontanata dalla madre di tutte le domande: i bambini stanno bene? Il respiro viene a mancare, la gola prude. Ho la sensazione di aver perso l’udito perché non percepisco nemmeno più la televisione in sottofondo. Non ho loro notizie da oltre un mese.

L’ultima volta li ho visti per pochi minuti. Si tenevano per mano camminando verso di me mentre li aspettavo in una stanza e sorseggiavo un caffè. Avevo messo in bella vista due grandi pacchetti regalo, ma non li avevano toccati. Rimanevano fermi immobili come se aspettassero una mia reazione. La più grande aveva appoggiato il braccio sulle spalle del più piccolo che teneva la testa bassa. Io dicevo poche frasi che si concludevano con un gran sorriso da clown. Solo la più grande rispondeva, ma a monosillabi.

Serrai le labbra e mi alzai, dicendo che ci saremmo rivisti presto e in quel momento il più piccolo mi guardò. Gli occhi di un marrone chiaro richiamarono il ricordo della loro mamma, la mia sorellina con cui condividevo ogni cosa. Non dice nulla, ma la sua espressione mi fa capire che è consapevole che sto mentendo. E mi sovviene il ricordo di quando da piccola, io la mia sorellina ci divertivamo a rubare i mestoli di mamma per giocare sotto al tavolo mentre lei cucinava; diventava matta ogni volta e quando ci scopriva, o meglio, si stancava, minacciava di toglierci tutti i giochi e noi scappavamo in camera, divertite, perché non sapeva che i giochi migliori li avevamo nascosti nell’armadio, sotto ai piumoni invernali. 

Getto la foto sul tavolo della cucina e mi affaccio alla grande finestra del mio attico. È stupenda la vista da lassù. È stata la carta vincente che mi ha portato all’acquisto. Quei bambini non sono mai venuti qui: ogni oggetto è vintage o di lusso, morirei se qualcosa si rovinasse. Ripenso a mia sorella, e d’istinto porto una mano alla bocca. Non piango mai. Per nessuna ragione. È una cosa così debole che provo una gran vergogna e abbasso lo sguardo, neanche avessi davanti qualcuno a giudicarmi. Mi volto di scatto e spingo una sedia a terra con una violenza di cui non mi credevo capace. Il rumore è assordante a quell’ora della sera. Il mio sguardo è fisso sull’oggetto che pochi istanti dopo rimetto a posto con estrema delicatezza, come se stessi raccogliendo delle rose a cui non ho tolto le spine.

Prendo in mano il cellulare e scorro la rubrica con cautela. Forse spero di non trovare registrato quel numero, ma poi appare ai miei occhi chiaro e distinto. Il dito è a mezz’aria e, ancora indeciso, preme sul tasto. Quando una voce femminile risponde, provo un disagio tremendo, praticamente un tuffo a bomba in una piscina dall’acqua gelida. Il capitano delle mie emozioni tiene con le briglie la mia ansia, in fondo devo farle solo una domanda anche se in un lampo riaffiora la nostra prima conversazione dove mi informava che ero la parente più prossima ai miei due nipoti. La mia famiglia era morta in un incidente d’auto: non avevo più una sorella, un cognato, una madre e un padre. I bambini erano a un compleanno. Non avevo trovato il coraggio di andare a prenderli e avevo insistito che fosse lei a occuparsene. Che vigliacca…
Mi scuso per l’orario e lentamente, quasi la mia mente ragionasse come una giostra a gettoni da caricare di continuo, chiedo come stanno i bambini. La mancata fluidità con cui solitamente conversa, la tradisce. Provo un freddo pungente lungo la schiena e stringo il telefono più forte. Chiedo spiegazioni, le pretendo. Mi dice che purtroppo c’è stato un cambiamento e che per un banale disguido, forse, non sono stata avvisata. Mi elenca un indirizzo e il sangue smette di affluire nelle mie vene, o almeno è ciò che sento.

Non mi rendo conto di essere scalza, con indosso solo un tubino e i capelli disordinati. Il portiere al piano terra apre la porta d’ingresso giusto in tempo per evitare che ci finisca contro. Corro veloce lungo il marciapiede. Urto qualche passante, i più furbi si scansano. Attraverso la strada facendo cenno di stop alle auto che non suonano nemmeno il clacson, forse perplesse dalla mia foga. Raggiungo l’altro lato della strada e corro sempre più veloce. Alle superiori era una gran velocista ed è incredibile come il mio corpo ricordi bene il ritmo utile per una corsa equilibrata.

Corro per quelli che saranno almeno otto chilometri. Non accenno fiato corto. Non crollo. Mi fermo di scatto davanti alla destinazione e urlo di aprire mentre busso alla porta così forte che dall’altro lato della strada qualcuno blatera a voce alta frasi che non comprendo. Forse mi dicono di fare silenzio, forse mi intimano a fermarmi. Non lo so e non mi interessa. Una luce si accende e quando la porta si apre, non bado a chi ho di fronte. Chiamo i loro nomi di continuo, come fossi un disco rotto e il volume bloccato allo stesso punto, alto e ruggente.

Altre luci si accendono. Sento un brusio di voci, ma non ascolto. Salgo al primo piano e percorro i corridoi. La mia voce squillante risveglia quel posto che non volevo per loro. C’è odore di vecchio, le pareti hanno l’intonaco crepato, la toilette puzza di fogna, il pavimento presenta macchie ovunque. Chiamo i loro nomi ma non li trovo e in quel momento mi blocco perché mi rendo conto di piangere. Mi volto e osservo gli sguardi perplessi o spaventati di bambini nei loro pigiami, alcuni stringono un peluche. Penseranno che sia una pazza e credo di averne l’aspetto. Poi sento chiamare il mio nome e mi volto. Eccoli! 

Prendo in braccio il più piccolo e per mano la più grande e li trascino fino all’ingresso mentre un uomo anziano mi aggredisce a parole che puntualmente ignoro. Esco in strada e cammino senza voltarmi. I bambini non dicono nulla, mi seguono. Più ci allontaniamo da quell’edificio, più ho la sensazione di essere al sicuro. Mi guardo attorno per capire dove ci troviamo e il più piccolo mi guarda e dice che ha fame. Poteva dirmi qualsiasi cosa, anche la più atroce, ne avrebbe avuto diritto. Invece ha solo voglia di mangiare.

Anche se non ho un soldo con me, camminiamo verso il primo locale che offra pasti a quell’ora e nel cercarlo, vedo la mia immagine riflessa lungo una vetrata scura. Ho l’aspetto di chi è andato incontro a un uragano, uscendone indenne. Cerco di sistemare i capelli, ma la più grande mi ferma. Mi chiede di non farlo. Dice che le ricordo la sua mamma e il mio petto si scalda facendomi sentire in colpa ma serena al tempo stesso. Sorellina, mi manchi così tanto…

Raggiungiamo un locale che vedo ancora impegnato a servire pasti caldi, ma due pattuglie della polizia si avvicinano. Un uomo in divisa mi analizza come uno scanner e dallo sguardo deciso, comprendo che sa chi sono e cosa ho fatto. Mi chiede di salire in auto e lasciare i bambini alla sua collega che prova ad avvicinarsi, ma io li blocco con un immediato gesto della mano. Dico che non farò nulla di tutto ciò, non prima di aver portato i bambini a mangiare, perché è ciò che desiderano.

L’uomo mi fissa serio per secondi che sembrano non avere fine. Di sicuro teme per la vita dei bambini, e il suo giuramento lo obbliga a far rispettare la legge, a servire e proteggere, ma ho anche l’impressione che comprenda il mio stato d’animo perché lentamente perde la posizione rigida e i lati della sua bocca, nonostante siano nascosti dai baffi, si addolciscono. Fa un cenno con la mano che mi rassicura e apre la porta per farci entrare nel locale. 

Il piccolo siede sulle mie gambe, la più grande di fronte a me. Ordiniamo solo tranci di pizza e dolci. Insisto sull’acqua al posto della coca-cola, lo faceva sempre mia sorella. Mangiano e scherzano come se nulla di folle sia successo, come se la polizia non fosse lì fuori, in attesa che usciamo. Forse non sanno cosa accadrà, a dire la verità non lo so nemmeno io, ma in quel momento non m’importa. Do un morso alla torta al cioccolato e lo stomaco si apre in segno di grazia, felice di non dover digerire altro cibo privo di grassi. È il morso più dolce e sensato degli ultimi anni e provo un immenso piacere nell’assaporarlo.

Sposto indietro una ciocca di capelli e mi rendo conto di essermi sporcata. Fino a un’ora prima avrei urlato isterica, ora invece osservo curiosa il residuo di cioccolato sulle dita, sul vestito, sui capelli. Il piccolo si volta e ride. Dice che una volta la sua mamma non sapeva se tagliarsi i capelli. Lo ripeteva in continuazione a tutti quanti e lui, stanco di sentirla, le aveva spiaccicato in testa una gomma da masticare. Ricordavo quell’episodio, ero con lei dalla parrucchiera il giorno in cui dovette quasi rasare i capelli a zero. Ci ritroviamo a ridere, quasi a crepapelle. 

Li avevo rifiutati perché non volevo la responsabilità di curarmi di loro. Corrotti con regali per figurare come la zia perfetta. E rapiti senza alcuna spiegazione nel cuore della notte. Eppure erano seduti con me a ridere, a mangiare, a parlare della loro mamma. Spensierati. Com’era possibile? Non serbavano alcun rancore nei miei confronti e io non ero mai stata così felice come in quel momento.

FINE

Pilar e i 12 ospiti improbabili

Pilar leggeva un libro sulla sedia da campeggio mentre prendeva il sole. Era davvero surreale vivere la quarantena da coronavirus in condizioni atmosferiche eccellenti. Erano le quattro del pomeriggio di un Aprile appena sbocciato e aveva pensato che fosse perfetto distrarsi con la lettura. 

Resistette poco più di mezz’ora però, poi chiuse il libro di scatto e si osservò attorno. Era davvero folle che ci fosse a malapena il cinguettio degli uccelli in sottofondo. Niente auto, niente persone. Il nulla. Rientrò in cucina per bere un bicchiere d’acqua e controllare se Marco avesse chiamato, ma lo schermo era privo di notifiche. Fece scorrere la rubrica fino a trovare il numero di nonna Teresa e al sesto squillo la sua voce si fece sentire chiara e squillante. Una conversazione in spagnolo prese atto e più che un parlare, sembrava un recitare un’opera teatrale che viaggiava a suon di maracas.

Sola in casa, Pilar dava libero sfogo alle sue origini spagnole di una Valencia che non vedeva da tempo. Non era pentita di aver mollato il suo lavoro di fotografa per seguire il compagno e futuro sposo in Italia, ma non aveva nemmeno previsto che un virus quasi letale avrebbe seminato il panico e costretto tutti ad una quarantena che ora come ora sembrava non avere fine. 

Si erano stabiliti a Cesena poco prima di Natale e tra il trasloco e il realizzare di essere in una città straniera, Pilar non aveva conosciuto nessuno e il poter uscire solo per questioni importanti come la spesa o la farmacia, limitava di certo la possibilità di incontrare persone nuove. E a peggiorare la situazione era il fatto che Marco era partito appena un mese prima per New York e ora era bloccato lì, senza la certezza di poter tornare a casa. Vivevano in un attico, sopra ad un condominio di dieci piani, ma tutti i residenti sembravano barricati in casa e pronti a scappare non appena incrociavano lo sguardo di qualcuno, anche il più conosciuto.

Quel pomeriggio era per Pilar la quarta settimana in cui rimaneva sola e per un attimo pensò di uscire in strada e urlare. Quella solitudine la stava alienando ma peggio, meschini pensieri si facevano largo nella sua mente. Sdraiata sul divano, guardava la televisione senza volume ma ben presto la cosa si rivelò essere un incubo. Su Real Time, Gordon Ramsay non urlava ad uno chef apprendista di andare a spaccare legna piuttosto che cucinare, ma rimproverava Pilar per aver fatto la stupida scelta di aver seguito il suo amato compagno italiano nella sua terra. Su Cielo un giovane Tom Hanks nei panni di Forrest Gump scappava dai bulli, ma in realtà era lei che scappava da una grande opportunità di lavoro offertale in Valencia, ma che aveva declinato per paura di fallire. Cambiò ancora canale e su Paramount Channel, Carrie Bradshaw in quel preciso momento tirava il bouquet in testa a Big per averla abbandonata all’altare e mentre Pilar guardava il suo anello, pensò che forse avrebbe fatto la stessa fine perché Marco aveva rimandato la data del matrimonio un paio di volte per motivi di lavoro, ma forse la realtà era un’altra e ora c’era pure la pandemia.

L’unica consolazione era che si sarebbe risparmiata l’umiliazione di essere abbandonata il giorno del matrimonio con indosso un abito lontano dall’essere favoloso come quello di Vivienne Westwood e senza indossare un uccello di piume in testa. Per un attimo scosse il capo, quasi volesse spazzare via quei pensieri assurdi e cercò qualcosa di interessante da guardare per passare il tempo, ma se su Rai 4 Andrea Sachs trionfava con Miranda Priestly ne Il Diavolo veste Prada, ottenendo alla fine il lavoro dei sogni, quando cambiò di nuovo canale il suo buonumore crollò alla vista di un Maurizio Crozza che in silenzio scuoteva il capo come dire “Ma la finiamo con ste cazzate?”. Sfinita dallo zapping demoralizzante, si alzò dal divano per fare qualche pulizia di casa. L’aspirapolvere le diede un incredibile sollievo. Mai soldi furono spesi meglio se non per un Folletto. Il rumore le impediva di sentire i suoi pensieri, ma quando passò allo straccio, ecco che ripiombarono ancora più forti di prima, proprio come le bombe all’alba in quel di Pearl Harbour. 

Aveva fatto la scelta giusta nel mollare la vita a Valencia e seguire l’amore della sua vita? Aveva fatto bene a declinare quell’offerta di lavoro? Ma la peggiore delle domande era un’altra: cosa avrebbe fatto finita la quarantena? A quel punto non aveva più scuse. Sapeva di non voler essere solo una giovane sposina, ma cosa avrebbe fatto della sua vita? Forse si stava adattando ad una nuova situazione, ma una parte di sé, nel profondo, voleva urlare che non era così che doveva andare. In quel momento, mentre rendeva il pavimento di marmo splendente, desiderò che la quarantena non finisse mai. Forse poteva abituarsi ad una vita simile. In fondo ci circondiamo sempre di cose futili, invece ora si poteva vivere con poco e sia l’essere umano che la terra ne avrebbero beneficiato. Il crollo economico sarebbe stato disastroso, ma ci si sarebbe risollevati. Abbandonò il mocio e noncurante del pavimento ancora bagnato, si infilò in camera a fumare un poco d’erba e lentamente cadde in un sonno profondo. 
Erano quasi le otto quando riaprì gli occhi. Si trascinò con forza in cucina e guardò il grande salotto vuoto. Fece un sospiro profondo. Non ne poteva più di quella situazione, doveva fare qualcosa. 

Una voce piuttosto squillante fece aggrottare la fronte a Marco. Chiuse lentamente la porta di casa e percorse il corridoio che si affacciava al salotto e ciò che vide lo lasciò basito. Pilar era in abito elegante e aveva apparecchiato la tavola per dodici persone. Riconobbe il servizio in ceramica che avevano acquistato online dopo le feste natalizie. Ma la cosa più strana era che su ogni sedia c’era un oggetto diverso: un orsetto di peluche, un cesto di mollette, una lampada, un quadro, un piumino per spolverare, un frullatore, un vaso con dei fiori, una scatola con sopra delle scarpe nere con tacco, un pacco di rotoli di carta igienica e un cestino vuoto. E Pilar sembrava particolarmente interessata a parlare con quello che era uno scopino dentro il suo apposito contenitore. A volte sbraitava in spagnolo, altre tornava a parlare in italiano. Era un botta e risposta a senso unico. 

«Appena questa situazione sarà finita, cercherò un lavoro come fotografa e se dovrò viaggiare lo farò. Marco dovrà capire! Come hai detto, scopino? Certo, capisco cosa vuoi dire ma non voglio essere solo una sposa e fare la casalinga. È vero che potrei trovare un lavoro come commessa o impiegata ma non sarei felice e… cosa? Lo so che tu fai un lavoro di merda, ma mi pare sia il tuo destino, no? Non ti ci vedo come spazzola sotto la doccia!» e scoppiò a ridere. «Oh, scopino! Sei troppo divertente! Sei l’anima della festa!». Si alzò per prendere una pirofila posta al centro della tavola e si rivolse all’orsetto di peluche alla sua sinistra. «E a te come vanno le cose, Mister Teo? Ho saputo che sei tornato single. Non è il periodo migliore per cercare una compagna, ma puoi sempre usare Tinder. È così che ho conosciuto Marco e non me ne sono mai pentita. Dammi retta, troverai la donna dei tuoi sogni! Ti va un po’ di torta salata, radicchio e gorgonzola?» e ne tagliò una fetta offrendola al peluche su un delizioso piattino.

«Caspita! Ho dimenticato il vino!» e nel momento in cui si alzò per andare in cucina, si ritrovò davanti Marco che la guardava con due occhi sbarrati, l’aria confusa. Ci fu un lunghissimo silenzio. Era quasi inquietante. Marco fece qualche passo in avanti, fissando quello scenario alquanto bizzarro, poi guardò Pilar che era imbarazzata ma anche sorpresa di vederlo.
«Come hai fatto a tornare? Perché non mi hai avvisato?».
«…Ho rotto il cellulare e poi hanno organizzato un volo da un giorno all’altro… ma abbiamo dovuto fare scalo ad Amsterdam e poi a Roma ci hanno tenuto in osservazione e…». Non disse altro, ancora stupito dalla situazione che gli si era presentata davanti. A quel punto Pilar iniziò a raccogliere i piatti, ma Marco la fermò. «Aspetta!» disse con un gesto della mano. Appoggiò il borsone e la guardò sorridendo. «Non mi presenti ai tuoi amici?». 

FINE

Come furia nel cuore

C’è qualcosa di diverso nell’aria quella mattina, ma Francesco non ci fa molto caso. Ha solo un pensiero nella testa: incontrare la S dai capelli biondi e gli occhi azzurri come il fondo dell’oceano.

Al risveglio, ammira l’imponente Torre Eiffel dal suo balcone, poi esce di casa e si avvia lungo il viale principale, passando davanti al Teatro Olimpico in una ridente Vicenza. Cammina fino allo Starbucks su Madison Avenue, poi entra al Guggenheim per vedere se all’ingresso trova la sua amica F e la vede porgere alcuni dépliant a un giovane gruppo di visitatori, vestita con l’austera uniforme nera che prende colore solo grazie ai lunghi boccoli rossi. Non appena i loro occhi si incrociano, lei gli regala un immenso sorriso.

«Ciao Francesco, che cosa ci fai qui?».
«Ho pensato di passare a salutarti visto che ero nei paraggi. Volevo sapere come stavi».
«Grazie, che bel pensiero hai avuto! Sto bene e vedo che stai bene anche tu. Dove stai andando?». «Pensavo di fare una passeggiata e magari andare da S per chiederle se vuole farmi compagnia». F si morde il labbro curiosa, e si fa più vicina, abbassando il tono della voce.

«Allora è una cosa seria? Pensi che le chiederai di fare coppia?». Francesco arrossisce e distoglie lo sguardo altrove. «Che stupida! Scusa, non sono affari miei. Ti auguro una buona giornata, Francesco e non smettere nemmeno per un secondo di credere in te stesso!», e lo abbraccia forte.

Il ragazzo riprende a camminare e raggiunge prima Piazza dei Signori, poi osservando le varie vetrine dei negozi, attraversa Corso Palladio e mentre si ritrova in Piazza Castello, proprio di fianco al Torrione, prende in mano il telefono per cercare il numero di S ma si sofferma su quello di O pensando che forse dovrebbe chiamarlo, ma viene interrotto da una cascata di petali bianchi: i ciliegi in fiore sono scossi da una grande folata di vento che crea un’atmosfera surreale e magica. Tokyo non lo delude mai.

«Francesco, che sorpresa trovarti qui!», esclama S – un’altra S – che gli va incontro e lo abbraccia. Il ragazzo sorride, è felice di vederla, ma lo diverte vedere ogni volta l’abbigliamento dell’amica che è tutto fuorché formale. Indossa un abito con una fantasia di fragole e ciliegie su una base rosa antico. Delle calze color vinaccia e scarpette rosse brillanti, proprio come quelle di Dorothy nel film Il mago di Oz.


«Ti stavo proprio pensando, sai. E stavo proprio venendo a cercarti. Che fortuna averti trovato lungo la strada!».
«Come mai volevi vedermi, che succede?». S gli sorride, i corti capelli castano chiaro e una frangetta perfetta incorniciano un piccolo ovale dalle guance rosee che le regalano un aspetto fanciullesco. Tutto in lei trasmette una forte sicurezza.

«Stavo per chiamare O, volevo sentire come sta». S sbuffa visibilmente scocciata, poi prende Francesco sottobraccio e gli chiede di accompagnarla a fare una passeggiata lungo gli Champs-Elysées per recuperare la bicicletta lasciata a casa di A la sera prima. Le sue piccole scarpette rosse calpestano un pavimento di foglie secche.
«Su dai, ogni tanto devo chiamare O per sentire come sta», dice Francesco ma lei non risponde e si limita a guardarlo come fossero immuni a qualsiasi male, persino alle spiacevoli notizie.
«Sai, volevo cercare S per chiederle di uscire. È inutile nasconderlo, ci frequentiamo da un po’ di tempo e vorrei approfondire il nostro rapporto». Francesco parla senza quasi riprendere fiato. Sa che se non lo dirà ora a voce alta, non lo farà più e cerca l’espressione di S per capire se approva, ma lei non lo degna di uno sguardo, fissando le foglie secche ai loro piedi. Poi si blocca e senza dargli il tempo di chiederle cosa abbia, si ritrova a dirgli: «Io e A stiamo insieme!».

Non ha il coraggio di guardare in faccia Francesco e quando realizza ciò che ha detto, porta le mani alla bocca, trattenendo le lacrime. «Sono contento per voi, davvero!». S si volta verso di lui e lo analizza per capire se stia mentendo, ma poi gli sorride e a quel punto una lacrima cede e corre lungo la sua guancia fino a sotto il mento. Francesco si affretta ad asciugarla, poi appoggia le mani sulle sue spalle. 

«Non hai mai smesso di dirmi che devo essere sicuro di me stesso e che devo seguire il mio istinto. S, se hai trovato una persona che ti ama non dovresti dubitare nemmeno per un istante di te stessa. L’amore è amore, anche tra lo stesso sesso. Non c’è alcuna vergogna», e le stampa un bacio sulla fronte mentre piccoli fiocchi di neve cadono dal cielo, ricoprendo in pochi minuti i verdi giardini di Central Park a New York.

Quando Francesco è di nuovo solo, riprende il telefono, ma prima di chiamare S prova a cercare O che gli risponde dopo solo due squilli. «Ciao O, come stai?». Dall’altra parte una voce maschile risponde con un colpo di tosse che pare più simile a un grugnito. «Dimmi, cosa c’è amico?».


«O è tutto a posto? Stai bene?».
«Sì, va tutto bene, amico. Dove sei?».
«Sono al lago d’Iseo, ti ricordi quando ci siamo stati tanti anni fa?”. Francesco non aggiunge altro, sa che ha fatto toccato il tasto giusto per metterlo a suo agio.
“Caspita Francesco, che ricordi… non ci pensavo da tempo. Sai, sto sistemando la motocicletta, la voglio rimettere in pista al più presto, proprio come i vecchi tempi… mi mancano quei tempi…».

Francesco sorride solo con le labbra, gli piace sapere O felice, cosa non facile. Tutto a un tratto, però, O gli fa una domanda. «Amico, che cosa vuoi sapere?». Il ragazzo si scosta dallo schienale e mentre sta per rispondere si guarda attorno stupito: non si è accorto di essere in metropolitana e in un attimo è in piedi, pronto a scendere alla prima fermata scoprendo in pochi secondi di trovarsi nel centro di Barcellona. È davvero sorpreso di trovarsi lì e cammina a testa bassa, quello non è un bel ricordo e una strana sensazione riaffiora scaldando il suo petto.

«O, che cosa hai fatto?».
«Amico, è tutto a posto. Non ti devi preoccupare. Sono successe tante cose, ma è tutto sotto controllo». Il tono di O è esitante e Francesco intuisce che è successo qualcosa a sua insaputa e ne ha la conferma quando si ritrova a camminare lungo la strada Rambla di Barcellona. È ancora in quel paese, ancora in uno spiacevole ricordo.
«O, devi dirmi che cosa hai fatto!».
«Amico, abbiamo vissuto troppe delusioni, ricevuto troppi no. La vita ci ha trattato molto male e non ho saputo trattenermi…».
«Non dovevi fare niente! Dannazione, a volte sei così testardo! Lo sapevi che è un momento molto delicato della nostra vita, sai che può accadere l’inevitabile da un momento all’altro. Avevamo solo bisogno di tempo per riprenderci e lasciarci il passato alle spalle. Vieni subito qui e porta con te P, so di certo che ti ha traviato con le sue assurde congetture».
«Va bene, la sveglio e ti raggiungiamo. Dove sei?».

Francesco si guarda attorno per confermare la sua posizione, ma non sa più dove si trovi e un’esplosione improvvisa lo paralizza. L’ambiente muta di continuo, non capisce più dove si trovi. Davanti a lui il cielo passa da una sfumatura giallo arancio di un tramonto, all’oscurità di un cielo senza stelle, fino a un panorama grigio e nuvoloso, ma non appena una folata di vento si avvicina, intravede una città sconosciuta che sta letteralmente collassando.

L’aria è pesante, sa di corpi bruciati e raggiunge le narici di Francesco che porta il braccio al viso per proteggersi. Si guarda attorno, confuso, e quando alza lo sguardo verso un grattacielo colpito da un aereo, il suo corpo si fa di ghiaccio e non riesce più a muovere un muscolo. A è aggrappata al bordo di una finestra e penzola nel vuoto.

«Tieni duro A, sto arrivando», e scatta veloce verso l’edificio, nonostante al fondo sia travolto da un’enorme nuvola di polvere. La gente scappa nella direzione opposta alla sua, le auto frenano all’improvviso. Più corre e più sente le urla disperate di A che lo implora di aiutarla ma più corre, più gli sembra di non avvicinarsi, come se corresse sempre sullo stesso punto.

Le urla di A si fanno sempre più strazianti e quando un uomo appare davanti lei, implora Francesco di fare qualcosa, ma lui non riesce a reagire. Sente il corpo farsi pesante, come se una forza invisibile lo stesse trattenendo. Urla contro quello sconosciuto che cerca di buttare A giù dal palazzo. Urla così forte che la voce inizia a mancargli, e non emette alcun verbo, nemmeno il minimo rumore, quando vede la ragazza precipitare nel vuoto. Francesco cade sulle ginocchia, la gola soffocata da una morsa di dolore, le lacrime che escono a singhiozzi. Tutto attorno a lui sta crollando.

Corre senza fermarsi, vuole trovare la S dell’appuntamento, deve trovarla assolutamente. Corre lungo una strada trafficata di una città sconosciuta. Le auto lo evitano quasi avesse il potere di scansarle, ma poi il caos prende il sopravvento e si ritrova sbalzato in aria e quando cade a terra, attorno a lui l’ambiente è completamente diverso. Si solleva a fatica, la testa dolorante. È in una chiesa, nel mezzo di una navata. Il silenzio è inquietante, come se di lì a poco dovesse accadere un’altra catastrofe.


«Francesco!». Una voce lo attira alla sua destra e due ragazze gli vanno incontro. I loro vestiti sono sporchi, il trucco è rovinato, gli occhi lucidi e spaventati. Sono F e S, la ragazza dai boccoli rossi e quella dalle scarpe rosso brillante.

“Ragazze, state bene?”. Francesco appoggia una mano sulla spalla di ognuna, visibilmente preoccupato. Loro annuiscono ma è evidente che siano sconvolte. «Francesco, che cosa succede? Dovevi avere tutto sotto controllo!», gli urla contro F. «Dobbiamo trovare S. Dove dobbiamo andare? Qual è il ricordo? Qual è il ricordo per trovarla?».
«Rimanete qui fino al mio ritorno, non uscite per nessun motivo, va bene?».

Le ragazze, nonostante siano terrorizzate, annuiscono, ma poi si ritrovano a urlare quando avviene un’altra esplosione. Il tetto della chiesa inizia a sgretolarsi, qualche vetrata va in frantumi, poi delle urla interrompono quel momento drammatico. «Lasciatemi, lasciatemi! Francesco aiutami!», urla S mentre degli uomini la trascinano a forza verso il fondo della chiesa. Francesco cerca di raggiungerla, ma poi F urla dalla parte opposta mentre viene trascinata per i capelli. Francesco non sa cosa fare, non sa chi aiutare. 

E non fa in tempo a reagire perché la chiesa crolla letteralmente sopra la sua testa e quando riapre gli occhi, si ritrova davanti a un immenso prato verde e, al margine di un bosco, vicino a un ponte, vede finalmente la S che attendeva di incontra sin dal suo risveglio e corre verso lei come un fulmine.

«S, dobbiamo andare via da qui, dobbiamo trovare un ricordo sicuro», le dice non appena la raggiunge, ma lei non si muove, quasi fosse priva di emozioni. «S, ti prego, dobbiamo sbrigarci prima che ci trovino e sai che non possono trovare te, sei l’unica che ci può salvare». Francesco non comprende il suo silenzio, ma è deciso a portarla via da lì per raggiungere un ricordo sicuro. Le tende la mano e fa un passo avanti ed è in quel momento che il legno sotto di loro scricchiola e all’improvviso si spezza come se qualcuno lo stesse abbattendo con forza. S non reagisce e si lascia inghiottire dal vuoto che si crea ai suoi piedi, ma Francesco riesce ad afferrarle un polso.

«S, non ti lascio andare, non preoccuparti. Aiutami a sollevarti… S, ti prego…». La ragazza lo fissa, i suoi occhi di un intenso azzurro lo osservano come se stesse facendo qualcosa di sbagliato e con sorpresa di Francesco, lei avvicina l’altra mano per liberarsi dalla sua presa. «Lasciami andare e vieni giù con me, non abbiamo alternativa. Troveremo una soluzione, non avere paura. Affronteremo questa guerra e ne usciremo più forti di prima…». Francesco le allontana la mano con rabbia, le urla contro, la obbliga a tirarsi su, ma S non cede e inizia anzi a essere più insistente nel tentare di liberarsi.

«Non farlo! S, ma che ti prende? Perché vuoi farci morire?», chiede sconvolto, ma la ragazza non risponde e in pochi istanti si libera dalla presa e precipita nel vuoto, ma non prima di trascinare con lei Francesco e in un fitto banco di nebbia, sono solo le sue urla l’unico rumore che rimbomba nonostante la guerra in atto.

In un letto d’ospedale, un uomo che riporta gravi ferite in seguito a un tentato suicidio, lotta tra la vita e la morte. Una donna accanto a lui, la sorella minore, lo guarda sconvolta, le lacrime che ha pianto hanno seccato la pelle del suo viso. Non comprende come mai il fratello abbia tentato di togliersi la vita. Forse la fine della sua storia d’amore dopo molti anni, forse l’insoddisfazione lavorativa, forse i traumi irrisolti della loro infanzia con un uomo che non hanno mai concepito come padre. Vorrebbe avere delle risposte, ma prima di tutto vuole che Francesco si salvi.

Il Francesco di fianco al letto la osserva. È sfinito, deluso, amareggiato per ciò che è successo. Vorrebbe tanto che quella donna potesse sentire la sua voce perché le direbbe che le dispiace tanto, in quanto come io interiore ha fallito, non è riuscito a fermare Francesco dal farsi del male. E che lentamente F, che sta per fiducia, e S che sta per stima, sono state trascinate via con violenza. A come amore è precipitato nel vuoto, O come orgoglio e P come paura hanno fatto solo danni sulla base di inutili congetture e che la S che tanto cercava, ovvero la speranza, la ragazza dai grandi occhi azzurri, gli è scivolata via come forse la vita sta facendo con il fratello proprio ora.

Anche se non può né vederlo, né sentirlo, quell’io interiore appoggia una mano sulla sua e le rimane accanto. Rimane così per diverse ore. Ore che diventano giorni. Ripete lo stesso gesto di continuo, il tempo scorre ma nulla cambia fino a quando, in un pomeriggio di sole, percepisce un’altra mano sopra la sua e quella della sorella e quando si volta, vede quei grandi e bellissimi occhi azzurri e in un lampo gli sovviene una frase: “Affronteremo questa guerra e ne usciremo più forti di prima…”.

Fine

“JOY”

Dal libro “642 idee per scrivere” del San Francisco Writer’s Grotto, ho selezionato alcune idee e ho chiesto, tramite un post su Instagram, di scrivere il primo pensiero che veniva in mente. Ho poi selezionato le tre risposte che più mi piacevano per trasformarle in racconti.

Il primo racconto lo potete leggere al seguente link, mentre gli altri due, qui di seguito. Come abitudine di Wanted Stories, ho fatto dei sondaggi per far scegliere quello che più ispirava e, a seconda dell’ispirazione, ho richiesto qualche input per iniziare a scrivere! Qui di seguito i testi scritti da due “Joy”! Buona lettura!

joyclaremadness – “5 cose che mi mettono sempre nei guai”Da che ho memoria ho sempre parlato: da piccola, da adulta e persino mentre mangiavo. Avevo sempre qualcosa da dire. Parlare troppo mi ha spesso messo nei guai, ma non solo. Quando da adulta credi di aver superato l’età dell’istintualità, ti accorgi che… NON È VERO! Conseguenze? Cosa sono? Ah sì, quelle che ti prendono a sberle quando AGISCI SENZA PENSARE!

Se poi aggiungiamo la sovrabbondante EMPATIA che ti fa piangere in treno al racconto di un perfetto sconosciuto, capisci che forse non hai superato la tua adolescenza o l’hai fatto male😅. Così mi capita di piombare nei ricordi, dove la MALINCONIA mi fa sembrare i ricordi magnifici e il presente TERRIBILE. Ma ciò che più mi fa precipitare nei guai, come un tuffo di testa da cinque metri, è la CURIOSITÀ, in nome della quale ho combinato una quantità innumerevole di cazzate!

Joy fissa il cellulare come se fosse in procinto di riverarle un segreto. Il pollice della mano destra viene mordicchiato con tenerezza. L’indecisione è troppa. Una videochiamata mancata ha cambiato la sua giornata. Fino a qualche minuto prima, tutto si svolgeva seguendo il solito tran tran quotidiano, ma non appena aveva preso in mano il cellulare, tutto ciò che la circondava era svanito nel nulla e nella sua testa rimbomba solo un nome. Quello del suo ex…

«Secondo te che cosa vuol dire?», chiede Joy mentre cammina avanti e indietro per la lavanderia dove il suo bucato si sta lentamente asciugando. Il pollice, poveretto, sempre tormentato.
«Non chiamarlo! Lascialo perdere! Ti ha mollato e per ben due volte, non vorrai mica cascarci ancora, no?», replica l’amica, il tono esasperato, mentre ascolta Joy nutrendo poche speranza di essere ascoltata.
«L’ultima volta che mi ha lasciato, la seconda intendo, stava ritornando sui suoi passi e…».
«No, Joy, non chiamarlo. Perché insisti a farti del male?».
«Ok, allora lascio stare… forse hai ragione…».
«Ecco, brava! Fila a casa e vedi di non fare cazzate!».
«Ciao Francy, grazie mille. Sei un tesoro!».

Joy chiude la telefonata e si adagia su una sedia di plastica che emette un cigolio poco rassicurante. Totalmente insoddisfatta della telefonata con l’amica, è come se le avessero comunicato il fallimento di un esame importante, ma poi scatta in piedi e digita un messaggio. Le dita corrono veloci sulla tastiera e se la sensazione di quel momento si potesse raffigurare, sarebbe come una lampadina illuminata sopra alla sua testa.

Riprende a camminare attorno ai due tavoli che dividono le lavatrici dalle asciugatrici, in attesa di quel suono che conferma l’arrivo di un messaggio e infatti, dopo nemmeno un minuto, ecco che si ritrova ad aprire una chat di WhatsApp, ma ciò che legge la fa infuriare all’istante. “So già che cosa mi vuoi chiedere e la risposta è LASCIA PERDERE! Francesca mi ha avvisato che avresti provato a contattare anche me. Sono tua amica, ti voglio bene, ma a volte agisci senza pensare e finisci col fare solo grandi cazzate! Ps. sai che ho ragione! Giulia». A quel punto Joy ci rinuncia e, le mani incrociate, fissa l’oblò dell’asciugatrice che di lì a pochi minuti finirà il suo ciclo di lavoro.

«Secondo me devi chiamarlo». Joy si volta e nota un ragazzo di colore, i dredd legati con un elastico nero, con indosso una tuta bianca e blu che inserisce il suo bucato in una delle lavatrici.
«È quello che penso anch’io, ma le mie amiche dicono che sbaglio…».
Il ragazzo le rivolge le spalle, ma continua a parlare.
«Ah, non stare a sentire cosa ti dicono gli altri. Devi fare ciò che senti. Insomma, chi meglio di te sa ciò che vuoi?».
«Hai ragione! Voglio bene alle mie amiche, ma non comprendono l’amore che provo per lui e questa è la mia occasione! C’è una festa in centro, so che lo troverò lì ed è lo scenario perfetto per rimetterci insieme». Il viso di Joy s’illumina mentre tira fuori quasi con furia tutti i vestiti asciutti. Non li piega, ma li butta nelle due sacche di plastica e si affretta a uscire, ma poi si volta verso il ragazzo.

«Grazie mille del tuo consiglio!», dice a voce alta. Il ragazzo si volta e fissa l’ingresso ormai vuoto, poi porta una mano all’orecchio sinistro. «Aspetta, amico, mi pare di aver sentito qualcosa…», e si guarda attorno per vedere se ci sia qualcun’altro nella lavanderia, poi torna a concentrarsi sul bucato e continua la sua conversazione al telefono.Joy attraversa la strada e raggiunge il locale dove sa di trovare il suo ex. Indossa il vestito di cotone bianco con piccoli fiori azzurri che ha comprato durante la loro prima vacanza in Grecia. Erano state due settimane stupende e indossarlo voleva essere un modo per ricordargli i bei tempi, e forse essere anche di buon auspicio.

Si infila tra la gente, lo cerca con lo sguardo. Ogni ragazzo dai capelli castani alto un metro e ottanta che le capita a tiro, attira la sua attenzione, ma è quando riconosce la sua risata che si volta e lo vede. Finalmente! Cammina verso di lui e sorride, ma quando incontra il suo sguardo si mostra improvvisamente seria, quel momento per lei è molto importante. È la svolta che aspettava.

«Hei, Joy, ciao! Come stai?».
«Molto bene, anche tu qui?».
«Non manco mai a una festa! Sai, mi fa piacere vederti…». Joy si sforza di non gongolare, o peggio, ballare di gioia davanti a lui. “Francesca e Giulia, avevate torto!”, pensa celando un sorriso beffardo.
«Sai, fa piacere anche a me e…».
«Ero andato in paranoia, sai… non sapevo come avresti reagito, ma ti vedo bene». Joy schiude le labbra e lentamente le sue sopracciglia si inarcano quando sul suo viso emerge un’espressione confusa.
«Che intendi?».
«La videochiamata che ti ho fatto. Sai, mi è partita per sbaglio!».
E a quel punto fu la fine…

Fine

joy_in_the_deep – “La menzogna più colossale che ti sia mai stata raccontata”
Di menzogne se ne dicono e sentono tante. Sempre a fin di bene? Purtroppo no. Io lo so, fin troppo. Sono sempre state bugie dette per legittima difesa, perlomeno le mie. A mali estremi, estremi rimedi. Frase fatta? Può darsi, ma ahimè è una grande verità. In certe menzogne magari ci si finisce per sbaglio, per paura o per vergogna. Perché non si ha altra scelta o solo per il gusto di farlo, per cattiveria gratuita, di quelle non ho esperienza e neanche pietà. C’è chi non può privarsene. Di tutte le menzogne, le peggiori sono quelle che suonano come un “Ti amo come nient’altro al mondo” e poi si rivelano delle stilettate nel fianco che non smettono più di sanguinare. La menzogna più brutta è quella che ti fa credere di essere amata e invece poi non è vero niente.

Quando Joy entra nel bar che affaccia sulla grande piazza del centro storico, una folata di vento smuove il profumo di croissant ancora caldi e latte mischiato al caffè e per qualche istante ha l’impressione di essere entrata in un’altra realtà. È un venerdì mattina, sono da poco passate le undici e Joy, assieme a un atteggiamento indispettito, si ferma davanti al bancone in attesa di ordinare un caffè. Non ne ha particolarmente voglia, lo fa solo per tenersi occupata.

Rientrare a casa significa rispondere alle domande di sua madre sull’esito del corso di recitazione, giunto alla decima lezione. Il solo pensiero le provoca ansia, l’insegnante non è per nulla soddisfatto dei suoi risultati. Le dice di continuo che un testo va compreso, amato e interpretato, qualunque esso sia. Per lui, il morboso legame di Joy a recitare solo testi che le piacciono, la limita e a fine lezione, le dice che se non impara come si deve la parte assegnata, è il caso che vada a spaccare legna per il resto dei suoi giorni.

«Che cosa prendi?». Joy torna alla realtà e di colpo le sue guance si colorano di rosso quando due occhi verdi la fissano in attesa di una risposta. Lei tentenna, le parole non prendono forma nella sua testa. Lo sguardo che la fissa è così magnetico da renderla quasi incapace di respirare. Non vedeva quel ragazzo lavorare al bar da diverso tempo e non si aspettava certo di vederlo quel giorno, proprio quando aveva pescato dall’armadio dei vestiti che nemmeno una cooperativa avrebbe accettato. Lui inclina la testa, le regala un piccolo sorriso e questo è sufficiente per Joy che d’improvviso disgela la sua mente e riprende possesso del suo corpo. Appoggia entrambe le mani sul bancone e inizia a parlare con una convinzione finora a lei sconosciuta.

«Sai, di menzogne se ne dicono e sentono tante. Sempre a fin di bene? Purtroppo no. Io lo so, fin troppo. Sono sempre state bugie dette per legittima difesa, perlomeno le mie. A mali estremi, estremi rimedi. Frase fatta? Può darsi, ma ahimè è una grande verità. In certe menzogne magari ci si finisce per sbaglio, per paura o per vergogna. Perché non si ha altra scelta o solo per il gusto di farlo, per cattiveria gratuita, di quelle non ho esperienza e neanche pietà. C’è chi non può privarsene. Di tutte le menzogne, le peggiori sono quelle che suonano come un “Ti amo come nient’altro al mondo” e poi si rivelano delle stilettate nel fianco che non smettono più di sanguinare. La menzogna più brutta è quella che ti fa credere di essere amata e invece poi non è vero niente…».

Il cuore di Joy batte così forte che pare rimbombare tra le mura del locale. Le mani lentamente si rilassano e si avvicinano l’una all’altra. L’ansia invade il suo petto e ora il respiro si fa più pesante. Se il suo insegnante fosse stato lì in quel momento avrebbe applaudito per la sua performance. Ne era convinta: era stata formidabile. Ora, però, voleva il parere del ragazzo che la fissava come fosse stato preso a schiaffi senza motivo. Non si conoscevano, che motivo aveva di mentirle?
«Caspita, ti ha proprio spezzato il cuore».
«Come dici?».
«Chiunque sia stato è proprio un pazzo. Non ti conosco, ma mi sembri una brava persona. E sai un’altra cosa?».
Joy scrolla le spalle, l’aria di chi sta cadendo dalle nuvole.
«Voglio invitarti fuori a pranzo. Ti va?».
Nonostante la perplessità del suo viso, Joy riesce a dire un sì appena percettibile e osserva il ragazzo carino e simpatico mentre si appresta a sistemare tazze e bicchieri, forse per impostare il lavoro al collega che inizierà il turno di lì a poco. Prende posto a un tavolino e lo fissa, indecisa se dirgli la verità. “Le bugie non si dicono, mai”. Questo le aveva sempre ripetuto sua madre, instillandole un’assurda paura al solo pensiero di mentire. E una relazione che inizia con una bugia non è una buona partenza. Il ragazzo si volta e richiama la sua attenzione.
«A proposito, io sono Davide».
«Joy».
«Piacere di conoscerti, Joy. Mi piace il tuo nome e sai un’altra cosa? Credo che saresti una grande attrice, hai carisma. Dovresti provarci. Dammi altri cinque minuti, poi possiamo andare».
La voce della madre risuona nella sua testa come un disco inceppato e la tentazione di dire la verità è forte. Forse tra cinque minuti gli dirà come stanno davvero le cose. O forse no…

Fine

AAA. Cercasi cadavere

Dal libro “642 idee per scrivere” del San Francisco Writer’s Grotto, ho selezionato alcune idee e ho chiesto, tramite un post su Instagram, di scrivere il primo pensiero che veniva in mente. Ho poi selezionato le tre risposte che più mi piacevano per trasformarle in racconti.

Come abitudine di Wanted Stories, ho fatto dei sondaggi per far scegliere quello che più ispirava per iniziare a scrivere e associato due domande a risposta aperta per avere a disposizione un paio di input da inserire nel racconto.

In questo caso, e in base al testo vincente, ho richiesto:
Quale segreto nascondono le due donne? Un cadavere 
Quale lavoro svolge Michela? È un’investigatrice

Qui di seguito il testo scritto da michela_m68 e a seguire, il racconto che ho sviluppato, ispirato proprio ad esso! Buona lettura!

Una famiglia (non la tua) che viveva nella via in cui sei cresciuto”Fino all’età di 12 anni sono cresciuta al primo piano di un piccolo appartamento. Ci abitavamo noi e due sorelle che erano anche proprietarie dell’intero stabile. Erano una vedova e una signorina, molto legate tra loro in un modo un po’ inquietante, come se nascondessero un segreto. Giocavo sul pianerottolo e a volte salivo e mi fermavo davanti alla loro porta e le ascoltavo parlare. A volte bussavo e si dimostravano generose: mi offrivano sempre caramelle e dolcetti. A distanza di anni ho capito che mi hanno trasmesso quella curiosità e voglia di indagare che mi appartiene tuttora.

L’auto si addentra in una zona residenziale, e si allontana lentamente dalle vie che ospitano negozi e locali. La strada che divide Michela dalla sua destinazione è minima ormai, mentre il tempo che l’ha vista lontana dallo stabile che sta per raggiungere è di gran lunga maggiore. Il collega parcheggia l’auto e si china in avanti, l’aria incerta. Alti palazzi dalle mura grigie circondano la strada e un velo di mistero piomba all’improvviso tutto attorno; è come se la città si fosse spenta al loro arrivo. «Ma dove siamo finiti?». La domanda è retorica, anche se l’espressione che gli si stampa sul viso pare reclamare risposta. «Chiudiamo questo caso in velocità, non ho alcuna voglia di passare l’intera giornata qui». L’uomo si avvicina al portone, fissa il civico, poi abbassa lo sguardo su un foglio e si rivolge a Michela.
«È questo lo stabile, ultimo piano. Andiamo».
«Ci penso io, non preoccuparti», risponde. Lui la fissa stranito, ma dal suo sguardo percepisce che sotto quella gentilezza si nasconde un ordine. Prende un pacchetto di sigarette dal taschino interno della giacca e se ne accende una, buttando fuori una gran nuvola di fumo. È sollevato dal non dover gestire un interrogatorio che voleva proprio risparmiarsi.

Michela appoggia la mano sul ruvido legno del portone che risulta aperto e che si apre emettendo un cigolio. Sale le scale piano, quasi avesse dei pesi alle caviglie. Ogni dettaglio attira la sua attenzione. Osserva con curiosità come le cose appaiono ai suoi occhi a distanza di trent’anni. Le scale presentano qualche crepa in più lungo il bordo sporgente. La ringhiera è arrugginita ma per nulla impolverata, come se venisse pulita regolarmente. Le pareti bianche si presentano ingiallite e l’intonaco in alcuni tratti è scrostato. A ogni passo, un tassello del passato fa capolino nella mente di Michela e in un lampo si rivede dodicenne mentre corre su e giù per le scale o gioca sul pianerottolo con l’amica del palazzo di fronte.

E quasi senza rendersene conto, è davanti alla porta d’ingresso dell’appartamento dove abitano le due donne. Non suona il campanello, ma rimane in attesa, proprio come faceva da piccola, quando la sua curiosità la spingeva a tendere l’orecchio per sentire cosa accadesse al suo interno. È passata da poco l’ora di pranzo e un silenzio che non le è per nulla familiare la confonde, perché le due donne erano sempre impegnate a fare qualcosa. Michela lo trovava strano e si era chiesta più volte cosa combinassero; persino la notte, prima di addormentarsi, percepiva i passi sul pavimento. Era come se per loro stare ferme determinasse il manifestarsi di una catastrofe.

Michela scuote il capo, scrollandosi di dosso i vecchi ricordi, poi suona il campanello. Sente qualcosa che striscia sulla porta, forse qualcuno la fissa dallo spioncino, poi si ritrova faccia a faccia con una donna dai capelli neri e qualche ciocca grigia che le regala un immenso sorriso. «Salve, posso aiutarla?». Michela non risponde, è travolta dall’emozione. Non vede una sessantenne con le rughe in fronte e l’aria stanca. Ai suoi occhi, appare la trentenne che le regalava sempre qualche caramella. Le teneva raccolte nel palmo della mano come fossero qualcosa di prezioso. In assenza di risposta, la donna ripete la domanda. «Mi scusi… Buongiorno, sono Michela Berico. Sono un’investigatrice». Lo dice come se fosse lo slogan di una pubblicità di un prodotto dalle caratteristiche promettenti. La donna si stringe nello scialle e chiede spiegazioni, più incuriosita che intimidita dalla sua presenza.
«Vede, signora…».
«Mi chiami Beatrice, la prego. E comunque non sono sposata…».
«Mi scusi… Beatrice, seguo il caso della scomparsa di un uomo, Antonio Perri, cinquantuno anni, vive in questo quartiere da circa un anno. L’ultima volta è stato visto in questo stabile e da alcune testimonianze pare che frequentasse spesso questa casa. Le dispiace se entro per farle qualche domanda?».

La donna spalanca la porta senza esitare e le fa cenno di entrare quasi avesse piacere della sua compagnia.
Michela si guarda attorno e trattiene un sorriso. Per lei si è appena scoperchiato il vaso di pandora perché solo ora si ritrova a soddisfare una curiosità che ha avuto per trent’anni: visitare l’interno dell’appartamento delle due sorelle dal fare così misterioso. La casa pare un museo: carta da pareti a tema floreale, nei toni del rosa e del verde, fanno sembrare l’ambiente un caldo e luminoso giardino. Un divano e due poltrone, in tessuto damascato, occupano il centro del salotto e i mobili in legno hanno un aspetto molto più vecchio delle proprietarie. La luce che entra dalla portafinestra crea un’atmosfera rilassante, quasi surreale; è come se una volta entrati, si fosse superato un confine che porta in un altro mondo. A Michela pare quasi di sognare.
«Dunque, che cosa vuole sapere?», chiede la donna.
«Io… lei… ehm… in che rapporti era con il signor Perri?». La domanda inizia con titubanza, ma si conclude con un tono serio.
«Lo conoscevo appena, in realtà. Ci aiutava con qualche lavoretto in casa, sa… caldaia, lavatrice. Quegli aggeggi si rompono senza motivo a volte».
«Ha detto ci… vive con qualcuno?».
«Mia sorella».
«È in casa?». Beatrice fa cenno di sì col capo.
«Potrei parlare anche con lei?». La donna non risponde. È come se quella sua reazione volesse intendere un chiaro no, ma poi sparisce lungo un corridoio ed entra in una stanza, chiudendo la porta. Percepisce delle voci e quella che pare una discussione. Fa qualche passo verso il corridoio, ma si arresta di colpo quando dalla stanza escono Beatrice e un’altra donna.

«Buongiorno, sono Milena. Mia sorella mi ha detto che è qui per parlare del signor Perri». Senza rendersene conto, Michela si lascia scappare un sorriso. La donna che ha davanti pare non essere cambiata per nulla. Giunonica, i capelli castani legati nel solito chignon composto, gli occhi piccoli e marroni, la fossetta sulla guancia destra. E l’immancabile eleganza non tanto del suo abbigliamento, dettato da un vestito di cotone rosa sotto a un cardigan beige, bensì dai suoi gesti. Le braccia poggiano sul ventre arrotondato, le mani unite e le dita intrecciate; la postura rigida che rimanda a quella delle ballerine di danza classica.

«Sì, vede signora, la vittima è scomparsa da quasi una settimana e alcune testimonianze portano a voi. Siete le uniche persone ad abitare qui e…». Milena la interrompe per offrirle un caffè che Michela accetta volentieri, prendendo posto sul divano, mentre le due donne siedono di fronte a lei sulle poltrone. Ora che Milena è entrata in scena, pare che Beatrice sia solo un oggetto in più ad arredare il salotto.
«Il signor Perri è stato qui un paio di settimane fa. Abbiamo avuto problemi con la caldaia. Ha cenato da noi. Raramente accettava di essere pagato e ogni tanto lo invitavamo a fermarsi a cena. Non possiamo dire di conoscerlo bene, era una persona di poche parole. In ogni caso, per quel che ne so, se ne è andato da qui con le sue gambe e respirava ancora!».

Lo dice sporgendosi in avanti e spalanca gli occhi come affermazione di ciò che ha appena detto mentre sorseggia il suo caffè. Regge il piattino con una mano, mentre con l’altra accompagna la tazza alla bocca con una invidiabile compostezza. «A suo avviso, poteva essere turbato per qualcosa? Ha notato nulla di strano in lui, quella sera?». Beatrice beve il caffè in silenzio, ha occhi solo per Milena. Stringe la tazza con entrambe le mani e beve come se fosse l’unica cosa che sappia fare. «Direi di no. Abbiamo cenato e chiacchierato del tempo, ma nulla fuori dall’ordinario».

Michela chiede qualche dettaglio in più sulla serata e Milena risponde con una prontezza incredibile ma lentamente le parole si disperdono quando nota un oggetto su una mensola. Un vaso in vetro lavorato, largo quanto un piatto da dessert e lungo una ventina di centimetri. Sembra contenere piccole pietre preziose, ma Michela sa bene che quelle palline colorate sono caramelle. Le stesse di trent’anni fa che le due donne le rifilavano quando capitava alla loro porta o le incrociava sulle scale mentre giocava. Qualcuna la mangiava subito mentre le altre le nascondeva per soddisfare momenti di golosità improvvisa. Milena continua a parlare, ma Michela finge di ascoltare, travolta dal passato cui non pensava di essere così tanto legata.

Ricorda i sorrisi di Beatrice e la mano a coppa piena di caramelle, l’aria fragile ma affettuosa, che la incoraggiava a giocare fuori di casa. “In questo modo si rimane giovani sempre!”, diceva. E Milena, con il suo fare regale e composto, la salutava con un cenno dello sguardo e le rare volte in cui le rivolgeva la parola era per chiederle cosa studiasse a scuola e aggiungeva sempre qualche titolo di un libro o citazione di qualche personaggio importante di cui però, all’epoca, Michela ignorava l’esistenza. Era grazie a quei brevi incontro che si era fatta la tessera per la biblioteca. Da lì era nato il suo amore per i libri e aveva sviluppato una curiosità a dir poco insaziabile. E questo l’aveva portata a fare l’investigatrice. Il rumore della tazza che sbatte sul tavolino la riporta alla realtà.

«Questo è quanto posso dirle, né io né mia sorella lo abbiamo più visto». A quel punto Milena si alza e d’istinto lo fa anche Michela, seguendola in silenzio quando con un gesto la invita all’ingresso. «Mi dispiace di non esserle di aiuto». I loro sguardi si incrociano per qualche istante e la mente di Michela cede di nuovo perché si vede una bambina sulla soglia dell’appartamento delle due sorelle, curiosa di sapere la loro storia. Qualunque cosa, ma niente che abbia a che fare con il signor Perri.
«Buona giornata», dice Milena e prima che Michela possa rispondere, Beatrice la raggiunge e le porge una mano. Il palmo pieno di caramelle.
«Tenga, ma non le mangi tutte in una volta». Il sorriso della donna è una stretta al cuore e mentre Michela stringe il dono prezioso, la porta si chiude e un silenzio improvviso pervade il pianerottolo.

«Un’altra giornata buttata al vento. Te lo dico io che è successo. Quel tizio si è ubriacato ed è finito in qualche fosso. Dicono che a volte ci desse dentro col bere. Ecco che fine ha fatto il nostro caro Perri… Che caso noioso, non capisco perché hai voluto prenderlo in considerazione…», dice il collega mentre guida, l’aria scocciata e la sigaretta stretta tra le labbra. Michela lo guarda e si limita a sorridergli. Non dice nulla in merito al polso arrossato di Beatrice, dei segni sul pavimento come se qualcosa di pesante fosse stato trascinato, del forte odore di candeggina che invadeva il pianerottolo. Rigira una caramella tra le mani e pensa che è da molto tempo che non visita una biblioteca.

Fine

One Day

Un litigio. Proprio in mezzo alla strada. Giulia e Leonardo non trovano un punto d’incontro. Lei è irremovibile. Lui ancora di più. Parole che feriscono. Uno schiaffo. E poi quello che sembra un addio. Riusciranno a ritrovarsi?

Wanted Stories 2.0 ha richiesto al pubblico di scegliere un film d’amore tra quelli proposti.

A quel punto abbiamo selezionato una frase del film vincente e richiesto di svilupparla per avere una “base” iniziale da cui partire per scrivere. L’incipit seguente è preso dal film One Day del 2011 diretto da Lone Scherfig e interpretato da Anne Hathaway e Jim Sturgess, tratto dal romanzo Un giorno di David Nicholls.

“Casa mia non è lontana, andiamo? Quanto pensi di fermarti?”

Gli incipit scritti sono stati diversi e quello che più ci ha colpito è stato quello di Anna Rossetto (@vegetal_books) – “Fermarmi? Sto pensando a tutto fuorché a fermarmi. Fuggire, andare avanti, tornare indietro, spostarmi di lato, nascondermi. Tutto ciò che è vita, movimento, azione, emozione. Fermarmi. No. Non più. A meno che non trovi qualcosa che vada oltre: oltre le solite cose, oltre le convenzioni e le convinzioni, oltre il conformismo e il già visto. Pensi di essere tu, ciò che va oltre? Dimostramelo.”

Turno 1 – Alberto
Giulia si tolse i guanti e li lasciò cadere a terra. Si guardò il palmo di una mano, poi l’altro. Alzò lo sguardo e sorrise, quel sorriso che ricorda una stella cadente ad agosto, cerchi di catturarla con gli occhi, fare uno screenshot al firmamento, dimenticandoti di esprimere un desiderio e rischiando di perdere quell’occasione, quell’ennesima occasione che se ne sta andando, lasciandoti solo, ancora. Appoggiò una mano sul cuore di Leonardo, si avvicinò e gli sussurrò all’orecchio: «Vattene».

Turno 1 – Linda
«Ecco la dimostrazione di cui avevo bisogno!». Leonardo si scostò da Giulia e la fissò con aria compiaciuta e allo stesso tempo delusa, come se avesse saputo la sua risposta ancora prima che lei la pronunciasse; in cuor suo ne soffriva, aveva tanto sperato in un’altra reazione. Finalmente l’aveva messa con le spalle al muro come mai prima era riuscito a fare. Lei lo fissava come si fissa un’insegnante noioso durante l’ultima ora di lezione, con il suo sguardo dolce e ambiguo, come fosse incapace di commettere errore; una bambina che ottiene quello che vuole perché sa di poterlo avere, che gioca con i sentimenti altrui come fossero dei pezzi di lego da assemblare a proprio piacimento, a seconda dell’umore. Leonardo avrebbe voluto davvero andarsene, ma se lo avesse fatto, lei avrebbe vinto. Un’altra volta.

Turno 2 – Alberto
Rimase in silenzio, gli occhi che cercavano di aprire una breccia in quelli di Giulia, avrebbe voluto vedere i suoi pensieri, le immagini nella sua mente, i sussurri tra cuore e anima. La sua sicurezza fece nuovamente spazio a una totale insicurezza, quel tratto caratteriale che lo aveva sempre contraddistinto nel loro rapporto. E poi la domanda esagerata gli martellava ancora in testa “Pensi di essere tu, ciò che va oltre?” non se la perdonava. Come se Giulia dovesse diventare una nuova persona per stare con lui; da carnefice a preda senza passare dal via. Non era mai stato così deciso in passato, non l’aveva mai affrontata. Nemmeno quando lei se n’era andata di casa il mese prima, per vivere in un’altra città. Nella mente i brandelli di quella serata. 

Non riusciva nemmeno a riviverla pienamente, solo scene annebbiate, parole sfumate. Lui che misurava sempre le parole, non capiva perché quella sera Giulia si fosse incazzata così tanto, continuava a ripetersi che non era stata colpa sua, se lo ripeteva più volte al giorno e poi cosa c’era di male nel parlare di avere un figlio? Leonardo per un attimo socchiuse le palpebre, gli occhi spenti. Senza più esitare, la prese per un polso e la tirò a sé con forza. La strinse in vita e la baciò con una passione tale che il lampione sopra di loro si spense. Forse fu soltanto una coincidenza, o forse no. Lei non resistette a quel suo bacio fruttato. 

Leonardo riaccese lo sguardo e tornò al presente, analizzando questa sua fantasia di baciarla. Era soltanto una possibile azione da compiere. Risultato: avrebbe vinto lei. E allora qual era la mossa giusta da fare? Andarsene? Fare finta di nulla? Dirle quanto era innamorato e che non gli importava che lei fosse andata via? Avrebbe sempre vinto lei. Più che due amanti sembravano due alfieri di una scacchiera senza re e senza regina. Si muovevano in diagonale e scappavano l’uno dall’altro, rincorrendosi, aspettando quello scacco matto che non sarebbe mai arrivato se avessero continuato a giocare una partita d’amore. 

L’amore non è un gioco da tavolo, è aria calda che si scontra con aria fredda dando vita a un temporale di emozioni. È fiamma e ossigeno che si alimentano e che si infuocano. È tempo da dedicare l’uno all’altra. L’amore è vita senza compromessi, è abbracciarsi sotto la pioggia sentendo soltanto i respiri che si fondono. Una lacrima scese sul suo viso mentre ancora la guardava, nel petto una nuvola di dolore. «Me ne andrò da te e da tutto quello che ti circonda. Giulia, io non posso continuare a inseguirti, rimarrò da solo, un’altra volta, ma forse tu non sei qui per meritarmi». 

Proferì quelle parole singhiozzando, vere come il catrame appena steso sulla strada. Si girò e si incamminò verso le scale della metropolitana. Passarono diversi secondi, il tempo si era dilatato, poi in lontananza sentì la sua voce: «Leonardo, aspetta!», la scala mobile lo stava già inghiottendo e si sentiva nell’aria l’odore pungente dei sotterranei. 

 

Turno 2 – Linda
Giulia lo raggiunse e lo prese per un braccio. Leonardo si voltò e un dolore improvviso emerse sulla sua guancia sinistra. Lo schiaffo era stato forte, quanto inaspettato. Fissò Giulia interdetto, come se si trovasse di fronte a uno sconosciuto che lo aveva aggredito senza alcun motivo.

«Credi di essere superiore a me? Davvero pensi di avere ragione e potermi trattare come non valessi nulla?». I suoi occhi lo penetravano mentre parlava, come se le parole dovessero aggrapparsi alla pelle, ai muscoli, alle ossa, per essere comprese. Leonardo schiuse le labbra, ma lei lo anticipò. «Non me ne frega se siamo pronti ad avere un figlio o meno, non ha importanza se non c’è un legame serio tra noi. La cosa a cui tengo è che tu voglia stare con me. Sei stanco di inseguirmi? E allora perché non mi hai fermato quando me ne sono andata? Non voglio più dovermi impegnare in una relazione per tutti e due. Sarò dura e pretenziosa, ma sono presente, io so cosa voglio. E tu? Tu lo sai che cosa vuoi da noi due?».

Rimise i guanti che aveva recuperato poco prima da terra e quel gesto sollevò Leonardo, il quale intuì che non sarebbe stato preso a schiaffi di nuovo. L’aria fredda non aveva alcun effetto su di loro, era come fossero avvolti in una bolla; nemmeno i passanti sembravano interessati alla loro discussione. Era davvero così poco importante?
«Tu mi hai detto di andarmene e…».
«Facile dare la colpa a me. Leonardo, siamo in due in una relazione ed entrambi abbiamo colpe. Come fai a non capirlo? Comunque stiamo solo perdendo tempo, il motivo per cui ho deciso di vederti questa sera è per dirti che…». 

Il suono di una melodia a pianoforte li interruppe. Giulia serrò le labbra, come se sapesse chi la stava chiamando, poi prese il cellulare e rispose, gli occhi fissi su Leonardo che pendeva letteralmente dalle sue labbra, cercando di non darlo a vedere. «Ciao amore, sì è tutto a posto. Tra poco sarò a casa». Lui mise le mani sui fianchi e la fissò incredulo, ma una sicurezza mai conosciuta prima lo travolse e gli fece scappare una risata di compiacimento. «Dovevo aspettarmelo da te, parli di relazione e tieni il culo su due sedie, invece!».


«È vero, ti ho chiesto di venire a casa mia, ma ti stavo solo mettendo alla prova, Leonardo. Tra i due, quella delusa sono io», e senza aggiungere altro, gli diede le spalle e attraversò la strada. Cosa stava facendo? Cosa stava pensando? L’avrebbe inseguita oppure sarebbe sparito oltre la scalinata per salire nella metro senza più voltarsi? Il cuore di Giulia batteva forte, gli occhi sembravano due linee scure che si sforzavano di trattenere le lacrime. Non c’era nessun nuovo amore che l’aspettava a casa, solo il gioco di un’amica complice. Solo per mettere alla prova il loro amore.

Turno 3 – Alberto
Leonardo rimase immobile, le persone passavano vicino a lui immerse in quel moto perpetuo tipico dell’orario post-lavoro, qualcuno a testa bassa per rincasare in fretta, altri camminavano con il naso in su per ammirare le nuove luminarie di Natale che si erano accese nei corridoi della metro. Non sentiva il rumore dei treni sulle rotaie, non vedeva oltre le sue pupille. Guardava dentro sé stesso per cercare di non implodere, rifletteva per decidere cosa fare, i muscoli delle gambe gelati, ma non dal freddo. Aveva bisogno di un secondo di infinità, doveva decidere in fretta ma pensare lentamente. Si rivide a tavola con Giulia, cercò di vedere la scena da fuori, osservarsi, pensare a quello che aveva provato lei nel sentire le sue parole. 

«Mamma mia Giulia, che giornata, non ne posso più di questo lavoro!».
«Puoi sempre cambiare, rimetterti in gioco, non ti sei mica sposato il titolare», disse lei con quel suo sorriso luminoso. «Sì, vabbè, la fai facile tu che provieni da una famiglia ricca». Giulia era rimasta in silenzio. Era evidente che avesse accusato il colpo ma decise di cambiare argomento. Era una donna molto forte e decisa, lo era sempre stata.
«Leo, ti ricordi di quel viaggio che volevamo fare alle Filippine? Che ne dici se lo prenotiamo per l’estate prossima?».
«Ok, possiamo pensarci, dipende da come andrà il mio inverno. Lo sai che le mie parcelle sono in netto calo e poi sarebbe anche ora di avere un figlio». 

Ritornò al presente: che risposte le aveva dato? Non dimostravano per nulla il suo amore per lei, era stato irritante. Diventò consapevole di come si era comportato. Credeva di essere quello dolce e premuroso, l’amante perfetto. Siamo spesso convinti di essere dalla parte della ragione, finché non ci mettiamo nei panni di chi ci sta vicino. Ed era proprio quello che aveva appena provato. Non aveva chiesto a Giulia di avere un bambino, le aveva servito quella frase oscena su un piatto pieno di superficialità. Mosse un passo titubante verso il convoglio che stava per partire, ma cambiò subito direzione e iniziò a correre. La velocità delle scale mobili non era sufficiente, continuò a correre e riemerse sulla strada. 

Si guardò attorno ma non c’era traccia di Giulia. Nel suo sterno lame affilate ballavano e si contorcevano, danzando attorno a quell’ennesima occasione sprecata. Decise di prendere una boccata d’aria e si incamminò verso una via laterale, seguendo le luci dei lampioni e un profumo di Winter Jack Daniels. La strada brulicava di persone e tutto si fondeva in un vociare sommesso, non si distinguevano le risate degli adulti, né le urla giocose dei bambini, sembrava tutto ovattato. Attraversò un ponticello, dall’altra parte della strada le vetrine illuminavano a giorno il volto dei passanti. Proseguì verso un grazioso mercatino, la piazza era circondata da abeti rossi adornati da giganti omini di marzapane e si fermò davanti a una casetta di legno, era da lì che proveniva quel buonissimo profumo di whiskey bollente. Sulla lavagna, un messaggio scritto con un gessetto bianco recitava “Giorno dell’amore: se rinunci non ci credi, se scappi non lo vivi, se resti è un percorso che vale la pena di essere vissuto”.


«Desidera qualcosa?». L’uomo barbuto oltre il piccolo bancone interruppe le riflessioni di Leonardo.
«Sì, un Winter Jack, doppio, per favore».
«Certo, subito», rispose il signore, mentre stava già riempiendo la tazza. Leonardo la scolò senza tanti complimenti. «Un altro, triplo, grazie», e anche questo andò giù in un secondo. Rimase seduto sullo sgabello di legno, fissava la tazza vuota senza sbattere le palpebre.
«Brutta giornata, eh?».
«Pessima direi…», tagliò corto Leonardo e ordinò un altro whiskey. «Ma non è l’unico, stia tranquillo. Chi per un motivo e chi per un altro, sono in molti che si fermano qui. Ne ho viste oggi di persone con il suo sguardo, mi piace osservare».
«Beato lei», esclamò Leonardo solo per interrompere la conversazione, ma l’altro riattaccò subito. «Si guardi intorno. Vede quel signore? Dev’essere un avvocato, è appena stato qui e ha comprato una bottiglia. Il caso ha voluto che si sedesse proprio accanto a quella ragazza, anche lei passata per bere un paio di bicchierini e diceva di essere astemia», concluse scoppiando in una gran risata.
«Sì, sì, va bene, grazie, interessante, tenga il resto», e si alzò dallo sgabello lasciando cinquanta euro. Senza rendersene conto, passò di fianco alle due persone di cui gli aveva parlato il barista, ma non li guardò nemmeno, finché non sentì la voce di Giulia che lo fece girare di scatto. 

 

Turno 3 – Linda
Lei gli dava le spalle, seduta a un tavolino poco distante dal bancone con una tazza di whiskey fumante stretta in una mano. Era al telefono, ma Leonardo non riusciva a sentire la conversazione. Chiunque ci fosse stato dall’altra parte, però, non aveva importanza: in un attimo gli fu chiaro cosa dovesse fare, o meglio, dire. Lentamente, come se il pavimento fosse fatto di un sottile strato di ghiaccio già crepato, una perfetta analogia del loro rapporto, si avvicinò e si sporse il giusto perché lei alzasse lo sguardo. 

Nei suoi occhi non vedeva più le piccole sfumature verdi che tanto amava di lei, ma anzi, ora intravedeva una luce diversa, come se un manto scuro li avesse completamente avvolti. Non capiva cosa gli stessero dicendo, ma una cosa era certa: non lo stava respingendo. Si sedette davanti a lei, senza dire nulla. La guardava come si guarda la neve cadere dolcemente a terra in un giorno che non ti aspetti o come quando si scarta un regalo che ti riporta a un ricordo del passato, nascosto in un angolo della mente e che riscalda il cuore tutto a un tratto. 

Si scostò dallo schienale pronto a parlare, le parole stampate chiaramente nella sua testa, non poteva concedersi errori, ma poi quel gesto rovinò la fantasia che aveva elaborato: si era immaginato mentre diceva ciò che Giulia avrebbe voluto sentirsi dire, ma lei lo aveva anticipato e con la mano lo intimava a restare in silenzio. Si era poi alzata e muovendo appena la testa a destra e a sinistra, in segno di disapprovazione, era indietreggiata di qualche passo e in pochi istanti era sparita oltre la casetta di legno sotto lo sguardo confuso di Leonardo che si accorse solo in quel momento della neve che aveva iniziato a cadere a terra. In un momento davvero inaspettato.

Finale LINDA MOON

«Giulia!». Leonardo chiamava il suo nome tra la folla. «Giulia!». La intravedeva camminare senza accennare a fermarsi, se non solo per evitare di scontrarsi con qualcuno, e mentre fissava un cappotto blu immerso tra tanti altri dai colori banali, immaginava il suo viso costretto in una smorfia per trattenere le lacrime; lo faceva sempre, detestava piangere. Chiamò il suo nome altre tre o quattro volte, ma era come se nel farlo perdesse terreno, così a quel punto si fermò, indeciso su quale fosse la giusta mossa. 

I secondi scivolavano come fossero acqua che non si riesce a trattenere per quanto strette si tengano le mani, il petto sembrava troppo piccolo per contenere un cuore che pareva gonfiarsi sempre di più e il fiato stava lentamente venendo a meno. Per un istante sorrise e alzò il viso al cielo, lasciandosi accarezzare dai piccoli fiocchi di neve che cadevano con fare delicato sul suo viso. Era follemente innamorato di Giulia. Come aveva fatto a non capirlo prima? Forse i tanti pensieri lo avevano allontanato da quello più importante o forse non erano solo preziosi secondi a scivolare via, ma anche l’insicurezza che lo aveva sempre accompagnato in ogni sua azione. E in quel momento gli fu chiaro cosa dovesse fare. Si guardò attorno come se si trovasse per la prima volta in quella piazza, poi corse verso degli enormi addobbi natalizi a forma di pacco regalo, oltre gli abeti rossi, e una volta in piedi su di essi, gridò con tutta la voce che aveva.


«Fermate la donna con il cappotto blu. Mi ha rubato il portafoglio!». Con una mano indicava un punto preciso e continuò a ripetere la frase fino a quando qualcuno non gli diede retta e reagì. Non era in grado di sentire cosa Giulia stesse dicendo a un paio di persone che l’avevano fermata, indispettite, ma poi la situazione gli sfuggì di mano quando un uomo richiamò l’attenzione di due agenti di polizia. Leonardo fissava la scena stupito e sconvolto allo stesso tempo, non sapendo cosa fare: era troppo distante per far sentire la sua voce e spiegare il malinteso, la piazza ora brulicava di gente e come se non bastasse, un coro natalizio aveva intonato una canzone di natale proprio in quel momento. Non ne aveva la certezza, ma gli pareva di aver visto lo sguardo di Giulia inferocito che lo puntava da lontano.


«Hei, amico, penso ti serva questo». L’uomo barbuto del bar gli passò un megafono e gli diede una pacca sulla spalla. Leonardo gli sorrise e senza perdere un secondo in più, iniziò a parlare.
«Aspettate! Quella donna non mi ha rubato il portafoglio. L’ho detto solo perché qualcuno la fermasse. Chiedo scusa a tutti e Giulia…». S’interruppe per mandare giù un nodo alla gola che gli si era formato nel frattempo. Chiunque poteva sentire cosa stava dicendo, ma soprattutto erano in molti a fissarlo curiosi.
«Vedi, io…». Le parole impresse nella mente fino a poco prima parevano essere svanite come i fiocchi di neve si perdono in un unico manto bianco quando toccano terra.
«Non avrei dovuto dirti le cose che ho detto. Non avrei dovuto dirti che dobbiamo avere un figlio solo perché è ora di farlo. Non avrei dovuto sbatterti la mia superficialità in faccia. Ho accumulato così tanti non avrei dovuto che forse non merito nemmeno questa occasione per parlarti. Ho fatto un casino, lo ammetto. Ma Giulia, non andare via, non lasciamoci così. Io non posso cambiare all’improvviso, anzi, credo proprio che non cambierò mai, ma posso diventare migliore accanto a te, se ti permetto di farlo ed è ciò che voglio». 

Raggiunse il terreno per avviarsi verso di lei.
«Non voglio che ti illudi, avremo momenti in cui discuteremo, forse mi farai dormire sul divano perché lo sappiamo entrambi che toccherà a me farlo, ma ti posso promettere che mi sforzerò di ascoltare il tuo punto di vista e farò del mio meglio per non sparare cazzate. Non scuocerò più la pasta, smetterò di bere dal cartone del succo e tirerò sempre giù la tavoletta del water». Alcune persone si lasciarono scappare una piccola risata a quelle parole mentre Leonardo era ormai a pochi passi da Giulia, il megafono abbassato.

 
«So che ti sembra troppo bello per essere vero, ma sono pronto a rischiare tutto pur di avere un’altra possibilità con te, anche avere tante testimonianze a provarlo», e alzò le braccia a indicare le svariate persone attorno a loro, poi riprese a parlare, «E so che starai pensando che mi comporto così solo per via dell’atmosfera natalizia o per i tanti whiskey bevuti prima, ma ti giuro che non sono mai stato così convinto delle mie parole come lo sono ora. Certo, ogni tanto mi prenderò la libertà di alzare gli occhi al cielo perché lo sai bene che sei una gran rompipalle quando vuoi, ma sarò con te Giulia, ti amo da impazzire, e se ora vuoi andartene puoi farlo, non ti fermerò, ma sappi che ogni volta che vedrò qualcuno camminarmi accanto con un cappotto blu, quel maledetto cappotto che indossi anche le sere d’estate perché sei tremendamente freddolosa, spererò sempre che sia tu».


Nessuno parlava, la gente era rapita da quel momento, curiosa di sapere come sarebbe finita. E tutto attorno era come se il mondo si fosse arrestato per assistere a quel momento in cui il cuore di Leonardo batteva normalmente dopo un lungo arrancare. Giulia si guardò attorno, spostando lo sguardo altrove, poi lo fissò, e sorrise. «Finalmente! Ci hai messo una vita a capirlo…», e lo abbracciò forte. Un abbraccio che Leonardo ricambiò con profondo affetto, come fosse il primo ricevuto e sapendo che non sarebbe stato l’ultimo.

Finale ALBERTO SARTORI

Erano passati quasi tre anni, Giulia seduta in terrazzo stava fumando l’ultima sigaretta prima di andare a dormire. L’estate era alle porte e un vento tiepido le scompigliava i capelli. Una folata più forte fece volare in aria la cenere e rovesciare il calice di gin tonic sul giornale. Il liquido si allargò velocemente sulla carta umida, lei lo tirò via in fretta ma un lembo dell’ultima pagina rimase appiccicato al tavolino. Fece per rimuoverlo ma si bloccò di colpo, il cuore in gola, le tempie sembravano esplodere, le mani tremavano. In quell’apparentemente insignificante pezzetto di carta era stampato in corsivo: “Leonardo Scali. Amici e parenti si stringono attorno a Dio per salutare la scomparsa del caro Leonardo”.


Fu come un colpo di pistola in bocca, lo stomaco iniziò a contrarsi e Giulia si accasciò a terra, piangendo disperata. Non riusciva a respirare, boccheggiava come un pesce saltato fuori dalla boccia. Com’era possibile? Cos’era successo? Ogni risposta veniva soddisfatta da un’altra domanda e l’elenco era interminabile. Non lo aveva più visto dopo quella sera d’inverno, non lo aveva più sentito. Quell’amore litigioso che li aveva uniti per lungo tempo si era sciolto nelle tazze di whiskey caldo come una zolletta di zucchero. Giulia non era più riuscita a costruirsi una vita di coppia, era tornata a vivere nella stessa città in cui aveva convissuto con lui, aveva cambiato mille lavori, era uscita con qualche ragazzo, ma l’amore vero non aveva più bussato alla sua porta. E su quel terrazzo, riversa a terra per i crampi, stava comprendendo che i suoi insuccessi amorosi avevano una sola ragione: non aveva mai smesso di amare Leonardo. 

I giorni passarono lenti, ognuno percepito come fosse una settimana, finché sul calendario comparve lo stesso numero che era scritto nel trafiletto sul giornale. Giulia bevve la sua terza vodka prima di uscire di casa, erano soltanto le due del pomeriggio. L’abito scuro faceva pendant con l’espressione buia del suo viso. La messa sarebbe iniziata di lì a un’ora. Non aveva trovato il coraggio di chiamare nessuno per le condoglianze, tanto era sconvolta dalla notizia quanto non voleva darlo a vedere. Gli amori non dimenticati fanno uno strano effetto, vibrano a frequenze che non riusciamo mai a comprendere del tutto. Camminava a passo svelto verso la chiesa di San Marco, ripensando al primo appuntamento con Leonardo, in quell’istante gli sembrò di riaverlo al suo fianco e una lacrima solcò il viso scendendo al rallentatore.


Arrivò davanti alla porta principale, fece dei respiri profondi per calmarsi e riuscire a fare quei pochi scalini che la separavano dal portico. Iniziò a cercare con lo sguardo i suoi ex suoceri, i cugini, gli amici di Leonardo, tutte persone che pensava non avrebbe più rivisto. Gli ultimi banchi erano vuoti, proseguì facendosi il segno della croce e una rapida genuflessione, poi si voltò a destra e a sinistra ma non riconobbe nessuno. Avanzò ancora con il cuore in gola, senza più voltarsi, guardando solo il marmo rosso del pavimento e arrivò davanti alla bara posta ai piedi dell’altare. Un giaciglio semplice in legno di faggio, adornato con dei rametti d’ulivo. Si tolse i guanti di seta nera e alzò lo sguardo. All’interno della bara un uomo, sulla settantina, barba bianca, carnagione scura, non aveva nulla a che vedere con il “suo” Leonardo. Sorrise, vergognandosi di farlo nel bel mezzo di un funerale, sorrideva in viso e nel petto. Sgattaiolò fuori dalla chiesa mentre lo stomaco si rilassava e il cuore riprendeva a pulsare regolarmente. Sorrise ancora pensando a quanto fosse stata stupida per non aver fatto nemmeno una telefonata, per aver dato per scontato che al mondo ci fosse soltanto un Leonardo Scali.


Nella passeggiata verso casa continuava a ripensare ai bei momenti passati con lui, a quanto forte l’avesse stretta ogni volta in cui lei ne aveva bisogno e si chiese se fosse troppo tardi per sentirlo dopo tutto quel tempo. I suoi piedi avanzavano uno davanti all’altro senza che la mente desse comandi precisi, le sembrava di vagare casualmente finché non si ritrovò davanti al palazzo dove avevano convissuto. Al terzo piano le luci erano accese nonostante il bel sole proveniente dall’esterno. Era stato proprio quello il loro appartamento. Abbassò lo sguardo. Sul campanello tre nomi scritti in grassetto: Leonardo Scali, Stefania Grilli, Giulia Scali.
«Giulia Scali», sussurrò Giulia, «Ha chiamato sua figlia proprio come me». Allungò una mano per suonare, ma la ritirò subito. C’era già una Giulia nella vita di Leonardo. E forse era davvero arrivato il momento di dimenticarlo per sempre.

Fine

Uno speciale ringraziamento va anche a tutti coloro che hanno partecipato alla nostra iniziativa di scrittura e proposto il loro input: Gianluca Santomaso – Giulio Perozzo – Greta Bergamin – Cecilia Mariani – Filippo Romani – Ilaria Marangoni – Giovanni Lembo – giulilai35 – gali4music – farkikka – Andriko_Hajni – @attimidiprosablog

Cadavere Squisito – 7

Un racconto scritto a sei mani. Ispirati dalla tecnica del Cadavere Squisito. 
Tre scrittori. Un tema comune. Tre stili diversi che si amalgamano assieme.

Un racconto scritto appositamente per l’evento Wanted Stories seguendo le rispettive idee e ispirazioni. Ispirati dal tema dell’ARTE, abbiamo dato vita a tre brevi racconti, ognuno scritto con il proprio stile. L’input di partenza è stato un’artista e un quadro di sua realizzazione.

Il racconto di Linda Moon si ispira all’opera di Hieronymus Bosch “Vizi Capitali” e ha scritto il racconto su una bizzarra investigazione per omicidio, le cui accuse fanno acqua da tutte le parti! 

Il racconto di Monica Vaccaretti si ispira all’opera di Renzo Crociara “Nuca” dal quale ha estrapolato il massimo delle emozioni per un racconto di autentica spontaneità e naturalezza che parla di baci, di pelle e di sensazioni. 

Il racconto di Aldo si ispira all’opera di Matisse “Gioia di vivere” e parla di una donna in attesa di prendere un volo che rivede in qualche sconosciuto frammenti del suo passato. 


INCIPIT – “Spazziamo tutto quanto sotto il tappeto con una bella pacca sulle spalle, un sorriso e del buon champagne per allentare la tensione. Abbiamo problemi qui? Non credo! Perché se li avessimo basterebbe cacciare un po’ di soldi. Tanto tutti sappiamo che non c’è niente che non si può comprare…”.

Turno Linda

Lucilla lesse la battuta e mano a mano che le parole uscivano dalla sua bocca, sgranò gli occhi disgustata. Si bloccò all’istante e si rivolse verso la platea. «Ma che razza di battuta è questa? Volete rendere il mio personaggio ancora più antipatico e agghiacciante di quanto già non lo sia? Sono una vedova, cacciatrice di doti, con un figlio che mi odia e una figliastra che mi snobba. Ho un amante di trent’anni più giovane che mira solo a un avanzamento di carriera nell’azienda del mio quarto marito e ora mi fate dire questo turpiloquio? Renato, tesoro, so che sei un grande sceneggiatore, ma te lo devo proprio chiedere, chi ti ha insegnato a lavorare, Paperino?». 

Turno Aldo

Renato, oltre che sceneggiatore era pure regista dello spettacolo. Incassò l’ennesimo sfogo dell’attrice senza battere ciglio. Sfoderò il migliore dei suoi sorrisi fasulli e disse: «Lucilla, mia cara, con il tuo talento e la tua bellezza qualsiasi personaggio per quanto sgradevole non può che risultare gradito al pubblico. Stai tranquilla, interpreta la parte con la grazia di cui madre natura ti ha fatto dono e vedrai che sarà un successo, l’ennesimo della tua splendida carriera!». L’attrice, lusingata, si calmò. Renato invece, senza darlo a vedere, ribolliva di rabbia. Non sopportava più lei, le sue arie da star, i suoi capricci. La parte, però, era fatta su misura per lei e la congedò come di consueto con un «…ottimo lavoro mia cara!», e prese la giacca avviandosi al pub, smanioso di un poco di pace e di un barile di birra. Lucilla invece, mente si dirigeva al suo camerino, incrociò Anselmo, il tuttofare del teatro impegnato a sistemare i sedili e gli soffiò un bacio che lui accettò con un sorriso e un brivido lungo la schiena. Aveva la metà dei suoi anni ed erano amanti. Questo gli aveva permesso di avere quel lavoro, la motocicletta, e uno standard di vita relativamente agiata, però non la sopportava più. Di giorno a teatro e di notte a letto. Era troppo. Le era grato, ma si sentiva soffocare. “Meglio poveri, ma liberi”, pensava. Però i soldi facevano comodo, come pure le raccomandazioni e gli aiutini che lei garantiva. Ricambiato il bacio di malavoglia, si girò dall’altra parte. Lei, contenta, sculettò fino alla porta, sparendo oltre il suo camerino. 

Turno Monica

“Il teatro è polvere di palcoscenico”, pensò Lucilla mentre accendeva la lampada in stile liberty sul tavolo da trucco, sorseggiando il prosecco che Anselmo le aveva fatto trovare prima delle prove e che non era riuscita a finire, richiamata sul proscenio dalla voce indispettita di Renato. Era arrivata in ritardo quella sera e con gli abiti inzuppati, il temporale che si era rovesciato sulla città l’aveva sorpresa a piedi per strada. Si era messa addosso un abitino nero con un grembiulino bianco che era stato un costume di scena dell’ultimo musical Waitress, il primo che nella fretta aveva afferrato dall’appendino. Quando era comparsa da dietro le quinte con i capelli bagnati e il vestito preso in prestito da un’altra pieces che non si adattava con il copione sgualcito che teneva tra le mani, Renato l’aveva rimproverata con quello sguardo di disappunto malcelato che le urtava i nervi. Non era facile lavorare sotto la sua regia, la faceva provare anche per otto ore di fila, come fanno gli attori professionisti. Era un perfezionista e non trascurava niente: dizione, postura e scenografia dovevano essere impeccabili a ogni spettacolo. Lucilla amava recitare e senza Renato la sua carriera sarebbe già finita. Entrambi amavano quel teatro storico che era diventato un po’ la loro casa, ma Lucilla ancor di più amava Anselmo. La sensazione che provava quando stava con lui ogni volta che saliva sul palcoscenico di notte, quando il teatro si spegneva ed era tutto per loro due, le dava una eccitazione che non aveva mai provato prima. Dietro il sipario chiuso si consumavano ogni notte amplessi e storie da mettere in scena l’indomani. Era Anselmo che, guardando le americane appese e le corde ben tirate mentre si fumava un po’ d’erba dopo aver fatto l’amore sdraiati su un tappeto che ricopriva le schegge di legno scricchiolante, le suggeriva fantasie di possibili scenari e le ispirava dialoghi e monologhi. Anselmo era il corpo ed era la mente. Mentre beveva l’ultima goccia dal calice, Lucilla si rese conto che non poteva rinunciare al suo giovane amante. Doveva trovare il modo di legarlo a lei per sempre. Il suo successo dipendeva ormai dalla dipendenza fisica che aveva di lui, pensò mentre usciva dal camerino e salì distrattamente le scale. Lucilla si slacciò il grembiule, lasciò cadere ai piedi l’abitino nero, spense tutte le luci del teatro e andò a sdraiarsi sul proscenio, aspettando che la polvere di palcoscenico entrasse dentro di lei. 

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LINDA MOONMONICA VACCARETTIALDO FERRARESE

Finale Linda Moon – TITOLO: Nonostante tutto, mai una gioia!
Una luce illuminò all’improvviso Lucilla che basita si rialzò coprendosi con un tessuto che recuperò da terra. Sentì dei passi, ma non erano di una sola persona e presa dal panico, scese dal palco e si nascose sotto di esso mentre stringeva il cellulare in mano, pronta a chiamare aiuto se fosse stato necessario. I passi si fermarono proprio sopra di lei, la quale tese l’orecchio per capire chi ci fosse. Sentì un debole mormorio, poi un gran sbuffare.
«Non puoi mollare ora! Dopo lo spettacolo sarà fatta! Io avrò il mio successo e tu ne gioverai, stai tranquillo, ma devi tenermi buona Lucilla!». 
«È che non ne posso più di lei e delle sue follie, mi manda al manicomio!».
«Lo so, sogno di strangolarla ogni volta che sale sul palco ma vedrai che dopo lo spettacolo avremo il nostro meritato successo e potremo liberarci di lei. A proposito, non devi vederla ora?».
«Sì, sarà meglio che vada a cercarla, chissà cosa mi farà fare stasera… pensa che sia il suo bel cagnolino… non hai idea di come mi senta…».
«Però la vita agiata ti piace, mi pare…». 
«Sì, ma a che prezzo?».
«Dai su, datti da fare, falla impazzire, sarà per l’ultima volta. La voglio in forma smagliante per lo spettacolo. L’ho studiato bene per fare colpo su quel viziato e stupido investitore che vuole fare l’intellettuale nel mondo teatrale, come se ci capisse qualcosa… ma ci farà cambiare vita per sempre e diremo addio a quella rompipalle e bisbetica di Lucilla, intesi?». Anselmo alzò gli occhi al cielo, poi acconsentì e sparì oltre il sipario.

Lo spettacolo fu un successo e un’ora dopo, Renato e Anselmo si trovavano nell’ufficio dell’investitore, pronti a discutere di un futuro luminoso quando questi, dopo aver servito loro del costoso champagne, aprì il brindisi con una frase alquanto bizzarra. «Ogni battaglia che si rispetti, persino il più banale dei litigi, inizia per la stessa medesima motivazione. Un’offesa». Renato e Anselmo si guardarono allibiti. «Sig.Belvedere, che brindisi particolare… immagino sarà legato anche a un aneddoto, o sbaglio?», chiese Renato. «Certo che lo è!», rispose lui, poi prese un telecomando e fece partire quella che pensarono fosse musica quando invece risultò essere una registrazione. Si trattava della discussione di quella sera a teatro quando complottavano contro Lucilla che entrò pochi istanti dopo sfoggiando un sorriso compiaciuto come avesse appena vinto una gara di competizione. Aveva registrato tutto e negoziato la sua rivincita col l’investitore. Quella che però si prospettava come la fine di una relazione professionale stretta ormai a tutti, innescò invece un gran litigio. Renato le lanciò il bicchiere pieno di champagne ai piedi e le diede della pazza psicopatica. Lei si infuriò e lo colpì come poteva con entrambe le mani, maledicendolo di continuo. Si tirarono i capelli, un fermaglio con pietre colorate volò a terra, una cravatta fu stretta al collo come un cappio. Si sentiva chiaramente il rumore delle cuciture dei vestiti saltare. Sembravano due barboni che si contendevano l’ultimo boccone di un panino sfizioso. Il signor Belvedere scosse il capo come un insegnante fa con uno studente che proprio non mostra impegno in una materia, piena disapprovazione, poi fissò Anselmo e lo squadrò dalla testa ai piedi. Gli regalò un sorriso e ammiccò indicando verso la sua destra. «Sei carino, vuoi farti un giro nell’altra stanza?». Il ragazzo si paralizzò osservandolo guardingo. Era davvero ironica la situazione: voleva liberarsi della bella quanto instabile ma benestante Lucilla e ora una persona ancora più ricca di fascino, carisma e soldi gli proponeva qualcosa di promettente ma di sicuro peccaminoso. Era una situazione tanto ironica quanto assurda, ma poi fissò gli altri due, ancora presi a darsele di santa ragione, ed esclamò: «Tra i due litiganti, il terzo gode, giusto?», e finì lo champagne, anche se dentro di sé pensava: “…oh, mai una gioia!”, e sparì assieme al signor Belvedere oltre una porta di legno scuro.

Finale Monica Vaccaretti – TITOLO: Parole di polvere
Il buio era ancora più buio e freddo stavolta. Lucilla si avvolse il grembo con un lembo del sipario rosso e si girò sul fianco guardando verso le quinte nascoste dal drappo nero. Non si dà mai le spalle al pubblico in sala, era la regola aurea di un attore principiante, pensò sorridendo. E nemmeno i glutei. Passarono i minuti e poi le vennero i dieci minuti. Ma dove diavolo era andato Anselmo? Infastidita si mise dapprima a sedere guardando verso la scaletta che conduceva nel foyer e poi lentamente, tenendosi avvolta nel sipario, fece qualche passo verso il pianoforte a coda che era in scena. Prese l’accendino che aveva dimenticato lì durante la pausa delle prove, si accese una Marlboro e poi con la sigaretta diede fuoco allo stoppino della candela nella bugia di rame che aveva usato nel terzo atto. Ora il buio era meno buio e il palcoscenico aveva qualche ombra qua e là che le facevano compagnia nell’attesa di quell uomo. Era lei stessa un’ombra, in fondo viveva un amore nascosto, non alla luce del sole. Al pensiero si incupì un poco. Sempre avvolta dal sipario di broccato che incominciava a starle stretto se faceva per allontanarsi di altri passi, si sedette sul pianoforte accanto alla bugia. Mai accendere un lume in teatro, altra regola aurea. «Caspita, devo stare attenta, stasera potrei prendere fuoco e incendiare tutto. Se tarda ancora prendo fuoco sul serio! Come in Set Fire in the Rain di Adele. Tra poco mi metto a urlare anch’io alla pioggia il tuo nome. Anselmo!!!!! Dove sei finito!?», e Lucilla lo urlò a voce alta. Silenzio. Nessuno. Solo la pioggia attutita dai coppi sul tetto e dai muri vecchi e umidi tutt’attorno. Il temporale fuori era sopra di lei. E dentro sentiva nascere tempesta. Le mancava l’aria. Se fosse stata a casa avrebbe spalancato la finestra. Si sentì improvvisamente dentro una scatola. Si deve essere sentito così il mio canarino Aquila quando l’ho portato a casa dal Garden per poi metterlo nella voliera. Ma almeno la sua scatola aveva i buchi. Qui invece era tutto chiuso. Anche la porta di sicurezza, che dava sulla rampa di accesso ai camion delle compagnie teatrali per accedere in sicurezza al palcoscenico per allestire le scenografie, sembrava chiusa per quel che riusciva a vedere dalla parte opposta in cui si trovava. Silenzio misto a pioggia. Spense la sigaretta sulla bugia e scivolando sul pianoforte mise i piedi nudi sul legno del palco e si diresse verso la porta che dava sul cortile. Il sipario tornò oscillando al suo posto. Un improvviso tuono che sembrò squarciare il velo del teatro, come fosse il tempio di Gerusalemme, la fece fermare a pochi passi dalla maniglia. Un vento di burrasca penetrò dalla porta che era stata soltanto socchiusa, spalancandola con fragore sul muro esterno. Lucilla fu colpita sulle cosce nude da una sferzata di acqua gelida e grandine che la fece indietreggiare e poi cadere, inciampando sul costume di Waitress. E nel fragore di altri tuoni, sempre più vicini, Lucilla scoppiò improvvisamente in lacrime. Un pianto inconsolabile se ci fosse stato qualcuno a consolarla. La bugia sul pianoforte si spense in un soffio di vento più veloce che la raggiunse. Tornò il buio e i singhiozzi di Lucilla frantumarono il silenzio. Spoglia e infreddolita, scossa da tremori incontrollabili, la donna a terra si rese conto di quanto fosse caduta in basso. Questa era la verità. Di quanto mentisse a se stessa. Di quanto si accontentasse di certa gente che la circondava per non sentire il peso della solitudine. Di quanto dipendesse psicologicamente da Anselmo. Che non l’amava. Lo sapeva. Lo sentiva, non era una stupida. Le mentiva, la usava soltanto. Per il piacere o per lo stipendio che gli garantiva. Era umiliante quel gioco di seduzione che aveva accettato, che aveva inscenato. Silenzio. Misto a pianto. Anselmo non sarebbe venuto stanotte e lei comunque non lo avrebbe voluto. Non voleva più sentirsi usata, non amata. E usarlo per un bisogno o un capriccio non la faceva intimamente stare bene. Doveva liberarsene, altro che non lasciarlo andare via. Bé, se ne sa andato da solo in fondo. Aveva scelto di non venire e non a caso. Anche se magari domani avrebbe inventato qualche scusa e le avrebbe chiesto scusa, gli piaceva farla arrabbiare per poi farle passare il muso. No, davvero non aveva bisogno di Anselmo. Di farsi prendere in giro. Non a quarant’anni, quasi cinquanta. Soltanto per avere sesso? Lei voleva amore. E a fanculo chi non la voleva per volerla veramente. E che dire di Renato? Si detestavano da anni eppure avevano cercato di sopportarsi per via di quel successo che entrambi inseguivano da una vita ma che non era mai abbastanza. Era un mondo difficile, il teatro. Una vita di invidia e rivalità. Renato non la stimava sinceramente, non era nemmeno un buon amico. Non aveva gentilezze e attenzioni particolari nei suoi confronti e lo sentiva falso e opportunista.  Che vada a fanculo pure lui. Basta. Doveva dire basta. Doveva tornare a essere vera. Sincera. E lei… che era? Polvere. Di palcoscenico. Avrebbe voluto essere polvere di stelle. Pensando si era avvicinata al pianoforte. Silenzio. Misto a silenzio. Anche la pioggia stava in silenzio ad ascoltare quel che lei aveva da pensare. Il cielo fuori stava a vedere. Non c’erano più parole da dire per stanotte. Domani forse ne avrebbe dette ancora. O forse no, una donna può anche non dire niente quando decide che è finita. Niente. Silenzio. Le parole a volte sono di polvere. Sono di troppo. Coprono tutto. E mentre lo pensava, il suo dito scrisse sulla polvere nera che velava il pianoforte una sola parola. Si avvicinò al quadro elettrico a lato del sipario che si riaprì lentamente con un lieve fruscio e accese tutte le luci, uno scatto dopo l’altro. Restò a guardare il teatro, anche lassù in platea, finché le lacrime non le fecero vedere più niente. Non si lasciano mai accese le luci in teatro, un’altra regola aurea. Si passò una mano sul viso e con l’altra prese la bugia e la lasciò ai piedi del quadro. La fiamma crepitava bene illuminando soltanto le gambe del pianoforte mentre la porta si richiudeva piano dietro Lucilla. Poi tutte le ombre rimaste appese sul sipario si accesero. E se ne andò anche il silenzio.

Finale Aldo Ferrarese – TITOLO: Bang Bang Rodeo 
Lucilla, stesa sul proscenio, fremeva di desiderio.  Le ossa a contatto con  il duro pavimento di legno cominciavano a farle male. Aveva freddo, era nuda ed era molto indispettita. Il suo amante tardava ad arrivare e la sua pazienza era al limite. Anselmo sapeva bene che lei lo stava aspettando e non era disposta a tollerare un tale ammutinamento. Era persa in simili pensieri quando improvvisamente sentì spalancarsi e sbattere rumorosamente la porta laterale del teatro. Abbrancò un lenzuolo e lo usò per coprirsi alla meglio, mentre due persone cominciavano a discutere animosamente.
Incuriosita ma anche spaventata, si mosse in direzione delle voci e per maggiore sicurezza prese la rivoltella con cui avrebbe dovuto inscenare il suicidio. Era sicura che dentro al teatro erano rimasti solo lei e Anselmo e non aveva idea di chi potesse essere l’intruso. Arrivata in prossimità dell’uscita laterale, si fece piccola e si nascose per assistere a ciò a cui mai avrebbe pensato possibile. Renato e Anselmo stretti in un vigoroso abbraccio si stavano baciando. Poi il regista spintonò violentemente l’altro e, vistosamente ubriaco cominciò a imprecare. «Non ne posso più, sono stanco di te, non ci sei mai, da quando ti ho fatto avere questo lavoro sei sparito. Quella  pazza mi sta tirando scemo, si crede chissà chi e non sa nemmeno recitare. Raggiungimi a casa, subito, oppure giuro che te ne torni in strada», finì con un grande rutto. «Dammi un’ora», rispose Renato, «sistemo le ultime cose e ti raggiungo, e ti giuro parleremo e faremo l’amore tutta la notte. Io ti amo». Lucilla non credeva né ai propri occhi, né alle proprie orecchie. Furiosa e umiliata, uscì urlando dal proprio nascondiglio e inciampò sul lenzuolo. I due la videro arrivare come una furia, nuda e armata di pistola e al primo sparo di misero a correre. 

Ci fu un’inchiesta. I clienti del pub, per quanto avvezzi all’alcool, confermarono tutti di aver visto il noto regista in compagnia di un giovane scappare a gambe levate da una pazza urlante che sparava all’impazzata.  I tre indagati, convocati in caserma, parlarono in maniera confusa di certe prove, di uno spettacolo che avrebbero dovuto mettere in scena. Le indagini confermarono che la rivoltella era caricata a salve e non avrebbe potuto uccidere nessuno. Il tutto si risolse con un nulla di fatto. L’imbarazzo però fu tanto, come tanti furono i pettegolezzi e le risate. La collaborazione artistica fra Renato, Anselmo e Lucilla ebbe fine, come pure i loro intrallazzi amorosi. E non ci furono repliche. 

Arte o Artista?

Tre scrittori. Un tema comune. Tre stili diversi. Racconti brevi scritti appositamente per l’evento Wanted Stories e in questa serata il tema  su cui gli scrittori si sono cimentati è ARTE O ARTISTA.

LINDA MOON – leggi il racconto qui

MONICA VACCARETTI – Sono soltanto una storia dipinta. Penso con un calice di garganega in mano. Un ritratto, una natura viva. Una fantasia. Il quadro mi guarda dal baule sul quale l’ho appoggiato non avendo un chiodo in casa. La Szymborska raccontava di sentirsi un chiodo senza un quadro quando lui non la guardava. Ma su un chiodo al muro si possono appendere anche altri oggetti. 

Il mio cappello di paglia con il nastro azzurro per il mare di Isola Verde. Un mazzo di origano fresco del casolino pugliese. Una foglia di Kensington Garden. Una rosa rossa, a testa in giù rubata al chiostro in ospedale. Una chiave. Una croce. Una cornice. Senza il quadro. Mi avvicino alla tela sorseggiando il vino bianco. L’ho trovata in una bancarella d’antiquariato in piazza, una domenica mattina, davanti a Palazzo Chiericati. 

Uscendo dal museo, dopo essere andata all’incontro di I dance the way I feel  e aver danzato quello che sento a piedi nudi tra i quadri e le pale appese, avevo un po’ vagabondato tra gli antiquari spulciando tra tazzine libri e grammofoni. L’ho scovato all’angolo dell’Olimpico, prima di incamminarmi verso la Torre Coxina e tornare a casa. Penso sia una copia, l’originale mi sarebbe costato un occhio della testa. 

Ma non potevo lasciare lì quella nuca del Crociara. Tu le trovi stupende. Volevo fartene un dono, invece me la tengo qui. È per me. Per sognare. Per immaginare di essere quella nuca. Un dettaglio non insignificante se ti ha colpito e te ne sei innamorato. Se ti piace toccarle dal vivo. Cerco di capire la tua sensualità. Ho scoperto che non a tutti gli uomini piacciono i seni.   

La nuca è un posto del mio corpo che non riesco mai a vedere, nemmeno allo specchio, anche se è sempre scoperto, nudo come sono le mani e la mia anima. Sta dietro di me, la posso soltanto toccare per spettinarmi i capelli o per avvolgermi in un caldo abbraccio di lana o di seta al soffio del vento. Me ne ricordo poco, me ne prendo cura quel tanto che basta per non sentire dolore quando la testa mi scoppia per la troppa tensione. Eppure questo frammento della mia pelle deve essere importante e bello se tu te ne accorgi e ci posi lo sguardo pensando di toccarlo e di metterci un bacio. 

Trovi che la nuca sia un posto stupendo dove stare, da dove partire a baciare. Ad amare. E allora sento con un brivido che il tuo palmo si dirige con un senso e un sentimento lungo la mia schiena, che dalla nuca che ti offro scende con un doppio senso di carezze. E il tuo bacio allora ha un senso per la mia pelle, sembra fatto apposta per lasciare un’impronta di labbra su di me. Di te. Scopro pian piano che la mia nuca è sensuale, fa eccitare. È un posto caldo e accogliente anche per posare la tua fronte, abbracciandomi da dietro, il profumo dei miei capelli ti fa addormentare. 

Torni bambino, sereno. La nuca non è un posto qualsiasi e non tutte le donne la sanno donare e portare con disinvoltura ed eleganza. Ha un portamento, la nuca. Anche per portare te, con amore. Per condurti dentro di me. Bisogna essere un po’ geisha per darle una certa dignità come capita nella terra del Sol Levante dove le donne dal collo nudo, libero dal kimono, conoscono l’arte di fare bene ogni arte, anche quella dell’amore. Sulla mia nuca ci passano non soltanto le tue dita che mi cercano e le tue labbra che mi assaggiano. 

Ci passa la mia femminilità, nel ricciolo ribelle e nel candore delle pelle di luna, nell’elice e nel lobo con l’orecchino a forma di foglia, nella curva dolce che scende verso il collo, nella piega che non è ruga della mia carne morbida. Ci passano i miei pensieri, pieni di energia, sono talmente tanti che alle volte si fermano a pensare proprio lì, ad un passo dalla testa e lontano da tutto il resto. Ci passano le sensazioni, come i brividi delle emozioni. Sotto la pelle che baci passa un mondo sommerso. Sangue e nervi che mi fanno vivere e sentire. Sotto la nuca ci sono io. 

Toccami con cautela, sono fragile. È un punto delicato, può spezzarsi. Sotto c’è l’osso del collo. È un punto che si piega in avanti per dire sì e per accompagnare un inchino e un sorriso, si butta indietro per seguire una risata e guardare il cielo. La mia nuca è ben piantata per sorreggere una testa non sempre leggera, come l’albero fa con una chioma sconvolta dalla tempesta. Il filo d’oro che talvolta la cinge fa da confine, una linea che divide la donna che sta sopra da quella che sta sotto. 

La mente dal resto del corpo. Il sogno dal bisogno. Ascolto il tuo bacio e il tuo bacio impara a conoscermi proprio dal posto mio dove mi faccio più aperta per te. Le tue labbra mi accolgono, la mia pelle ti accetta. Mi entra dentro la tua sensibilità, la tua fragilità. Il tuo orgoglio e il tuo rispetto. La tua verità insieme alla sincerità. Da lì il passo è breve per raggiungere i miei neuroni e fare sinapsi. In una donna l’eccitazione parte dalla testa. E’ tutta mentale.

Poi prendi con tenerezza la mia nuca tra le tue mani e dopo averla amata con cura la adagi sul cuscino per farla riposare. Al mattino mi dai un buongiorno giocoso con nuovi baci che mi fanno il solletico, vicino all’attaccatura. La libero dai capelli arruffati dalla notte e dall’amore, mentre tu continui a guardarla con dolcezza. Già ti manca. E allora mi avvicino a te mentre ti stai annodando la cravatta, cerco le tue labbra facendo combaciare il mio sorriso al tuo sorriso. Ti metto una mano sulla tua nuca, intrufolandomi birichina sotto i tuoi capelli grigi. Sento che è forte, rugosa. Sa di uomo. Già manca anche a me.

Mi sveglio ai primi sei rintocchi del nuovo giorno che entrano a darmi la sveglia, i frati del convento di Santa Lucia sono sempre puntuali. Ho la sensazione di avere ancora sulla pelle il sogno del tuo braccio sotto la mia nuca. Ares mi guarda dal cuscino, acciambellato tra la mia testa e la spalliera in ferro battuto. Mi accarezza la nuca e si tuffa con il musetto nell’incavo caldo del mio collo. Resto abbracciata al mio gatto sul petto. Dicono che i gatti si posano sulla parte del corpo che fa male. Il cuore. Non ho fretta di alzarmi, passeranno su di noi altre campane. Che m’importa di arrivare in ritardo. È soltanto lavoro. Questo è amore. 

La nuca del Crociara è ancora lì e la luce dell’alba la fa sembrare più viva. Ti penso. Sono soltanto una fantasia lontana. Ma io sono molto di più di una nuca dentro un quadro. Sono tutta. E tutta intera. Quando tu non mi guardi. E non voglio un chiodo fisso. Quella nuca prenderà polvere dove l’ho lasciata sospesa, tra la terra e il cielo. Il suo posto è lì, a ricordarmi di te. E dei tuoi baci partendo dalla nuca che ancora non mi hai dato. Il senso della mia pelle ti aspetta.

Fine

ALDO FERRARESE – Eccomi. Finalmente. Sono spaventata, ma pronta. Trascino il trolley, c’è una poltroncina libera, mi siedo e aspetto. Avevo paura di fare tardi e così ho fatto troppo presto, il check-in aprirà non prima di un’ora. Sistemo gli occhiali da sole, i capelli biondi, mi atteggio da gatta morta e scatto una foto che posto sui social. 

Una signora mi guarda, giudica, assomiglia a mia madre. Io non piacevo a mia madre, mi viveva come un peso, un fastidio di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Era gelosa, della mia voglia di vita, della mia libertà. Si è rifatta le tette, la stronza, senza pensare che quelle bocce di silicone dopo cinque anni andavano cambiate. Le hanno avvelenato il sangue e il cervello e se ne è andata a morire da qualche parte lasciandomi sola. Avevo quindici anni e tanta paura. Dei servizi sociali e della gente. Così ho fatto finta di niente.

A chi mi chiedeva dicevo che mia madre era via per lavoro. Rubavo per pagare il mangiare e l’affitto. Ho terminato il college, riempito lo zaino e sono partita.  Ho girato un bel poco, dal Colorado sono andata in Nebraska, poi Kansas, Texas, Arizona, Louisiana. Ho vissuto per strada, scroccato passaggi e favori. Ho imparato a difendermi e a non fidarmi. Una ragazza, bionda e bella. Sola e senza il becco di un quattrino. 

Mi sono sentita preda. Ho dovuto scappare, più volte, da tante brutte situazioni. E piano piano mi sono allontanata dalla gente e ho imparato a stare da sola. E ho scoperto, dentro di me, una voce, saggia, che ho cominciato ad ascoltare. Uno spirito, antico, che mi istruisce e mi guida. Mi ha portato nel deserto, in Arizona. 

Sono stata tanti giorni in comunione, con il vento, con la terra, con il fuoco, con l’acqua. Sono diventata io stessa elemento e mi sono svuotata di tutto. Ho voltato le spalle al mio passato e alla mia terra. Ho preso un aereo e sono partita per l’Italia. Ho visto Napoli, Roma, Reggio Calabria, Milano, Bergamo, Venezia, Trieste.  Ho insegnato l’inglese ai bimbi. E non pensiate che sia facile. 

I bambini sono cattivi, come gli adulti, hanno gli stessi sentimenti, le stesse energie. Solo pensano di meno e vivono di più, sono liberi e necessitano di agire. Io li facevo giocare al funerale, cioè si decideva chi faceva il morto. Questi doveva stare zitto e immobile. Lo si metteva dentro una scatola, aperta, e gli altri gli facevano il funerale. Si raccontavano storie, lo si descriveva come buono, cattivo o deficiente, infine lo si seppelliva per finta. 

Oppure giocavamo alla cucina dei bambini. Si decideva chi dovesse essere cucinato e come. Poi uno, il macellaio, lo faceva a pezzi, un altro tagliava le cipolle, qualcuno preparava la tavola, i cuochi lo mettevano in forno oppure lo facevano bollire. Poi lo si mangiava, per finta, tutti assieme. E si commentava il sapore del piatto. 

Se il bambino era benvoluto dagli altri di solito usciva un buon piatto, se era antipatico usciva una schifezza. Mi sono divertita tanto e ho amato poco. Cioè conosco l’uomo, i miei migliori amici sono uomini, mi presto e mi do. Però, aprirmi per davvero, accettare e accogliere un’altra energia, lasciarmi andare completamente, mi viene difficile. Ho i sensi all’erta, fiuto il pericolo, sono un animale, una selvaggia che non si fida e si nasconde, magari dietro a un sorriso. 

Ora che ho imparato il coraggio, sto per prendere nuovamente un aereo che mi porterà a casa. Andrò a conoscere gli indiani, i miei antenati. Imparerò la loro cultura e la loro visione, imparerò a cavalcare e con il mio destriero correrò libera, capelli sciolti e vento in faccia. Tornerò nuovamente nel deserto e sarò vento, sarò pioggia, sarò terra e fuoco. Busserò alla porta del padre che mi ha abbandonata, neonata. L’ho rintracciato, non mi vuole vedere, sono il male, dice. Ma io lo guarderò dritto negli occhi e gli dirò: «Eccomi, non sono una colpa, non sono un errore, sono viva, e sono splendida». 

Guarirò le mie ferite e sarò libera, sarò gioia. Sento lacrime che mi rigano il volto, hanno uno scopo, rendermi pura, rendermi viva. Le lascio scorrere e lascio andare, le mie paure. Mi sento vibrare di forza e sento chiamare il mio volo. Detroit. Mi avvio verso il check-in, non è tardi, né presto. È il momento giusto, ADESSO. E so’ che, comunque vada, sarò fiera di me, perché sono unica, ed irripetibile. Sono JASMINE. 

Fine

Cadavere Squisito – 6

Un racconto scritto a sei mani. Ispirati dalla tecnica del Cadavere Squisito. Tre scrittori. Un tema comune. Tre stili diversi che si amalgamano assieme. Un racconto scritto appositamente per l’evento Wanted Stories seguendo le rispettive idee e ispirazioni! 

Ispirati dal tema della Fotografia, abbiamo dato vita a un racconto tra il mistero e la suspense, ambientato nell’ex ospedale psichiatrico di Granzette, a Rovigo. Una struttura che abbiamo visitato di persona, alla ricerca di dettagli per la nostra storia.


L’input di partenza è una frase tratta dal film “Shutter Island” di Martin Scorsese e con Leonardo di Caprio come protagonista principale.

Il racconto è stato scritto secondo la tecnica del Cadavere Squisito. Un gioco di scrittura a più mani dove ogni autore interviene a turno per creare una storia con una trama credibile. Ogni autore scrive il suo finale e durante l’evento ne viene letto solo uno, scelto dal pubblico a inizio serata. Qui li trovate tutti!
Buona lettura!

INCIPIT – Dal film Shutter Island di Martin Scorsese – “Una volta che sei dichiarato pazzo tutto quello che fai è considerato parte di quella pazzia: le ragionevoli proteste sono negazioni, le paure giustificate, paranoia. L’istinto di sopravvivenza… meccanismi difensivi”

Turno 1 Linda

Quando varcò la soglia dell’ex ospedale psichiatrico di Granzette, Giacomo si bloccò. Fino a pochi secondi prima la sua convinzione era forte e sicura, non lo aveva mai abbandonato, ma ora che era fisicamente dentro all’edificio, un’inaspettata esitazione lo travolse, obbligandolo a dubitare persino delle sue azioni. Era l’alba di una domenica mattina. La struttura non avrebbe aperto al pubblico prima di tre ore, ma Giacomo sapeva che doveva visitare quel posto quando era ancora avvolto nel silenzio. 

Così accadeva nel sogno che faceva ripetutamente da qualche tempo. Si vedeva dentro quel luogo con la costante sensazione di dover trovare qualcosa di cui però era ancora all’oscuro. Non sapeva se avrebbe trovato pace al suo tormento, ma sapeva che doveva farlo. Non era preoccupato di essere scoperto. Se lo avessero trovato, li avrebbe ingannati presentandosi come un operatore del comune di Rovigo o meglio ancora, avrebbe detto che si era semplicemente smarrito. Chiunque avrebbe creduto a un uomo di settant’anni.

Turno 1 Alberto

La sua vita si poteva riassumere in due sole parole: zappa e badile. Della moglie defunta non portava rancore, né splendidi ricordi. Un figlio, fino al 2001, partito nel Novembre di quel maledetto anno come volontario in Afghanistan e mai ritornato. Motivazione e scuse in una semplice lettera gialla dell’Esercito Italiano. La salma non era mai tornata, solo una bara di abete non lavorato con una croce di bronzo e un drappo con i colori della bandiera italiana. All’interno solo aria, qualche granello di sabbia e la rabbia di un padre. 

Quella rabbia che non lo aveva mai abbandonato per lunghi interminabili anni. Fino a qualche mese prima era l’unico sentimento che riusciva a permearlo ogni santo giorno, fino a quella notte in cui iniziò a vivere quel sogno maledetto. Continuava a farlo, sempre lo stesso, sempre gli stessi interminabili secondi. Adesso era lì, da solo, in un corridoio che non aveva niente di ospitale, nemmeno un quadro alle pareti, l’intonaco crepato dava vita a strani disegni. 

Eppure gli sembrava di sentire qualcuno vicino a lui, o qualcosa. Sentiva quella sensazione che ti fa svegliare nella notte per andare a vedere se c’è qualcuno fuori dalla porta, per poi trovare solo l’oscurità e alzare gli occhi per essere confortato dal bagliore della luna.

Turno 1 Aldo

Adesso quel sogno lo stava vivendo per davvero. L’edificio aveva perso lo status di ospedale psichiatrico. Non ospitava più malati, solo visitatori, eppure tutt’ora emanava una forte inquietudine, un senso di disagio che entrava sotto pelle e gelava il cuore. Il corridoio che stava percorrendo sembrava in tutto e per tutto quello che più e più volte aveva percorso in sogno. Si accorse di avere paura, una paura immotivata, solida e pulsante. Si chiese cosa stesse facendo lì dentro, e sentì il desiderio di andarsene e di farlo subito. 

Stava già dirigendo i propri passi verso l’uscita, quando la sua attenzione venne catturata da un intreccio di graffi sull’intonaco, apparentemente senza senso. A ben guardare, si poteva leggere in maniera distinta una frase. “Nessuno è te”. Venne colto da un senso di vertigine, un déjà vu, l’immagine di un vecchio che sbavava e mormorava: «Nessuno è te, nessuno è te, nessuno è te». Sentì le gambe farsi di pietra e lacrime calde solcare il volto.

Turno 2 Linda

Proseguì lungo il corridoio, non voleva stare un minuto di più in quel posto, sentiva che qualcosa di brutto stava per accadere. Si diresse verso quella che una volta era la sala mensa, ma quando sentì un rumore sinistro provenire dall’ingresso lì vicino, si bloccò. Senza pensarci oltre, camminò nella direzione opposta, ma quel rumore si ripresentò, ancora più ostile, così si ritrovò a salire la rampa di scale impolverata, l’intonaco scrostato attraversato da una pianta rampicante. 

Passo dopo passo, sentì l’adrenalina salire fino al petto, il fiato corto e la paura aumentare sempre di più. Entrò in una stanza vuota e sporca, i lavandini rotti, uno specchio opaco, la tapparella logora. Socchiuse la porta e restò in ascolto. Il vento soffiava dolce tra i rami degli alberi del verde giardino. Qualche uccello annunciava il suo risveglio, la quiete era quasi spaventosa, ma poi dei passi gli fecero saltare il cuore in gola. 

Era di sicuro un addetto alla struttura, ma quel che vide dalla piccola fessura tra la porta e lo stipite, gli tolse il respiro. Una figura maschile camminava lenta, quasi per inerzia, proprio nel corridoio accanto. Vestito di un pigiama lurido, i piedi scalzi, la testa rasata solo in parte, come se avesse subìto un intervento.

Quella figura non aveva percepito la presenza di Giacomo, ma quando sparì oltrepassando letteralmente un muro, l’uomo emise un debole gemito che scemò, quasi la voce si fosse rotta dalla spettrale visione. Gli occhi erano lucidi e tremanti. E alla fine una lacrima scese lungo il viso, la paura stava lasciando spazio allo scetticismo. I fantasmi non esistevano, o quello di suo figlio forse sì? 

 

Turno 2 Alberto

Il sudore gli scendeva sulla fronte e l’adrenalina iniziò a montargli nel petto. Aprì il rubinetto dell’acqua fredda e si lavò il viso, prese l’asciugamano e si massaggiò la fronte. Sbatté le palpebre rendendosi conto all’improvviso che il rubinetto non c’era, l’acqua non sgorgava su quei lavandini da almeno vent’anni, il cotone dell’asciugamano esisteva solo nei suoi pensieri. 

La confusione guadagnava sempre più spazio dentro la sua testa. In un istante crollò e si sedette a terra, la schiena appoggiata all’intonaco che cadeva a pezzi. Lacrime amare gli solcavano il volto mentre guardava verso l’alto e pregava un Dio in cui non aveva mai creduto. «Dio, ti prego, salvami. Salva la mia anima», sussurrò, quasi in un lamento. Non riusciva più a capire ciò che era reale in quel posto, tutto si confondeva tra presente e passato, tra tangibile e immaginato. Uscì dalla stanza, i pensieri non riuscivano ad essere fluidi nella sua mente, si ritrovò in quella che al tempo doveva essere una sala operatoria. 

Un lettino era posizionato al centro e fissato al pavimento. Tutt’attorno c’erano manichini del corpo umano, semiaperti, che lasciavano vedere gli organi al loro interno. Dentro alle vetrine, decine di attrezzi chirurgici erano ancora ben ordinati. Senza saperne il perché, si ritrovò a stringere in mano un punteruolo chirurgico della lunghezza di circa venti centimetri e si sdraiò sul lettino. Era come se fosse sotto ipnosi, i movimenti robotici. Vide un uomo in camice bianco avvicinarsi. «Ciao Andrea, stai tranquillo, non sentirai nulla». 

Le telecamere di sicurezza inquadravano proprio quella stanza e il ragazzo della cooperativa che gestiva la struttura, arrivato in anticipo a lavoro, era sconvolto nel vedere cosa stesse combinando quel signore. Lo vide fare di sì con la testa fissando il vuoto, poi spalancò gli occhi e sentì un brivido spaccargli in due la schiena quando lo vide avvicinare il punteruolo chirurgico arrugginito all’arcata sopraccigliare. Giacomo iniziò a premere come se volesse eseguire una lobotomia su se stesso, poi si bloccò di colpo. Il ragazzo fissava lo schermo incredulo, prese il mouse e allargò l’immagine per vedere più nitidamente il viso di Giacomo che, proprio in quel momento, mosse tremante le labbra dicendo: «Nessuno è te», mentre allontanava il punteruolo, lasciandolo cadere a terra. 

Turno 2 Aldo

Giacomo era perplesso. Aveva visto suo figlio Andrea vagare come un fantasma tra i corridoi di quel vecchio ospedale psichiatrico, un luogo dove non era mai stato e che gli sembrava stranamente familiare. Un dottore, l’aveva chiamato con il nome di suo figlio, gli diceva  di stare tranquillo, mentre tacitamente lo invitava a spaccarsi il cervello con un punteruolo. Tutta la comprensione di sé e del mondo intero gli stava franando sotto i piedi. Non capiva più nulla: realtà, sogno e incubo si fondevano insieme in un nulla spaventoso. 

Una frase graffiata sul muro gli martellava il cervello. “Nessuno è te. Nessuno è te”. Ma lui, chi era? Sentiva freddo, tanto freddo, e mille pensieri ed emozioni lo paralizzavano. «Io sono Giacomo», disse a se stesso, «ho avuto un figlio, morto in Afghanistan». Vide una bara vuota, una lettera, un volto. Che altro ricordava di Andrea? Aveva studiato?  Quali passioni aveva ? Era fidanzato?  Si accorse con terrore di non ricordare nient’altro. Solo un volto, una lettera, una bara. Ma cosa ricordava esattamente della sua vita? Di suo padre nulla, di sua madre neppure. La moglie defunta? Una vecchia, invalida. 

La vedeva a pranzo e a cena, non parlavano mai. Non ricordava il matrimonio, di averci fatto l’amore, niente. Passava le giornate nell’orto a zappare senza che crescesse mai nulla. Viveva con altra gente. Tutti anziani. E delle persone in camice bianco si prendevano cura di loro. La spaventosa consapevolezza che tutto ciò che pensava reale non lo fosse, piano piano si impossessò di lui. 

Il lavoro nei campi, la moglie, il figlio. Tutta la vita si mostrava per quello che era davvero: illusione, bugia, delirio, vuoto, assenza, nulla. E quel luogo era casa sua. Il dottore che gli era apparso  era un emerito bastardo che lo torturava con salassi, elettroshock, farmaci e bruciature. I corridoi si popolarono all’improvviso di malati sofferenti ed ingobbiti. Risentì le urla, i silenzi, la puzza di escrementi. 

E rivide se stesso prigioniero di quelle mura, bisognoso di aria, di vita, di amore. Privato di tutto, trovava rifugio nella fantasia, nel bisogno e nel potere di creare passato, presente e futuro. Vite, persone, esperienze che poi diventavano  vere, per lui . «Io sono nessuno», disse, «Io non sono», mormorò ancora. «Nessuno è me», prese a urlare forte. Appoggiò nuovamente il punteruolo all’occhio, per infilarselo nel cranio.